Visualizza Versione Completa : Cerco "universalità imperiale e particolarismo nazionalistico"
milesphoenicis
30-09-03, 19:15
Salve a tutti. Sto cercando un saggio di Evola dal titolo "universalità imperiale e particolarismo nazionalistico". Che io sappia l'ultima volta è stato pubblicato nel 1989 all'interno di "nazionalismo, germanesimo, nazismo", testo del quale non riesco a trovare alcuna notizia.
Qualcuno sa se è stato ristampato da qualche parte e se sia possibile trovarlo oggi?
Grazie.
Mai sentito nominare...
ma se riesci a rintracciarlo segnalalo sul forum, sembra interessante.
milesphoenicis
30-09-03, 20:43
era stato anche pubblicato in "Saggi di dottrina politica", Edizioni Mizar, Sanremo-Imperia 1979. Assieme tra l'altro a "sulle premesse spirituali dell'impero", altro saggio che non riesco a trovare.
Se lo trovo lo posto sicuramente, ma sto perdendo le speranze.
Paul Atreides
30-09-03, 21:39
Originally posted by milesphoenicis
Salve a tutti. Sto cercando un saggio di Evola dal titolo "universalità imperiale e particolarismo nazionalistico". Che io sappia l'ultima volta è stato pubblicato nel 1989 all'interno di "nazionalismo, germanesimo, nazismo", testo del quale non riesco a trovare alcuna notizia.
Qualcuno sa se è stato ristampato da qualche parte e se sia possibile trovarlo oggi?
Grazie.
Pubblicato in ''La Vita Italiana'', n° 217, aprile 1931.
Prossimamente nella ristampa di tutti gli articoli evoliani apparsi su ''La Vita Italiana'' nella collana ''I testi di Julius Evola'', Edizioni di Ar.
Paul Atreides
30-09-03, 21:44
Originally posted by milesphoenicis
era stato anche pubblicato in "Saggi di dottrina politica", Edizioni Mizar, Sanremo-Imperia 1979. Assieme tra l'altro a "sulle premesse spirituali dell'impero", altro saggio che non riesco a trovare.
Se lo trovo lo posto sicuramente, ma sto perdendo le speranze.
Pubblicato in ''Il regime fascista'' del 6 agosto 1937.
Ora come ora, solo in emeroteca
Sull'argomento esiste, sempre di Mizar, anche una raccolta eccezionale, sia per qualità editoriale che per i contenuti:
Julius Evola, "Monarchia aristocrazia tradizione. Crestomazia di saggi politici dal 1929 al 1974 raccolta e curata da Renato Del Ponte", Sanremo, 1986.
Io lo trovai qualche anno fa ad un fallimento di una libreria, a tremila lire (!), colpo di culo pazzesco.
milesphoenicis
30-09-03, 22:20
grazie per le preziose informazioni.
milesphoenicis
01-10-03, 16:19
li ho ordinati in emeroteca, dovrebbero arrivre in una decina di giorni, grazie e mille Paul...
Originally posted by milesphoenicis
Salve a tutti. Sto cercando un saggio di Evola dal titolo "universalità imperiale e particolarismo nazionalistico" . Che io sappia l'ultima volta è stato pubblicato nel 1989 all'interno di "nazionalismo, germanesimo, nazismo", testo del quale non riesco a trovare alcuna notizia.
Qualcuno sa se è stato ristampato da qualche parte e se sia possibile trovarlo oggi?
Grazie.
Ho controllato anch'io, e confermo che l'articolo di cui sopra, assieme a "Sulle premesse spirituali dell'impero" ha fatto già parte della raccolta "Nazionalismo, germanesimo, nazismo", prima per "Mizar" 1980, poi per "I Dioscuri/F.lli Melita" 1989.
milesphoenicis
01-10-03, 21:40
Ho controllato anch'io, e confermo che l'articolo di cui sopra, assieme a "Sulle premesse spirituali dell'impero" ha fatto già parte della raccolta "Nazionalismo, germanesimo, nazismo", prima per "Mizar" 1980, poi per "I Dioscuri/F.lli Melita" 1989
Credo che il metodo più semplice, o almeno più veloce, per leggerlo oggi, almeno nella mia città , sia trovare un indice e cercare di ricostruirlo, per quanto possibile, articolo per articolo.
milesphoenicis
01-11-03, 17:13
Julius Evola
SULLE PREMESSE SPIRITUALI DELL’IMPERO
Il problema dell’impero, nella sua espressione più alta, è quello di una organizzazione supernazionale tale, che in essa l’unità non agisca in modo distruttivo e livellatore nel riguardo della molteplicità etnica e culturale da essa ricompresa.
Così impostato il problema dell’impero ammette due principali soluzioni, che sono quella giuridica e quella spirituale.
Secondo la prima, l’unità dell’impero è quella di una semplice organizzazione politico-amministrativa, di una legge generale di ordine, nel senso più empirico del termine. In questo caso le qualità, le culture e le tradizioni specifiche dei varii popoli raccolti dall’impero non sono lese, per il semplice fatto che l’impero resta, rispetto ad esse, indifferente ed estraneo. All’impero, qui, importa la semplice organizzazione politico-amministrativa e la semplice sovranità giuridica. Esso si comporta rispetto ai singoli popoli così come lo Stato agnostico del liberalismo si comportava rispetto ai singoli, ai quali lasciava fare quel che volevano purchè certe leggi generali venissero rispettate.
Nei tempi moderni, un esempio caratteristico di impero di questo tipo è l’impero inglese. Da alcuni, per es., dal Bryce, si è voluto stabilire, a questa stregua, una analogia fra l’impero inglese e quello dell’antica Roma; e anche da noi non sono mancati storici caduti in questo grave errore, per il fatto di aver considerato, nell’antico impero romano, il suo aspetto giuridico e politico, tralasciando, o considerando come irrilevante, ogni presupposto d’ordine superiore, spirituale o religioso.
Vero è, invece, che con Roma si delineò già una organizzazione imperiale del secondo tipo, un impero corrispondente, cioè, alla seconda soluzione. È questa la soluzione, nella quale l’unità è determinata dal riferimento a qualcosa di spiritualmente più alto, che non il particolarismo di tutto ciò, che, nei singoli popoli, è condizionato dall’elemento etnico e naturalistico.
