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Ulan
23-02-03, 02:14
Una lettera da Kharkov (ma potrebbe essere stata imbucata a Pyongyang)

La lettera che segue fu infilata nella cassetta del Consolato generale di Polonia a Kharkov (Ucraina orientale) il 15 febbraio 1932, pochi giorni dopo tradotta e cifrata fu inoltrata dal Regio Console Gradenigo ai suoi superiori romani, passò sulla sua scrivania, Lui la lesse e ne sottolineò alcuni passaggi col lapis, poi fu sepolta negli archivi fino alla fine degli anni ’80.
«Noi Russi, ci siamo decisi a rivolgerci a voi, gente di altri Paesi, per aiuto. Non siamo sicuri che questa lettera arriverà in vostre mani e perciò non possiamo firmare, perché se dovesse finire in altre mani arriverebbe alla Censura “libera” del “paese della Libertà” e allora addio vita, addio famiglia. Le parole che seguono sono profondamente sincere. Vi preghiamo di trasmetterle ai vostri compatrioti a nome di centinaia di migliaia, che la pensano come noi. Essi sono come noi, ma più schiacciati, più terrorizzati e perciò incapaci di farsi vivi anche solo con una lettera. Su di essi pesa in modo definitivo l’oscuro, silenzioso, micidiale terrore che il “Paese della Libertà” ha potuto elaborare con metodo insuperabile, per poi costruire il Socialismo destinato a dare a tutto il mondo la stessa nostra felicità, che voi potete ogni giorno osservare. Ad ogni passo intanto vedete le promesse, i successi, le vittorie e la vita incantevole che è sempre sul punto di essere raggiunta. Ma, è possibile proprio che noi tutti si sia destinati a perire senza che mai giunga a voi la parola della verità? Che mai dobbiate conoscere un quadro fedele della lenta morte fisica di centinaia di migliaia di uomini, che moralmente sono già morti, poiché non hanno più nemmeno il coraggio di nominare anche solo una cosa, che non sia bene accetta e favorevole ai nostri carnefici, carnefici del popolo russo, ma presto forse anche di tutto il mondo. Se voi vedere circolare in città persone, che; non sono uomini, ma fantocci spaventati, che hanno paura della propria ombra e delle proprie parole. Il figlio ha paura del tradimento del padre, il padre del figlio. La più tremenda disciplina è stata ottenuta col terrore e noi siamo stati ridotti ad uno stato di ipnosi, che ci fa fare tutto quello che produce la rovina del nostro prossimo. Pur di vivere, come in sogno, facciamo tutto e volontariamente quindi ci perdiamo sempre più. E’ volontariamente infatti, che noi acquistiamo le obbligazioni dei Prestiti e delle Lotterie, è volontariamente che soffriamo la fame, o che tutt’al più viviamo di fame. È volontariamente che ci mettiamo alla “fila” per quella miseria di razione, che vi restiamo per intere giornate, è volontariamente che diamo i nostri vestiti, la casa, l’ultimo pud di grano. E’ sempre volontariamente che andiamo con bambini in tenera età, moglie e quel poco che ci permettono di portar con noi, ai lavori forzati, a tagliare la legna. Nulla infatti qui è obbligatorio; tutto è volontario. Sì, questo è così. Ma fino a quando? Ma dunque la gente che vive al di là delle frontiere non si accorge delle “vittoriose” gesta del socialismo? Non osserva la nostra “ricostruzione”, i piani del grande Piano Quinquennale, non conoscono su quali fondamenta si costruisce qui tutto? La nostra stampa è tuttavia un inno perpetuo! Ma, comprendiamo, per chi sta fuori, tutto appare tranquillo (…) come può essere tranquillo l’uomo che sta seduto su di un debole ramo che oscilla ed è sul punto di spezzarsi e di far precipitare il disgraziato sul sottostante terreno, tutto irto di punte. L’uomo che si trova in tale posizione sta, sì, tranquillo, ma perché? Perché se apre bocca, se fa il minimo movimento, la peggiore delle fini lo minaccia. Ma ormai sono passati 14 anni e la gente che vive di là dalle frontiere si è certamente dimenticata di noi.
