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Visualizza Versione Completa : Fino all'ultimo black out



Davide (POL)
03-07-03, 16:06
Spegnete il puntino rosso della televisione, suggerisce il ministro Marzano per affrontare la mancanza di elettricità. Fuori tempo massimo, il governo scopre che sarebbe il caso di combattere gli sprechi. Servirebbe qualcosa di più. Magari per spezzare il circolo vizioso: più fa caldo, più si consuma per rinfrescarsi, più si contribuisce ad aumentare la temperatura della Terra. Così le crisi sono destinate a diventare sempre peggiori. E l'ambiente sempre più un problema sociale. Anche se a sinistra sono ancora in pochi quelli che se ne sono accorti
CARLA RAVAIOLI

«Ridurre i consumi» dice il ministro Marzano al Tg1. Abbiamo capito bene? Il consumo non è più l'obiettivo prioritario della politica e la funzione centrale del nostro esistere? Non è più nostro preciso dovere di cittadini, perché, come ci spiega con insistita chiarezza uno spot dell'Unione pubblicitari, «ogni volta che acquisti qualcosa fai qualcosa di grande», ed è così che «l'economia gira con te»? Vedi mai che qualcuno ha spiegato a un membro del governo Berlusconi che iperproduttivismo e iperconsumismo sono la causa prima delle temperature fuori norma che fanno saltare le forniture elettriche? Tranquilli. Nulla del genere accade né accadrà. Ricordarsi di spegnere il puntino rosso della tv e magari abbassare un poco il condizionatore sono solo suggerimenti d'occasione, legati all'inatteso black out che giovedì scorso ha messo in crisi gli italiani. Il quale, come ampiamente tutti i giornali illustrano, è da imputarsi a imprevidenza, disorganizzazione, scarso rispetto per la cittadinanza ignara, da parte degli organi preposti alla distribuzione di elettricità. Ma soprattutto è conseguenza del nefasto referendum antinucleare che condannò il nostro paese alla dipendenza energetica, esponendolo al rischio di improvvisi tagli da parte dei paesi fornitori. Fatale errore cui occorrerà porre riparo quanto prima.
Effetto serra, livelli di temperatura e umidità mai raggiunti da quando se ne hanno regolari misurazioni, tropicalizzazione delle latitudini temperate con estremizzazione di tutti i fenomeni meteorologici e rottura dei ritmi stagionali, insomma quel mutamento climatico che tutti gli esperti danno come conseguenza dei gas prodotti dalle attività umane - industrie, traffico, riscaldamento e refrigerazione di interni, ecc. - e di cui sempre più pesantemente soffriamo: tutto ciò viene citato solo incidentalmente, e non sempre, deliberatamente bypassato da un dibattito che insiste su efficienza, mercato, competitività, adeguatezza tecnologica.
Esemplare in questo senso un fondo della triade Giorno-Resto del Carlino-Nazione, a firma Alberto Clò, che così recita: «La maggior parte dei commenti ha ricondotto il razionamento dell'elettricità all'eccesso di domanda: imputabile al grande caldo e al sempre maggior ricorso alla climatizzazione. Argomentazione ridicola e fuorviante: perché capovolge l'ordine logico delle cose e delle responsabilità. Queste infatti stanno interamente nell'insufficienza dell'offerta e non in una domanda che è anzi auspicabile aumenti: perché segno di crescita economica, di maggiore sviluppo, di più elevato benessere. Così accade in tutti i paesi avanzati del mondo. Così non può accadere oggi in Italia».
A questo modo, se in una prima fase al grande caldo si risponde con climatizzatori, ventilatori, maggiori consumi energetici, espedienti che proprio del grande caldo sono tra le cause principali, dunque fatalmente destinati ad accrescerlo, in una seconda fase all'insufficienza di disponibilità energetica si risponde progettando nuove centrali elettriche, e magari riscoprendo il nucleare, così da potere regolarmente alimentare le cause del grande caldo e sostenerne la moltiplicazione.
La cosa strana è che gli stessi organi di stampa, e talora perfino le tv, periodicamente, con l'inane sensazionalismo che caratterizza oggi l'informazione, lanciano terrificanti grida di allarme: «Antartide, la temperatura sale e una montagna finisce in mare», «L'inquinamento uccide tre volte di più degli incidenti stradali», «L'allarme Oms: lo smog sopra l'Europa farà otto milioni di morti», «Acqua, a secco un miliardo di persone», eccetera. Sto citando a caso dalle maggiori testate italiane. Titoli vistosissimi che però, in una sorta di programmata schizofrenia, non interferiscono in nulla con la linea politica del giornale, e con la politica economica dominante: così che la previsione di otto milioni di morti da smog convive, a poche pagine di distanza, con il lamento per il mercato dell'auto che non tira quanto si vorrebbe, l'accertato aggravarsi dell'inquinamento non impedisce il caloroso auspicio di una pronta ripresa dell'attività industriale, e così via.
Tutti, politici, economisti, opinion makers continuano infatti a comportarsi come se ambiente e economia nulla avessero a spartire, come se non fosse la stessa logica di un sistema economico fondato sull'accumulazione a confliggere con i limiti fisici del mondo. Il pianeta Terra è un quantità finita, e non è in grado di alimentare un'economia in espansione continua e illimitata, non è in grado cioè di fornirle quelle quantità di natura (minerale, vegetale, animale) che sono indispensabili a qualsiasi produzione. Un eccessivo consumo di natura porta al suo esaurimento, all'esaurimento cioè della base stessa su cui l'economia si regge: e alcune scarsità già pericolosamente premono, come il petrolio o l'acqua (necessaria alla produzione agricola e industriale, non meno che a ogni forma di vita ).