In Roma antica si ebbe già una realtà di questo genere per una doppia via.
In primo luogo, per la presenza di un tipo unico, e di un unico ideale, corrispondente al civis romanus, il quale non era per nulla, come da alcuni si ritiene, una mera formula giuridica, ma una realtà etica, un modello umano di validità supernazionale.
In secondo luogo Roma pose quel punto trascendente di riferimento, di cui dicevamo, attraverso il culto imperiale. Il Phanteon romano, come è noto, ospitava i simboli di tutte le fedi e le tradizioni etnico-spirituali delle genti soggette a Roma, che Roma rispettava e perfino tutelava. Ma questa ospitalità e questa protezione avevano per presupposto e per condizione una “fedeltà”, fides, d’ordine superiore. Al di là dei simboli religiosi raccolti nel Pantheon, troneggiava il simbolo dell’imperatore, concepito come “nume”, come essere divino: esso raffigurava la stessa unità trascendente e spirituale dell’impero, perchè l’impero dalla tradizione romana veniva concepito meno come semplice opera umana che come opera di forze dall’alto. La fedeltà a questo simbolo era la condizione. Giurata una tale fedeltà nei termini di un rito sacro, ogni fede o particolare tradizione nei popoli soggetti, semprechè non ledesse o offendesse l’etica e la legge generale romana, era accolta e rispettata.
In questi termini, Roma antica ci ha presentato un esempio di organizzazione imperiale di perenne ed universale valore. Basta infatti sostituire alle forme condizionate dal tempo, di una soluzione del genere, altre forme, per allontanare qualsiasi apparenza di anacronismo e per accorgersi che chi, oggi, volesse di nuovo studiare il problema di un impero spirituale, difficilmente saprebbe trovare altre prospettive.
Oggi, infatti, molto più anacronistica sarebbe l’idea di una organizzazione super-nazionale basata sull’affermazione di una particolare idea religiosa, sia pure quella cristiana. Non vi è chi possa sensatamente pensare, oggi, all’attualità e al ritorno di un impero sul tipo di quello spagnolo, supercattolico e inquisitoriale di Carlo V: ma anche all’infuori di questa forma estremistica, ma pur coerente, altre formule, più vaghe e “intellettuali”, di unità supernazionale su base unilateralmente religiosa palesano, di fronte ad un’analisi approfondita, lo stesso difetto. In un grande quadro d’insieme, non si può dimenticare che di tradizioni religiose ne esistono molte, e spesso di dignità e di elevatezza spirituale quasi pari. Se l’impero dovesse usar violenza su di esse nel realizzare la sua unità definita dall’affermazione e dal riconoscimento di una soltanto di tali fedi, allora è chiardo che noi avremmo dinnanzi assai più un esempio di settarismo, che non di universalismo spirituale.
Già l’esempio imperiale che si preannuncia col fascismo ci indica, del resto, un superamento di questa prospettiva. Infatti nell’impero fascista il cattolicesimo è la religione nazionale del popolo italiano; ma l’impero fascista si dichiara simultaneamente protettore dell’Islam, e, ora, ha riconosciuto e rispettato la stessa religione copta. Ciò altro non significa, se non, che già col fascismo si afferma l’esigenza di un punto di riferimento che stia al di là di quello di una particolare fede religiosa. Diciamo “al di là” non “al di fuori”, perchè non bisogna dimenticare che il fascismo ha anche una sua etica, una sua spiritualità, un suo tipo umano, una sua aspirazione a tradurre, nei termini di una volontà dominatrice , il senso di una realtà permanente e universale. Non può dunque trattarsi soltanto di rispetto indifferentistico e agnostico sul tipo della prima delle due soluzioni sopra indicate: bensì del principio di una realizzazione di ordine più alto e “romano”.
Riconosciuto ciò, il problema generale dei presupposti spirituali dell’impero è quello di definire il principio, in funzione del quale si puà avere, simultaneamente, riconoscimento e superamento di ogni particolare fede religiosa delle nazioni da organizzare. Questo è il punto fondamentale. L’impero, infatti, nel senso vero, può esistere solo se animanto da un èmpito spirituale, da una fede, da qualcosa che si rivolge alle stesse profondità spirituali, dalle quali la stessa religione prende vita. Senza di ciò, non si avrà mai che una creatura di violenza- l’”imperialismo”- e una meccanica, disanimata superstruttura. È perciò necessario captare- se così si può dire- le stesse forze agenti nelle fedi, senza però che queste fedi ne risultino comunque lese, ma invece, integrate e riportate ad un più alto livello. Ora, a tanto, esiste una via: essa ci è dischiusa dalla concezione, secondo la quale ogni tradizione spirituale e ogni particolare religione non rappresenta che l’espressione varia di un contenuto unico, anteriore e superiore a ciascuna di tali espressioni. Saper risalire fino a questo contenuto unico e, per dir così, super-tradizionale, significherebbe anche raggiungere una base atta ad affermare una unità che non distrugge, bensì integra, ogni particolare fede e che può definire una “fedeltà” imperiale, nel riferimento, appunto, a quel contenuto superiore. Trascendere, nella sua etimologia latina, significa: “superare ascendendo”- epperò in questa parola sarebbe racchiusa tutta l’essenza del problema.
Qui, ci limitiamo a questo inquadramento generale: che ci servirà come punto di partenza in un prossimo articolo, per altre considerazioni, che lumeggeranno più da presso la veduta qui affermata.
milesphoenicis
01-11-03, 17:14
Questo era il primo dei due articoli, poichè devo ricopiare a mano, ci vorrà un po' per il secondo.
Saluti.
Mille grazie caro Milesphoenicis. Anche per il prossimo;)
Saluti
milesphoenicis
11-01-04, 20:01
UNIVERSALITA' IMPERIALE E PARTICOLARISMO NAZIONALISTICO
Alcune cose che abbiamo dette nel nostro scritto: « Due faccie del Nazionalismo » (Vita Italiana, n. 3, del 1931), a giudicare dalle ripercussioni che han destato in più d'uno, ci sembrano meri. tevoli di uno sviluppo ulteriore, che noi manterremo nell'Ordine che solo ci interessa, quello dei principii. Diremo le cose quali esse sono, e nessuno si sbaglierebbe tanto, come colui che credesse che certe considerazioni possano esserci state ispirate da circostanze speciali di aggi, presenti in un paese o in un altro.
