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Pieffebi
20-04-03, 16:50
Di un certo interesse è questo articolo del buon Introvigne, che recensisce un documentatissimo libro di Rohan Guraratna:

" MASSIMO INTROVIGNE, Cristianità n. 312 (2002)



Al-Qa’ida e Osama bin Laden: uno studio "definitivo" senza "soluzioni finali"



1. Rohan Gunaratna, docente presso la University of St. Andrew’s, in Scozia, considerato uno dei maggiori studiosi del terrorismo internazionale, ha prodotto con Inside Al Qaeda. Global Network of Terror (1) , "Dentro al-Qa’ida. Una rete globale del terrore" , un’opera presentata nel risvolto di copertina come "definitiva". La pretesa — se ci si riferisce alla descrizione del fenomeno — non è eccessiva, e Gunaratna, che è consulente di diversi governi e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, ha avuto accesso a un gran numero di fascicoli riservati che riguardano al-Qa’ida, partecipando anche personalmente all’interrogatorio di membri dell’organizzazione detenuti in vari paesi, prima e dopo l’11 settembre 2001.

Utilizza inoltre pubblicazioni clandestine di al-Qa’ida cui non molti studiosi hanno avuto accesso, come l’Enciclopedia del Jihad Afghano, un testo di circa settemila pagine, e il volume di riflessioni, in arabo, pubblicato clandestinamente a Londra dall’editore Al-Sharq al-Awsat nel dicembre 2001 con il titolo Cavalieri sotto la bandiera del Profeta. Meditazioni sul movimento jihadista, che contiene le riflessioni del medico egiziano Ayman al-Zawahiri, numero due di al-Qa’ida, sul futuro del movimento dopo l’11 settembre 2001.



2. Il quadro che ne emerge non è confortante. Al Qa’ida, secondo Gunaratna, costituisce un movimento qualitativamente e quantitativamente diverso da tutti i gruppi terroristici che la storia recente ha conosciuto. Ben lungi dall’essere quella realtà marginale che alcuni studiosi del fondamentalismo islamico — desiderosi soprattutto di contestare la posizione sul punto della CIA e dell’amministrazione statunitense — avevano creduto di poter descrivere negli anni 1990, al Qa’ida emerge come la maggiore organizzazione terroristica che la storia abbia conosciuto, con un numero di agenti — diverse decine di migliaia, per quanto le stime siano oggetto di controversie —, armi e disponibilità finanziarie paragonabili non tanto alle cifre di movimenti terroristici del passato quanto alle possibilità di un piccolo — ma ben armato — Stato contemporaneo.

Mentre il passato ha conosciuto gruppi terroristici controllati da Stati, al-Qa’ida aspira — ed è riuscita, nel caso dell’Afghanistan — a essere un gruppo terroristico che controlla Stati. Quanto al suo leader, "tra i capi terroristi contemporanei, Osama bin Laden non ha uguali [...]. Anzitutto, è il solo leader ad aver costruito un gruppo terroristico veramente multinazionale, che può colpire ovunque nel mondo [...]. In secondo luogo, si è costruito un seguito popolare nel mondo islamico, ed è oggetto quasi di venerazione in ambienti musulmani dell’Asia, dell’Africa e del Medio Oriente, e fra gli emigranti di prima e seconda generazione in America, Europa e Australia" (2): Gunaratna riferisce, per esempio, che il settanta per cento dei bambini nati nella popolosa città nigeriana di Kano fra l’11 settembre 2001 e la fine dello stesso anno sono stati chiamati "Osama", e che indagini demoscopiche rivelano in tutto il mondo islamico una popolarità di bin Laden superiore a quella dei leader politici locali (3).

Questa popolarità si traduce in un continuo afflusso di finanziamenti, i quali si aggiungono agl’importanti contributi di organizzazioni caritative internazionali islamiche i cui vertici simpatizzano per al-Qa’ida o ne sono — assai spesso — infiltrati, così che la fortuna personale di bin Laden contribuisce solo per una parte minoritaria alla solidità finanziaria dell’organizzazione, che peraltro riposa anche su un sistema internazionale di frodi alle società di carte di credito, mentre sembrerebbe che bin Laden, a differenza dei talebani afghani, abbia sempre rifiutato un coinvolgimento nel traffico di droga.



3. La storia di al-Qa’ida è in gran parte nota (4) e la ricostruzione di Gunaratna è così dettagliata e attenta al particolare — fornisce, per esempio, il numero del telefono satellitare usato per anni da bin Laden e i nomi degli alberghi dove hanno pernottato i principali agenti di al-Qa’ida nei loro viaggi — da risultare talora di difficile lettura, anche perché alcuni dei protagonisti utilizzano uno straordinario numero di nomi falsi — oltre quaranta nel caso di Ramzi Ahmed Yousef —, riuscendo a confondere — se non i servizi segreti che danno loro la caccia — almeno il medio lettore del volume. Alcuni particolari sono peraltro degni di nota. Per esempio, Gunaratna considera probabile che il quarto obiettivo — mancato — dell’operazione dell’11 settembre 2001 fosse la Casa Bianca, e ritiene certo che lo stesso giorno solo la chiusura dell’aeroporto londinese di Heathrow con qualche ora di anticipo rispetto alle previsioni di al-Qa’ida, dopo gli eventi di New York e Washington, abbia impedito a un gruppo di terroristi, già pronti a imbarcarsi sul volo Londra-Manchester, di dirottare l’aereo e di farlo schiantare contro il Parlamento britannico.

Dall’opera emerge che i fatti dell’11 settembre sono ormai stati ricostruiti nei particolari, e che al-Qa’ida ha imparato dai suoi errori precedenti. Infatti l’organizzazione di bin Laden non è infallibile e i suoi nemici non sono sprovveduti: se al-Qa’ida è riuscita negli anni 1990 a mettere a segno alcuni attentati spettacolari, altri che sarebbero stati assai più letali sono stati sventati. In particolare, Gunaratna attira l’attenzione sul cosiddetto Oplan Bojinka, un piano che avrebbe dovuto essere realizzato nel 1995 e che prevedeva l’esplosione in volo, lo stesso giorno, di undici aerei di linee statunitensi e il contemporaneo assassinio del presidente degli Stati Uniti d’America William Jefferson "Bill" Clinton e di Papa Giovanni Paolo II; e sull’attentato che avrebbe dovuto colpire l’aeroporto internazionale di Los Angeles in occasione delle celebrazioni del 31 dicembre 1999.

Entrambi furono sventati con gli arresti di alcuni fra i candidati esecutori suicidi prima che mettessero in atto i loro propositi, determinati — secondo Gunaratna — dal fatto che si trattava di attivisti piuttosto visibili — quindi sorvegliabili — del fondamentalismo islamico radicale, molti dei quali con precedenti penali specifici. Nel caso dell’11 settembre, invece, la maggioranza degli attentatori non aveva precedenti penali ed era stato loro raccomandato di non frequentare gruppi fondamentalisti, né moschee, né — ancora — di leggere il Corano o di pregare in pubblico. Il capo dell’operazione dell’11 settembre, Mohammed Atta (1968-2001), figlio di un noto avvocato egiziano, era piuttosto noto come uno studente che si era laureato nel 1999 a pieni voti in urbanistica ad Amburgo con una tesi sul ricupero del centro storico di Aleppo e si avviava a una brillante carriera (5).

D’altro canto, sembra che al-Qa’ida tenga costantemente pronti un centinaio di diversi progetti terroristici, realizzandone soltanto tre o quattro all’anno con decisioni prese rapidamente da una piccola "cupola" di capi: bin Laden, l’ideologo del movimento al-Zawahiri nonché il responsabile dell’organizzazione, il palestinese Abu Zubaydah, e il comandante militare, l’ex-poliziotto egiziano Muhammad Atef (1944-2001); tuttavia Zubaydah è stato catturato dai servizi statunitensi in Pakistan il 28 marzo 2002, e Atef è stato ucciso in Afghanistan, in entrambi i casi arrecando seri danni ad al-Qa’ida.



4. Sul piano dell’ideologia, Gunaratna propone alcune interessanti riflessioni sul carattere insieme utopico e concreto delle tesi elaborate da bin Laden e al-Zawahiri. Da una parte, l’obiettivo dichiarato è la restaurazione di un unico califfato per l’intera umma musulmana; questo scopo presuppone l’abbattimento dei regimi corrotti che non applicano o applicano parzialmente la shari’a nei paesi a maggioranza islamica, il che è possibile solo facendo venir meno la protezione loro garantita dagli Stati Uniti d’America, i quali dovrebbero essere indotti a ritirarsi da questi paesi dalla minaccia di un terrorismo che li insegue fino nel cuore dell’America.

