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Davide (POL)
04-08-03, 11:21
Nel 1930 il fisico Robert Millikan escluse il rischio che l'uomo potesse danneggiare un sistema così esteso come la Terra. Lo stesso anno il chimico Thomas Midgley scoprì alcune tra le sostanze più responsabili dell'inquinamento atmosferico
Due titoli dedicati alle rivoluzioni innaturali provocate dall'uomo nella natura: «Qualcosa di nuovo sotto il sole» di John R. Mc Neill per Einaudi; e «Alle origini dell'etica ambientale» di Luisella Battaglia per Dedalo

La tradizione idealistica ci ha abituati a pensare che alla ripetitività ciclica del mondo naturale, sottoposto ai determinismi delle leggi fisiche, si oppone il regno dello Spirito. E solo dallo Spirito, suggeriva Hegel, si dà storia. Ma il contrasto fra natura e cultura, fra necessità e libertà, sfuma sempre più di fronte all'intreccio complesso che l'umanità ha realizzato con la natura: «nihil sub sole novi», dice la formula biblica della saggezza di Salomone; tuttavia, fin dal titolo del suo libro, Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell'ambiente nel XX secolo (trad. di Piero Arlorio, Einaudi, pp. 487, E. 30.00) John R. Mc Neill ci ricorda che il XX secolo ha visto apparire, appunto, fenomeni senza precedenti. Nel secolo appena trascorso vi è stata una crescita impressionante della produttività, il Pil ha raggiunto il suo culmine nel periodo fra la fine della seconda guerra mondiale e il 1973 (anno della crisi petrolifera), cioè in quelli che Hobsbawm ha definito i trenta anni gloriosi. Centinaia di milioni di uomini si sono liberati dalla miseria dei loro avi, consumando però energia dieci volte superiore a quella dei loro progenitori nel millennio precedente. Keynes definì l'Ottocento come il secolo del risparmio; Mc Neill comincia il suo libro definendo il Novecento come il secolo prodigo, per gli altissimi costi ambientali e per gli sprechi di risorse non rinnovabili che per millenni erano state custodite dal nostro pianeta. L'uomo è comparso quattro milioni di anni or sono e la biosfera si è evoluta a lungo senza risentire l'influenza dell'uomo che, circa mezzo milione di anni or sono, ha addomesticato il fuoco e, diecimila anni fa, piante e animali. Solo nel XX secolo è giunto a trasformare gli ecosistemi, integrando nella propria storia anche le trasformazioni imposte all'ambiente; la coevoluzione ha così avviato un processo di selezione innaturale in cui le possibilità di sopravvivenza e riproduzione dipendono sempre più dalla compatibilità con gli interventi umani. Sembra tramontare la vecchia distinzione degli stoici fra ciò che dipende da noi e ciò che invece rimane estraneo ai nostri sforzi: cominciamo a dipendere da cose che dipendono dagli atti da noi stessi intrapresi, ha scritto Michel Serres. Ecco cosa c'è di nuovo sotto il sole: per la prima volta nella storia, l'uomo è diventato il principale agente di trasformazione dell'ambiente. Ma, rileva Mc Neill, del gioco a dadi con il pianeta che lo ospita, l'uomo non conosce tutte le regole. Quel che è avvenuto è stato una sorta di esperimento non controllato, in cui spesso per colpevole ignoranza si sono accelerati processi che comportano cambiamenti ecologici. L'intensità e la scala dei mutamenti hanno trasformato in questioni globali fenomeni che erano rimasti per millenni locali; l'inquinamento atmosferico risale all'uso del fuoco e i carotaggi nei ghiacci polari portano traccia della fusione del piombo che si produceva nel Mediterraneo in epoca romana; ma solo con l'uso dei combustibili fossili si è assistito a una trasformazione globale della biosfera.