Le fondamenta della nostra “ricostruzione” sono fatte di dolore, di sangue, di tragedie, di lagrime, di incubi, di grida di moribondi. Il mondo può dunque sopportare quello che avviene qui, lasciarci abbandonati in mano di questi briganti? E’ questa realtà od incubo?
Nei villaggi le finestre sono tutte rotte, le case semidistrutte. Vendute all’incanto ogni mese, dopo buttato fuori ogni volta il nuovo proprietario, che viene mandato in esilio, ai lavori forzati. Si può dir venduto l’uomo pure, dopo la sua casa, poiché viene caricato, con la moglie ed i figli, in un treno dove non vi è spazio più nemmeno per star seduti, e viene mandato sotto buona scorta lontano, al Nord, oltre il confine europeo, nelle foreste, nelle miniere, nelle paludi. Li questi innocenti-colpevoli muoiono a migliaia, senza sapere quale colpa hanno commesso. I pochi rimasti nei villaggi vengono spogliati fino alla pelle. Le scarpe vengono loro tolte dai piedi, la giacca dalle spalle, la camicia dalla pelle. Nelle soffitte l’ultima libra di pane, nascosto, vien loro tolta, tutti i vestiti e la biancheria sequestrati. Forse credete che noi vi raccontiamo delle favole? Andate ai Bazar, a qualunque Bazar, andate alle stazioni ferroviarie e vedrete. Vedrete migliaia di persone che dalla città portano un po’ di pane nei villaggi, dopo aver venduto gli ultimi oggetti salvati dai briganti del governo. Dopo, finito tutto, li attende la morte. La prima persona che voi interrogate vi può confermare tutto ciò che diciamo. Ma bisognerebbe essere degli artisti per potervi raccontare e descrivere tutto. Bisognerebbe che una delegazione straniera venisse a verificare quanto diciamo. Ma a voi non permetterebbero mai di venire e se mai vi mostrerebbero come fanno già con voi che qui risiedete, delle famiglie artificialmente e decorativamente preparate, con l’alloggio abbastanza bene ammobiliato, oppure un Kolchoz modello, dove il contadino ha il pranzo di tre piatti. Ma non mostrerebbero i disgraziati derubati di tutto, stracciati, affamati e delusi. E chi è l’eroe di questa colossale commedia tragica e che sta per diventare mondiale, chi il capo-carnefice? Stalin.
E’ possibile, lo sappiamo, che questo nostro appello, anche arrivando fino a voi rimanga vano e non affretti la fine di questa tortura. Ma ascoltate il nostro grido di disperazione: Salvateci, Salvateci, salvateci e con noi salverete l’umanità dalla violenza senza esempio di questo brigantaggio giornaliero. Salvate i nostri figli dal definitivo disastro morale. Essi stanno già per perire per la Società e per l’Umanità, per il lavoro produttivo, poiché sono stati ridotti ad automi dal pensiero e volontà completamente atrofizzati. Salvateci dalla miseria morale e fisica completa. Pensate che ogni anno, in cambio delle nostre lagrime e sangue crescono nuovi gregari della pazzia e che la lotta finale contro di essi sarà perciò sempre più difficile. Noi siamo in un sacco e non possiamo slegarci da soli. Aiutateci. Siamo pronti a marciare a fianco di chi vorrà essere il nostro salvatore. Siamo pronti a cospargere di fiori il suo cammino; anzi siamo pronti a gettarci sotto i suoi piedi, affinché egli abbia a marciare sui nostri corpi. Meglio morire sotto i piedi del liberatore, che del carnefice. Camminate sopra i nostri corpi, ma salvate i nostri figli.
