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Visualizza Versione Completa : Kyoto: il fumo delle promesse



Davide (POL)
30-08-03, 13:26
Il protocollo sulla riduzione dei gas serra prevede una verifica tra meno di due anni. Il governo italiano non pare preoccupato di rispettarlo e si accoda alla linea Bush. Nessun impegno urgente, meglio rinviare tutto a dopo il 2020. Sperando che per quella data gli interventi sulle imprese diventeranno più economici. Tutto per non mettere in discussione il modello di sviluppo


L'aumento dell'effetto serra, dovuto soprattutto alle emissioni di CO2, sta già, come tutti possiamo verificare, degradando gli equilibri climatici. Lo strumento per contrastare tali alterazioni climatiche è il Protocollo di Kyoto, la cui applicazione corrisponde ad una riduzione del 5,2% delle emissioni dei paesi industrializzati rispetto al 1990, da realizzare entro il 2008-2012. Il Protocollo già prevede che nel 2005 vi sia una prima verifica che, presumibilmente, porterà ad un impegno più consistente di riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra. L'abbandono del Protocollo da parte dell'amministrazione Bush ha di fatto aperto il dibattito su tre questioni cruciali: è effettivamente necessario e urgente attuare il Protocollo di Kyoto? Con misure sostanzialmente realizzate nei Paesi industrializzati o affidate al mercato e realizzate fuori? Preparandosi ad un secondo gradino di riduzioni, ben più impegnative, da rendere operative entro il 2020, oppure rinviando sia nuovi impegni sia la data di riferimento (magari al 2050)? Anche in vista della IX Conferenza delle parti che si terrà a Milano all'inizio del prossimo dicembre, aspettiamo, su questi temi, una posizione ufficiale del governo italiano che non pare preoccupato del rispetto del Protocollo di Kyoto, che con l'attuale quadro di emissioni e di misure non sarà rispettato, che non perde occasione per lodare i meccanismi flessibili e di mercato e che nulla ha ancora detto sui futuri impegni.
In questo quadro pare di particolare interesse un articolo scritto qualche tempo fa da due direttori generali, Clini e Ortiz, dei ministeri dell'ambiente e delle attività produttive (Sole 24 Ore, 19 luglio 2003) verosimilmente autorizzati dai rispettivi ministri. Vi si afferma: «Sarà necessario, tra il 2020 ed il 2050, avviare una riduzione delle emissioni pari ad almeno il 50-60% rispetto ai livelli del 1990», ma si tralascia il periodo 2010-2020 e si propone la stabilizzazione a 550-650 ppm, ignorando quello a 450 e richiamando ad un pieno ricorso ai meccanismi flessibili, senza i tetti sempre difesi dall'Unione europea.
Il terzo rapporto Ipcc (il panel intergovernativo dei tecnici incaricati dalla Convenzione delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici), del settembre 2001, scrive: «Tanto maggiori saranno le riduzioni delle emissioni e tanto prima saranno introdotte, tanto minore e tanto più lento sarà il riscaldamento previsto e l'aumento nel livello dei mari». Se si punta a stabilizzare le emissioni ai valori di 450, 650 e 1000 ppm, si richiede, precisa il terzo rapporto, che «le emissioni di CO2 cadano al di sotto il livello del 1990, rispettivamente entro poche decadi, entro circa un secolo, oppure entro due secoli». Nel caso di 450 ppm, le emissioni devono raggiungere un massimo entro 1 o 2 decadi (non più tardi del 2020). Ovviamente le conseguenze ambientali dei tre scenari sono ben differenti: controllabili nel primo, già gravi nel secondo, molto gravi e probabilmente catastrofiche nel terzo.
Tralasciare la stabilizzazione a 450 ppm, optando per quella a 550-650 ppm, non assumere impegni precisi dal 2010 al 2020, sorvolando sul traguardo del 2020 sarebbero scelte assai gravi. Nella sostanza tale posizione, affine a quella dell'amministrazione Bush, ritiene che un forte intervento da effettuare oggi, su scala mondiale, costerebbe troppo, mentre il suo rinvio, oltre il 2020, permetterebbe di sviluppare e impiegare nuove tecnologie, per interventi meno costosi. Il rinvio consentirebbe inoltre di non dover rimettere in discussione, in particolare nei paesi industrializzati, modelli di consumo e di produzione ad alto impiego di combustibili fossili. Così facendo non solo si accantona il principio di precauzione, ma si gioca col fuoco, con un cambiamento climatico già in corso, che può avere effetti non lineari, gravi e imprevedibili.
