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Pieffebi
11-10-03, 21:30
dal sito di Ideazione...

" L’onere della spesa pensionistica

Al 14 per cento del Pil la spesa pubblica italiana per pensioni e rendite previdenziali si colloca al limite superiore dello spettro dei valori registrati nell’ambito dei paesi dell’Ue. Aggiungendo i versamenti per i trattamenti pensionistici a carattere assistenziale e pur escludendo il “trattamento di fine rapporto” (Tfr), che invece l’Eurostat comprende nei suoi raffronti internazionali, la posizione dell’Italia appare ancora più estrema rispetto al resto dell’Unione (oltre il 15 per cento). L’anomalia non tocca soltanto l’incidenza della spesa sul reddito nazionale; essa riguarda anche il rapporto con le altre componenti della spesa destinata alla protezione sociale. Nel corso degli anni Novanta la componente pensionistica (incluso il Tfr) ha acquisito sempre più spazio e ha assorbito lo scorso anno circa il 70 per cento della spesa sociale. Nel 1997, ultimo anno per cui è possibile un confronto su basi sufficientemente omogenee, l’incidenza era ancor più distante dalla media dell’Ue (71,4 contro 53,5 per cento) . Valori, così, elevati non si prestano di per sé a una valutazione negativa, in quanto ogni società democratica stabilisce liberamente a quali usi destinare le risorse che preleva dal cittadino. In realtà le prestazioni pensionistiche in Italia svolgono una funzione più ampia del semplice assicurare un reddito agli anziani (o invalidi). Per effetto di ben radicati meccanismi di solidarietà all’interno del nucleo familiare allargato, queste erogazioni previdenziali servono anche a sostenere il reddito dei componenti della famiglia a fronte di numerosi rischi, incluso quello di disoccupazione. Da un’indagine della Commissione Europea risulta che in Italia, a differenza del resto dell’Ue, le famiglie comprendenti almeno un pensionato godono di un reddito medio per componente al di sopra del livello medio della totalità delle famiglie.

Per quanto discutibile possa essere una spesa sociale incentrata sulle prestazioni previdenziali e fiduciosa nei meccanismi di solidarietà intrafamiliare, non si può trascurare l’elevato rapporto di sostituzione esistente tra questa forma di prestazione e le altre a finalità sociale (ad esempio, per malattia, maternità, disoccupazione, alloggio e povertà). In Italia, queste appaiono sottodimensionate nel raffronto con gli altri paesi avanzati . Pertanto, ogni intervento diretto a correggere un eccesso di spesa previdenziale avrebbe probabilmente come conseguenza un aumento della domanda di altre prestazioni sociali , a cui il settore pubblico dovrebbe fare fronte.

A parte queste considerazioni sul riequilibrio della composizione della spesa sociale , sia l’incidenza che la dinamica attesa della spesa pensionistica sono viste con preoccupazione dai governi, e non solo quello italiano, per via dell’impatto che esse hanno sulla finanza pubblica e sullo sviluppo dell’economia. Negli ultimi anni organismi internazionali, quali il Fmi e l’Ocse, hanno insistito, nei loro rapporti sull’economia italiana, sulla necessità di portare avanti le misure di correzione della spesa previdenziale, nonostante i progressi realizzati con le riforme del 1992 e del 1995 e gli aggiustamenti del 1997 . Un monito in tal senso viene anche dal rapporto sulle finanze pubbliche che la Commissione e il Consiglio Ecofin hanno presentato al Consiglio Straordinario dei Capi di Stato e di Governo dell’Ue tenuto a Stoccolma nel marzo 2001. In esso si afferma chiaramente che “riforme ambiziose della previdenza sono richieste d’urgenza in numerosi paesi membri”, in particolare se si intende raggiungere l’obiettivo stabilito al Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000 di un tasso di occupazione il più prossimo possibile al 70 per cento entro il 2010.