Nel 1930, il fisico Robert Millikan escluse il rischio che il genere umano potesse danneggiare un sistema così esteso come la terra; nello stesso anno il chimico statunitense Thomas Midgley inventava il freon, il primo clorofuorocarburo, per i circuiti refrigeranti, uno dei responsabili, come è noto, dell'assottigliamento della fascia di ozono. Avendo scoperto che l'aggiunta di piombo alla benzina migliorava le prestazioni dei motori a scoppio, Midgley può ritenersi lo scienziato che più ha contribuito involontariamente all'inquinamento atmosferico.
Del resto, sembra una costante del nostro secolo lo scatenarsi di danni ambientali imprevisti per l'introduzione di una nuova tecnologia: esemplare il caso del Ddt usato per la prima volta con successo per arrestare un'epidemia di tifo a Napoli nel `43-44, senza sapere che poi l'insetticida sarebbe entrato nella catena alimentare. Interventi locali finiscono per avere ripercussioni globali, l'azione che si progetta efficace nella scala a breve termine del tempo economico ha ricadute sui tempi lunghi dell'umanità, apre incertezze sulla sorte dei discendenti. Dobbiamo oggi fare i conti con la complessità dei fenomeni naturali, con gli effetti non lineari e i gradienti di soglia: la temperatura dell'acqua dell'Atlantico può riscaldarsi senza che si producano conseguenze catastrofiche, ma superata la soglia dei 26 gradi si scatenano cicloni. Il tempo della storia umana sconvolge quello della Natura: accordi internazionali hanno portato a ridurre l'emissione di clorofluorocarburi, ma il nostro secolo ultravioletto ha sconvolto anche le condizioni dei secoli a venire.
Nella mole impressionante di dati raccolti da Mc Neill è più allarmante il bilancio relativo al mondo agricolo che non quello riferito al mondo industriale, le cui implicazioni inquinanti sono state più avvertibili. I fertilizzanti artificiali hanno accresciuto la produttività agricola, ma hanno reso i suoli più acidi e salini, hanno inquinato le acque. Nel corso del secolo le terre irrigue sono cresciute di cinque volte, ma attualmente la salinizzazione dei terreni agricoli procede più velocemente di quanto l'uomo riesca a renderli fertili. L'irrigazione si è rivelata una strategia di massimizzazione a breve termine, rispondente a logiche di ordine politico ed economico, che stridono con quelle dell'oikos, della casa comune.
I progetti di costruzione di enormi dighe hanno finito per mostrare il loro carico di controfinalità, di conseguenze inattese per le pesanti ripercussioni sul clima: così è stato in Punjab per il sistema di irrigazione voluto dal colonialismo britannico a fine Ottocento, o per la gestione sovietica delle acque (il lago d'Aral è ormai ridotto a stagni salmastri, il Mar Caspio ha subito un drastico impoverimento idrico). L'esempio forse più lampante è la costruzione della diga di Assuan: essa consentì di accrescere la produzione agricola e rese disponibile maggiore energia elettrica, ma la riduzione del limo obbligò a un uso maggiore di fertilizzanti chimici e il delta del Nilo si restrinse: «la costruzione del canale di Suez e della diga di Assuan rispondevano a calcoli legati a circostanze politiche passeggere; i cambiamenti biotici che hanno comportato sono destinati a durare alcuni milioni di anni».
La rivoluzione verde, dagli anni Quaranta, consentì, grazie alla meccanizzazione dell'agricoltura e alla selettocoltura, una maggiore disponibilità di cibo, ma finì per favorire paesi dotati di grandi campi pianeggianti, di clima adatto alle granaglie; essa dunque «ha contribuito a selezionare i vincitori del XX secolo; ossia le colture, gli organismi nocivi e le nazioni vincenti».
