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Visualizza Versione Completa : 21 settembre - Servo di Dio Rosario Livatino



Colombo da Priverno
22-09-03, 09:04
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Martire della giustizia

Rosario Livatino: un giovane, un giudice, un cristiano. Non un santo a tutti i costi, non un superuomo, ma un uomo come mille altri. Innamorato della vita, della giustizia, della verità. Eroe per caso nella terra dei limoni e dei carretti, della lupara e del tritolo mafioso.


Uno dei cosiddetti "giudici ragazzini" chiamati a fronteggiare "Cosa nostra". L’Italia lo conobbe dalle pagine dei giornali soltanto all’indomani della sua morte, avvenuta il 21 settembre 1990, mentre percorreva la statale 640 per recarsi ai lavoro presso il Tribunale di Agrigento. Dopo il barbaro assassinio, la sua figura ha cominciato a distinguersi nell’immaginario di chi vive nell’Italia di oggi ma ne sogna una diversa.

Un servitore dello Stato. "Un martire della giustizia e, indirettamente, anche della fede..."", come ha detto di lui Giovanni Paolo II ad Agrigento il 9 maggio del 1993.

Un giovane, un giudice, un cristiano

Da Canicattì tutte le mattine raggiungeva la sede del Tribunale, ad Agrigento, una manciata di chilometri percorsi in automobile. Prima di entrare in ufficio, la visita puntuale alla chiesa di S. Giuseppe, vicino al Palazzo di Giustizia, dove si fermava a pregare.

Lo ricorda bene mons. Giuseppe Di Marco, vicario diocesano, allora parroco, che molte volte si era domandato chi fosse quel giovane così raccolto, concentrato nelle sue preghiere.

"Non sapevo chi fosse, avevo solo capito che era un magistrato… Rimaneva per un po’ e poi se ne andava in silenzio. Solo dopo la tragedia, quando ho visto la sua foto sul giornale, ho capito chi era".

I casi più difficili del suo lavoro di giudice, Rosario li risolveva lì, ai piedi dell’altare, la mattina prima di entrare in Tribunale. Lì Saro invocava l’assistenza dello Spirito Santo per poter giudicare con retto giudizio, per scegliere ciò che era meglio da farsi "e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare…", aveva scritto.

Alla Procura di Agrigento il lavoro era sempre tanto e lui non si tirava mai indietro. Restava in ufficio anche quando non c’era più nessuno. Scrupoloso, il giorno di ferragosto non esitò una volta a presentarsi in Procura solo per poter firmare un ordine di scarcerazione, così da non lasciare neppure un’ora di più in prigione un imputato.

Lavorava infaticabilmente, senza alcuna smania di protagonismo, senza ostentazione. Rifuggiva, anzi, con ogni mezzo la notorietà. Una volta, in occasione di un’udienza piuttosto movimentata, con molti cronisti e fotografi, si nascose dietro un carabiniere per non essere immortalato ("Sono in tribunale per lavorare…", si schermì).

Il cugino Alessandro Livatino: "Rosario era schivo non solo di onori, ma anche di feste, di riunioni rumorose e frastornanti. La sua era una missione e un missionario deve avere una sola meta, tendere ad un solo traguardo. Lavoratore metodico ed instancabile, partiva ogni mattina dalla modesta casa paterna con una normale utilitaria (e poteva permettersi, per rango sociale e per la funzione che esercitava, molto di più!), lavorava con fervore, attenzione e lucidità sui fascicoli giudiziari: carte che spesso portava a casa, per ristudiarle sino a tarda sera, anche di notte."


Il suo profondo senso del dovere messo al servizio della giustizia ne fa una specie di missionario: il "missionario" del diritto.

La preghiera mattutina, la visita a Gesù nella chiesa accanto al Palazzo di Giustizia, il lavoro indefesso al Tribunale di Agrigento fino a sera inoltrata, la visita a qualche bisognoso. Rosario era così.

Un viso dai lineamenti dolci, il sorriso appena accennato, i capelli neri pettinati con la riga di lato. Gli occhi scuri e fondi; lo sguardo fermo, penetrante. Un fisico minuto, da adolescente. Semplice e austero. Sobrio persino nel vestire: giacca e cravatta anche in piena estate, che non è facile da sopportare col caldo isolano.