A chi fa osservare che l’obiettivo è utopico, al-Qa’ida risponde che "[...] tutto avviene secondo la volontà di Dio" (6); anche l’operazione dell’11 settembre, afferma al-Zawahiri, "[...] è riuscita grazie all’aiuto di Dio, non alla nostra efficienza o potere" (7). D’altro canto, il macro-progetto del califfato è continuamente micro-tradotto in una serie di obiettivi intermedi che, per quanto di difficile realizzazione, non sono politicamente impossibili e in parte sono già stati conseguiti: rovesciamento di specifici regimi, creazione di enclave controllate da al-Qa’ida e dai suoi alleati in zone remote del Pakistan — dove, secondo Gunaratna, si troverebbe tuttora bin Laden —, dell’Indonesia e delle Filippine, e così via. Il successo di al-Qa’ida è anche assicurato dall’universalismo pan-islamico di bin Laden, che contro nemici comuni è riuscito a far collaborare musulmani fondamentalisti e tradizionalisti, e anche sunniti e sciiti; peraltro, non senza che questo costituisse un elemento di frizione con i talebani, radicalmente anti-sciiti: si tratta di una dialettica che — secondo Gunaratna — avrebbe potuto esser meglio sfruttata dai nemici del terrorista di origine saudita.

Anzi, sostiene Gunaratna, il principale sostegno militare e di intelligence al sunnita bin Laden viene oggi dall’Iran sciita, non dall’Iraq, perciò una politica statunitense che privilegiasse l’attacco all’Iraq sarebbe, secondo lo studioso, del tutto inadeguata.



5. Rimane comunque confermato che, contrariamente a una diffusa opinione popolare, gli scopi di al-Qa’ida così come sono percepiti dai suoi dirigenti e dai suoi membri sono di natura religiosa: "Osama non ha mai interpretato l’islam come se fosse al servizio di uno scopo politico specifico. È l’islam il suo scopo politico" (8); per quanto, visti dall’esterno, "Osama e Zawahiri non sono uomini di Dio ma politici assetati di potere" (9): la distinzione fra l’elemento religioso e quello politico non ha senso all’interno di al-Qa’ida ma Gunaratna propone di utilizzarla in una propaganda esterna che ne metta in discussione il mito: operazione il cui successo nei paesi islamici è peraltro tutt’altro che scontato.

Lo studioso smentisce anche l’esistenza, per la grande maggioranza dei militanti di al-Qa’ida, di moventi economici (10); in gran parte i terroristi provengono da famiglie agiate e hanno ricevuto una buona istruzione, e in al-Qa’ida ricevono "stipendi" modestissimi: è esemplare il caso di Omar Sheikh, il terrorista responsabile dell’assassinio del giornalista del Wall Street Journal Daniel Pearl (1963-2002), figlio d’imprenditori emigrati in Inghilterra e già studente alla London School of Economics.



6. Secondo Gunaratna, i movimenti fondamentalisti islamici — che preferisce chiamare "islamisti" (11) — si dividono in quattro tipi: rivoluzionari, ideologici, utopici e apocalittici. I primi, i "rivoluzionari" (12), il cui tipo è costituito da Hamas, praticano la violenza al servizio di scopi precisi politicamente raggiungibili; i secondi, gli "ideologici" (13), giustificano la violenza sistematica con un discorso ideologico coerente che ne esalta il valore pedagogico e religioso, secondo un’ideologia che sarebbe tipica del teorico fondamentalista sudanese Hassan Turabi e sarebbe praticata dagli Hezbollah in Libano; i terzi, gli "utopici" (14), intendono rovesciare l’ordine mondiale esistente per sostituirlo con un nuovo ordine islamico: di essi sono esempi i talebani e al-Qa’ida stessa in una sua prima fase di sviluppo; infine gli "apocalittici" (15) credono nel valore della violenza globale che dovrebbe condurre a un’apocalisse islamica, sola condizione per la restaurazione del califfato (16).

Solo due gruppi — al Qa’ida e il GIA, il Gruppo Islamico Armato, algerino — sarebbero in questo senso "apocalittici", benché Gunaratna precisi che l’aggettivo non è usato nel senso corrente nella sociologia delle religioni per indicare una vera e propria attesa della fine del mondo, un elemento la cui presenza in al-Qa’ida rimane oggetto di dibattiti e quesiti ai quali lo studioso tende a dare una risposta negativa. Quanto al GIA, lo stesso bin Laden ha denunciato la sua violenza gratuita contro interi villaggi musulmani — esprimendosi in termini particolarmente severi contro i ripetuti episodi di violenza carnale — e ha favorito nel 1998 la scissione del GSPC, il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, che oggi è il rappresentante del network di al-Qa’ida in Algeria ed è anche presente clandestinamente in Francia e in Italia.



7. Che fare contro al-Qa’ida? Nel breve periodo la risposta, secondo Gunaratna, può essere soltanto militare e di intelligence. Non si devono sottovalutare i successi conseguiti dai servizi occidentali nello sventare operazioni di al-Qa’ida — che dunque non è invincibile — e favorire anche una migliore cooperazione fra servizi di Stati diversi. Per esempio, il dirottamento di aerei di linea perché si schiantino contro edifici-simbolo avrebbe potuto esser previsto, secondo lo studioso, attraverso una migliore collaborazione fra servizi francesi e statunitensi, poiché ai primi era noto come l’obiettivo dei terroristi del GIA — che nella notte di Natale del 1994 avevano dirottato un aereo della Air France partito da Algeri — era quello di farlo schiantare contro la Torre Eiffel: durante uno scalo per rifornimento a Marsiglia, il piano fu sventato da reparti speciali della Gendarmeria francese, che assaltarono l’aereo uccidendo tutti i terroristi.

Nel medio periodo, secondo Gunaratna, sconfiggere al-Qa’ida significa spezzare la rete di simpatia e di complicità di cui gode nel mondo islamico in generale e fondamentalista in particolare. A differenza di molti sociologi, Gunaratna non distingue particolarmente fra fondamentalismo "neo-tradizionalista" — che non usa in genere mezzi violenti — e "radicale", non solo perché lo scopo del suo studio non è l’analisi del fondamentalismo (17), ma perché dalla sua documentazione emergono continuamente contatti fra al-Qa’ida ed esponenti di gruppi che altri chiamerebbero "neo-tradizionalisti", primi fra tutti i Fratelli Musulmani. "La domanda — scrive Gunaratna — deve essere posta: al-Qa’ida è coranica o eretica?" (18); lo studioso pensa evidentemente che la risposta vada nel senso dell’eresia, anche se la sua argomentazione rimane sommaria. Il problema che Gunaratna ha presente non è teologico, ma strategico: come vincere la guerra contro al-Qa’ida — se non contro il fondamentalismo islamico in generale — utilizzando insieme strumenti militari e "ideologici" (19), come a suo avviso fu fatto con successo nei confronti del comunismo durante la Guerra fredda. Lo studioso auspica che si manifestino, nel medio termine, "autorevoli religiosi" (20) dell’islam in grado di pronunciarsi autorevolmente almeno contro il terrorismo. Gunaratna ammette che finora non si sono trovati "[...] precedenti tradizionali, garanzie di sicurezza o incentivi" (21) per favorire simili pronunciamenti (22), ma non dispera che si possano trovare in futuro, mentre considera inutili le dichiarazioni di veri o presunti esperti occidentali dell’islam, puntualmente ridicolizzate nei paesi a maggioranza islamica.

Questo lo spinge a guardare, oltre il medio, al lungo periodo in cui, per favorire l’emergere di un consesso internazionale islamico che appaia autorevole alle masse musulmane e condanni il terrorismo, l’Occidente dovrebbe fare la sua parte per risolvere nodi irrisolti come quelli della Palestina, della Cecenia e del Kashmir.



