zulux
06-10-09, 00:53
Chi erano i liberalsocialisti
Scritto da Danilo Di Matteo
martedì 23 giugno 2009
Ogni libro ci parla di un mondo. Ma il mondo dei liberalsocialisti è anche il mio; per cui un'emozione insolita mi ha accompagnato nella lettura del saggio Liberalsocialisti. Il futuro di una tradizione (Marsilio), curato da Nadia Urbinati e Monique Canto-Sperber e scritto anche da Steven Lukes, Otto Kallscheuer e Mitchell Cohen, che hanno analizzato il contributo dei liberalsocialisti nelle varie realtà nazionali. Socialismo libertario, liberalismo sociale, social-liberalismo, liberalsocialismo, socialismo liberale, socialismo etico, socialismo umanitario, socialismo delle libertà sono nomi diversi che indicano un medesimo sforzo: coniugare libertà e giustizia, promuovere l'eguaglianza nel rispetto delle differenze, permettere a ciascuno di realizzare il proprio progetto di vita. Cambia il punto di partenza: se Carlo Rosselli, ad esempio, è un socialista che fa propri i metodi e le istanze del liberalismo, Guido Calogero è un liberale che non vede contraddizione fra lotta per la giustizia e lotta per la libertà. Leggendo il libro, comunque, ho trovato conferma a un mio vecchio convincimento: non esiste il liberalsocialismo; esistono i liberalsocialisti, con i loro sforzi, le loro proposte, i loro limiti: dall'anarchico Francesco Saverio Merlino al liberale John Stuart Mill fino al socialdemocratico Eduard Bernstein.
Di certo il saggio mostra con eloquenza quanto falsa sia la distinzione, appresa a scuola, fra socialismo "scientifico" (quello di Marx ed Engels) e socialismo "utopistico". Anzi: spesso i liberalsocialisti considerano utopiche proprio le idee e le previsioni di Marx: si pensi a quella sulla scomparsa dei ceti medi, quando invece essi hanno conosciuto nel secolo scorso uno sviluppo formidabile e hanno avuto un ruolo decisivo nella vita degli stessi partiti socialisti. Il marxismo, in realtà, è solo uno dei filoni del socialismo: uno dei principali, certo. Ma il socialismo non nasce con Marx né muore col marxismo, anche se con esso deve inevitabilmente fare i conti. Già nel 26, del resto, il liberalsocialista francese Henri de Man scrisse Au-delà du marxisme. E poi, per dirla con Durkheim, il socialismo «non è una scienza, una sociologia in miniatura, è un grido di dolore e, a volte, di collera, lanciato da uomini che percepiscono con maggiore forza il nostro malessere collettivo».
Un'idea forza dei liberalsocialisti è da sempre quella federalista: dare spazio alle comunità locali, decentrare, federare, dar vita agli Stati Uniti d'Europa, promuovere un arbitrato internazionale per risolvere i conflitti. In ciò c'è anche l'eco di Kant, considerato da Hermann Cohen addirittura «il vero iniziatore del socialismo tedesco». E il "socialismo neokantiano" è un altro mio amore giovanile: sì, perché considero la seconda formula dell' imperativo categorico («agisci in modo da trattare l'umanità, nella tua come nell'altrui persona, sempre come fine e mai come mezzo») alla base dell'idea moderna di democrazia. Per dirla con Cohen, «l'essere fine a se stesso produce e determina il concetto di persona, il concetto fondante dell'etica. Meromezzo è la cosa che in quanto cosa è una merce del commercio economico. L'operaio non può quindi mai essere calcolato in quanto pura merce, nemmeno per i più alti fini della cosiddetta ricchezza nazionale; deve essere sempre considerato e trattato allo stesso tempo come fine».
Un filo rosso, del resto, lega la Riforma protestante, le rivoluzioni inglesi, la rivoluzione americana, quella francese e il socialismo liberale: si tratta del principio dell'autodeterminazione dell'individuo, della conquista della libertà e della sua traduzione in concreta capacità d'azione. Friedrich Naumann, pastore protestante social-liberale, colse l'esigenza, in particolare, di realizzare una sintesi dialettica fra il liberalismo democratico di Rousseau, in base al quale «tutti devono governare lo Stato», e quello degli americani, in base al quale «tutti hanno lo stesso diritto di essere lasciati in pace dallo Stato».