Per quali ragioni in Italia il sistema alla base della spesa pensionistica necessita ancora di importanti correzioni, pur dopo le riforme degli anni Novanta? Questo saggio mira a rispondere a questo interrogativo attraverso l’ottica delle implicazioni che derivano dall’attuale regime pensionistico sia per l’equilibrio del bilancio pubblico, sia per la crescita dell’economia. Sotto entrambi i profili sarà cura di mettere in evidenza i problemi che restano aperti sulla base anche delle analisi già disponibili. Queste insistono nell’esaminare gli aspetti di sostenibilità finanziaria e di equità delle prestazioni, mentre resta largamente inesplorata la relazione tra il sistema pensionistico e la crescita economica, nonostante che diversi elementi del sistema influiscano sulla propensione al risparmio, sul tasso di accumulazione di capitale fisso, sulle componenti della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro, sul costo del lavoro e sulla competitività internazionale, tutti fattori determinanti per lo sviluppo economico del Paese.

Il disavanzo pensionistico

Obiettivo principale delle riforme pensionistiche degli anni Novanta era contenere la spesa e il suo contributo al disavanzo pubblico . Malgrado i diversi interventi tendenti a riequilibrare il rapporto tra erogazioni e prelievi, i conti pensionistici hanno continuato annualmente a registrare disavanzi consistenti, che in termini di Pil sono ammontati tra il 2,6 per cento del 1995 e l’1,4 per cento del 1996. Mentre il disavanzo di bilancio veniva riportato al di sotto del limite del 3 per cento fissato dal Trattato di Maastricht e dal patto di stabilità e crescita tra i paesi dell’Ume, il deficit della gestione previdenziale ha mostrato una relativa rigidità, arrivando di conseguenza a superare quello complessivo; nel 2000, il disavanzo previdenziale era pari all’1,7 per cento del Pil circa mentre l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni si attestava all’1,5 per cento del prodotto nazionale. Le stime più recenti del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale (Nvsp) del ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale indicano che il rapporto tra l’incidenza della spesa per la previdenza sul Pil si stabilizzerà ai livelli degli ultimi anni solo se nei prossimi dieci anni l’economia italiana crescerà ad un tasso medio del 2,5 per cento l’anno .

Dato l’attuale assetto del sistema, tale rigidità si presenta come una costante che permane nei prossimi tre decenni. Ne risulta che per rispettare l’impegno preso nel contesto dell’Ume di azzerare il deficit strutturale di bilancio, il paese è costretto a generare considerevoli avanzi nelle parti del bilancio corrente diverse da quelle relative alla previdenza. In altri termini, il paese deve continuare a comprimere oltre il dovuto le altre spese correnti sotto il suo controllo (il che esclude la spesa per interessi, che è prevalentemente funzione delle condizioni dei mercati), oppure insistere sulla leva del prelievo tributario. Per i prossimi anni non si intravedono tendenze che conducono allo sgonfiamento del disavanzo pensionistico. Il numero delle prestazioni pensionistiche è destinato ad aumentare, mentre la platea dei contribuenti, costituita dagli occupati, tende a diminuire per effetto degli andamenti demografici, anche nel caso in cui si riuscisse ad abbassare sensibilmente il tasso di disoccupazione, che quest’anno si prevede attorno al 10 per cento . In una proiezione, l’Ocse6 stima che, stanti le attuali tendenze della spesa pubblica, il deficit dei conti previdenziali è destinato a dilatarsi fino al 7,75 per cento del Pil nel 2035. Nemmeno una crescita più rapida muterebbe radicalmente questo scenario: si otterrebbe soltanto una minore crescita del disavanzo. La sua ascesa si fermerebbe al valore di punta del 5 per cento del Pil nel 2035 .