8. Si tratta certo, in gran parte, di considerazioni di buon senso, ma nello stesso tempo di una problematica enorme, che forse non spetta agli esperti di anti-terrorismo risolvere: per esempio, chi potrebbe avere l’autorità per dichiarare al-Qa’ida "eretica" in una religione come l’islam? Chi potrebbe convocare un concilio di "autorevoli religiosi", e come sceglierli? Se questa, come sostiene Gunaratna, è l’unica vera soluzione finale del problema al-Qa’ida, non resta che concentrarsi per il momento sulle soluzioni intermedie e rafforzare le misure di prevenzione militari e di intelligence, certi che al-Qa’ida in questo momento già si prepara a colpire ancora.

Massimo Introvigne



***

(1) Cfr. Rohan Gunaratna, Inside Al Qaeda. Global Network of Terror, Columbia University Press, New York 2002.

(2) Ibid., p. 53.

(3) Cfr. ibid., p. 52.

(4) Cfr. il mio Osama bin Laden. Apocalisse sull’Occidente, Elledici, Leumann (Torino) 2001; e Peter L. Bergen, Holy War, Inc. Osama bin Laden e la multinazionale del terrore, trad. it., Mondadori, Milano 2001.

(5) Cfr. R. Gunaratna, op. cit., p. 105.

(6) Ibid., p. 229.

(7) Ibidem.

(8) Ibid., p. 87.

(9) Ibid., p. 238.

(10) Che la miseria e la discriminazione siano alle radici del terrorismo islamico è un mito duro a morire, forse perché "politicamente corretto": lo riprendono anche autori solitamente bene informati, ma animati da irenismo in tema di rapporti fra cristianesimo e islam, come — da ultimo — uno dei più ascoltati consulenti di istituzioni cattoliche in tema di islam, ordinario di Religioni e Relazioni Internazionali nonché direttore del Centro per il Dialogo Islamo-Cristiano presso la Georgetown University di Washington, John L. Esposito, Unholy War. Terror in the Name of Islam, Oxford University Press, New York 2002.

(11) R. Gunaratna, op. cit., p. 92.

(12) Ibidem.

(13) Ibid., pp. 92 e 93.

(14) Ibidem.

(15) Ibidem.

(16) Cfr. R. Gunaratna, op. cit., pp. 92-94.

(17) Cfr. la proposta di queste categorie, in Renzo Guolo, Il partito di Dio. L’Islam radicale contro l’Occidente, Guerini e Associati, Milano 1994; la distinzione è stata ripresa da numerosi autori, non solo in Italia.

(18) R. Gunaratna, op. cit., p. 234.

(19) Ibidem.

(20) Ibid., p. 238.

(21) Ibidem.

(22) Per la verità, pronunciamenti di questo genere vi sono già stati. Il 5 novembre 2001 il Consiglio di ricerca islamico dell’Università al-Azhar del Cairo ha solennemente dichiarato che "l’Islam offre regole e norme etiche chiare che vietano l’uccisione di non combattenti, come quella di donne, bambini e anziani [...] e la distruzione di proprietà che non sono usate per scopi bellici" (cit. in J. L. Esposito, op. cit., p. 158). Esposito presenta questo testo come una dichiarazione "forte e autorevole" che emana da un’università "[...] considerata da molti come la più alta autorità morale dell’islam" (ibidem). Peraltro, nella stessa opera, Esposito aveva in precedenza spiegato che, fin dai tempi del presidente Anwar as-Sadat (1918-1981), il governo egiziano si è assicurato "[...] un controllo sufficiente dello shaykh (rettore) e dei principali professori di materie religiose all’Università al-Azhar" (ibid., p. 87), così che l’opinione pubblica egiziana considera tale università "un fantoccio del governo" (ibid., p. 89). La contraddizione mostra bene come quelli che sono considerati interlocutori autorevolissimi dagli studiosi e dagli esperti di dialogo inter-religioso occidentali non siano necessariamente percepiti come tali — per ammissione, appunto, degli stessi studiosi ed esperti — dall’opinione pubblica dei paesi a maggioranza islamica, il che ripropone il duplice problema di chi abbia titolo a parlare in nome dell’"autentico" islam e di come dichiarazioni di realtà islamiche in tesi "autorevoli" siano poi di fatto accolte dalle masse musulmane. "

Shalom!!!

Pieffebi
21-04-03, 14:56
Ancora uno scritto del buon Introvigne....

" Fondamentalismo islamico, terrorismo e guerra in Medio Oriente: dalla questione palestinese alla questione irachena
Massimo Introvigne - Intervento al convegno organizzato dal CESNUR e dall’Associazione Per Torino, Unione Industriale, Torino, 21 febbraio 2003


1. Le scienze sociali non possono sostituirsi ai politici nel risolvere questioni straordinariamente complesse. Tuttavia, possono – insieme a numerose altre fonti – offrire ai politici materia prima che li aiuti a prendere decisioni più informate. In questa sede, vorrei limitarmi ad enunciare tre principi insieme descrittivi e interpretativi, che applicherò poi al passato remoto e prossimo, al presente e al futuro della questione palestinese e di quella irachena.

(a) Un primo principio è che i movimenti religiosi hanno molto spesso cause e motivazioni religiose. Il marxismo, la psicoanalisi, e la critica della cultura di massa da parte della Scuola di Francoforte hanno convinto generazioni di studiosi che i fenomeni che si presentano come religiosi sono in genere solo la maschera di fattori materiali. Friedrich Engels (1820-1895), il più stretto collaboratore di Karl Marx (1818-1883), spiegava nell’Antidühring (1878) che “ogni religione non è altro che il riflesso fantastico nella testa degli uomini di quelle potenze esterne che dominano la loro esistenza quotidiana, riflesso nel quale le potenze terrene assumono la forma di potenze ultraterrene”, citando come “potenze esterne reali” le “condizioni economiche” e i “mezzi di produzione”. Così, per anni ci è stato spiegato che la Prima Crociata è stata la conseguenza di un surplus demografico all’interno della nobiltà europea (nel senso che bisognava trovare qualcosa da fare ai figli cadetti in soprannumero delle famiglie nobili), che le eresie medioevali e la Riforma rappresentavano una lotta di classe della borghesia urbana contro la nobiltà rurale, e che i “Grandi Risvegli” che contraddistinguono la storia del protestantesimo inglese e americano sono forme primitive di rivolta contro la moderna economia di mercato. Certo, gli storici hanno lentamente smantellato queste costruzioni ideologiche. Tuttavia, ogni volta che un fenomeno sembra religioso, un riflesso condizionato, che deriva in gran parte dal marxismo, ci spinge subito a chiederci: dov’è il trucco? Di quale “struttura” economica reale la “sovrastruttura” asseritamene religiosa è la maschera o il prodotto? Quando poi si tratta di movimenti islamici, un altro fattore entra in gioco. Si afferma che chiamare il terrorismo islamico, appunto, “islamico” non è politicamente corretto, e che si rischia di scatenare la reazione di oltre un miliardo di musulmani. Può anche darsi che sia così, ma questo non è un problema delle scienze sociali. Occorre rigorosamente distinguere fra l’informazione e l’uso politico dell’informazione. L’informazione scientifica si valuta secondo la sua capacità di rappresentare, ridurre a unità e spiegare la realtà. Spetta ai politici, invece, decidere che uso fare dell’informazione. Le scienze sociali possono peraltro aiutarli, precisando che non tutti i musulmani sono fondamentalisti – anche se il fondamentalismo è una delle quinte portanti dello scenario islamico contemporaneo – e che non tutti i fondamentalisti islamici sono terroristi: molti oggi promuovono i loro ideali con mezzi non violenti, anche se i terroristi di Hamas (o di al-Qa’ida) sono fondamentalisti, e quello che fanno rimane incomprensibile se ci si ostina a considerare secondario quanto per loro è primario e cruciale, cioè la motivazione religiosa.