Si tratta di passare dall'analisi del significato del fenomeno « nazionalismo » all'analisi del significato del concetto: « imperialismo ». Inoltre, di determinare i rapporti che intercorrono fra l'una cosa e l'altra. Questo ulteriore problema nei confronti con l'analisi precedente presenta una difficoltà maggiore. Infatti la « nazione » essendo parola nuova per un fenomeno esso stesso relativamente nuovo, il farsi intenderci, a tal riguardo, non era difficile, e si trattava solo di comprendere tale fenomeno in funzione ad una visione storica più integrale e più conforme alla realtà. Invece la nozione di « impero » rimanda a cosa che appartiene ad un mondo ideale molto diverso da quello a cui i moderni sono usi, onde è spiegabile che a tal riguardo si producano delle incomprensioni c delle confusioni più o meno gravi nella gran parte di coloro che oggi si rifanno a detta idea.
Noi abbiamo dimostrato che di nazionalismi ve ne sono due: l'uno è un fenomeno di degenereseenza perchè esprime una regressione dell'individuale nel collettivo (la « nazione »), dell'intellettualità nella vitalità (il pathos e 1'« anima » della razza). L'altro è un fenomeno positivo, perché esprime invece la reazione contro forme ancor più vaste di collettivizzamento, quali possono essere p. es. quelle date dalle internazionali proletarie o dalla standardizzazione praticistica su base economico-sociale (America).
Il primo (nazionalismo demagogico) si propone di distruggere negli individui le qualità proprie e specifiche a beneficio di quelle « nazionali ». Nel secondo (nazionalismo aristocratico) si tratta di togliere gli individui da uno stato inferiore, in cui siano caduti, ove si trovano l'uno eguale all'altro: si tratta di differenziarli se non altro fino al grado per cui il sentirsi di una determinata razza o nazione esprime un valore e una dignità superiore rispetto al sentirsi uguali (egualitarismo c fraternalismo, « umanità » alla comunistica).
Sviluppandosi il processo per cui il -nazionalismo ha il senso di un fenomeno positivo, ci torna dunque al senso della differenza e della gerarchia: gli individui, ridivenendo sè stessi, passano dal piano della materialità, ove non può esservi differenza vera, a quello dell'intellettualità, nel quale partecipano a qualcosa che è non-individuale non per essere sub-individuale (collettivismo) mc, per esser invece superindividuale: partecipano ad una universalità. Ed allora dal nazionalismo si passa .all'imperialismo; all'anonimato di grandi realtà più ohe umane. Ogni vero imperialismo è universale, e si pone come superamento positivo dello stadie nazionalistico.
Vediamo di farci chiara questa posizione. Il punto fondamentale, ad un lettore poco addestrato potrà forse sembrare una sottigliezza logica: è l'opposizione fra collettivismo e universalismo. L'aggregato di varie cose fino ad una mescolanza in cui esse perdono ogni carattere proprio e ogni autonomia come massa amorfa o uniformità di un « tipo », è collettivismo. Risalire dalla molteplicità delle cose differenti sino ad un principio ad Un tempo anteriore e superiore alla loro differenziazione, data unicamente dalla loro realtà sensibile, è universalismo. Là, abolizione della differenza. qui, integrazione della differenza. L'universalità è una realtà puramente spirituale: la si raggiunge risalendo, con una specie di « ascesi », dalla sensibilità c dalla passionalità - dominio del particolare - all'intellettualità :pura e, più in genere, ad una forma disinteressata di attività. Essa peraltro nega così poco le realtà individuali, quando una legge fisica e neghi il carattere peculiare di fenomeni molto diversi, che possono avere in essa il loro principio comune.
Abbiamo enunciate queste idee in forma astratta, per poter mantener loro il significato più generale. Ma possiamo subito venire a conseguenze pratiche di una certa importanza, volute dalla distinzione fra collettivismo e universalismo. Vi sono alcune forme ristrette di nazionalismo, che p. es. confondono tendenziosamente - l'una cosa con l'altra. Esse estendono dunque una reazione legittima contro tentativi di internazionalizzazione e di scancellamento delle differenze etniche (reazione legittima, perchè si volge contro tendenze verso il livellamento collettivistico) - a cose che invece hanno significato di universalità e esigono la libertà degli individui di fronte all'aspetto collettivistico e infraintellettuale del nazionalismo stesso. - A questo riguardo J. Benda, nella sua nota Trahison des cleres », ha fatto spesso rilievi assai giusti. Noi stessi nel nostro scritto già citato abbiamo accusata la strana pretesa di certi nazionalisti estremisti, di volere una scienza nazionale, una filosofia nazionale, un'arte nazionale, perfino - una religione nazionale.
Ora, voler ciò, significa non rendersi conto per' nulla delle possibilità universali presenti in quei fenomeni dello spirito: significa limitarli, trasporli dal piano a loro proprio ad un piano inferibre, cioè etnico, e non più spirituale o intellettuale. Si può porre un dilemma, dicendo che una « scienza nazionale » in quanto è « nazionale » non è scienza, e in quanto è « scienza » non è semplicemente nazionale. E se poi si volesse solo alludere al fatto che una data scienza è stata coltivata particolarmente da persone di una data nazione, e non al risultato oggettivo della loro opera (il quale ha valore di « scienza » in quanto ha valore indipendentemente dalle persone), è chiaro elle allora ci si fermerebbe al solo aspetto episodico e biografico, aspetto affatto empirico che nessuno ha il diritto di imporre ad una considerazione di carattere superiore. Il fatto che un dato scienziato non sia della « nostra » terra non fa di certo più falsi e meno accettabili i suoi risultati, se essi sono esatti; e il fatto che egli sia invece della « nostra » terra por li rende più veri e accettabili, se essi sono invece falsi. Se difficilmente qualcuno saprebbe respingere l'evidenza di una simile considerazione, quando è applicata alla scienza - molti credono invece di poterlo fare quando si tratta di altri dominii, p. es. della speculazione, dell'arte, del sovrasensibile. Costoro danno ad intendere una sola cosa: che essi per tutto ciò che non è più materia (scienza) sono ancora ad uno stato di irrealismo, sono ancora incapaci di elevarsi al punto di vista dell'oggettività, della sopra-individualità.