L’urgenza d’intervenire sul sistema

Complessivamente, dagli elementi analitici e dalle considerazioni messi in luce si ricava il quadro di un sistema pensionistico obbligatorio che, pur dopo le riforme degli anni Novanta, non riesce a dare un contributo al futuro sviluppo dell’economia e della società, ma tende piuttosto a porsi come freno per entrambi . Le riforme dal 1992 in poi hanno lasciato aperti non pochi problemi di ampia portata, i quali non riguardano soltanto la sostenibilità finanziaria della crescente spesa previdenziale. Il sistema interferisce negativamente con determinanti importanti per la crescita economica e sociale, quali la dinamica delle forze di lavoro, gli incentivi al lavoro, l’occupazione, la propensione al risparmio, l’accumulazione di capitale produttivo, l’adeguatezza delle politiche di protezione sociale. Non intervenire e mantenere il sistema nelle condizioni attuali non rappresenta un’alternativa socialmente valida, perché non garantisce ai futuri pensionati una protezione dei loro standard di vita, né rende le correzioni del sistema più agevoli in futuro. Al contrario, con il prossimo ingresso nelle file dei pensionati di più folte schiere di lavoratori, gli aggiustamenti saranno socialmente più dolorosi in quanto dovranno toccare anche gli stessi pensionati. Né il problema si dissolve semplicemente puntando sull’innalzamento dell’occupazione, dato che misure di questo tipo non sono sufficienti. La direzione appropriata sembra quella che contempla un ventaglio di interventi, che tocchino il sistema pensionistico, ma che stimolino anche la dinamica della produttività del lavoro, quale passaggio obbligato verso una crescita economica più intensa .

Le sfide maggiori stanno nel riuscire a coniugare esigenze ed obiettivi apparentemente in contraddizione, se non in conflitto, avendo per sfondo un’evoluzione demografica sfavorevole e un patto di solidarietà intergenerazionale che è divenuto iniquo per le future generazioni. Il rischio peggiore è di non riuscire a soddisfare le esigenze di vasti segmenti della popolazione, ma di perpetuare squilibri, distorsioni e iniquità .

10 ottobre 2003

(tratto da AA.VV., "Pensioni: guida a una riforma", Ricerche della Fondazione Ideazione, Roma, 2001)

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Saluti liberali

gianniguelfi
11-10-03, 22:51
Informaci sull' incidenza dell' evasione fiscale sul Pil, Pierfrancesco. Ma con parole tue, non con quelle del Tempo o di Ideazione.

Gianni

mustang
12-10-03, 11:25
....parole di D'Alema

Ieri Massimo D’Alema ne ha detta una giusta e quattro sbagliate. Quella giusta sulle barche, contro i pregiudizi diffusi verso chi ama il mare e se le compra (magari bisogna vedere quali, attenti al carbonio).
Sulle pensioni, invece, è andato in secca, sposando il veto sindacale e dimenticando in pieno che cosa proponeva da premier, sconfitto da Cofferati.
La riforma Berlusconi-Tremonti è per lui “rozza, ingiusta e ridicola”, ma la spiega miserella. Ridicola perché concentra i suoi effetti al 2008?
Ma la decantata Dini del 1995 “spalma” il passaggio dal retributivo al contributivo fino al 2030, 2060 se si contano i trattamenti di reversibilità, e la Svezia ha fatto la stessa cosa in 4 anni.
Rozza perché dal 1° gennaio 2008 chi ha 57 anni di età e 35 di contributi dovrà lavorare 3-5 anni di più?
Ma con la Dini chi aveva un solo giorno in meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995 avrà una pensione in media del 35-40 per cento in meno di chi di versamenti ne aveva un giorno in più.
Inapplicabile perché il governo doveva pensare dal 2001 a far decollare il secondo pilastro? Ma è quel che ha provato a fare, è nella delega della prima Finanziaria del Cav., se solo il sindacato non si fosse opposto alla decontribuzione.
Alla chiamata riformista, D’Alema si dichiara renitente.
Fassiniani, prodiani, morandiani, e anche macchinisti e frenatori direbbe Totò, qualunque sia la vostra casacca fatevi avanti.
O avanzate proposte concrete e solide, oppure lasciate fare a Bertinotti-Epifani.
E vediamo se poi vi toccherà governare o andare in barca.