(b) Un secondo principio è che – venuto meno il congelamento delle situazioni regionali durante la Guerra fredda, in cui tutto era ridotto alla domanda “Stai con i sovietici o con gli americani?” – sono riemersi i conflitti locali che la Guerra fredda aveva nascosto, ma non risolto. Questi conflitti hanno certamente componenti nazionali, etniche, politiche, economiche, ma molto spesso hanno anche un’importante componente religiosa. Il testo di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà è spesso più criticato che letto. Un esame attento dell’aspetto religioso invita a integrarlo con un modello di scontro all’interno delle civiltà. Ancora dopo la fine della Guerra fredda è emerso come problema fondamentale che soggiace a numerose crisi regionali quello del rapporto fra religione e politica, e – più ampiamente – fra religione e realtà secolari, fra religione e cultura . Su questo tema, il documento della Congregazione per la dottrina della fede cattolica formalmente datato 24 novembre 2002 – ma presentato nel gennaio 2003 – può aiutare a precisare le categorie. Per semplificare una realtà ben altrimenti complessa – e ridurla a tipi ideali – si può affermare che all’interno di ciascuna civiltà, sul tema diventato nuovamente essenziale dei rapporti tra religione e cultura, si confrontano laicismo, fondamentalismo e laicità. Per il laicista, tra fede e cultura ci deve essere totale separazione: una sorta di muraglia cinese che nega al credente il diritto di far diventare la sua fede cultura e di giudicare la cultura, quindi anche la politica, alla luce della fede. Per il fondamentalista, fede e cultura, e fede e politica, coincidono in una sorta di fusione - che chi fondamentalista non è valuterà facilmente come confusione -, per cui ogni modo di produzione della cultura che non parta esplicitamente dalla fede, ogni politica che non sia direttamente e senza mediazioni religiosa, sarà considerata necessariamente sospetta, se non demoniaca. Per l’uomo religioso non fondamentalista, tra fede e cultura non c’è separazione: vi è tuttavia distinzione, nel senso che la cultura, come la politica e tutte le realtà terrene e secolari, ha una sua sfera di autonomia che va gelosamente difesa, pur potendo e dovendo essere giudicata alla luce della fede e della morale. È questa una posizione di “laicità”, che non coincide con il laicismo: secondo il citato documento vaticano, “ la laicità intesa come autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica – ma non da quella morale – è un valore acquisito e riconosciuto dalla Chiesa ”, la quale in particolare “ ha messo in guardia contro i pericoli derivanti da qualsiasi confusione tra la sfera religiosa e la sfera politica ”. È chiaro che questa “laicità”, che indica la strada di una collaborazione fra fede e cultura, non è la laïcité à la française di cui ci parlano i nostri vicini d’Oltralpe; in questo senso il francese laïcité andrebbe tradotto piuttosto con “laicismo”. Beninteso, come tutti gli idealtipi, questi tre modelli hanno un rapporto di semplice analogia con realtà molto più complesse e sfumate. Il confronto fra laicismo, fondamentalismo e laicità contribuisce però a rendere ragione di un gran numero di crisi locali che oggi sono agli onori delle cronache.

(c) In terzo luogo, applicando questo modello a una particolare civiltà, che è quella islamica, si deve rilevare che un laicista islamico non assomiglia necessariamente a un laicista occidentale. Quest’ultimo sarà più spesso francamente ateo, mentre il laicista musulmano – se non vuole perdere completamente contatto con la maggioranza della popolazione – dovrà mantenere un linguaggio in qualche modo religioso, nello stesso momento in cui opera, come ogni laicista, per eliminare le radici sociali della religione . Si deve anche considerare – ma qui si andrebbe al di là del tema della serata – che lo sviluppo della riflessione teologica e filosofica islamica rende oggettivamente più difficile l’emergere di una posizione laica, ma non laicista, che appena si comincia a intravedere negli ultimi decenni, certo con prodromi più antichi, in correnti quasi ovunque minoritarie. Il conflitto più visibile è quindi quello fra laicisti e fondamentalisti, precisando - ancora - che termini come "laicità" e "laicismo", benché liberalmente usati da autori islamici nordafricani che si esprimono in francese, sono di difficile traduzione in lingua araba, non appartengono al lessico dell'islam, e restano dunque tentativi di esprimere in un linguaggio occidentale, così universalizzandole, categorie e pratiche che assumono nel mondo islamico connotati diversi rispetto all'Occidente. I laicisti oppongono all’universalismo dell’appartenenza a un’unica comunità islamica l’idea dello Stato-nazione, e li troviamo quindi principalmente nelle fila delle varie correnti nazionaliste. Talora inoltre imputano alla religione l’arretratezza economica e sociale dei paesi a maggioranza islamica rispetto all’Occidente, e li troviamo quindi anche nelle correnti moderniste, che – interagendo peraltro con i motivi nazionalisti – sono pervenute al potere politico nei due paesi dove anche l’influsso delle massonerie occidentali è stato più vivo e organizzato, cioè la Turchia e l’Iran della dinastia Pahlavi. La Turchia e l’Iran dimostrano come sia falso l’argomento secondo cui per “disinnescare” il fondamentalismo islamico sarebbe sufficiente una capillare propaganda del laicismo, da affidare alle scuole e alle università; secondo questo luogo comune, in tal caso i paesi a maggioranza islamica “si secolarizzerebbero proprio come l’Occidente” . Rinviando ad altra sede una esposizione sistematica del dubbio se l’Occidente sia poi veramente “secolarizzato”, la risposta è che l’esperimento è già stato fatto. Per decenni in Turchia e in Iran (con differenze importanti, peraltro, fra l’uno e l’altro paese) le scuole e le università hanno propagandato in modo martellante il laicismo. Il risultato è stato per l’Iran la rivoluzione islamica del 1979, per la Turchia – non appena si è allentato il controllo dell’Esercito sulle elezioni – l’ascesa elettorale dei fondamentalisti fino alla vittoria nelle elezioni del 2002, e alla formazione dell’attuale governo. Altrove, lo scontro fra nazionalisti e fondamentalisti rimane la caratteristica dominante della cultura e della politica.



2. Applichiamo ora questi principi, sia pure in modo necessariamente brevissimo, alla questione palestinese, distinguendo fra passato remoto, passato prossimo, presente e futuro. Mi limito qui a enunciare alcune tesi, rimandando per le note e le dimostrazioni al mio libro Hamas. Fondamentalismo islamico e terrorismo suicida in Palestina (Elledici, Leumann [Torino] 2003).

(a) Quanto al passato remoto della questione palestinese, questa nasce come questione in cui la componente religiosa è essenziale. Gerusalemme è la terza città santa dell’islam dopo la Mecca e Medina: è il luogo cui, prima della Mecca, si rivolgeva la preghiera e il punto di partenza del viaggio estatico notturno del Profeta stesso . Quando gli insediamenti di coloni ebraici e la dichiarazione Balfour del 1917 fanno capire al mondo islamico che cosa sta succedendo, la questione non si pone negli stessi termini rispetto – per esempio – all’invasione italiana della Libia del 1911, che pure aveva destato notevoli emozioni. In particolare un personaggio che si trova alle origini del movimento fondamentalista, l’egiziano Hassan al-Banna (1906-1949), fondatore dei Fratelli Musulmani , tuttora la maggiore organizzazione fondamentalista mondiale, vi vede una grande questione religiosa: un vero e proprio scontro di civiltà, a tinte più o meno vagamente apocalittiche, fra musulmani da una parte ed ebrei e loro protettori cristiani dall’altra, giocato intorno a Gerusalemme e al suo significato sacro per l’islam . Quella della Palestina non è una delle tante questioni cui i Fratelli Musulmani si interessano negli anni 1930 e 1940. È la questione fondamentale, su cui al-Banna gioca la possibilità di indicare ai suoi seguaci la dimensione sopranazionale della umma, trasformando un movimento dal limitato orizzonte egiziano in una realtà islamica globale. La propaganda in favore della causa palestinese è alla base stessa del successo internazionale del movimento negli anni 1935-1945. Per questo i Fratelli Musulmani concentrano i loro sforzi in Palestina, ed è dalla branca palestinese dei Fratelli Musulmani che, dopo alterne vicende, nascerà nel 1987 Hamas, una realtà che si definisce all’articolo 2 del suo Statuto “una delle branche dei Fratelli Musulmani in Palestina” .

