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Visualizza Versione Completa : Discorso al Senato del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi



Studentelibero
20-02-03, 15:02
19/2/2003 - Discorso al Senato sulla linea di politica estera assunta dal governo nella crisi Iraq-Usa


Signor Presidente, onorevoli senatori,
nel tempo trascorso dal mio ultimo intervento in quest'Aula il Governo ha continuato a lavorare per la pace, con determinazione, con assoluta coerenza, sulla linea che avevo qui esposto e che potrei riassumere in pochi punti.Primo: puntare al disarmo iracheno in tempi stretti e con mezzi pacifici.Secondo: sostenere la dissuasione politico-militare che ha già riportato in Iraq gli ispettori delle Nazioni Unite.Terzo: salvaguardare la credibilità, e direi la dignità, dell'ONU dopo dodici anni di sfide dell'Iraq alla legalità internazionale. Quarto: mantenere saldamente unita la coalizione mondiale contro il terrorismo che si è formata dopo l'11 settembre intorno agli Stati Uniti d'America.Quinto: mantenere saldamente unita l'Europa, restituendo all'Unione europea una sola voce e un peso effettivo sulla scena internazionale.

L'Italia, per la sua tradizione, per la sua politica attuale, per il suo impegno diplomatico e per la sua capacità di tenere insieme interesse nazionale e alleanze di valore storico, era ed è in posizione favorevole per lavorare seriamente e trovare ascolto intorno a queste cinque linee guida della sua politica estera.Ringrazio il Capo dello Stato per aver apprezzato questo sforzo, così come sarò felice di ringraziare l'opposizione parlamentare se darà un contributo fattivo, con il dibattito e con il voto, all'approvazione di una mozione che si muova sulla linea concordata e approvata nell'incontro di Bruxelles tra i Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea.

L'opinione pubblica mondiale è preoccupata ed ha chiaramente e legittimamente espresso questa sua preoccupazione nelle manifestazioni di sabato scorso.Avevo già rilevato, nel mio ultimo intervento in quest'Aula, che non ho mai avuto dubbi sulla buona fede e sulla ispirazione ideale del movimento per la pace. Ma come tutti sanno, la preoccupazione non basta a risolvere i problemi e non bastano neppure le manifestazioni. I "no" alla guerra, senza se e senza ma, non bastano di per sé a costruire la pace. C'è anzi il pericolo, quando si gioca magari irresponsabilmente con la preoccupazione della gente di fronte ai rischi di un intervento militare, di rendere più difficile la realizzazione di un obiettivo sacrosanto come quello di disarmare l'Iraq. Un obiettivo che forse si potrebbe raggiungere con mezzi di persuasione politici, diplomatici, militari, senza la necessità di ricorrere alla forza, ma in una situazione di assoluta compattezza della comunità internazionale.

L'uso della forza, così è scritto nel documento dell'Unione europea, dovrebbe essere solo l'ultima - l'ultima - risorsa. È questa la stessa identica formula usata da questo Governo in Parlamento ogni qualvolta il Governo è stato chiamato ad intervenire sulla grave crisi internazionale in corso.Ed è questa formula, accettata nero su bianco da tutti e quindici i Paesi dell'Europa, comprese Francia e Germania, e poi convalidata dal voto dei tredici Paesi candidati ad entrare nell'Unione europea, il cardine della mozione della maggioranza, sulla quale parrebbe strano che non vi fosse il consenso dell'opposizione.