saluti

anton
12-10-03, 11:53
Complessivamente, dagli elementi analitici e dalle considerazioni messi in luce si ricava il quadro di un sistema pensionistico obbligatorio che, pur dopo le riforme degli anni Novanta, non riesce a dare un contributo al futuro sviluppo dell’economia e della società, ma tende piuttosto a porsi come freno per entrambi .
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DA RIMBAMBITI.....PORTOABORSE O STUPIDI TROMBONI DEL POTERE,,,,,
QUESTE PENSIONI DOVREBBERO DARE UN CONTRIBUTO ALLO SVILUPPO DELL'ECONOMIA..... COME?? DIMINUENDO LE PENSIONI E QUINDI LA DOMANDA?? è PROPRIO PER QUESTO CHE DIVENTANO UN FRENO..
QUANTO ALLA PERCENTUALE DI INCIDENZA SUL PIL O SUL GETTITO FISCALE è OVVIO CHE DIMINUENDO QUEST'ULTIMO, PER RIDUZIONE DI TASSE O ABOLENDO LA TASSA DI SUCCESSIONE, L'INCIDENZA DELLA SPESA PENSIONISTICA CONTINUERà AD AUMENTARE FITTIZIAMENTE. ....
MA QUESTO PROVA SOLTANTO CHE SI AUMENTANO I PRIVILEGI DEI RICCHI E SI FANNO AUMENTARE I POVERI....

mustang
12-10-03, 18:00
...provo a chiarire.

Previdenza sociale significa che per legge il cittadino deve mettere da parte una somma che gli permetterà di vivere "dignitosamente" gli ultimi anni di vita.
Risulta evidente che chi mette via di più avrà di più.
A qualcuno potrà dare fastidio, come capita spesso per le cose "reali".

Però sappiamo pure che qualcuno non ce la fà a mettere da parte il gruzzoletto.
Questo "qualcuno" ha da essere aiutato.
Su questo non ci piove.
Infatti, caro cciappas, questo stramaledetto governo ha elevato proprio quelle pensioni che altri governi (e tutti sanno a quali mi riferisco) hanno finto di non vedere o di non poter portare a livelli più decenti. Il famoso detto dalemiano del "volevo ma non potevo".

L'Inps dovrebbe gestire solo i soldi che gli arrivano dai "lavoratori" per poi ridarglieli, aumentati dagli interessi maturati o da altri introiti, alla fine della vita di lavoro.

Eventuali ritocchi, necessari per i più sfortunati o lavativi ( in questo caso dopo profonde indagini) dovrebbero essere dati da un altro Ente esterno all'Inps. Sotto la "cappella" delle Finanze.
Tutte le somme "ritenute per legge ai fini pensionistici" non dovrebbero pagare le tasse.
Come pure le pensioni.

Che sono frutto del sudore dei lavoratori e delle capacità degli imprenditori che lo Stato raccoglie per legge come Previdenza sociale.
Altrimenti togliamo la qualifica di sociale.

Pieffebi
12-10-03, 19:40
In origine postato da gianni g.
Informaci sull' incidenza dell' evasione fiscale sul Pil, Pierfrancesco. Ma con parole tue, non con quelle del Tempo o di Ideazione.

Gianni

Se è per questo sarebbe assai più attinente al 3d il tema dell'evasione previdenziale .......
Personalmente pago le tasse da sempre e ritengo che ogni governo abbia interesse che le tasse siano pagate. Se non altro per mantenere in equilibrio i conti e poter mantere le promesse.
Il resto.................... e benaltrismo luogocomunista.

Saluti liberali

Pieffebi
13-10-03, 21:55
dal sito di IDEAZIONE

" L’Italia e le pensioni degli europei
di Giuseppe Pennisi

L’Europa, ed in particolare i 15 paesi che formano l’Unione europea (Ue), appaiono, nel contesto mondiale, come un continente di piccole dimensioni e densamente popolato da una popolazione in contrazione ed anziana, nonché attorniato da continenti vasti e con popolazioni in espansione e giovani. Secondo le proiezioni demografiche di William Frey della Brookings Institution, se non ci sarà un drastico cambiamento di tendenza, nel 2050 l’età mediana della popolazione dell’Ue (cioè quella della fascia più numerosa) sfiorerà i 52 anni, mentre l’età mediana della popolazione degli Stati Uniti sarà sui 34 anni; da oggi ad allora, l’Europa (ampliata ai 10 paesi che entreranno nell’Ue l’anno prossimo) avrà perso circa 20 milioni di persone, a ragione principalmente del declino del tasso di fertilità, mentre agli Usa se ne saranno aggiunte 30 milioni, grazie sia all’alta fertilità sia all’immigrazione (in gran misura di giovani) . Ancora più bassa l’età mediana del Medio Oriente, dell’Asia e dell’Africa: l’isola vecchia e ad alto reddito è accerchiata sia da un continente giovane, nonché da alto reddito ed alta produttività (gli Usa), sia da vaste regioni giovani e a basso reddito ma con produttività in rapido aumento. L’invecchiamento del continente ha molteplici conseguenze economiche: una maggiore avversione al rischio (e, quindi, la tendenza ad investire in attività meno innovative); un aumento del tasso di consumi: sia individuali sia collettivi, e una riduzione di quello di risparmio e di investimento; una più rapida obsolescenza dell’apparato produttivo; il declino dell’incremento della produttività; il peggioramento della competitività. Questa nota riguarda una sola delle tante ramificazioni del problema: le implicazioni sui sistemi previdenziali e le correzioni di rotta possibili nel breve e medio periodo, in particolare quelle da impostare in questo semestre in cui l’Italia è alla guida degli organi di governo dell’Ue.

