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Visualizza Versione Completa : Ambientalismo,sinistra,conservatorismo e cattolicesimo - Intervista a Wolfgang Sachs



Bartolomeo (POL)
01-03-03, 13:28
WOLFGANG SACHS
LA MISURA GIUSTA


Con Alexander Langer una comune avversione per la politica istituzionalizzata e l’attenzione alle aspirazioni sociali. La ridiscussione della parola "conservazione" e la necessità della lentezza. Una politica pensata con le regole della biologia e non più con quelle della fisica. Intervista a Wolfgang Sachs.

Wolfgang Sachs, nato a Monaco nel 1946, si occupa del rapporto tra scienza, tecnologia e società, intrecciando le sue ricerche con quelle di Ivan Illich. In Italia ha pubblicato diversi saggi, fra cui Archeologia dello sviluppo, edizioni Macro. Attualmente è ricercatore presso il Wuppertal Institut in Germania.

Le tue ricerche, oltre che con Ivan Illich, si sono spesso intrecciate anche con quelle di Alexander Langer...
Ricordo con piacere il momento in cui, credo nel 1983, mi giunse la prima telefonata di Alex, che mi invitava a Trento per tenere una relazione sui costi sociali dell’automobile e sulla crisi della società automobilistica. Accettai perché mi piaceva l’idea di venire in Italia, così come mi piaceva partecipare ad un incontro che era in sintonia con la mia visione della ricerca, che deve essere abbastanza disciplinata e sistematica, ma che non si rivolge primariamente ad un pubblico accademico, di specialisti universitari. La mia ricerca si vuole confrontare soprattutto con la società civile, con le iniziative e le associazioni che sono impegnate nel campo ecologico, della pace, della democrazia. Alex era un politico che si poneva nella stessa prospettiva, che intendeva la politica come un’impresa volta a cambiare e a “colorare” man mano l’immaginario della gente, il “sentire” di chi stava cercando qualcosa di diverso. Cercava di fare politica oltre la politica e non aveva nel mirino gli equilibri convenzionali della politica istituzionalizzata, ma piuttosto puntava a confrontarsi con le aspirazioni presenti nella società. E’ su questo terreno che mi sono sempre incontrato con Alex: lui il politico che guardava oltre la politica, io l’intellettuale che guardava oltre l’università. Ad accomunarci c’era poi anche la matrice cristiana, che ci legava anche all’amico comune Ivan Illich. La prima volta che vidi Alex fu a metà degli anni ’60, nel periodo post-conciliare, in una sala dell’università di Monaco, dove parlava del rapporto tra la sinistra e la chiesa cattolica in Italia e di lui avevo mantenuto un ricordo vago, fino a che non lo rividi a quell’incontro di Trento. Il suo impegno ecologico, come quello per la pace, aveva alla base questa forte motivazione morale che gli veniva dalla matrice cristiana e non era né di tipo utilitaristico, né puramente rivolto a suscitare allarme nell’opinione pubblica. Con Alex ci trovavamo in sintonia anche nel coltivare la vecchia idea, etica ed estetica, che ci sia il giusto e il non giusto, il bene e il non bene. Insomma, non ci siamo mai sentiti troppo vicini agli apocalittici e ai pianificatori ambientali.
Partendo da questi presupposti qual è stato il vostro rapporto con la sinistra?
In un certo senso eravamo considerati tutti e due degli eretici, fuori dalla sinistra. Per Marx e per la sinistra, infatti, la società non deve essere solo interpretata, ma anche trasformata, mentre un ambientalista direbbe che la società non va principalmente trasformata, ma conservata. L’idea che la sfida principale sia oggi quella di conservare qualcosa è un sentimento profondo che ci ha spesso separato dalla sinistra e parlo di “sentimento” perché a livello intellettuale si possono certo trovare argomenti per sostenere che non c’è una netta contrapposizione tra il bisogno di trasformazione e quello di conservazione.