"Impegnato nell’Azione Cattolica, assiduo all’eucaristia domenicale, discepolo del crocifisso", sintetizzò nell’omelia delle esequie mons. Ferraro, fotografandolo con pochi rapidi tratti. Uomo di legge, uomo di Cristo."

Rosario conosce sant’Agostino, il De vera religione: come per il vescovo africano, anche per lui non c’è contraddizione alcuna tra fede e ragione (e Dio sa quanto la ragione, il raziocinare logico, sia preponderante nella mentalità tipicamente "cartesiana" dei siciliani), perché entrambe vanno alla ricerca di Dio.

Rosario ha una_profonda conoscenza delle Sacre Scritture, dei Documenti conciliari, della Patristica. Il suo è un cristianesimo che si nutre di studio, di letture meditate, di riflessione. È un uomo di preghiera, e la preghiera è il cuore delle sye giornate, è la guida che informa la sua vita e che, parafrasando il grande mistico spagnolo san Giovanni della Croce, la trascina "verso il centro che è Dio, e fa discendere dei gradini sempre più profondi..."

La madre Rosalia testimonia: "In casa ha sempre respirato aria di convinta religiosità, ma soprattutto su di lui hanno influito i docenti di religione, sacerdoti di altissimo livello dottrinale e spirituale. Per la sua formazione personale sono stati importantissimi. Rosario, inoltre, credeva tanto nella forza della preghiera: la sua giornata iniziava e si concludeva con la lode al Signore (1)

Ida Abate, riflettendo sull’esperienza spirituale del suo allievo, afferma: "Quando e come Rosario sia passato dalla riflessione sul divino che risiede nell’uomo e che, secondo Seneca, è soltanto interior, alla fede incondizionata nel Dio della Rivelazione cristiana, immanente nell’uomo e nella storia "più intimo della parte più intima" (sant’Agostino, Le Confessioni, III, 2: ndr), personalissimo e insieme trascendente, non è dato sapere" (2).


Il passaggio ha coinciso comunque con la scoperta che saremo tutti, indistintamente, giudicati sull’amore. Non sulla ricchezza, sull’intelligenza, sulle capacità personali o su altre cose, ma soltanto sull’amore. Il banco di prova è, e resta, la carità. Ed è un concetto questo su cui, come abbiamo visto, Rosario torna spesso: la carità nel giudicare, la carità nella verità, la carità che è sorella della contrizione, figlia dell'umiltà.

Basta andarsi a rileggere il testo di "Fede e diritto": la carità è tutto. Sembra di risentire le belle parole di san Paolo ai Corinzi, nell’inno all’agape, che "non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ ingiustizia, ma si compiace della verità..." (1 Cor 13,5-6).

"Il magistrato - scriveva ancora Livatino - deve, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; deve avvertire tutto il peso del potere affidato nelle sue mani... disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione".

Un filosofo non credente come Ludwig Wittgenstein ha scritto nei suoi Diari che il cristianesimo "non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell’anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo". Orbene, se questo evento non si incarna, se non trova realizzazione nella vita pratica, concreta, di tutti i giorni, se non diventa carne e sangue restando soltanto sul piano teorico, delle idee, dei bei proclami, che senso avrebbe?

"I laici", si afferma nella costituzione dogmatica Lumen gentium, "sono chiamati da Dio a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l’esercizio del proprio ufficio e sotto la guida dello spirito evangelico e in questo modo a manifestare Cristo agli altri, principalmente con la testimonianza della loro vita..." (n. 31).

Rosario aveva voluto che nell’aula delle udienze vi fosse sempre un crocefisso, come richiamo di carità e rettitudine. Inoltre egli teneva un crocefisso anche sul suo tavolo, insieme con una copia del Vangelo. Il Vangelo era tutto annotato, segno che doveva frequentarlo piuttosto spesso, almeno quanto i codici, strumenti quotidiani del suo lavoro.

"Dalla soddisfazione di sé del 'buon cattolico' che compie i suoi doveri, legge un buon giornale, vota bene eccetera, ma che per il resto fa ciò che gli aggrada, vi è un lungo cammino", ha detto Edith Stein, "per arrivare a una vita che sia nelle mani e venga dalle mani di Dio, con la semplicità del bambino e l'umiltà del pubblicano. Ma chi ha percorso una volta quel cammino, non tornerà più indietro…" (3).