Una volta fissato questo punto, è chiaro che un imperialismo è tale, quando domina in virtù di valori universali ai quali una determinata nazione o stirpe si è elevata attraverso la potenza di superare sè stessa. L esattamente il contrario della « morale » del cosidetto « sacro egoismo » delle nazioni. Senza un « muori e divieni » nessuna nazione può aspirare ad una missione imperiale effettiva e legittima. Non si può restar chiusi nei caratteri nazionali per, sulla base di essi, dominare il mondo o semplicemente un'altra terra. Se i tentativi imperialistici dei tempi moderni hanno abortito o hanno portato alla rovina le nazioni cane li hanno perpetrati (esempio ultimo: gli imperi centrali), la causa è appunto questa contradizione del voler ad un tempo « nazione » e « impero », è l'assenza della base di una vera universalità.
1 tentativi di cui abbiamo parlato implicano peraltro una degradazione materialistica e barbarica del concetto stesso di impero. Né può essere altrimenti. Dominio vero si ha innalzandosi a ciò che è superiore a quel che si vuol dominare: non si può avere restando allo stesso livello. Come mano, una mano non può presumersi di poter dominare gli altri organi di un corpo: sì invece cessando di essere mano, facendosi anima, cioè risalendo alla funzione unitaria e immateriale che è chiamata a unificare e a dirigere la diversità delle funzioni corporee particolari. L'ipotetico tentativo di una mano che vuole impadronirsi del corpo usurpando la funzione propria ad un'anima, può chiarire lo spirito di certe ideologie imperialistiche di tipo nazionalistico, materialistico e militaristico. Qui il mezzo non è la superiorità, ma la semplice violenza di una forza più forte ma non per questo di natura diversa da quella che essa tende a sottomettere.
Ha sicuramente un aspetto di stranezza il fatto che mentre nei quadri della vita di una nazione civile si reputa atto riprovevole quello di chi per il semplice fatto di aver bisogno impadronisce con la violenza degli averi di chi possiede di più - un comportamento consimile nei rapporti fra nazione e nazione sembra la cosa più naturale e più legittima e fa da base dell'anzidetto concetto barbarico dell'imperialismo: una nazione povera, si pensa, ha tutto il diritto di metter le mani sui beni di una nazione più ricca a che possa « espandere » la propria vita; e il sistema - militare o diplomatico per giungere a tanto sarebbe la « sacrità conosciuta dagli imperialisti di questo genere. Non basta: in certi casi si crea addirittura un metodo a che una nazione sia spinta ad arte alla necessità dell'espansione, quindi ali'« imperialismo ».
Tale p. es. il metodo demografico: arrivati alla superpopolazione, alla condizione di nazioni che « non hanno spazio ». si impone la necessità di uno sbocco, di una irruzione la quale, peraltro, ai nostri occhi, finchè il tutto si riduca a questo piano, ha un carattere ene assai difficilmente saprebbe venir distinto da quello delle invasioni barbariche. Il materialismo di quest'ultima veduta <<imperialistica>> si palesa inoltre nella mancanza del senso dell'impotenza della quan. tità e del numero rispetto alla qualità. Se una nazione non ha la salda base di una cultura superiore come qualità, tutte le sue espansioni create dal soprannumero - da quelle emigratorie a quelle militari - raggiungeranno un solo risultato: fornire una materia grezza su cui dominerà un tipo di cultura straniera. I vincitori materialmente saranno dei vinti idealmente. Il caso di Roma con l'Ellade non è precisamente questo, ma già offre un cenno per la comprensione della tesi ora esposta, ed oggi potremmo indicare l'America, singolare crogiuolo nel quale le masse degli immigrati delle tradizioni etniche più diverse dopo due generazioni son state quasi interamente ridotte ad un tîpo unico: laddove l'India, p'. es. ha mantenuto intatta la sua unità ideale ad onta dei successivi domini di razze più forti ma qualitativamente inferiori.
A lato di questo falso imperialismo, ve ne è uno altrettanto falso di tipo economico. Certamente, oggi che quasi ogni attività viene condizionata e valutata in termini di economia (in ciò abbiamo già visto il segno dell'avvento della penultima delle antiche caste: quella dei mercanti); vi è terreno propizio a che si formi l'illusione, che dominare e monopolizzare le possibilità economiche di un gruppo di razze possa significare « impero ». Ma per chiunque non partecipi dell'abbassamento morale coli caratteristico nello standard o f living moderno, la cosa presenta un aspetto indubbio di stravaganza, per non dire di ridicolo.
I Signori di una volta, le quistioni di amministrazione (economia) le lasciavano ai loro liberti e ai loro castaldi. A loro importava essenzialmente coltivare quelle forme superiori, « aristocratiche », di interesse, di vita, di azione e di dignità, che costituivano appunto l'essenza del diritto e della funzione della loro casta. Se qualcuno era atto all'amministrazione e ne aveva la voglia, poteva anche esercitarla: l'esser l'uno ó l'altro a sbrigare l'« economia », non poteva interessar loro che ben poco, dato che rimanesse sempre la giusta subordinazione e l'impegno di lealtà dell'uomo senza classe amministratore verso l'aristòcrate o il Principe. Ma oggi le cose stanno ben diversamente. I plutocrati han preso il posto degli aristòcrati, l'amministratore, e il trafficante con l'oro, si presumono « capi » e non riconoscono nessuno al quale debbano rispondere: finchè ad un dato momento la contingenza propria a ogni forza materiale lasciata a sè stessa., priva di ogni principio, noti li travolga e metta altri (quando non addirittura l'anonimato -delle masse) al loro posto.
Entro questi limiti, va valutato il pericolo di « imperialismo », come quelli dell'internazionale finanziaria semitica o massonica. Il pericolo esiste ed è reale nei riguardi di chi subisce ed accetta l'abbassamento di ogni criterio e di ogni idea della potenza fino al piano della mera economia. Ma chi invece - individuo o razza - per poco si innalzi al di là da questo piano e metta salde radici là dove le cose non son più da « comprare » o da « vendere » - costui può domandarsi con meraviglia su che cosa possano pensar di aver dominio simili « imperialisti ».