Già il definirsi “sinistra progressista” dà per scontato che il progresso va considerato desiderabile, ma per Alex era molto chiaro che quelli che politicamente si chiamano “conservatori” sono da tempo impegnati nella modernizzazione sfrenata in tutti i campi, nella concorrenza sul mercato mondiale, nella frontiera delle nuove tecnologie. Visto il mostruoso matrimonio tra conservatorismo e tecnocrazia, consumato già nel primo dopoguerra, era necessario riscoprire i valori conservatori, che vivono nella gente, per dar loro un’espressione diversa sul piano politico e Alex era sempre stato assai consapevole che i verdi dovevano avere la forza di nutrirsi di questi sentimenti rimasti estranei al mondo progressista. Così il sostegno dato nel 1987 a Ratzinger sul terreno della bioetica, sull’affermazione dell’integrità della vita, che aveva suscitato così tante polemiche tra i verdi, doveva servire a porre l’attenzione su questa possibile alleanza tra cultura verde e valori della conservazione. E’ stato uno dei pochi, anche in Europa, a porre questo problema.
Un’altra delle accuse che ci sono venute da sinistra è stata quella di voler ignorare il conflitto tra capitale e lavoro, tra ricchezza e povertà. E’ un conflitto che certo esiste e che la sinistra ha sempre focalizzato all’interno del sistema produttivo, per cui la discussione si è concentrata sul decidere chi partecipa, e in che misura, alla spartizione del surplus o su chi ottiene qualcosa, denaro e potere, all’interno del sistema. A me sembra invece che i verdi, ma anche diversi movimenti sociali degli anni 70, abbiano sollevato delle questioni che spuntano non all’interno del sistema produttivo, ma nei suoi confini “sismici”, e fra esse abbiano tematizzato soprattutto il rapporto tra sistema produttivo, sia capitalista che socialista, ed il suo ambiente.
Questa tematizzazione si nutre di due fonti principali che sono fuori dal sistema produttivo in senso stretto: la comunità, cioè l’insieme di rapporti sociali, cultura, abitudini, economia morale della gente, e la natura. Se l’ambientalismo si è occupato soprattutto della critica al consumo della natura, è però stato principalmente il movimento femminista a interrogarsi maggiormente sulla comunità, mentre diversi movimenti sociali nel Sud del mondo, dove spesso il conflitto coinvolge contemporaneamente comunità e natura, hanno riflettuto parallelamente su ambedue.
Rimane comunque che ciò che è emerso negli anni 70 e 80 è che la vera zona sismica è quella che sta ai confini del sistema produttivo e non al suo interno. Questi nuovi conflitti si sono sovrapposti alla “questione sociale”, centrale nell’800, con la conseguenza di mettere in luce che il modo con cui è stata affrontata nel dopoguerra la tematica dello sviluppo è ormai esaurito.
Oggi tutti sanno che i paesi poveri non riusciranno a soddisfare il loro bisogno di giustizia imitando o raggiungendo i paesi ricchi, tutti sanno che solo una minoranza degli abitanti del pianeta gode del benessere, che abbiamo raggiunto i limiti biofisici della terra. E’ la finitezza di questi limiti che si contrappone alla richiesta di maggiore giustizia.
Questo è il dilemma fondamentale di oggi, in particolare nel rapporto Nord-Sud, ma anche in quello tra ricchi e poveri nella nostra società.
Ma con quale impostazione si può affrontare questo conflitto?
Certamente non con gli strumenti convenzionali della sinistra. Il socialismo pensava di raggiungere una maggiore giustizia attraverso un progresso continuo, come una torta che cresce senza limiti, ma nel momento in cui devi fare i conti con i limiti è necessario uscire dal dilemma tra giustizia e finitezza, è necessario riscoprire il valore della misura giusta, del benessere nella sobrietà, dell’autolimitazione di cui parlava spesso Alex. Solo attraverso la misura giusta si può immaginare che ce ne sia abbastanza per tutti. Con la misura giusta si può immaginare almeno di frenare la dinamica dell’esclusione che colpisce strati sempre più grandi di popolazione.