(b) Quanto al passato prossimo, la storia del movimento palestinese si lascia ampiamente spiegare dal modello che considera cruciale l’opposizione fra laicismo e fondamentalismo. Negli anni 1940 e 1950 la lotta per la Palestina è egemonizzata dalla corrente fondamentalista, cioè dai Fratelli Musulmani. Nel 1954 il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser (1918-1970), che pure era stato affiliato in gioventù ai Fratelli Musulmani, li mette fuorilegge, nel quadro del più classico degli scontri fra nazionalisti laicisti e fondamentalisti . A seguito di questo avvenimento si determinano all’interno del movimento fondamentalista due linee: una “neo-tradizionalista” , che propone una via non violenta di “islamizzazione dal basso” della società prima di puntare al potere; e una “radicale” , che punta alla “islamizzazione dall’alto” dopo la conquista del potere tramite mezzi, ove necessario, violenti e non esclude l’opzione terroristica. I Fratelli Musulmani palestinesi, alla sequela di quelli egiziani e in un certo senso perfino anticipandoli, si ripiegano sulla costruzione “neo-tradizionalista” di una società islamica nel 1957, e sono abbandonati nel 1958-1959 da chi vuole invece un accostamento “radicale” alla lotta contro Israele e si raccoglie sotto le bandiere laiche di Fatah, il movimento di Yassir Arafat. Per trent’anni – dal 1957 al 1987 – la dialettica all’interno del movimento palestinese vede contrapposti i Fratelli Musulmani, fondamentalisti e neo-tradizionalisti, e Hamas e i suoi alleati nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), nazionalisti in maggioranza laicisti, con componenti marxiste e antireligiose . Nel 1987, con la prima Intifada, i Fratelli Musulmani decidono che la fase “neo-tradizionalista” è durata abbastanza, e ha dato i risultati sperati, e ritornano con Hamas alla lotta armata, superando in radicalismo le stesse forze laiciste e nazionaliste .

(c) La storia del presente è ampiamente trattata nel mio libro, che si concentra sugli attentati terroristici suicidi . Una conclusione della mia ricerca è che il terrorismo suicida si spiega, ultimamente e ancora una volta, solo attribuendo il loro giusto ruolo alle motivazioni religiose. La selezione e l’addestramento dei terroristi suicidi danno un’importanza essenziale alla meditazione, alla preghiera, ai ritiri spirituali, alla lettura del Corano. Una delle maggiori preoccupazioni è quella di superare le obiezioni teologiche di chi ricorda che nell’islam il suicidio è vietato, collezionando fatawa le quali spiegano che si tratta di martirio e non di suicidio (utilizzando una tradizione di origine sciita, nata nell’Iran di Khomeini per giustificare le operazioni suicide nella guerra Iran-Iraq, poi il terrorismo suicida degli Hizbollah sciiti libanesi, la cui tecnica si diffonderà presso dirigenti palestinesi sunniti, come quelli di Hamas, deportati dagli israeliani nel Sud del Libano) . Dal nostro punto di vista occidentale, siamo riluttanti a considerare il terrorismo suicida come un’esperienza religiosa, sia perché siamo prigionieri di uno stereotipo secondo cui la religione è sempre “graziosa”, pacifica e dolce, sia perché temiamo di offendere i musulmani. A me sembra, tuttavia, che si offendano i militanti di Hamas e quelli di altri movimenti fondamentalisti radicali rifiutando di prenderli sul serio e insistendo che tutto quello che dicono deve essere falso e la loro motivazione religiosa deve mascherare fattori puramente politici ed economici. In ogni caso, la ricerca mostra come dal punto di vista della composizione sociale i terroristi suicidi di Hamas non siano affatto “i disperati dei campi profughi”, ma il loro livello sia economico sia di istruzione sia di gran lunga superiore alla media palestinese, con punte di “bombe umane” provenienti dall’alta e anche dall’altissima borghesia di Gaza. Lo stesso, come è ben noto, vale per i militanti di al-Qa’ida coinvolti negli attentati dell’11 settembre 2001, ferme le differenze fra al-Qa’ida e Hamas. La prima propugna una rivoluzione islamica mondiale, il secondo critica chiunque metta in dubbio la priorità assoluta e le caratteristiche uniche del caso palestinese: un caso di scontro, noto anche in altri contesti, fra “rivoluzione fondamentalista permanente” e “fondamentalismo (anzitutto) in un solo paese”.



3. Una delle tesi che si può ricavare dal volume è che questione palestinese e questione irachena non sono collegate strettamente. Saddam Hussein si presenta a intermittenza come campione della causa palestinese, a seconda delle sue necessità interne e internazionali; in Palestina, fondamentalisti e nazionalisti si alleano di volta in volta, e in modo contraddittorio, con Saddam o con i suoi nemici regionali sulla base di motivi che sembrano puramente contingenti. Esiste, d’altro canto, una “questione irachena”, in relazione alla quale le stesse griglie di analisi che ho cercato di applicare in Palestina possono essere messe a frutto .

(a) La questione irachena, nel suo passato remoto, è una questione in primo luogo religiosa (e in secondo etnica). L’Iraq è un paese artificiale, costruito a tavolino dagli inglesi dopo la Prima guerra mondiale mettendo insieme tre province ottomane che non avevano in comune né la religione né la lingua, e non avevano nessuna consapevolezza di costituire una “nazione irachena”. Dal punto di vista religioso, la zona è di un’importanza cruciale, perché al suo interno sorgono i luoghi di origine dell’Islam sciita e le sue quattro città sante (Najaf, Karbalà e Samarrà nel Sud dell’attuale Iraq; Kazimayn al centro, alla periferia di Baghdad). Quello che alcuni studiosi non temono di chiamare il “Vaticano” sciita si è trovato, almeno fino allo scoppio della guerra Iran-Iraq del 1980, a Najaf, in Iraq, e non in Iran . A differenza dell’Islam sunnita, quello sciita ha una gerarchia, e il suo capo supremo fino a tempi recentissimi è stato un imam residente in Iraq. La costruzione artificiale chiamata Iraq contava alla sua origine il 58% di sciiti arabi (oggi sono il 50%); il restante 42% della popolazione si divideva fra arabi sunniti e curdi (questi ultimi in maggioranza sunniti, anche se con una minoranza sciita). I trattati successivi alla Prima guerra mondiale avevano per la verità promesso l’indipendenza al Kurdistan. Tuttavia, la dirigenza curda entrò ben presto nell’orbita sovietica e il timore del comunismo giocò un ruolo di primo piano nella decisione occidentale di non dare seguito a queste promesse, creando un feroce conflitto nelle zone curde della Turchia, dell’Iraq e in misura minore dell’Iran . L’Impero Ottomano, sunnita, aveva privilegiato una dirigenza sunnita delle province oggi “irachene”; gli inglesi, sostituendo gli ottomani, mantennero la stessa politica, sia per un disegno imperiale di protettorato su una confederazione panislamica sunnita (il disegno di Thomas Edward Lawrence, “Lawrence d’Arabia”, 1888-1935) , sia perché gli sciiti erano ritenuti più ostili a un disegno di “modernizzazione” culturale e amministrativa. L’Iraq nasce così come uno Stato contro la sua società civile: uno Stato che non sorge solo con la vocazione di una maggioranza a opprimere le minoranza, ma con la vocazione di una minoranza (sunnita) a opprimere la maggioranza (sciita). Naturalmente uno Stato simile può mantenersi in vita solo attraverso una gestione autoritaria, spesso brutale; e gli Stati a gestione autoritaria costruiti contro le loro società cercano spesso in avventure militari esterne il surrogato di una dubbia legittimità interna.