Ma la distribuzione internazionale delle ripercussioni sull'ambiente è in genere legata alla disparità di ricchezza, che si traduce in sperequazione delle condizioni di salute. L'Occidente ha saputo ridurre dal 1980 le emissioni inquinanti, anche in conseguenza dello shock petrolifero del 1973, e della crescente sensibilità alle questioni ecologiche (il 1972 è l'anno della denuncia del Club di Roma, pubblicata con il titolo I limiti dello sviluppo, e della prima conferenza internazionale sull'ambiente a Stoccolma). Poco si è fatto invece in Cina e nei paesi del blocco ex sovietico, il Terzo e Quarto Mondo stanno diventando enormi discariche per i residui indesiderati dell'Occidente. L'integrazione economica ha significato una repentina mercificazione della natura, per cui sono in diminuzione gli habitat e le aree che riescono a sottrarsi agli effetti delle economie di frontiera in cui le zone forestali si trasformano in pascoli o piantagioni. Nel mercato globale sono più facili gli scambi non solo di denaro, di merci e persone, ma anche i trasferimenti di microbi. Il XX secolo è il secolo delle bioinvasioni: la crescita dei trasporti via mare ha omogeneizzato le specie che abitano porti e coste, ha diminuito in modo drastico la biodiversità; ecco perché siamo forse di fronte al primo stadio della sesta estinzione, «l'attività economica di un mammifero mascalzoncello» ha garantito rosee prospettive di sopravvivenza a un gruppo ristretto di specie.
L'evoluzione culturale ha sostituito quella biologica come agente primario di mutamento; l'umanità ha intrapreso un cammino analogo a quello dei cianobatteri, gli organismi microscopici che, due miliardi di anni or sono, utilizzandone l'idrogeno dell'acqua fecero aumentare l'ossigeno nell'aria avvelenando così altri batteri. Come i cianobatteri l'uomo sta costruendo una sua biosfera, quasi senza averne maggiore consapevolezza.
I cambiamenti prodotti dall'intervento umano sono dipesi spesso da conseguenze non calcolate di modelli di azione e di cultura, modelli adatti alle condizioni climatiche temperate, all'abbondanza di energia e acqua, a una rapida crescita di popolazione ed economia. Ma l'energia a buon mercato è stata propria dell'era dei combustibili fossili, il carbone dai primi dell'Ottocento e poi il petrolio; l'acqua a buon mercato è stata un lusso per pochi fino all'altro ieri e crescita demografica ed economica datano anch'esse, sempre per pochi privilegiati, da pochi secoli. La nostra specie ha scelto involontariamente un suo percorso evolutivo, rileva Mc Neill; il successo di Homo sapiens è legato alla forza dell'adattabilità, cioè a una strategia analoga a quella dei ratti, che sono sopravvissuti a scossoni e catastrofi variando le forme di sussistenza. Altre specie come gli squali hanno evitato l'estinzione seguendo la strategia dell'estremo adattamento a condizioni ecologiche prefissate, scommettendo sulla loro perennità.
Nella situazione attuale, in cui siamo nelle condizioni di turbare l'ecologia globale, perseguire la strategia dello squalo, cioè stili di vita (sul modello degli Stati Uniti) adattati a situazioni che si stanno rivelando evanescenti - come l'abbondanza d'acqua o l'energia a buon mercato - rischia di pregiudicare la sorte futura non solo della nostra specie. Storia socio-economica dell'umanità e storia ecologica del pianeta acquistano senso solo se considerate unitamente. La prospettiva della ecostoria (come rileva Jacques Le Goff nella prefazione a Storia dell'ambiente europeo di Robert Delort e François Walter, Dedalo - ne ha parlato Grazia Pagnotta su Il Manifesto del 30 luglio) implica la messa in questione dell'idea che il progresso stesso della civiltà si esplichi nell'addomesticamento della natura, nel restringersi progressivo degli spazi ostili e selvaggi, insomma in ciò che Michelet definiva «la guerra dell'uomo contro la natura».