La considerazione di questi aspetti negativi ci introduce a quella delle condizioni vere e positive per l'impero. Una razza si desta all'impero quando è capace di porsi di là da sè stessa, quando essa va come va l'eroe, il quale non sarebbe tale se nel suo slancio non vincesse l'istinto che lo terrebbe legato al piccolo amore animale per la sua vita particolare. È per questo elle nazionalismo (in senso statico e esclusivistico) e imperialismo sono due termini che si escludono a vicenda. Una razza imperiale si pone così distante dalle particolarità proprie, quanto da quelle che contrassegnano altre razze: non oppone un particolare ad un particolare (una nazione ad un'altra, il diritto di questa al diritto di quel-. la, ecc.), ma oppone l'universale al particolare.
È particolare ciò che è soggettivistico, sentimentalistico, « idealistico » od anche utilitario. È universale ciò che è puro da tutti questi elementi e che può tradursi in termini di pura oggettività.
Nello sviluppo sia dell'individuo che di una cultura o razza, giungere a comprendere il punto di vista della realtà e a volerlo su qualunque altro, è. una tappa decisiva, prima della quale si può dire che lo spirito non conosca ancora la vera virilità. Se sono i sentimenti, gli orgogli, i valori, le cupidigie, gli odii, tutto ciò insomma che è elemento « umano » in senso stretto, individuale o collettivo, a guidare una razza, essa sarà necessariamente alla mereè della contingenza propria alle cose che non hanno nessun principio in se stesse. Ma se essa, almeno in una élite di capi, riesce a liberare da tutto ciò i due elementi fondamentali della vita: conoscenza e azione - allora essa si fa atta ad una missione che si può dire già superiore al mondo empirico e politico.
Universalità come conoscenza e universalità conte azione: ecco le due basi di ogni epoca imperiale.
La conoscenza è universale, quando giunge a darci il senso di cose, dinanzi alla cui grandezza e alla cui eternità, tutto ciò che è pathos e tendenza degli uomini scompare: quando ci introduce nel primordiale, nel cosmico, in ciò che nel campo dello spirito ha gli stessi caratteri di purità e di potenza degli oceani, dei deserti, dei ghiacciai. Ogni vera tradizione universale ha portato in sè questo soffio del largo, animando con esso forme disinteressate di attività, destando la sensibilità per valori che non si lasciano più misurare da nessun criterio di utilità e di passionalità, sia essa individuale, sia essa collettiva: introducendo presso al «vivere » un « più che vivere ». Questo e il tipo di un impero invisibile, che la storia può mostrarci negli esempi p. es. dell'India brahmanica, del medievo cattolico, dello stesso ellenismo: una cultura unitaria che domina dall'interno, in una varietà anche indipendente di popoli o città, ogni realtà «politicamente » ed economicamente condizionata.
Senonchè possiamo pensare un concetto di impero, visibile oltre che invisibile, avente una unità materiale oltre a quella spirituale. Si realizza un simile impero, quando presso all'universalità come conoscenza si abbia anche 1'« universalità come azione ». Qui, per riferimenti storici, potremmo indicare la Cina antica, Roma, in parte, di nuovo il medievo nel movimento delle Crociate da un lato, nell'Islamismo dall'altro.
L'azione universalizzata è l'azione pura: è l'eroismo. Così nelle due condizioni dell'imperialità ritroviamo esattamente le qualità che definivano le due caste superiori dell'antichità, quella sapienziale (che non vuol necessariamente dire «sacerdotale») e quella guerriera Avvertiamo subito che il concetto di « eroismo » di cui si parla, non è quello dei moderni. Nel concetto tradizionale, l'eroismo è una ascesi nel senso più rigoroso del termine, e l'eroe è una natura così purificata dagli elementi « umanì », quanto lo è l'asceta: partecipa allo stesso carattere di purità delle grandi forze delle cose, e non ha a che fare con la passionalità, la sentimentalità e i moventi varii, ideali o materiali, collettivi o individuali, degli uomini. Le funzioni specifiche di ciascuna delle antiche caste esprimevano la natura propria, il modo di essere di chi vi apparteneva: così la guerra al guerriero valeva come il suo fine, come la via per la sua stessa realizzazione spirituale. Si combatteva dunque in modo « puro », la guerra in sè stessa era un bene, e l'eroismo era una forma « pura », dunque universale, di attività. La rettorica della « lotta pel diritto », le « rivendicazioni territoriali », i pretesti sentimentali o umanitari. e via dicendo, son cose in tutto e per tutto moderne, affatto estranee al concetto tradizionale dell'eroismo. Nella Bhagavad-gita, nel Corano, nel concetto latino della mors triumphalis, nell'assimilazione ellenica dell'eroe all'iniziato, nel simbolico Walhalla nordico, dischiuso solo agli eroi, in certi aspetti della « guerra santa » conosciuti dallo stesso feodalesimo cattolico - noi troviamo, variamente formulata, l'idea trascendente, sia supernazionale che superumana, dell'eroismo: l'eroismo qui è un metodo di ascesi virile, di distruzione della natura inferiore, una via di immortalamento e di rapporto con l'eterno. Trasfigurata in una simile atmosfera, l'azione acquista natura universale: diviene quasi una. forza dall'alto, capace di tradurre anche in un corpo terreno l'universalità di una tradizione di spirito: è la condizione dell'impero, nel suo significato supremo (1).
Son queste riesumazioni anacronistiche e vane? Può anche darsi. Ma allora ciò 'vuol dire soltanto che le condizioni attuali sono tali, da ridurre a pura rettorica la evocazione, a cui molti indugiano,, di ideali e simboli che oggi han perduto il loro senso originario.. Ciò non impedisce però che in sede dottrinale si possa e si debba sempre tracciare una linea di demarcazione fra concetto e concetto, e badare a quel che contradizione non consente. Quando i punti di riferimento siano 1'« orgoglio nazionale », le « rivendicazioni irredentistiche », le « necessità di espansione », ecc. - ripetiamo - si è nei principii legittimi di una nazione forte moderna, ma non si è di certo in quelli di un'impero. Si pensi se un romano abbia mai combattuto per qualcosa di simile, e se abbia mai avuto bisogno di scaldarsi con qualche rettorica passionale per compiere il miracolo di quella conquista mondiale, attraverso la quale la universalità della luminosa civilizzazione greco-latina si infuse sino alle più lontane terre.