Le idee giuste, quelle che esprimono la leadership di una classe dirigente, non dovrebbero cedere di fronte alla partigianeria. Non è accaduto quando questa maggioranza era opposizione, durante la guerra del Kosovo; non dovrebbe succedere ora, a parti invertite. Questo non è un banale argomento polemico, perché sono davvero convinto che le forze di opposizione abbiano in sé l'energia politica e la duttilità culturale per esprimere una posizione non propagandistica, per distinguere tra slogan e semplificazioni, da una parte, e motivazioni profonde dell'azione pubblica e istituzionale dall'altra. C’è ancora spazio, c’è ancora tempo per evitare l’uso della forza. Nonostante tutto, ne sono ancora persuaso sulla base degli incontri, delle conversazioni e degli scambi diplomatici che continuano incessantemente anche in queste ore. Ma questa possibilità è strettamente legata alla valorizzazione di quella che il documento dell’Unione Europea chiama, e giustamente, "la centralità delle Nazioni Unite nell’ordine internazionale". Una centralità che si impernia - sono sempre le parole del documento - sul Consiglio di sicurezza, che si è assunto, con la risoluzione 14.41, la responsabilità del disarmo dell’Iraq.

Gli ispettori hanno compiuto fin qui un egregio lavoro, che tuttavia - così ancora detta la risoluzione - "non può durare a tempo indefinito", come hanno concordato i Governi europei a Bruxelles. E vorrei specificare che non è aumentando il tempo a disposizione degli ispettori o aumentandone il numero che si risolve la situazione; ciò che si mira ad ottenere è il cambiamento dell’atteggiamento dell’Iraq di fronte alle ispezioni. Già in passato era successo, quando le Nazioni Unite avevano imposto la smilitarizzazione ad alcuni paesi, come la Bielorussia, il Kazakistan ed il Sudafrica, che gli ispettori delle Nazioni Unite fossero stati veramente presi per mano dai Governi interessati e portati sul luogo delle installazioni dove si erano prodotte o dove si conservavano le armi atomiche che si volevano distruggere, facendo loro registrare che tali armi erano state distrutte, che era in corso la loro distruzione, o che c’era un progetto articolato nel tempo per la loro distruzione.

È esattamente ciò che non ha fatto il regime dell’Iraq, che ogni mattina si mette, sì, a disposizione degli ispettori ma a loro domanda: dove volete andare oggi? Che ispezioni volete fare oggi? Naturalmente tutti ci rendiamo conto che è impossibile andare a cercare il classico ago nel pagliaio in un paese più grande della Francia, soprattutto tenendo conto che non si cercano soltanto missili con testate nucleari, che probabilmente davvero non ci sono, ma armi biologiche o chimiche che possono essere terribili anche in piccole quantità. Le domande cui sinora l’Iraq non ha risposto sono: dove sono andate a finire le 6.500 bombe a testata biologica, la cui esistenza era stata verificata dagli ispettori nel 1999; dove sono andate a finire le 100.000 tonnellate di agenti chimici da utilizzare per la realizzazione di bombe chimiche e biologiche; dove sono andati a finire gli 8.500 litri di antrace, di cui si sa per certa l’esistenza.

A tutte queste domande l’Iraq fino ad ora non ha risposto e soltanto da un atteggiamento comune e compatto della comunità internazionale può venire quel cambiamento, che tuttavia dovrebbe essere l’unica possibilità del regime iracheno di mantenersi tale. Quindi, ancora c’è una speranza; essa è davvero fondata sulla constatazione che non dovrebbero esistere vie alternative per il dittatore iracheno, se non quella di capire finalmente che è finito il tempo delle prese in giro, del comportamento che lui ha messo in atto durante lunghi dodici anni senza rispondere a ben sedici, e poi anche a quest’ultima, la diciassettesima, risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Non esistono e non sono mai esistiti piani alternativi a quello approvato in sede di Consiglio di sicurezza, con il voto unanime - ricordiamolo, unanime - dei suoi membri. Gli strumenti possono cambiare, anche nell’ipotesi di una seconda e più dettagliata risoluzione, ma la richiesta della comunità internazionale è e deve essere una sola: l’immediata, totale e incondizionata cooperazione del regime iracheno, sotto pena - come detta la risoluzione 14.41 - di "serie" conseguenze.