Il processo di antropizzazione della natura promosso dalla civiltà europea e la sua progressiva conquista del mondo non si devono solo alle capacità tecnico-scientifiche; forse in essa ha giocato anche una tendenza aggressiva propria all'Europa carnivora di cui parlava Braudel, in relazione all'alto consumo di proteine animali. L'ascia e il vomere sono gli strumenti per asservire la natura, secondo un'ambizione biblica e prometeica. Lo storico della tecnica Lynn White ha attribuito alla tradizione ebraico-cristiana la responsabilità maggiore di quella volontà imperialistica che affida al lavoro e alla progettualità umana il compito di dominare e assoggettare una natura ostile e priva di sacralità: l'arroganza del cristianesimo, la più antropocentrica delle religioni, avrebbe legittimato lo sfruttamento sistematico dell'ambiente (nel suo solco è nata la società dei consumi) e sarebbe da considerare una delle radici determinanti dell'attuale crisi ecologica. Ma forse le religioni hanno scarsamente influenzato il comportamento umano nei confronti dell'ambiente. Anche l'Oriente ha finito per accogliere una fede più seducente, quella della rincorsa alla crescita economica; i sacerdoti del (neo)liberismo hanno espulso la natura dall'economia, considerandola al massimo un deposito di risorse in attesa di essere sfruttate.
Ma «la creatura che la spunta contro il suo ambiente distrugge se stessa», scriveva Gregory Bateson; un'ecologia della mente impone non solo di connettere l'ambiente e la storia, di reintegrare la natura nell'economia, ma di ritrovare il senso etimologico dell'ecologia, scienza di quella casa comune, oikos, a cui partecipiamo insieme agli altri viventi. L'istanza a radicare l'uomo nell'ordine naturale si connette in tal senso al reinserimento degli enti non umani nella considerazione morale; soprattutto a partire dal secolo dei Lumi riemerge il principio del rispetto della natura e sorgono i primi movimenti di tutela dell'ambiente, di difesa dei diritti degli animali. Le implicazioni filosofiche di questi temi sono state discusse da Luisella Battaglia in Etica e diritti degli animali (Laterza, 1997) e nel recente Alle origini dell'etica ambientale, (edizioni Dedalo, pp. 208, E. 14.00). Ripercorrendo le tesi di Voltaire, di Thoreau, di Michelet e di Gandhi, l'autrice si impegna nel dimostrare come possa darsi compatibilità fra tradizione umanistica e preoccupazione ecologica. Un umanesimo naturalistico, disposto a riconoscere le radici terrene dell'uomo, a scorgerne la continuità con il mondo animale, tende ad accentuare la responsabilità nei confronti della natura, induce a prendersi cura di quanti abitano con noi la terra. Voltaire promuove l'ideale di una tolleranza che includa il mondo animale; Michelet chiede di estendere il senso della giustizia «ai piccoli della creazione»; l'etica del rispetto di Thoreau, superando la morale puritana della frontiera, ritrova nella Wilderness, nella natura selvaggia dei boschi, la fonte di una libertà che è andata perduta insieme alla civiltà sottomessa a valori strumentali; l'ideale gandhiano dell'ahimsa invoca la non violenza anche nei confronti del prossimo estraneo al genere umano, capace come noi di avvertire dolore.
La scelta - lo ha ricordato la scienziata indiana Vandana Shiva richiamandosi all'insegnamento di Gandhi - è fra la centralità del mercato, che attribuisce valore all'ambiente solo in termini di dominio e sfruttamento commerciale, e una filosofia che, superando il parrocchialismo antropocentrico, si ispiri a una immagina relazionale della vita. «Vi siete mai chiesti che cos'avranno pensato le capre di Bikini? e i gatti nelle case bombardate? e i cani in zona in guerra? e i pesci allo scoppio dei siluri? ... Sì, noi dobbiamo una spiegazione agli animali, se non una riparazione»: così scriveva nel 1946 un erede della tradizione illuministica, Italo Calvino: considerare la vicenda umana in continuità con la storia dell'organizzazione della materia e con il mondo animale significava per lui impegnare l'uomo a una moralità meno arbitraria, a una responsabilità maggiore, nella speranza di impedire «altre storture».

Mario Porro