Occorre riportarsi allo stato di forze pure, di forze che vanno con la stessa fatalità e la stessa purezza e la stessa inumanità delle grandi forze delle cose. I grandi conquistatori si sono sempre sentiti quasi « figli del fato », portatori di una forza che doveva realizzarsi e a cui tutto, a partir dalla loro stessa persona, dal loro stesso piacere, dalla loro stessa tranquillità doveva esser piegato e sacrificato. Nel suo significato integrale, l'impero è qualcosa di superiore, di trascendente: sacrum imperium. Come si può dunque associare il mito dell'impero - scrivemmo già qualche anno fa (2) - a questo o quell'« idealismo » o tradizionalismo (in senso ristretto) o sentimentalismo o « utilitarismo »? Come connetterlo alle esigenze di una fazione o nazione, per non dir anche contrada, borgo o paese? Eppure fra i moderni è sin troppo frequente il caso che si finisca in simili assurdità.
Chi rievoca simboli imperiali, quale si sia la terra che ha dato vita al suo corpo, deve esser capace di vedere tutto ciò. Bisogna che sappia che cosa è « nazione » e che cosa è « impero »: quale è il limite dell'una cosa e quale quello dell'altra. Occorre che la mente gli si schiuda a ciò che nell'uomo nè comincia nè finisce nell'uomo: che egli comprenda, come culminazione della più intensa individualità, l'universalità, sia come conoscenza che come azione. E sopratutto occorre che avendo il senso delle misure a cui oggi si è ridotta innaturalmente ogni cosa, sappia che vi è tutto un mondo a cui dir « no » prima che possano sorgere le chiarità aurorali di una eventuale epoca « imperiale » europea di là dal mondo dei « servi » e dei « mercanti ».
milesphoenicis
11-01-04, 20:02
NOTE
(1) Al concetto tradizionale dell'eroismo e della guerra, abbiamo dato ampi sviluppi nei saggi: « Simboli eroici della antica tradizione romana » (Vita Nova, n. 8 del 1929) e: « La Grande e la Piccola Guerra Santa » (ne «La Torre », n. 10 del 1930). A proposito di quest'ultimo scritto, ogni volta che vogliamo farci chiaro fin dove può giungere la malafede e l'impostura nella polemica di certi irresponsabili, ci ricordiamo come la nostra difesa dell'idea tradizionale, secondo la quale la guerra si fa perchè intimo dovere e gioia di una casta guerriera, e non per un pezzo di terra, sia stata senz'altro data come una esplicita nostra affermazione che la... Dalmazia spetta di diritto alla Jugoslavia (!!!).
(2) Cfr. “Imperialismo e stile realistico” nel “Tevere” del 20 genn.1929.
milesphoenicis
11-01-04, 20:03
Mi scuso per l'eccessivo ritardo e per eventuali errori.
Per carità, caro Miles, nulla di cui scusarsi, anzi, ti ringraziamo per questo contributo molto interessante. :)
Evidenzio dei passi che potrebbero riguardarci + da vicino e suscitare delle riflessioni:
In secondo luogo Roma pose quel punto trascendente di riferimento, di cui dicevamo, attraverso il culto imperiale. Il Phanteon romano, come è noto, ospitava i simboli di tutte le fedi e le tradizioni etnico-spirituali delle genti soggette a Roma, che Roma rispettava e perfino tutelava. Ma questa ospitalità e questa protezione avevano per presupposto e per condizione una ?fedeltà?, fides, d?ordine superiore. Al di là dei simboli religiosi raccolti nel Pantheon, troneggiava il simbolo dell?imperatore, concepito come ?nume?, come essere divino: esso raffigurava la stessa unità trascendente e spirituale dell?impero, perchè l?impero dalla tradizione romana veniva concepito meno come semplice opera umana che come opera di forze dall?alto. La fedeltà a questo simbolo era la condizione. Giurata una tale fedeltà nei termini di un rito sacro, ogni fede o particolare tradizione nei popoli soggetti, semprechè non ledesse o offendesse l?etica e la legge generale romana, era accolta e rispettata.
Questo mi pare un ritratto classico della politica religiosa romana. Però c'è da aggiungere qualcosa:
se si trattasse di non-intervento da parte dell'impero nelle tradizioni etnonazionali presenti e, da parte di queste ultime, di non-offesa o non-aggressione al principio imperiale, saremmo in un quadro di sostanziale indifferenza reciproca. Ma essa non spiegherebbe la relativa solidità dell'insieme fino al declino. Ci vuole quindi qualcosa di positivo, cioé il fatto che il culto imperiale si configura come una vera e propria religione-dello-Stato (genitivo oggettivo), dove tale principio politico-giuridico diventa divino esso stesso. Quasi una divinità che rimpiazza quelle particolari preesistenti. Da qui sorgono i problemi con quelle religioni che non possono vedere equiparate, o peggio, scavalcate le loro divinità supreme da quella imperiale. Il cristianesimo, ma anche l'ebraismo. A proposito di questo, mi sembra che si tenda a dimenticare le continue e sistematiche concessioni e privilegi che lo Stato romano dovette accordare ai fedeli Ebrei per preservare la concordia sociale, cosa che non avveniva nei confronti di altri popoli. Il che è quantomeno un indizio del fatto che l'interpretazione ufficiale (propria anche di Giuliano, se non erro) dell'ebraismo come religione tradizionale etnica degli ebrei senza proselitismo era insufficiente a comporre stabilmente e durevolmente la situazione religiosa dell'impero.
se la politica religiosa romana poté esercitare la tanto famosa tolleranza, lo si deve alla presenza ed agli effetti di questa base comune. Il che comporta che ove e quando simili basi preliminari non ci siano (ved. Europa attuale) i richiami generici alla tolleranza del paganesimo e alla soluzione romana - che qualcuno fa spesso - diventano nel migliore dei casi delle ingenuità e nel peggiore delle incomprensioni foriere di danni. Considerazione rivolta a chi, spesso, fa molta confusione e pretende di ritrovare nel paganesimo e nella civiltà classica le radici dell'illuminismo e dei "diritti dell'uomo" razionalisti. Niente di + sbagliato, a mio parere.
esiste una via: essa ci è dischiusa dalla concezione, secondo la quale ogni tradizione spirituale e ogni particolare religione non rappresenta che l?espressione varia di un contenuto unico, anteriore e superiore a ciascuna di tali espressioni. Saper risalire fino a questo contenuto unico e, per dir così, super-tradizionale, significherebbe anche raggiungere una base atta ad affermare una unità che non distrugge, bensì integra, ogni particolare fede e che può definire una ?fedeltà? imperiale, nel riferimento, appunto, a quel contenuto superiore. Trascendere, nella sua etimologia latina, significa: ?superare ascendendo?- epperò in questa parola sarebbe racchiusa tutta l?essenza del problema.