Quanto hanno inciso i liberalsocialisti nella storia dei loro paesi e del movimento operaio? In Inghilterra le loro idee hanno influenzato grandemente la sinistra e, a mio parere, sono alla base dell'esperienza del New Labour. Non così la pensano gli autori del libro, assai critici verso il nuovo corso britannico. Il loro atteggiamento è espressione, credo, di un liberalsocialismo "d'accademia", non sempre capace di cogliere le dinamiche profonde della società, esposto al rischio del conservatorismo. Eppure il liberalsocialismo, pur animato spesso da intellettuali e accademici, non nasce come un socialismo "d'accademia": è anzi spesso espressione delle forze più vitali della società.
In Italia, caso unico al mondo, una forza politica, il Partito d'Azione, scelse il liberalsocialismo come ideologia "ufficiale"; e, come ha scritto Massimo Salvadori, il suo deludente risultato elettorale, nonostante tutte le spiegazioni che si possono addurre, resta un enigma storico. In Germania, dietro la formula adottata dalla Spd nel ’59 a Bad Godesberg, "mercato quanto possibile, pianificazione quanto necessario", è evidente l'eco del pensiero social-liberale. Quanto alla Francia, condivido l'attenzione che il saggio riserva alle elaborazioni di Michel Rocard, esponente socialista (assai diverso da Mitterrand) che ho sempre ammirato. Egli al Congresso di Nantes del ’77 proponeva una cultura di sinistra «liberatrice, che si tratti di maggioranze dipendenti come le donne, o di minoranze male accolte nel corpo sociale: giovani, immigrati, handicappati. Questa cultura diffida dei regolamenti e dell'amministrazione, preferisce l'autonomia delle collettività di base e la sperimentazione». Trovo superficiale e sbrigativo, invece, il modo con cui nel libro viene liquidato il Congresso di Epinay del ’71, grazie al quale nacque l'attuale Psf: l'incontro di forze diverse - socialisti, repubblicani, cristiano-sociali, radicali - fu tutt'altro che un passaggio strumentale; diede anzi voce a istanze e fermenti vivi della società civile.
Il testo, infine, mostra come il tentativo «di attribuire una connotazione sociale ai valori liberali» e «una sfumatura liberale a quelli socialisti» abbia «incoraggiato la nascita di varie controcorrenti intellettuali negli Stati Uniti». E, grazie al contributo dei liberalsocialisti, «nel confuso panorama politico americano se non altro la superficialità è diventata una merce un po' più rara».
Movimento Radicalsocialista - Chi erano i liberalsocialisti (http://www.radicalsocialismo.it/index.php?option=com_content&task=view&id=809&Itemid=73)
Scritto da Danilo Di Matteo
martedì 23 giugno 2009
Ogni libro ci parla di un mondo. Ma il mondo dei liberalsocialisti è anche il mio; per cui un'emozione insolita mi ha accompagnato nella lettura del saggio Liberalsocialisti. Il futuro di una tradizione (Marsilio), curato da Nadia Urbinati e Monique Canto-Sperber e scritto anche da Steven Lukes, Otto Kallscheuer e Mitchell Cohen, che hanno analizzato il contributo dei liberalsocialisti nelle varie realtà nazionali. Socialismo libertario, liberalismo sociale, social-liberalismo, liberalsocialismo, socialismo liberale, socialismo etico, socialismo umanitario, socialismo delle libertà sono nomi diversi che indicano un medesimo sforzo: coniugare libertà e giustizia, promuovere l'eguaglianza nel rispetto delle differenze, permettere a ciascuno di realizzare il proprio progetto di vita. Cambia il punto di partenza: se Carlo Rosselli, ad esempio, è un socialista che fa propri i metodi e le istanze del liberalismo, Guido Calogero è un liberale che non vede contraddizione fra lotta per la giustizia e lotta per la libertà. Leggendo il libro, comunque, ho trovato conferma a un mio vecchio convincimento: non esiste il liberalsocialismo; esistono i liberalsocialisti, con i loro sforzi, le loro proposte, i loro limiti: dall'anarchico Francesco Saverio Merlino al liberale John Stuart Mill fino al socialdemocratico Eduard Bernstein.
Di certo il saggio mostra con eloquenza quanto falsa sia la distinzione, appresa a scuola, fra socialismo "scientifico" (quello di Marx ed Engels) e socialismo "utopistico". Anzi: spesso i liberalsocialisti considerano utopiche proprio le idee e le previsioni di Marx: si pensi a quella sulla scomparsa dei ceti medi, quando invece essi hanno conosciuto nel secolo scorso uno sviluppo formidabile e hanno avuto un ruolo decisivo nella vita degli stessi partiti socialisti. Il marxismo, in realtà, è solo uno dei filoni del socialismo: uno dei principali, certo. Ma il socialismo non nasce con Marx né muore col marxismo, anche se con esso deve inevitabilmente fare i conti. Già nel 26, del resto, il liberalsocialista francese Henri de Man scrisse Au-delà du marxisme. E poi, per dirla con Durkheim, il socialismo «non è una scienza, una sociologia in miniatura, è un grido di dolore e, a volte, di collera, lanciato da uomini che percepiscono con maggiore forza il nostro malessere collettivo».