La riduzione, consistente, delle emissioni deve invece iniziare da subito, in modo che si raggiunga un massimo entro il 2020; ciò significa tenere al livello più basso possibile gli aumenti medi di temperatura (0,75-1,25°C) e del livello dei mari.
In questo modo è possibile contenere entro un livello accettabile il valore del «debito ambientale» costituito dalla quantità complessiva (valore integrato) che verrà accumulata in atmosfera, da oggi al momento della stabilizzazione, come specificato dalla Ipcc, già nel suo secondo rapporto. Se la stabilizzazione avverrà a 450 ppm, il debito, infatti, sarebbe di 650 miliardi di t di carbonio; a 550 sarebbe di 1000 t e a 650 di 1200. La differenza tra la stabilizzazione a 450 ppm e quella a 550, può sembrare piccola, ma comporterebbe, oltre a maggiori rischi ambientali, il raddoppio del debito ambientale accumulato, da trasferire alle generazioni future.
Il problema principale non è di tecnologie. Le tecnologie per abbattere le emissioni di gas di serra sono note ed in buona parte disponibili. Quello che manca è la volontà di applicarle in larga scala, in modi e tempi corrispondenti alle esigenze pubbliche. Un'azione efficace, nei tempi necessari, a salvaguardia del clima deve prevedere necessariamente la modifica delle pratiche di produzione e consumo, quindi anche la modifica e conversione degli interessi di impresa coinvolti: da quelle che operano nell'ambito del ciclo dei fossili a quelle impegnate nelle produzioni più efficienti, nei servizi per i relativi impieghi e nello sviluppo dell'efficienza energetica e nell'utilizzo delle fonti rinnovabili.
Il cambiamento dei modelli di produzione e consumo, confermato anche a Johannesburg, in questo caso lo si vede bene, non è una chimera, ma un processo concreto, da affrontare prima di tutto nei paesi industrializzati, sia a livello culturale, sia a livello industriale e di interessi di impresa.
Nel citato articolo si afferma che la Ue potrà raggiungere gli obiettivi del Protocollo di Kyoto, con misure interne, «solo attraverso l'applicazione di consistenti aliquote fiscali sui combustibili fossili, limitazioni drastiche delle ore di esercizio delle centrali termo-elettriche, ricorso forzato a fonti rinnovabili e non convenzionali».
Come si vede, il quadro del cambiamento interno viene dipinto a tinte molto fosche, basate sulla necessità delle «forzature», con toni tipici della cultura dell'offerta energetica.
C'è invece un altro quadro di riferimento praticabile che punta con priorità sull'efficienza energetica, in particolare nei consumi elettrici, con risparmi e vantaggi per tutti, su un forte sviluppo delle energie rinnovabili ed anche su un maggiore utilizzo del metano nella transizione e sulla promozione di una mobilità più sostenibile per le persone e le merci. Su questa strada si stanno già muovendo importanti paesi industriali: la Germania considera fattibile una riduzione delle emissioni di gas di serra del 40% rispetto al 1990 e propone all'intera Europa una riduzione media del 30%, entro il 2020.
L'Italia, in accordo con una tradizione avviata con la partecipazione attiva, nell'ambito dell'Unione europea, alla Conferenza delle parti di Kyoto del 1997, non deve stare alla coda: l'abbattimento delle proprie emissioni di gas di serra rappresenta anche una grande occasione di modernizzazione ecologica in settori strategici come quello della produzione e dell'uso di energia elettrica e dei trasporti. E' vero che nel centro-est europeo, in Russia, nei paesi in via di sviluppo, la tonnellata di CO2 evitata costerebbe meno che in Europa o negli Stati uniti, ma questo è solo uno dei punti da considerare: le emissioni dei paesi industrializzati sono pesanti, per tutelare il clima vanno comunque ridotte.
«Medice, cura te ipsum» dicevano i romani: né un americano con modello di sviluppo da 8 t/anno di emissioni di carbonio, e nemmeno un europeo con un modello di sviluppo da 4 t/anno, possono andare nel mondo, con un portafoglio aperto, a fare una lezione di sviluppo sostenibile, a paesi che non arrivano ad una tonnellata, per comprare le loro riduzioni di emissioni.


PAOLO DEGLI ESPINOSA - EDO RONCHI
Sinistra ecologista