In un recente studio del Wuppertal Institut, che si intitola Zukunftsfähiges Deutschland-Germania sostenibile, si propone la tesi che, per parlare di una società sostenibile e giusta nei confronti dei paesi del terzo mondo, si deve pensare ad una riduzione, nell’arco dei prossimi 50 anni, nell’uso dell’energia e della natura, portandolo al 10%-20% del livello attuale.
Il libro ha creato molta discussione, soprattutto nella stampa cattolica, perché è chiaro che un obiettivo così impegnativo non si può porre senza un chiaro perché, senza una motivazione etica. E non è un caso che questo studio sia stato commissionato congiuntamente dalla più grande associazione ambientalista tedesca (Bund) e dalla più grande associazione di solidarietà internazionale (Misereor).
L’idea guida di questo studio è la ricerca di un nuovo rapporto con il tempo e con lo spazio, di nuovi consumi e comportamenti. Per tanti anni progresso ha voluto dire “più velocemente e più lontano”, cioè la grande utopia della più grande mobilità nel tempo più breve possibile, per cui era dato per scontato che occorreva aumentare la velocità e rendere lo spazio più permeabile. Il perseguimento di questa utopia ci ha portato alla società dell’affanno, alla società inquieta, e si è scoperto che l’accelerazione in quanto tale, oltre una certa soglia, ha delle tendenze controproduttive; per esempio, ci spostiamo sempre più rapidamente per restare sempre di meno nei luoghi dove arriviamo. Spendiamo un sacco di energie per l’arrivo e per la partenza, però dimentichiamo la presenza. Molti ora cercano una presenza più piena, sviluppano la sensibilità verso una certa lentezza, per fare le cose in modo più preciso, con meno affanno. Cresce dal sottosuolo dell’accelerazione una nuova sensibilità e nuovi desideri. Per di più ci si chiede perché manteniamo delle automobili con le attuali prestazioni di velocità, visto che dal punto di vista fisico è chiaro che il consumo di energia e di natura cresce in modo geometrico con la velocità. In questo studio sulla Germania sostenibile proponiamo di abbassare il tetto della velocità consentita, perché così si favorirebbe la nascita di una nuova generazione di automobili che non vadano oltre i 100 km all’ora, con molto meno consumo di benzina, meno emissioni nocive, meno morti, meno materiali perché la sicurezza non sarebbe più così importante, nuove possibilità di disegno non legate all’aereodinamica. Un’argomentazione simile l’abbiamo dedicata anche al treno, pensando alla spinta verso l’alta velocità che c’è in Germania, Francia, Italia. Già oggi un treno che superi i 200 km all’ora non è più concorrenziale, dal punto di vista del consumo energetico, con l’automobile, un treno a 300 km orari è una follia...
Quindi il nocciolo di un nuovo modo di pensare e di agire starebbe nella “misura giusta”?
Il triangolo giustizia, finitezza della natura, misura giusta mi sembra essenziale ed in questo discorso si riscoprono consonanze con la cultura cattolica, con le religioni, tra conservatorismo e cultura verde. Molte religioni, in fondo, sono concezioni antieconomicistiche e credo che oggi siano da riscoprire, come sono da valorizzare i modi in cui la gente spende la sua immaginazione, la sua fantasia, la sua energia, al di là della ricerca di accumulare beni. D’altra parte storicamente si è ben visto che la marcia vittoriosa del capitalismo ha dovuto superare tutti gli ostacoli che opponevano le culture antieconomicistiche delle religioni, dei contadini. Non credo tuttavia sia possibile tornare indietro, ma credo sarebbe un bene per noi se ritrovassimo almeno la memoria di questi strati del nostro passato, perché tutte le nostre azioni sono determinate da ciò che siamo e siamo stati.
E come comportarsi con la tecnologia?