Di Rosario tante cose si sono conosciute soltanto dopo la morte, come ad esempio, della sua carità, del suo amore per gli ultimi, per i poveri. Ogni mese, in segreto, consegnava una somma di denaro a persone che versavano in stato di indigenza, e lui lo sapeva; puntuale e sempre in incognito, faceva pure la spesa per alcuni di essi, soccorrendo alle loro prime necessità.

Quando è morto, il custode dell’obitorio piangeva ricordando tutte le volte che lo aveva visto pregare accanto a cadaveri di individui di cui egli ben conosceva la fedina penale, pregiudicati nei quali si era imbattuto svolgendo il suo lavoro di sostituto procuratore al Tribunale di Agrigento; nei loro confronti, egli aveva anche applicato la legge, ma non per questo essi avevano cessato di essere suoi fratelli in Cristo nella sventura.

"Gesù stava chino e con il dito scriveva per terra. Ma scribi e farisei insistevano nell’interrogarlo. E allora egli si drizzò e rispose: "Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra"" (Gv 8,6-7).

Dagli Scritti di Rosario Livatino

Il più alto simbolo e il più alto segno giuridico è la dettatura dei dieci comandamenti, il decalogo, nel quale il legislatore, il "facitore del diritto", è Jhwh, Dio della giustizia e dell’amore.
[…] Immenso è il valore del diritto biblico nel patrimonio della cultura umana e di quella giuridica in specie: ogni messaggio giuridico che non sia strettamente legato a costumi e necessità storicizzati ha nel diritto biblico l’impronta di segno premonitore.

Contrapporre i concetti, le realtà, le entità della fede e del diritto può dare di primo acchito l’impressione, l’idea di una antinomia, di una contrapposizione teorica assolutamente inconciliabile; l'una, espressione della corda più intima dell’animo umano, dello slancio emotivo più genuino e profondo, dell’adesione più totale e incondizionata all’invisibile e, in fondo, all’irrazionale; l’altra invece frutto, il più squisito, della razionalità, della riflessione, della gelida e impersonale elaborazione tecnica: l’idea quindi di due aspetti della vita umana del tutto autonomi e distinti fra loro e, come tali, destinati a manifestarsi ed evolversi senza alcun contatto o reciproca interferenza: estranei l’uno all’altro...
Così invece non è, […] che mondo della fede e mondo del diritto debbano avere partecipata e fattiva attenzione l’uno dell’altro ci viene significato da due massime testimonianze: tale è infatti la lettura che possiamo dare alle parole di Paolo VI, quando, nei primi degli anni ‘70, nel discorso tenuto ai partecipanti al Congresso internazionale di diritto canonico, promosso dall’Università Cattolica di Milano (1973), ebbe fervidamente a porre l’accento sulla opportunità di una "teologia del diritto che non solo approfondisca, ma perfezioni lo sforzo già iniziato dal Concilio", così vivificando, anche sub specie juris, il sentire cum Ecclesia.
Tale è il senso che ritroviamo, dieci anni dopo, in altre parole, quelle dell’attuale pontefice Giovanni Paolo II, allorché, nel Discorso all’Unione giuristi caattolici, tenuto nel 1982, ebbe a sottolineare la necessità di valorizzare ogni forza che miri consapevolmente "all’attuazione dell’etica cristiana nella scienza giuridica, nell’attività legislativa, giudiziaria, amministrativa, in tutta la vita pubblica…"

La vita è tutta tessuta di ideali, di fini da conseguire che, puri o impuri, hanno un solo scopo: il raggiungimento del bene. Il bene per noi, per il prossimo; e da questi ideali, da questi fini derivano il senso buono e cattivo della vita. Esaminando tutto ciò che ci circonda, attraverso un processo logico e razionalistico, si perviene a una origine comune, a un essere di indefinibile natura che ha dato origine a tutto.
Tutto l’universo, per quanto immenso, si identifica in questo essere. Dio è come un perno su cui gira tutto ciò che è. Tutto viene e ritorna a Dio, Dio è principio e fine. L'uomo nella sua follia peccaminosa pensa spesso al principio, ma molto raramente alla fine...