(b) Il passato prossimo dell’Iraq – dopo la caduta della monarchia hascemita creata dagli inglesi – può essere letto (certo, integrando questo strumento con altri) alla luce del modello fondamentalismo-laicismo. Diverse forze laiciste – comunisti, nasseriani, partito Baat – rovesciano la monarchia e massacrano la famiglia reale in un giorno non scelto a caso, il 14 luglio, dell’anno 1958. Seguono una sequela di colpi di Stato in cui prima il partito Baat (un partito nazional-socialista panarabo, che ha nel suo statuto un programma laicista e secolarizzatore ) rovescia i nasseriani, quindi esplode la faida fra diverse fazioni all’interno del partito Baat da cui emerge la fazione di Saddam Hussein, vero padrone del paese già dal colpo di Stato del cugino di sua madre Hassan al-Bakr del 1968 e titolare formale di tutti i poteri dal 1979. Benché negli anni 1980 e 1990 Saddam Hussein abbia adottato un linguaggio religioso per comprensibili motivi strumentali, tutta la sua storia politica è quella di un campione del laicismo. Oltre all’opposizione curda, prevalentemente etnica, l’opposizione più consistente a Saddam viene da forze religiose: gli ulema sciiti, che avevano teorizzato e praticato il loro coinvolgimento diretto nella politica nelle rivolte anti-inglesi degli anni 1920 e che sono alle origini della rivoluzione fondamentalista iraniana del 1979, pensata in Iraq e attuata in Iran; e, nello stesso mondo sunnita di cui Saddam fa parte, gruppi fondamentalisti diversi (fra cui due fazioni dei Fratelli Musulmani, divise nel giudizio sull’Arabia Saudita), piccoli ma in ogni caso più consistenti dell’opposizione intra-laicista “liberale”. La ragione per cui Saddam Hussein, un tiranno che biografi non sospettabili di pregiudizi anti-arabi o filo-americani come l’inviato di Repubblica Magdi Allam hanno dovuto descrivere con categorie improntate alla psico-patologia e allo studio della criminalità comune più che alla politica, si mantiene al potere è che, comunque, l’Occidente diffida dei fondamentalisti, tanto più di quelli sciiti dopo la rivoluzione khomeinista del 1979 . Dal momento che all’interno della maggioranza araba dell’Iraq l’unica dirigenza veramente alternativa a Saddam è sciita e filo-iraniana (quanto ai curdi, rappresentano un problema a parte e comunque fino alla caduta dell’URSS sono anch’essi sospetti in quanto filo-sovietici), l’Occidente tutto sommato preferisce Saddam. Così, l’Occidente tollera quando non incoraggia l’aggressione all’Iran del 1980, che nasce principalmente da motivi interni (colpire l’Iran prima che aiuti la maggioranza sciita in Iraq), ma permette a Saddam di presentarsi come il gendarme che ferma l’espansione del fondamentalismo sciita per conto anche dello stesso Occidente. E la scelta si conferma anche dopo la Guerra del Golfo del 1991: le truppe alleate si fermano lungo la strada di Baghdad per diversi motivi, ma uno è l’incertezza sul chi mettere al posto di Saddam. Si spera in un colpo di Stato all’interno del partito Baat o dell’esercito, cioè del mondo laicista; non si vuole un fondamentalista, tanto meno filo-iraniano.

(c) Venendo al presente, la questione irachena presenta le stesse caratteristiche, che vengono da un passato lontano. L’Iraq rimane uno Stato che opera sistematicamente contro la sua società civile, al ritmo di decine di migliaia di morti all’anno. L’oppressione di una parte della minoranza sunnita sulla maggioranza sciita si è semmai aggravata con Saddam, che per primo ha osato quanto né l’Impero Ottomano né gli inglesi avevamo mai neppure pensato: ha fatto giustiziare un leader supremo degli sciiti nel 1980 e sventrare a cannonate il mausoleo dell’imam Husayn, il luogo più santo della città santa di Karbalà, nel 1991. Stati costruiti contro le società civili rappresentano una mina vagante e una bomba in attesa di detonatore, pronta a esplodere. Anche a prescindere totalmente dai problemi delle armi di distruzione di massa e dei rapporti con il terrorismo internazionale, chi vuole la pace “senza se e senza ma” dovrebbe spiegare come pensa di disinnescare la mina irachena . D’altro canto, anche i consulenti più ascoltati dagli Stati Uniti non sembrano offrire risposte chiare alla domanda su che cosa sia cambiato dal 1991 e chi possa candidarsi a sostituire Saddam Hussein. Certo, vi sono intellettuali iracheni che si presentano come “liberali” e “moderati”, ma tutto sommato è difficile immaginare un futuro dopo Saddam dell’Iraq che prescinda dalla maggioranza sciita, dai suoi “intellettuali organici” che sono gli ulema, e dalle forze politiche che – pur fra loro divise – agli ulema si richiamano, come il partito Da’wa (diviso in varie fazioni) e l’ASRII (Assemblea Suprema della Rivoluzione Islamica in Iraq) – tutte forze per cui il nodo da sciogliere è la relazione con l’Iran.



4. Vengo così a una conclusione, che riguarda sia la questione palestinese sia la questione irachena (e che forse potrebbe essere applicata alle altre cambiali non pagate che costituiscono l’eredità della fine dei colonialismi e minacciano la pace internazionale, come la questione del Kashmir e la questione cecena). Una grande scommessa è stata fatta e persa da generazioni di dirigenti occidentali: quella di sostenere i laicisti (magari non troppo democratici, come Saddam Hussein) delegando loro il compito di disinnescare, con le buone o con le cattive, la minaccia costituita dai fondamentalisti. La prevista secolarizzazione “all’europea” non si è prodotta: e non perché siano mancati gli sforzi. La ricerca del laicista filo-occidentale che eventualmente rovesci il laicista anti-occidentale e risolva tutti i problemi non sembra coronata da successo nei principali paesi a maggioranza musulmana.

Negli ultimi anni, si assiste a una crescente presa di coscienza di questo scacco da parte di politologi e di governi, non necessariamente di giornalisti. Se non si trovano i “laicisti”, non resta che auspicare la crescita nei paesi a maggioranza islamica di quella terza posizione che per il momento è scarsamente rappresentata: la posizione della laicità aperta alla religione, che mantenga un radicamento nell’identità islamica ma si distingua dal fondamentalismo, una “CDU islamica” secondo le parole dell’attuale primo ministro turco. Da dove può emergere una tale posizione? Dall’itinerario personale di laicisti che riscoprono la religione, risponde qualcuno: e i casi non mancano, dalla Tunisia all’Egitto, dove però questi intellettuali hanno avuto un successo politico solo raccordandosi al pre-esistente fondamentalismo. Dall’esperienza dell’islam in terra d’emigrazione in Europa, secondo quanto già avviene negli Stati Uniti, affermano altri: una speranza, in effetti, che richiede però lunghi tempi di maturazione e scelte adeguate da parte dei governi europei. Personalmente, per quanto questa possa sembrare una contradictio in adjecto, non escluderei che una posizione laica emerga paradossalmente proprio dallo stesso grande ambito dei movimenti fondamentalisti, sempre più diversificati fra loro . Per alcuni di loro, la legge islamica, la shari’a, deve essere applicata letteralmente a tutti i problemi che richiedono una soluzione giuridica; per altri, la shari’a è un semplice orizzonte o punto di riferimento ideale . Il cammino è lungo , e si deve certamente tenere conto delle differenze fra paesi di eredità turca, indiana, araba. Ma non mi sembra poco saggio il tentativo di aprire un dialogo – il che non significa accedere immediatamente a tutte le loro richieste e proposte – con forze politiche che emergono dal variegato mondo fondamentalista e che dichiarano di volersi avviare, pur rifiutando il laicismo, sulla strada di una certa laicità, come dicono di essere – per esempio – quelle che le elezioni del 2002 hanno portato al potere in Turchia, o per altri versi certi esponenti dell’ala detta “riformista” del mondo politico iraniano. Lo stesso Stato di Israele sembra mantenere discreti contatti con esponenti del mondo fondamentalista palestinese, ormai così ampio sia da renderne difficile la semplice eliminazione per via militare, sia da essere diviso in fazioni e correnti diverse anche sul piano dottrinale. La strada è irta di ostacoli: ma, fallita l’alternativa laicista, sembra fra le poche percorribili per un dialogo fra civiltà che non può ridursi a conciliabolo di intellettuali che rappresentano soltanto se stessi e che, se vuole ottenere frutti di pace, non può non estendersi a chi veramente rappresenta porzioni importanti delle società civili nei paesi a maggioranza islamica .
"

Shalom!!!