É proprio così, il nucleo di tutto è quale sia il vero universale. Oppure, se l'universale esista realmente (cioé pienamente in atto) e se ci sia chi (individualmente o collettivamente) sia o sia stato ad esso + vicino di altri. Nel qual caso avrebbe il buon diritto di dichiararsi più universale di altri e quindi metafisicamente superiore agli altri.
Sulla base del significato di uni-versum in cui prevale una direzione unitaria più che uno stato, e dovendo l'universale vero non annullare ma integrare i particolari, io tenderei a rispondere negativamente: l'universale non esiste integralmente in atto, né potrebbe senza tradire il suo significato migliore e diventare uniformità. Ma di che natura è un principio che deve non-esistere per poter essere quello che è ? Risposta possibile: non è nessuna realtà, nessun ente, nè somma di più realtà o enti. É semplicemente una prospettiva, una relazione, una caratteristica formale. Essere universale può significare allora che un soggetto - che rimane particolare quanto all'esistenza - conferisce alla sua contemplazione o azione una tonalità oggettiva.
Propenderei insomma per una accezione debole di universale.
Risalire dalla molteplicità delle cose differenti sino ad un principio ad Un tempo anteriore e superiore alla loro differenziazione, data unicamente dalla loro realtà sensibile, è universalismo. Là, abolizione della differenza. qui, integrazione della differenza. L'universalità è una realtà puramente spirituale: la si raggiunge risalendo, con una specie di « ascesi », dalla sensibilità c dalla passionalità - dominio del particolare - all'intellettualità ura e, più in genere, ad una forma disinteressata di attività. Essa peraltro nega così poco le realtà individuali, quando una legge fisica e neghi il carattere peculiare di fenomeni molto diversi, che possono avere in essa il loro principio comune.
Alla luce di quanto detto sopra, qui c'è qualcosa da dire.
Nel perennialismo, come in tutte le filosofie fondate sulla trascendenza, c'è sempre il pericolo della svalutazione dell'essere del mondo e del dualismo. Anche qui sembra fare capolino. Infatti se le differenze per Evola sono qualcosa di positivo rispetto alla genericità dell'indifferenziato, non si capisce come possano essere dovute alla sola dimensione sensibile e materialistica (per definizione negativa). Perchè allora è forte la tentazione di eliminarle nell'ascesi, e allora non c'è nessuna integrazione, ma perdita. Una differenza positiva invece sarebbe la base di partenza naturale e imprescindibile per il raggiungimento di uno stato super-umano. Ad es, una cultura locale o nazionale è un filtro necessario attraverso cui un individuo può accedere alla portata universale dei messaggi culturali. Ad es, solo in quanto essendo francese o tedesco o inglese oppure bretone o bavarese o gallese un singolo può essere anche partecipare dell'umanità e relazionarsi con Aristotele, Dante e Nietzsche, superando tempo e spazio. Quindi il problema vero non sono le differenze dovute alla sensibilità e alla materia, ma quelle culturali e spirituali, che non si possono svalutare così facilmente.
La stessa ambiguità si riscontra nei tipi dell'eroe e dell'asceta, che in realtà mi paiono piuttosto diversi. Direi che il primo tipo presuppone tra i 2 piani, umano e divino, una relazione di analogia, mentre il secondo di inversione. L'eroe attraversa il mondo, ed è tale perchè è partito da esso; l'asceta lo fugge, gli è indifferente quando non ostile.
milesphoenicis
12-01-04, 19:51
se si trattasse di non-intervento da parte dell'impero nelle tradizioni etnonazionali presenti e, da parte di queste ultime, di non-offesa o non-aggressione al principio imperiale, saremmo in un quadro di sostanziale indifferenza reciproca. Ma essa non spiegherebbe la relativa solidità dell'insieme fino al declino. Ci vuole quindi qualcosa di positivo, cioé il fatto che il culto imperiale si configura come una vera e propria religione-dello-Stato (genitivo oggettivo), dove tale principio politico-giuridico diventa divino esso stesso. Quasi una divinità che rimpiazza quelle particolari preesistenti. Da qui sorgono i problemi con quelle religioni che non possono vedere equiparate, o peggio, scavalcate le loro divinità supreme da quella imperiale. Il cristianesimo, ma anche l'ebraismo.
Totalmente condivisibile. Evitando qua di dare giudizi di valore alle varie espressioni tradizionali, ma soltanto per azzardare una analisi per lo più storica, non priva comunque di interesse e magari di utilità, per gli (scarsi) studi da me effettuati fino ad ora, l’opposizione principale ad una vera e reale universalità, sta proprio nel monoteismo, in un momento antecendente (concettualmente e cronologicamente) all’ateismo. Qua ovviamente si parla di monoteismo sul piano exoterico, ovvero di quando l’interno ha invaso il campo dell’esterno (in qualche caso, addirittura, venendo per questo divorato dall’esterno), giungendo così a confondere i termini della questione a tal punto da agire, per certi versi, da forza contro tradizionale. Pur non negando che il Medioevo cattolico sia giunto ad una certa dose di universalità, è però evidente che tale universalità non poteva essere avvertita dalla massa dei fedeli, il che ha avuto, alla lunga, risultati pessimi.