Sarebbe sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza, l’ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall’ordine giudiziario.


La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana.


Il giudice, oltre che essere deve anche apparire indipendente. [...] E importante che égli offra di se stesso l’immagine non di persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva e umana, capace di condannare, ma anche di capire.
Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare ch’egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà ricevere e assumere, come se fossero sue, e difendere davanti a chiunque.
Solo se offre questo tipo di disponibilità personale il cittadino potrà vincere la naturale avversione a dovere raccontare le cose proprie a uno sconosciuto; potrà cioè fidarsi del giudice e della giustizia dello Stato, accettando anche il rischio di una risposta sfavorevole...

È da rigettare l’affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole.
Una tesi del genere è, nella sua assolutezza, insostenibile... La credibilità esterna della Magistratura nel suo insieme e in ciascuno dei suoi componenti è un valore essenziale in uno Stato democratico, oggi più di ieri.


I non cristiani credono nel primato assoluto della giustizia come fatto assorbente di tutta la problematica della normativa dei rapporti interpersonali, mentre i cristiani possono accettare questo postulato a condizione che si accolga il principio del superamento della giustizia attraverso la carità.
Il Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere "giusti", anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha invece elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano.


Il ruolo del giudice non può sfuggire al cammino della storia: tanto egli che il servizio da lui reso devono essere partecipi di un processo di adeguamento. Ma di ciò non può farsi carico solo ai giudici: non si può chiedere che essi traggano soltanto da se stessi la forza per questo adeguamento.
In questa prospettiva, riformare la giustizia, in senso soggettivo ed oggettivo, è compito non di pochi magistrati, ma di tanti: dello Stato, dei soggetti collettivi, della stessa opinione pubblica.
Recuperare infatti il diritto come riferimento unitario della convivenza collettiva non può essere, in una democrazia moderna, compito di una minoranza.


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La parola del Vescovo di Agrigento, Mons. Carmelo Ferraro

Vorrei riflettere con voi sul "fenomeno Livatino"... Si dice che al giudice Livatino sono state intitolate scuole, biblioteche, palestre, piazze e vie. Si dice ancora che, attorno alla testimonianza della sua vita, sono stati dedicati scritti, monografie, poesie e disegni. Noi pertanto non commemoriamo un uomo morto. Stranamente questa morte violenta porta l’impronta del Crocifisso Signore della storia, cioè porta l’impronta di una forza che travolge persino la morte...

La domanda che mi pongo è la seguente: come mai tanta attenzione nel mondo dei giovani a Rosario Livatino? Perché? Noi viviamo in una società che esalta il pensiero debole, la morale debole e il conformismo; fare quello che fanno gli altri, vestire come dicono gli altri... Viviamo in una società che dell’uomo esalta l’esteriorità e la cura dell’immagine. C’è anche una fede debole; ci sono progetti educativi deboli. Ecco, da Rosario Livatino stranamente i giovani sentono di avere una risposta.

[…] All’uomo si può mentire, ma non alla lunga. L’esempio di Rosario Livatino è illuminante per capire come si possa fare un discorso serio all’uomo


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Note
1. V.Morgante, Il vescovo: un capolavoro di figlio, in Avvenire, 15 agosto 1995.
2. Abate, Il piccolo giudice. Profilo di Rosario Livatino, ILA Palma, Palermo, 1992-96, pp.32-33.
3. Edith Stein, Il mistero del Natale, Corsia dei Servi, Milano 1955, p.36.


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Testo tratto dal volume di Maria Di Lorenzo: Rosario Livatino, martire della giustizia, Edizioni Paoline, 2000, pp.123.

Maria Di Lorenzo, laureata in Lettere Moderne, giornalista, ha lavorato per il quotidiano Il Tempo, per la RAI e per la Radio Vaticana. Collabora a varie testate e ha condotto uno studio sulle problematiche femminili nell’Europa del "dopo-Muro" attraverso il cinema. Recentemente ha pubblicato il volume Con la croce sul cuore (Bologna 2000), profilo biografico della filosofa e martire carmelitana Edith Stein.

Augustinus
21-09-05, 06:04
In rilievo

Aug. :) :) :)

Augustinus
20-09-06, 23:18
In rilievo

Aug. :) :) :)