Pieffebi
21-04-03, 18:18
Sul numero 405 della rivista bimestrale “Il Mulino” (il primo numero del 2003) Paolo Branca affronta il tema della modernizzazione dell'Islam e della possibilità dell'avvento di un riformismo islamico nell'articolo : “L'Islam oltre il fondamentalismo “ .
Temi simili, precisamente sull'Islam “liberale”, sono stati trattati in passato dalla rivista liberale IDEAZIONE, e anche sull'ultimo numero della rivista RESET sono affrontati argomenti correlati nella sezione “ L'EuroIslam: prove di convivenza fra Islam e Democrazia ”, nella quale segnalo l'articolo di Maurice Borramans “ A confliggere sono le ignoranze” e l'intervista a Sohib Bencheikh “Primo, separare Islam e politica “ .
Il Branca , riferendo le riflessioni del filosofo egiziano Fouad Zakariya , dopo aver presentato le posizioni moderatamente riformiste, che nel paese della rivoluzione islamica sciita, sono rappresentate dal presidente Kathamy ) (il quale da parte sua sembra ben conscio della necessità di una visione storica d'insieme delle ragioni della politica nei paesi musulmani, al fine di individuare uno sbocco idoneo a soddisfare i bisogni di oggi dei popoli isalmici) , espone anche le posizioni del conservatorismo arabo di matrice religiosa .
L'Islam conservatore integralista critica la democrazia occidentale proprio perchè la stessa è percepita basarsi sulla mutevole opinione degli uomini, attraversati da passioni contingenti e da interessi particolari, e pertanto fallibili. La Legge divina è invece per natura Perfetta e dunque superiore alla capricciosa volontà umana. Tuttavia, all'interno dell'Islam, gli intellettuali riformisti iniziano a pensare che la grandezza della democrazia possa invece essere armonizzata con la Perfezione morale degli insegnamenti religiosi, permettendo comunque l'esperienza democratica per ciascun uomo “ di trarre lezione dai suoi errori, di prendere coscienza delle sue debolezze e, proprio da ciò, di misurare la sua capacità di superarle “.
Su una linea di questo tipo, si muove un intellettuale iraniano, Abdolkarim Soroush , definito da molti con l'appellativo del “Lutero dell'Islam” per la sua apertura au una “libera interpretazione delle fonti” della Fede musulmana.
Il presupposto del riformismo islamico “liberale” si basa proprio sulla presa di coscienza che se la religione rivelata dal Corano è Sacra e Divina e Immutabile, “ la comprensione che si ha di essa è umana e terrena “. Pertanto l'interpretazione della Fede, nel corso del tempo, ha subito l'influsso della storia degli uomini, e occorre con sempre maggiore attenzione, separare ciò che è originario e puro nella Rivelazione Divina da ciò che appartiene alla lettura umana nel contesto storico-politico-sociale determinato. Ciò permette di determinare “ ciò che è permanente e cio' che è transitorio “, ma solo dopo aver compreso le verità della religione.
Uno degli elementi più importanti del dibattito presente nell'Islam “riformista” e “liberale” è quello sull'applicazione della Shari-ia. Il sudanese Abdullhahi Ahmed an-Na-im sostiene che “ la sharia non è l'intero Islam, ma un'interpretazione delle sue fonti basilari che è stata data in un determinato contesto storico “.
Se Paolo Branca nota comunque le contraddizioni esistenti nel processo di modernizzazione dei paesi musulmani e nel rapporto fra Islam e modernità, Borrmans insiste sull'inesistenza di un unico modello islamico di società, ponendo l'accento sulle notevoli diversità fra i musulmani e fra i paesi i notevolmente diversi, fra loro, islamici. Nella Umma esistono di fatto culture e l anche idee di òaicità molto diverse, e sentire religiosi articolati.
Del resto anche in Occidente, rispetto proprio ai rapporti con gli immigrati musulmani e i loro diritti, sussistono sensibilità e “laicità” differenziate, che si esprimono anche e soprattutto sul piano giuridico.
L'esigenza di una riforma profonda dell'Islam è sostenuta con forza da Soheib Bencheikh , giovane teologo musulmano franco-arabo, muftì di Marsiglia. Costui è uno dei maggiori teorici al mondo dell'Islam “liberale” e sostiene senza mezzi termini che “ O l'Islam si riforma dall'interno, riforma il proprio pensiero, la propria teologia, il proprio diritto canonico, oppure la secolarizzazione prenderà il sopravvento. L'Islam [sunnita] che non ha clero si basa unicamente su di un testo che è il Corano. E chi dice testo dice necessariamente un insieme di interpretazioni. Il testo è sempre accompagnato da un'intelligenza creativa e interpretativa che lo legge e rilegge attraverso le preoccupazioni, le aspirazioni, i problemi, le aspettative del luogo e dell'epoca “.
L'intellettuale musulmano francese, ricordando come anche la Chiesa Cattolica, soltanto nel XIX secolo, fosse ostile al liberalismo e alla democrazia politica moderna, e che nonostante ciò il corso della storia ha fatto ugualmente il suo corso, costringendo la Chiesa a fare i conti del rapporto fra propria verità eterna e storia concreta degli uomini, afferma che un simile percorso sarà possibile, ed in un certo senso è obbligato, anche per i musulmani ( anche se, ovviamente, con le specificità proprie delle culture e delle mentalità che rappresenta).
Del resto nell'Islam liberale, altri intellettuali, come lo stesso già citato an-Na'im, affrontano nel concreto le relazioni fra Fede e Diritto e fra Religione e Politica con uno spirito fortemente impronato ad una spiritualità Islamica non ancorata al dogmatismo formale, ma alla Fede intesa in senso pieno e libero, in modo di porLa in rapporto con il mondo nel suo divenire.
La contestazione della Shar'ia è , a volte, diretta e aperta: “ E' ripugnante, a mio parere – dice an-Na'im – sottoporre donne e non musulmani alle umiliaizoni e agli affornti che comporta l'applicazione della sha'aria al giorno d'oggi. Ritengo infatti che le disposizioni di diritto pubblico insite in essa fossero del tutto giustificate e coerenti con il contesto storico in cui sono apparse, il che però non basta a renderle giustificabili e coerenti in quello odierno. Inoltre, date le caratteristiche concrete dei moderni Stati nazionali e dell'ordine internazionale, tali aspetti del diritto pubblico sciaraitico sono politicamente improponibili “.
Ciò non induce però, ovviamente an-Na'im, e gli islamici riformisti/riformatori a ripudiare il valore normativo delle fonti, che resta assolutamente indiscutibile per ogni buon musulmano. Si tratta però di superare “la lettera” contingente delle norme per coglierne lo “spirito” eterno ed universale, attraverso non ad un arbitrario soggettivismo, ma piuttosto con “un percorso interno alle medesime fonti”, laddove si trovano accanto a talune affermazioni anche altre di ben diverso tenore, che sono state accantonate dalla primitiva comunità dei fedeli giacchè la stessa non era ancora “sufficientemente matura per accoglierle”.
La riforma non è pertanto un rigetto delle norme della religione islamica, che resta una religione della Legge, ma una riscoperta. Riscoperta soprattutto dell'insieme dell'impianto normativo che implica il recupero di tutto ciò che nel tempo fu accantonato perchè non corrispoendente ai tempi, dalle varie interpretazioni che si sono succedute , per produrre infime una nuova interpretazione fedele allo spirito dell'Islam .... adatta per i nostri tempi.
“ I testi sacri e l'operato dei Profeti – afferma an-Na'im – hanno sempre tenuto conto anche delle circostanze, per cui nel Corano – così come nella Bibbia – la schivitù è almeno implicitamente ammessa...Nessuno, però, potrebbe oggi pretendere di reintrodurla su questa base. Analogamente sarebbe dunque possibile superare quelle forme discriminatorie nei confronti delle donne e dei non musulmani che ancora sussistono. “.
La contestualizzazione storica della norma, in piena fedeltà allo Spirito della Fede, si contrappone quindi al dogmatismo letteralistico di coloro che ipostatizzano in forma mitica le norme stesse, senza alcuno sforzo di coglierne il senso spirituale profondo, limitandosi ad applicarle in modo acritico e con una obbedienza formale assoluta che rischia di essere pero', un tradimento sostanziale del loro vero messaggio.