I nostri apparenti successi, decantati dalla stampa, non sono che menzogna. Non crediate alla maschera di tranquillità che ci è stata applicata dai nostri carnefici e che dobbiamo portare. Non siamo comunisti che in quanto tale maschera ci sta inchiodata sulla faccia con le baionette. Se questa lettera vi arriverà, fate sì che gli operai e contadini chiedano di poter fare qui una verifica. Ma che la facciano dove essi vorranno e non dove vorranno portarli. Vadano nelle campagne e nei villaggi, interroghino il primo operaio o contadino che incontreranno. Se riusciranno a vedere con i loro occhi, a farsi un concetto con la loro mente, questo sarà per noi il primo segno della nostra redenzione. Fate cader a terra le maschere che siamo costretti a portare, slegate il sacco in cui siamo chiusi.
La nostra maledizione su quei paesi e su quelle persone che vengono qui come specialisti e come rifornitori di macchine. Essi affrettano così la nostra, ma anche la loro perdita, ed i guadagni che qui realizzano sono costituiti dalle ultime briciole di pane delle nostre case, sono fatti delle nostre lagrime, sono fatti col nostro sangue, col lavoro da ergastolo di condannati innocenti, con i vestiti tolti ai bambini russi, che restano nudi, con ciò che proviene dalle nostre famiglie annientate, distrutte.
Noi, che scriviamo queste righe, siamo parecchi, ma rappresentiamo milioni, che invocano da voi la salvezza. Fate in modo che questo appello sia inteso dal mondo e che la gente che ha ancora qualche sentimento umano ci salvi da questa vita d’incubo. Tutto ciò che la stampa scrive è menzogna, Nei villaggi noi moriamo di fame. Il bestiame ed i cavalli crepano per mancanza di foraggio. Agli uomini portano via fino all’ultimo copeco. Le lagrime delle nostre mogli e figli vi ripagheranno, assieme alle nostre lagrime di riconoscenza. Basta che andiate fuori di Kharkov, per persuadervi della verità di quanto abbiamo qui esposto. Non crediate che questa lettera sia stata scritta da gente che ha perduto qualche cosa causa la rivoluzione. Noi siamo alcuni poveri maestri di campagna, alcuni operai, provenienti da poverissime famiglie, ed un gruppo di contadini che vi scrivono quanto, volendo, potete constatare. Salvateci noi saremo con voi. Dateci un Capo e liberateci, se non per noi, per i nostri figli. Fate in modo che questa nostra lettera disinganni il mondo. Vi preghiamo per i nostri figli, salvateci.
Ma se questa nostra lettera cade in mano vostra o guardiani del “paese della Liberà” siate maledetti, carnefici della Russia distrutta, distruttori delle famiglie, assassini dei fanciulli; prima o poi la verità verrà a galla. Ma siamo certi della nostra salvezza e se non della nostra, di quella dei nostri figli. Essa è vicina, essa è di quelli che sopravviveranno. Questi saranno i vostri giudici. La vostra condanna è già segnata, perché non riuscirete mai a spaventare od a fucilare tutti e gli orrori nei quali avete gettano tutta la popolazione della Russia, Vi renderanno per sempre oggetto di orrore nel mondo» (Lettere da Kharkov, la carestia in Ucraina e nel Caucaso del Nord nei rapporti dei diplomatici italiani, 1932-33 - Einaudi -gli Struzzi 412- Torino 1991, p86 e seguenti)
C’è poco da aggiungere a queste drammatiche pagine, facendolo si può solo smorzare il pathos della testimonianza di chi era sul punto di soccombere al Male.
La contabilità dell’ecatombe riporta 5-7 milioni di vittime, gli Ucraini oggi sono la metà di quanti dovrebbero essere ma su questo e sulla vergogna di una storiografia omertosa quando non collusa con i criminali comunisti avrò modo di tornare, per ora mi limito a ricordare come i pacifisti degli anni ’50 fossero sodali di quegli assassini, i pacifisti degli anni ’70 abbiano regalato un decennio abbondante di vita a quel regime beluino e come oggi quelli stessi, ingrassati ed incanutiti, perseverino senza vergogna nel difendere l’infamia.
Ma questo soprattutto mi preme dire, gridare: chi legge queste righe non le pensi il racconto d’un orrore antico, questo è l’urlo di disperazione che si leva oggi, adesso, dai villaggi e dalle campagne della Corea del Nord.