Analogamente, e per analoghe ragioni, il pianeta Terra non è in grado di assorbire e neutralizzare i rifiuti (liquidi, solidi, gassosi) che derivano da ogni processo produttivo, e non ha senso pensare che l'economia non ne risenta. Un segnale molto convincente in proposito mi pare il fatto che le assicurazioni sono sempre meno disposte a pagare i danni di alluvioni frane trombe d'aria, e tendono a cancellare le polizze tradizionali sostituendole con polizze "caraibiche". Motivazione recentemente raccolta da Repubblica: «Se un evento estremo si presenta ogni tre anni, non si può più parlare di rischio».
Sono considerazioni elementari, ovvietà, tra l'altro più volte ripetute, che da sole parrebbero dover imporre un ripensamento radicale del discorso economico, e impedirne la continuità su binari ormai incapaci di sopportarne la realtà attuale. Realtà d'altronde negli ultimi anni profondamente cambiata anche per molti altri versi. Vedi l'occupazione, non più rispondente a un rapporto biunivoco con la produzione, e soggetta a tutte le variabili imposte da un mercato del lavoro ormai globale. Vedi l'immigrazione, fenomeno in continua crescita, indispensabile quanto temuto, che quotidianamente impone ai paesi ricchi la rappresentazione simbolica e insieme intollerabilmente concreta, della più tremenda tragedia sociale, quella che si gioca tra il nord e il sud del mondo. Vedi il terrorismo che di quella tragedia è l'espressione estrema, e in qualche modo la metastasi, cui si devono da un lato quella perenne sensazione di insicurezza oggi più o meno avvertita in tutto l'Occidente, dall'altro una serie di impacci e lentezze che le stesse misure di sicurezza oppongono a quella libertà di circolazione di persone e merci che è l'abbiccì del liberismo. Vedi la crisi, che da anni - secondo modalità molto diverse dalle "classiche" crisi cicliche - si trascina, tra crolli a catena, recuperi mai risolutivi, continui speranzosi auspici di rilanci, né pare avviata a un esito positivo. Vedi la guerra ormai praticata dall'America come normale strumento politico.
Ma la cosa che più mi riesce difficile capire in tutto ciò è il comportamento delle sinistre, il fatto che i problemi ambientali, di cui pure riconoscono l'esistenza e forse avvertono la gravità, anche da parte loro continuino ad essere tenuti separati dall'economico. Così che la discussione su una realtà del lavoro che sempre più gravemente soffre delle durezze di un sistema di sfruttamento e rapina, spesso approda alla recriminazione di promesse di sviluppo non mantenute, e a rivendicazioni che oggi non trovano più spazio, muovendosi su una linea di continuità che di fatto non ha più fondamento, che elude le tante rotture segnate dalla nostra storia ultima.
Alle sinistre inoltre, a quelle che sono state e sono le ragioni stesse del loro esistere, credo si debba chiedere una lettura del problema ambiente per quello che sempre più si rivela essere: un problema sociale. I 170 morti della Montedison non hanno insegnato nulla? E le migliaia di senzacasa (dei poveracci quasi sempre) delle ormai innumerevoli alluvioni che hanno sconvolto negli ultimi anni l'Italia? Ma la cosa continua, anzi peggiora. Una quindicina di giorni fa, nel giro di una settimana, si sono avuti 1000 morti in India e 50 in Pakistan a causa di temperature di oltre 50 gradi, 256 uccisi da un ciclone in Sri Lanka, 73 affogati nello Jangxi, in Cina, a causa delle piogge torrenziali, 40 travolti da un tornado nel Kansas, Usa. Ne ho letto una breve notizia su L'internazionale, la grande stampa ha taciuto. Come d'altronde sovente accade: si possono sparare titoloni su vittime annunciate o presunte, ma di fronte a mucchi di morti statisticamente certi, di veri cadaveri, meglio lasciar perdere, e non rovinare alla gente il necessario buonumore da consumi.
Ma di che stupirsi. Il New York Times del 18 giugno informa che l'amministrazione americana ha tagliato d'autorità un rapporto sullo stato dell'ambiente, da essa stessa commissionato all'Epa (l'agenzia preposta alla salvaguardia ecologica), in tutte le parti riguardanti le responsabilità delle attività industriali nello squilibrio degli ecosistemi e in particolare nell'effetto serra. Notizie come queste non dovrebbero offrire alle sinistre seria materia di riflessione? E magari suggerire che lavoro, produzione, economia, sono cose da ripensare a fondo?
Dopotutto a sinistra non mancano quelli che già ne sono convinti. Mi viene in mente un bellissimo articolo di Guido Viale che qualche tempo fa, proprio su queste pagine, prendeva spunto dalla crisi Fiat per affermare che è l'intero sistema di mobilità mondiale a dover essere cambiato. Mi viene in mente anche un alto funzionario dell'Onu, Sadruddin Aga Kahn, che su Le Monde Diplomatique, in occasione del vertice di Johannesburg si domandava: «Sempre più lontano dai suoi scopi dichiarati, lo sviluppo sostenibile è forse diventato un alibi per mantenere una crescita devastatrice per l'ambiente?»
Giusto per limitarmi a un paio di citazioni "domestiche".