Un dato statistico a contenuto politologico spicca su tutti gli altri: l’età mediana degli europei è ancora più elevata (rispetto a quelle del resto del mondo) se si considera solo la popolazione degli aventi diritto a voto (escludendo, quindi, le fasce più giovani): già adesso si avvicina ai 45 anni con la conseguenza che l’elettore mediano (quindi il più numeroso) ritiene di avere accumulato una consistente ricchezza pensionistica (da incassare al momento di andare a riposo) e di avere un forte interesse legittimo in sistemi previdenziali tali da assicurargli il mantenimento del proprio tenore di vita al termine dell’attività lavorativa. Dunque, ritardare riforme in materia previdenziale vuole dire rendere più arduo farle approvare domani da un elettorato più vicino a toccare con mano i benefìci di sistemi che attuano trasferimenti di risorse dai giovani agli anziani .

Alcune cifre sono eloquenti. L’effetto combinato di fasce di età che raggiungono l’età della pensione e dell’aumento dell’aspettativa di vita sta provocando il raddoppio del “tasso di dipendenza” (cioè, il rapporto tra coloro che hanno più di 65 anni e chi è in età lavorativa, quindi tra i 15 e i 64 anni): mentre nel 2000, gli ultra-sessantacinquenni erano pari ad un quarto della popolazione dell’Ue in età attiva, nel 2050 ne saranno pari alla metà. Anche ove il tasso di fertilità nell’Ue cominciasse ad aumentare (ed a crescere rapidamente), gli effetti di tale, peraltro improbabile, scenario sulla dinamica demografica non si sentiranno prima nel 2025-2030. Da ora ad allora, pure nelle ipotesi più ottimiste, i sistemi previdenziali dell’Ue dovranno fare fronte alle tensioni innescate da “gobbe”, più o meno severe, e tali comunque da mettere a dura prova la loro sostenibilità economica e finanziaria .

Le politiche pubbliche

Sino ad alcuni anni orsono, unicamente i demografi, gli economisti e l’alta dirigenza dei dicasteri economici e finanziari pareva avere contezza degli effetti dell’invecchiamento sui meccanismi previdenziali dei paesi dell’Ue – quasi esclusivamente “a ripartizione”, basati, quindi, sul principio secondo il quale sono i lavoratori attivi a pagare, tramite la fiscalità generale o contributi specifici (quasi sempre sulle retribuzioni), le prestazioni previdenziali per chi è a riposo. Ora la consapevolezza si è estesa ed approfondita: indagini demoscopiche provano che una vasta maggioranza degli europei vedono con pessimismo il futuro dei sistemi previdenziali (specialmente di quelli pubblici) e temono di avere, un domani, redditi da pensione molto bassi, se non si interverrà subito con i correttivi e con le riforme necessarie. Gli shock finanziari di dieci anni fa, e la crisi degli accordi di cambio europeo con la svalutazione di alcune monete (tra cui specialmente pesante quella della lira), hanno contribuito a fare aprire gli occhi e ad innescare il processo di riforma.