Interrogandosi sulle possibilità di successo di un Islam “liberale” Oscar Camilletti su IDEAZIONE, facendo riferimento ad una intervista a Seyyed Hossein Nasr (altro intellettuale musulmano riformista) nota come le basi materiali (struttura economico-sociale) del riformismo non manchino affatto, se è vero che trai nove paesi che negli ultimi anni hanno avuto uno sviluppo più intenso dal punto di vista economico (oltre il cinque per cento), ben tre sono musulmani: Egitto, Marocco e Qatar.
La televisione e internet si stanno inoltre diffondendo a grande ritmo in molti paesi musulmani e la pretesa dei governi, o dei religiosi, di controllare i cittadini è sempre meno attuabile sul piano concreto e tecnico, e comunque un numero sempre maggiore di arabi e musulmani è in grado di sfuggirvi e entra così a far parte del circuito globale delle informazioni e della cultura.
Se da un lato vi è una diffusione dell'estremismo e dell'integralismo, questa ultima inquietante tendenza non è univoca e non è estesa ovunque e in ogni strato delle popolazioni arabe e islamiche, anzi vi sono notevoli elementi di laicizzazione e secolarizzazione in buoni strati delle nazioni musulmane e fra i musulmani che sono immigrati in Europa.
Del resto una tendenza moderata e “liberale” dell'Islam esiste in qualche modo da sempre, e nota Camiletti che “ In questo senso, osservando la storia “sine ira ac studio” potremmo vedere come in realtà l’Islam non sia un sistema ideologico chiuso ma, al pari del pragmatismo anglosassone, sia estremamente duttile: può manifestarsi in monarchie come in repubbliche e, sebbene la sua storia sia segnata dal dispotismo, si stanno sviluppando di recente delle forme di partecipazione popolare alla gestione della società (Marocco, Iran e Turchia). Così, il pluralismo (la shura) fa parte a pieno titolo della sua dottrina: sia come pratica vissuta delle prime generazioni dell’Islam sia nel ricordo dei secoli in cui gli studiosi dibattevano di giurisprudenza in libertà e senza condizionamenti gerarchici. Non si può imputare alla religiosità islamica il mancato sviluppo economico e politico dei musulmani, che è invece causato da molti altri fattori. “.
Certamente non sono da sottovalutare le immense difficoltà, conosciute dagli stessi musulmani “riformisti”, per traghettare pienamente la cultura politica e giuridica islamica nell'epoca della globalizzazione modernista , senza snaturare la spiritualità religiosa e l'identità culturale di quella Fede e di quei popoli, ma rompendo senz'altro però le forme arretrate e obsolete, e che confliggono ormai in modo irrimediabile con i principi di un mondo democratico e libero. Mondo democatico e liberale che se nasce storicamente dalla radice giudaico-cristiana dell'Occidente europeo (in senso lato), si è largamente sviluppato in modo dialettico e a volte conflittuale con le proprie autorità religiose conservatrici, che hanno posto ostacoli a volte utili alla riflessione ma a volte francamente inaccettabili.
Personalmente resto piuttosto pessimista, però le possibilità e le potenzialità ci sono senz'altro, e ci sono anche terreni sperimentali, sia spontanei che determinati dagli ultimi avvenimenti politico-militari, che meritano che si dia loro quel tanto di fiducia necessario... per permettere a quei popoli di trovare la loro stada verso la modernità e le libertà.

Shalom!!!

Pieffebi
22-04-03, 20:44
da La Repubblica.it del 12 settembre 2001

" La tv di stato elogia gli attentati contro gli Usa
"Gli americani raccolgono i frutti dei loro crimini"

La gioia dell'Iraq
"E' l'operazione del secolo"




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BAGHDAD - L'Iraq è soddisfatto di quanto accaduto agli Stati Uniti. La tv di stato saluta l'attacco contro le Twin Towers e il Pentagono come "l'operazione del secolo", che gli Usa si meritano per i loro "crimini contro l'umanità".

Il regime di Saddam Hussein, in guerra con gli Usa dai tempi del conflitto del Golfo del '91, si schiera con i terroristi. " I cowboy americani - è il commento della televisione di Bagdad, riportato dalla rete inglese Bbc - stanno raccogliendo i frutti dei loro crimini contro l'umanità ".

"Le massicce esplosioni nel centro del potere Usa e in particolare al Pentagono - prosegue il commento - sono un doloroso schiaffo in faccia ai politici americani per fermare la loro illegittima egemonia". Secondo la televisione irachena " è il crollo della politica americana, che devia dai valori umani stando a fianco del sionismo mondiale che continua a massacrare la gente araba di Palestina ".

Gli Stati Uniti accusano l'Iraq di costituire una minaccia crescente nella regione mediorientale. Proprio domenica scorsa il segretario americano alla Difesa aveva segnalato che il regime di Saddam continuava nello sviluppo di armi di distruzione di massa senza che la comunità internazionale fosse in grado di impedirlo.

Baghdad continua invece ad accusare Washington e la Gran Bretagna di inventare questi pretesti per continuare a tenere in piedi l'embargo imposto dall'Onu dopo l'invasione del Kuwait undici anni fa.

(12 settembre 2001) "

Shalom!!!

Pieffebi
29-04-04, 15:16
Sopra l'articolo che dimostra quanto siano pinocchi coloro che affermano che il kompagno/kamerata Saddam..... non ha nulla a che vedere con l'aggressione all'Occidente e agli USA......
Sotto un interessante...riflessione..........di Giulio Andreotti su Gheddafi, Osama Bin Laden e ....certe profezie............

" Il leader libico disse per primo chi era Bin Laden


Vorrei un commento
alla nuova politica della Libia.
Michele Vicenzi
FEDELE al principio che occorre cercare la pace prima di tutto con i vicini, ho sempre lavorato per un buon rapporto con la Libia. Anche quando vi fu la reazione «militare» al bombardamento americano di Tripoli. Di più: esattamente venti anni fa portai al Presidente Reagan una copia del Libro Verde sottolineando il passo dove si dice che non è libero chi non possiede la casa (o la tenda) in cui abita e il mezzo con cui si muove. Il mio atteggiamento derivava dall’avere ascoltato dal Colonnello un giudizio severo sui fondamentalisti. Mi disse che in precedenza li aveva visti con simpatia, reputandoli giovani entusiasti e religiosamente motivati. Ma ora costituivano il vero pericolo per la pace. C’è di più. Ad un certo momento, per l’uccisione di due tedeschi in Cirenaica, dalla Libia partì un mandato internazionale di cattura contro Bin Laden. Nessuno dette seguito. E con il progetto di Unione Africana, modellato su quello europeo, Gheddafi sembrò prendere le distanze dal furore concentrato contro Israele. È vero. Se avessero risolto subito l’indennizzo per Loockerbie la svolta attuale si sarebbe avuta molto prima. Comunque Gheddafi, che va a Bruxelles e parla contro il terrorismo, dopo aver ricevuto a Tripoli il Premier Blair ed aver ripreso rapporti con gli americani, a me sembra molto importante e positivo.
Giulio Andreotti "


Shalom!!!

Pieffebi
29-04-04, 15:37
La guerra al terrorismo è una guerra "during", "permanente", "duratura".....che secondo il buon George durerà ALMENO un decennio. La distruzione del regime destabilizzante di Saddam era (ed è ...in senso di giustificazione storico-politica) necessaria come quella del regime destabilizzante di Milosevic nei Balcani (di cui la guerra del kossovo, è stato la tappa imprescindibile). E oggi molti dicono che NON CI SONO Prove del genocidio in atto da parte dei serbi nella regione serbo-albanese nel momento in cui D'Alema fece alzare gli aerei.....
Tutti e due gli interventi sono ineccepibili dal punto di vista degli interessi del mondo libero e della stabilità internazionale, anche se......entrambe le aree sono tutt'altro che pacificate. In Kossovo è in atto ....quello che sappiamo......nonostante i contingenti internazionali. Le Chiese Ortodosse vengono incendiate e profanate e i pochi serbi rimasti perseguitati e assassinati.

Shalom!!!

Pieffebi
29-04-04, 15:55
vedo che by-passa le questioni centrali per ripetere a martellar la lingua sul tamburo della pura propaganda.....
Saddam andava rimosso per un'infinità di ragioni, come Milosevic. Certo non è possibile farlo sempre e con tutti. E' stata una scelta necessaria, come quella del Kossovo (si attendono prove del genocidio "in atto"...sbandierato da D'Alema).
Buon proseguimento.

Shalom

Pieffebi
29-04-04, 16:05
Le premesse dell'attacco all'Iraq sono descritte altrove, puntualmente (si veda il 3d "L'Impero democratico") attendo ancora spiegazioni su quelle relative alla "guerra umanitaria" contro la Serbia promossa dall'Europa, che ci ha trascinato la Nato e gli USA di CLinton, con il comando non solo morale del contrammiraglio Massimo D'Alema....
Per il resto io non sono per niente abiutuato a by-passare, nel primo post di questo 3d ho riportato un articolo di Introvigne, che espone le tesi.....di un tizio....ove è testualmente detto:
" Anzi, sostiene Gunaratna, il principale sostegno militare e di intelligence al sunnita bin Laden viene oggi dall’Iran sciita, non dall’Iraq, perciò una politica statunitense che privilegiasse l’attacco all’Iraq sarebbe, secondo lo studioso, del tutto inadeguata. ". Come vede io riporto in modo problematico le questioni, ma non mi fermo all'apparenza e alla contigenza, ne' tanto meno alle esigenze propagandistiche di una sinistruzza zapatera del tutto irresponsabile. Ben più del più fanatico guerrafondaio reazionario imperialista d'oltreoceano (magari ebreo, se le fa piacere).

Shalom!!!