Lo scetticismo verso le soluzioni tecnologiche è chiaramente cresciuto negli ultimi 15-20 anni, oggi mi sembra molto difficile parlare del progresso tecnologico come di un fatto lineare. Ci sono molti progressi tecnologici e la tecnologia si va diversificando. Schumacher 20 anni fa scrisse Piccolo è bello e oggi non c’è niente di più piccolo dell’elettronica. “Miniaturizzazione” è oggi una delle parole chiave. A differenza di quanto pensavo in passato, oggi penso che una svolta ecologia richieda anche un nuovo progresso tecnologico, per esempio per produrre strumenti che usino molta meno energia e natura. Una trasformazione ecologica sarà anche una trasformazione tecnologica. Anche il ritorno all’agricoltura biologica avrà bisogno sia della riacquisizione di tecniche antiche che di tecniche nuove. Anche l’uso delle biomasse o del solare hanno bisogno di tecnologia, solo che è una tecnologia diversa da quella attuale.
Una volta ero anch’io caduto nella trappola della tecnologia esistente, ero diffidente verso quella che sembrava l’unica tecnologia possibile, per cui sostenevo una distinzione tra “ecologia dei mezzi” ed “ecologia dei fini”. E’ una distinzione che penso ancora valida, perché anche i mezzi più intelligenti non risolvono la dinamica della crescita, del sempre di più, e quindi ci vuole sempre anche la moderazione dei fini. Ma la stessa moderazione dei fini può essere anche un disegno ispiratore della tecnologia, come nell’esempio dell’automobile che ho fatto o nell’idea che si svilupperà qui a Wuppertal di sostituire il frigorifero con un locale-dispensa che non ha bisogno di essere raffredato.
Ma cosa farà cambiare rotta al Titanic? Un aumento del ruolo degli individui?
Non penso che la politica possa aiutare più di tanto questo processo. La consapevolezza ecologica in senso lato si è diffusa, è diventata parte della cultura generale e delle culture professionali.
La speranza, più che dalla politica, viene da nuove esperienze, da nuove visioni, da nuove sensibilità. Negli Stati Uniti stanno diventando rilevanti gli accordi diretti stipulati tra imprese o gruppi di imprese e lavoratori e associazioni di consumatori. Le cose cambiano perché gli imprenditori cercano un nuovo mercato, vengono spinti da certi consumatori, ricevono suggerimenti dagli scienziati. Oggi un inventore, un progettista di tecnologie ha un impatto direttamente politico e imprenditori, consumatori, scienziati vorrebbero tutti essere all’altezza dei tempi, così sorgono esperienze di nuove cooperazioni, accordi parziali.
Rimane certamente il ruolo dello Stato, ma i cambiamenti vengono prima dall’interno della società civile, ben oltre l’influenza degli stessi movimenti organizzati. Sono il segno del tramonto di un’epoca: diventa più importante il simbolico, si sgretolano i conflitti di massa, c’è più ricerca di cooperazione puntuale, di accordi particolari. Ci sono ancora gli operai -se si vuole c’è ancora “la classe operaia”-, come ci sono ancora i cattolici, ma non contano più come portatori di una forza compatta o di posizioni univoche e influenti. E’ una concezione ottocentesca che la società sia una sorta di meccanismo in cui valgono le regole della fisica, per cui prevarrà naturalmente chi mette in campo la forza maggiore. Nell’800 il linguaggio della politica era tutto permeato di questi concetti meccanicistici. Ma oggi, più che alla fisica mi ispirerei alla biologia, ai cambiamenti come osmosi o come infezione. Mi sembra una metafora più adatta a spiegare una società in cui la forza simbolica è più importante di quella fisica.
E più che un aumento di peso degli individui vedo tanti attori diversi; non è più possibile massificare gli attori, non c’è più l’operaio, come non c’è più lo sposato, o il cattolico. Ci sono situazioni di vita tra di loro molto diverse, come ci sono diversi campi di interesse e di impegno. C’è ancora la collettività, ma non è più la collettività di massa. Non credo però che sia diminuito l’impegno politico, semmai è calato l’impegno politico totale e permanente, ma l’impegno specifico e transitorio c’è ancora. La gente non sente più il bisogno di legarsi per tutta la vita ad una cultura particolare, è una cosa più transitoria, più fluttuante.