Una risposta fin troppo ovvia da parte delle politiche pubbliche potrebbe consistere nell’alzare l’età legale dei limiti di età per andare in pensione (tipicamente 65 anni in gran parte dei paesi dell’Ue), tanto più che l’età effettiva della pensione si pone tra i 56 ed i 60 anni (a seconda delle caratteristiche specifiche di ciascun paese dell’Ue) e che mediamente gli europei passano 20 anni in pensione (rispetto ai 13 riscontrati negli anni Sessanta). Calcoli effettuati nel 1984 nei Paesi Bassi (nell’ambito del “patto sociale” allora in allestimento in Olanda) concludevano che una correzione di rotta basata esclusivamente sull’età legale della pensione (senza toccare parametri quali i livelli dei contributi e delle prestazioni) avrebbe suggerito di portarla a 81 anni; elaborazioni econometriche effettuate nel giugno 2003 nel quadro del dibattito sulla riforma della previdenza in Austria pongono a 80 l’età della pensione a cui si dovrebbe puntare senza cambiare gli altri aspetti del sistema .

Un’altra risposta sin troppo ovvia sarebbe quella di facilitare lo sviluppo di previdenze complementari o integrative “a capitalizzazione” sia private sia pubbliche (in base alle quali le pensioni vengono finanziate con i rendimenti degli accantonamenti effettuati durante la vita attiva). L’alto onere contributivo ora vigente lascia poco spazio per i risparmi necessari a questo scopo (specialmente durante la transizione da sistema “a ripartizione” a sistema “a capitalizzazione”). Inoltre, il crollo delle valorizzazioni sui mercati finanziari dal marzo 2000 ed i loro effetti sui fondi pensione nei paesi (Olanda, Irlanda, Regno Unito) che più li avevano sviluppati non incoraggia i futuri pensionati (specialmente se prossimi all’età di quiescenza) ad andare verso questa strada. In alcuni paesi (ad esempio in Italia), ulteriore ostacolo è una normativa che promuove la frammentazione tra tanti piccoli e fragili fondi, tali da essere spazzati via alle prime intemperie sui mercati finanziari.

Nonostante questi vincoli, gli anni Novanta sono stati una fase di frequenti e, in certi casi, importanti riforme previdenziali in quasi tutti i paesi dell’Ue. Alla base delle riforme non c’è solamente la crescente consapevolezza dell’insostenibilità economica e finanziaria dei sistemi in vigore, ma anche e soprattutto un cambiamento concettuale, in effetti filosofico, poco studiato nella letteratura previdenziale in generale ed in quella italiana in particolare. Nell’esperienza dell’Europa occidentale, lo “Stato sociale” e specialmente la previdenza sono stati per decenni fondati su assunti filosofici “conseguenzialisti” che hanno plasmato “la teoria del benessere sociale”. L’accento è posto sulle “conseguenze” (ad esempio, delle imperfezioni del mercato e delle asimmetrie informative) e sui risultati da auspicarsi grazie alla mano visibile dell’intervento pubblico; gradualmente, da circa due decenni, a ragione in gran misura alla diffusione di lavori teorici come quelli di John Rawls, pure in Europa il “conseguenzialismo welfarista” sta perdendo terreno a favore del “contrattualismo” e “neo-contrattualismo”: dati vincoli etici, la protezione dei diritti (e dei “titoli”) ed eque regole del gioco, gli individui sono liberi di perseguire i loro obiettivi tramite “contratti sociali” con gli altri, ossia con il resto della società. In materia di politica sociale e previdenziale, ciò implica maggiore libertà di scelta in termini di contributi in vita attiva e di future prestazioni, di età della pensione, diversificazione del rischio tra due o più pilastri, e via discorrendo . Questo cambiamento filosofico (molto profondo soprattutto presso le giovani generazioni europee) è alla radice delle riforme degli anni Novanta.

Le correzioni apportate in Europa ai sistemi vigenti alla fine degli anni Ottanta sono di due categorie: a) “parametriche”; e b) “strutturali” o “sistemiche”. Le prime mettono l’accento su alcuni parametri (tipicamente: età legale per la pensione, livello dei contributi e delle prestazioni). Le seconde cambiano la struttura o il sistema della previdenza. Negli anni Novanta, riforme “parametriche” sono state adottate in Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Portogallo e Spagna. Una nuova tornata di riforme “parametriche” è in vario stadio di attuazione in Austria, Francia e Germania. Le riforme “parametriche” arrivano presto al capolinea, come si è visto in precedenza a proposito di correzioni basate unicamente sul parametro “età della pensione”.