Basti notare che uno dei principali capi d’accusa che certo cattolicesimo muove al (pessimo) concilio vaticano II, è il fatto che sia stata riconosciutà “quella parte di verità in qualsiasi religione”, che, al di là della pratica forse contrastante, al di là dei motivi (sui quali non mi pronuncio) da cui muove, certo va verso una direzione migliore di quella cui porta l’affermazione che le altre religioni sono figlie di Satana.
se la politica religiosa romana poté esercitare la tanto famosa tolleranza, lo si deve alla presenza ed agli effetti di questa base comune. Il che comporta che ove e quando simili basi preliminari non ci siano (ved. Europa attuale) i richiami generici alla tolleranza del paganesimo e alla soluzione romana - che qualcuno fa spesso - diventano nel migliore dei casi delle ingenuità e nel peggiore delle incomprensioni foriere di danni. Considerazione rivolta a chi, spesso, fa molta confusione e pretende di ritrovare nel paganesimo e nella civiltà classica le radici dell'illuminismo e dei "diritti dell'uomo" razionalisti. Niente di + sbagliato, a mio parere.
Ovviamente, sono totalmente d’accordo. Il per così dire “rispetto reciproco”, cui oggi si fa riferimento, è fondamentalmente il richiamo a non curarsi di questioni tanto “di poco conto” come la religione. Siamo disgustati (e potrebbe, ma non è, essere un moto positivo) dalla possibilità di fare una guerra contro gente di altre fedi, e guardiamo con occhi carichi di rimprovero al medioevo, però tolleriamo, o comunque non siamo così scossi, le guerre per conseguire l’egemonia economica (salvo che qualcuno prenda in considerazione la favola dei diritti umani, non solo errata perchè nascente da premesse inesistenti, ma anche inoperante nella pratica) .
La mera tolleranza, inoltre, differisce anche esternamente dall’ideale universale: possiamo negare il significato profondo di Roma? Un “impero” frammentato in vari punti-cardine, taluno di forza qualitativamente uguale all’altro, riconoscerebbe mai un Centro comune e superiore? O forse che possiamo sostenere che Roma era, come una capitale di oggi, solo il centro amministrativo dell’impero?
Sull’opinione superficiale che il paganesimo sia il padre dell’illuminismo, è altrettanto ovvio che sottoscrivo il tuo intervento: però qua voglio portare la riflessione su un punto; perchè mai l’Europa “secolarizzata”, o per meglio dire “solidificata”, allontanatasi insomma dal riconoscimento cosciente di certi valori di ordine superiore, assume atteggiamenti ESTERNI simili a quelli della Europa classica, tanto che, ingannandosi, crede di assumerla ad esempio? Invece di condannare a priori, proviamo a chiederci le ragioni per cui la massa ha vissuto come una “liberazione” l’abbandono della forma cristiana, e come mai la degenerazione, certo attanagaliando tutto il mondo, ha aspetti tanto profondi e preoccupanti in particolar modo in Occidente. Una possibile risposta, su cui sicuramente vi è da ragionare e studiare, che parte dal concetto di Dèi etnarchi di Giuliano Augusto, è che in fondo non sia stata che una “crisi di rigetto” del culto allogeno, mal indirizzata da false elites, che facendo apparire, per una certa sinistra, ingannevole analogia, come Giusto, ciò che invece soltanto sembrava (a gente che aveva un certo “impianto” psichico) Giusto (la tolleranza vaga, il “diritto naturale” dei popoli ecc.) ha condotto a tante aberrazioni del mondo moderno.
Possiamo poi obiettare che sul piano pratico (cosa che riguarda più gli Dei di noi) e forse anche teorico (i dubbi su tutto ciò che concerne la continuità ammetto che, per quanto mi riguarda, sono lontani dall’essere risolti) sia impossibile un cosiddetto ciclo di resistenza su base pagana, ma qua siamo già a un passo successivo del ragionamento.
Nel perennialismo, come in tutte le filosofie fondate sulla trascendenza, c'è sempre il pericolo della svalutazione dell'essere del mondo e del dualismo. Anche qui sembra fare capolino. Infatti se le differenze per Evola sono qualcosa di positivo rispetto alla genericità dell'indifferenziato, non si capisce come possano essere dovute alla sola dimensione sensibile e materialistica (per definizione negativa). Perchè allora è forte la tentazione di eliminarle nell'ascesi, e allora non c'è nessuna integrazione, ma perdita. Una differenza positiva invece sarebbe la base di partenza naturale e imprescindibile per il raggiungimento di uno stato super-umano. Ad es, una cultura locale o nazionale è un filtro necessario attraverso cui un individuo può accedere alla portata universale dei messaggi culturali. Ad es, solo in quanto essendo francese o tedesco o inglese oppure bretone o bavarese o gallese un singolo può essere anche partecipare dell'umanità e relazionarsi con Aristotele, Dante e Nietzsche, superando tempo e spazio. Quindi il problema vero non sono le differenze dovute alla sensibilità e alla materia, ma quelle culturali e spirituali, che non si possono svalutare così facilmente.
Qua ho una impostazione un poco differente (forse, ma non so, semplicemente terminologica). Ogni differenza, io credo, è per così dire meramente apparente, il che non significa affatto che non dobbiamo farci i conti. L’essenza più reale dell’uomo, interna, occulta, io credo non sia uguale per tutti, ma semplicemente una. Per giungere a questa essenza una, o per avvicinarsi il quanto più possibile ad essa, dobbiamo partire da dove siamo, ovvero da una condizione di molteplicità. Non è negando a priori le differenze, ma superandole, trascendendole, (e per fare ciò bisogna riconoscerle, apprezzarle) che ci avviciniamo all’Uno. E poichè coloro che si avvicinano all’Uno sono pochissimi, negare la differenza porta a una svalutazione della natura totalmente ingiustificata, anche perchè è qua che ci troviamo. Insomma, si può dire che le differenze qualitative esistono eccome nel livello in cui ci troviamo, e sono utili, quindi in qualche modo viste dal basso appartengono a una realtà superiore, e quindi non siamo in potere di metterle in discussione, pena conseguenze gravi, ma che nell’ascesi esse debbano essere superate non come causa dell’ascesi, ma come conseguenza.
E qua ci sarebbe da parlare a lungo del cristianesimo, cosa che evito per non apparire forse polemico.
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