Un'idea forza dei liberalsocialisti è da sempre quella federalista: dare spazio alle comunità locali, decentrare, federare, dar vita agli Stati Uniti d'Europa, promuovere un arbitrato internazionale per risolvere i conflitti. In ciò c'è anche l'eco di Kant, considerato da Hermann Cohen addirittura «il vero iniziatore del socialismo tedesco». E il "socialismo neokantiano" è un altro mio amore giovanile: sì, perché considero la seconda formula dell' imperativo categorico («agisci in modo da trattare l'umanità, nella tua come nell'altrui persona, sempre come fine e mai come mezzo») alla base dell'idea moderna di democrazia. Per dirla con Cohen, «l'essere fine a se stesso produce e determina il concetto di persona, il concetto fondante dell'etica. Meromezzo è la cosa che in quanto cosa è una merce del commercio economico. L'operaio non può quindi mai essere calcolato in quanto pura merce, nemmeno per i più alti fini della cosiddetta ricchezza nazionale; deve essere sempre considerato e trattato allo stesso tempo come fine».
Un filo rosso, del resto, lega la Riforma protestante, le rivoluzioni inglesi, la rivoluzione americana, quella francese e il socialismo liberale: si tratta del principio dell'autodeterminazione dell'individuo, della conquista della libertà e della sua traduzione in concreta capacità d'azione. Friedrich Naumann, pastore protestante social-liberale, colse l'esigenza, in particolare, di realizzare una sintesi dialettica fra il liberalismo democratico di Rousseau, in base al quale «tutti devono governare lo Stato», e quello degli americani, in base al quale «tutti hanno lo stesso diritto di essere lasciati in pace dallo Stato».
Quanto hanno inciso i liberalsocialisti nella storia dei loro paesi e del movimento operaio? In Inghilterra le loro idee hanno influenzato grandemente la sinistra e, a mio parere, sono alla base dell'esperienza del New Labour. Non così la pensano gli autori del libro, assai critici verso il nuovo corso britannico. Il loro atteggiamento è espressione, credo, di un liberalsocialismo "d'accademia", non sempre capace di cogliere le dinamiche profonde della società, esposto al rischio del conservatorismo. Eppure il liberalsocialismo, pur animato spesso da intellettuali e accademici, non nasce come un socialismo "d'accademia": è anzi spesso espressione delle forze più vitali della società.
In Italia, caso unico al mondo, una forza politica, il Partito d'Azione, scelse il liberalsocialismo come ideologia "ufficiale"; e, come ha scritto Massimo Salvadori, il suo deludente risultato elettorale, nonostante tutte le spiegazioni che si possono addurre, resta un enigma storico. In Germania, dietro la formula adottata dalla Spd nel ’59 a Bad Godesberg, "mercato quanto possibile, pianificazione quanto necessario", è evidente l'eco del pensiero social-liberale. Quanto alla Francia, condivido l'attenzione che il saggio riserva alle elaborazioni di Michel Rocard, esponente socialista (assai diverso da Mitterrand) che ho sempre ammirato. Egli al Congresso di Nantes del ’77 proponeva una cultura di sinistra «liberatrice, che si tratti di maggioranze dipendenti come le donne, o di minoranze male accolte nel corpo sociale: giovani, immigrati, handicappati. Questa cultura diffida dei regolamenti e dell'amministrazione, preferisce l'autonomia delle collettività di base e la sperimentazione». Trovo superficiale e sbrigativo, invece, il modo con cui nel libro viene liquidato il Congresso di Epinay del ’71, grazie al quale nacque l'attuale Psf: l'incontro di forze diverse - socialisti, repubblicani, cristiano-sociali, radicali - fu tutt'altro che un passaggio strumentale; diede anzi voce a istanze e fermenti vivi della società civile.
Il testo, infine, mostra come il tentativo «di attribuire una connotazione sociale ai valori liberali» e «una sfumatura liberale a quelli socialisti» abbia «incoraggiato la nascita di varie controcorrenti intellettuali negli Stati Uniti». E, grazie al contributo dei liberalsocialisti, «nel confuso panorama politico americano se non altro la superficialità è diventata una merce un po' più rara».
Movimento Radicalsocialista - Chi erano i liberalsocialisti (http://www.radicalsocialismo.it/index.php?option=com_content&task=view&id=809&Itemid=73)