E su questo, dopo Bruxelles, non dovrebbero esserci più equivoci di sorta tra antichi alleati. Come hanno osservato gli analisti più attenti anche nei giorni più difficili, che sono alle nostre spalle, l’Unione europea non si è mai spaccata ma ha registrato un dissenso di notevole portata - questo è sotto gli occhi di tutti - e lo ha ora parzialmente ma - ne sono convinto - sinceramente risolto, ricostruendo una sua unità di intenti e un suo linguaggio comune. Lo ha risolto anche con il contributo, che definirei decisivo, del documento con cui molti Paesi europei (otto prima e dieci successivamente) hanno riequilibrato, nel senso della solidarietà euro-atlantica, una tendenza all’autosufficienza che rischiava di essere percepita come egoismo nazionale e come un venir meno del sentimento stesso di solidarietà atlantica.Noi siamo molto orgogliosi di poter portare oggi al dibattito delle Camere una situazione decisamente migliorata sotto il profilo della credibilità delle principali istituzioni, dall’ONU alla NATO, all’Unione europea, sulle quali si è retto per decenni il più lungo periodo di pace e di prosperità che la storia europea e mondiale ricordi. E continuiamo a pensare che dalla logica dei veti e dagli egoismi nazionali i cittadini europei non abbiano niente - niente! - da guadagnare.

Ai nostri amici e alleati americani, e personalmente anche al Presidente degli Stati Uniti, ho parlato nei giorni scorsi in quel modo franco e leale che è proprio dei rapporti di vera amicizia.Li ho invitati a guardarsi dal coltivare la solitudine, perché il vero capolavoro successivo alla tragedia dell’11 settembre e all’emergenza del terrorismo internazionale è stato la costruzione della grande coalizione che ha liberato il mondo dal regime dei talebani e dai campi di addestramento di Al Qaeda.

Ma ho anche garantito che, per quanto sta in noi, e non solo per un dovere storico di riconoscenza delle democrazie europee nei confronti della grande democrazia americana, gli Stati Uniti non resteranno soli nell’impresa di impedire la proliferazione delle armi di distruzione di massa in mano a chi ha già violato così cinicamente la legalità internazionale e non esiterebbe a mettere a rischio la sicurezza anche dei nostri cittadini, come peraltro ha già fatto nei confronti del suo stesso popolo. Per questi motivi il Governo ha autorizzato, secondo i trattati bilaterali e lo spirito delle alleanze liberamente contratte dall’Italia e ribadite nel tempo da tutti i suoi Governi, anche dagli ultimi Governi di centro-sinistra, tutte le misure necessarie ad assicurare dal punto di vista logistico la possibilità della pressione militare sull’Iraq, pressione che ha già conseguito, come ho ricordato, un primo successo riportando a Baghdad gli ispettori delle Nazioni Unite.

Signor Presidente, onorevoli senatori,
il voto che il Parlamento è chiamato oggi ad esprimere è un voto di grande rilevanza. Dobbiamo offrire un chiaro segnale politico alle diverse tendenze che preoccupano l’opinione pubblica. Dobbiamo essere capaci di parlare un linguaggio di pace, ma non di resa. Spero che questo voto possa essere libero da ogni pregiudizio. Spero che la ritrovata unità europea possa aiutare tutti a ragionare con serenità e a non privare la nostra azione diplomatica del sostegno di tutto il Paese e del Parlamento repubblicano.

L’articolo 11 della Costituzione afferma che "l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli". È proprio in nome della libertà dei popoli e della sua difesa attiva dalle minacce del terrorismo e delle armi di distruzione di massa che il nostro Governo, con il sostegno del Parlamento, intende perseverare nella sua linea responsabile ed attiva, nel suo obiettivo di disinnescare le minacce alla sicurezza e alla pace, unendo il suo impegno a quello di tutti gli uomini e di tutti i Paesi che hanno a cuore la libertà. Vi ringrazio.