Il Regno Unito e l’Irlanda (che comunque avevano meccanismi previdenziali molto differenti da quelli del resto dell’Ue) hanno introdotto riaggiustamenti significativi. Nel contesto europeo, l’Italia e la Svezia sono i soli paesi che hanno ideato ed attuato riforme “strutturali” o “sistemiche”. In Italia la riforma “sistemica” del 1995-97, da affinarsi con i decreti delegati risultanti dal disegno di legge delega presentato nel 2001, è stata messa in cantiere dopo una riforma “parametrica” (quella del 1992-93) che aveva suscitato grandi aspettative ma rivelatasi di respiro molto corto. La caratteristica comune delle riforme “sistemiche” attuate in Italia ed in Svezia è di mantenere meccanismi a “ripartizione” ma di basare le prestazioni sui “contributi” effettivamente versati (e su una serie di coefficienti per i loro rendimenti e la loro trasformazione in rendite) . Il Notional defined contribution (Ndc) – è questo il termine con cui il “contributivo” viene indicato nel lessico internazionale – viene considerato come la maggiore innovazione, a livello mondiale, degli ultimi anni in materia di risposta delle politiche pubbliche ai nodi della previdenza. È stato adottato dalla Polonia e da alcuni Paesi Baltici; è in fase di avanzata considerazione nella Federazione Russa ed in molti Paesi dei Caraibi, nonché per una seconda tornata di riforme in America Latina (in seguito agli effetti sui fondi privatizzati della crisi delle borse in atto dal marzo 2000); è tra le misure proposte dalla Commissione presidenziale per la riforma delle pensioni Usa. E’ stato oggetto di un importante simposio internazionale il 2-4 giugno a Barbados, di convegni in programma a Stoccolma dal 28 al 30 settembre ed a Washington il 13-14 novembre.

È utile partire dal Ndc nell’esperienza di Svezia ed Italia (quella della Polonia è ancora agli inizi) per delineare una possibile strategia. Le caratteristiche del “contributivo all’italiana” sono molto note. Meno conosciute quelle dell’esperienza svedese, nonostante un recente seminario del Cnel che ha comunque ricevuto pochissima attenzione. In Svezia, la riforma “sistemica” della previdenza ha origini lontane, anche se la normativa quadro è stata varata solo nel 1994 e le leggi applicative nel 1998. Non ha origine dal peso delle pensioni sulla finanza pubblica (il 9 per cento del Pil all’ultima conta, rispetto al 15 per cento del Pil in Italia) e non è stata innescata da una crisi valutaria quale quella che ha travolto la lira nel 1992. Il sistema svedese, in vigore dal 1960 circa, era articolato in una pensione di vecchiaia eguale per tutti e da una pensione retributiva supplementare su base occupazionale le cui caratteristiche variavano, entro certi limiti (e nell’ambito di “tetti” complessivi non molto elevati), da categoria a categoria. Il sistema era rigorosamente “a ripartizione”. Le determinanti che hanno portato, nel 1991, all’insediamento di una commissione per la riforma della previdenza sono tre: a) la preoccupazione che il sistema comportava severe rigidità nel mercato del lavoro e avrebbe frenato la competitività proprio in una fase in cui l’adesione dalla Svezia all’Ue ne imponeva un potenziamento; b) il continuo aumento dell’aspettativa di vita alla nascita; c) dimostrazioni econometriche che l’elevato livello di copertura tra pensione di base e supplementare comportavano una riduzione del tasso di risparmio privato. Al fine di contrastare parte di questi effetti, nella seconda metà degli anni Ottanta era stato creato un “fondo di riserva” (la cui consistenza è adesso pari ad un quarto del Pil) la cui gestione è stata affidata a quattro operatori privati in seguito ad una procedura concorsuale competitiva.

La riforma del 1994, frutto di un compromesso tra posizioni inizialmente molto differenti, è stata approvata dall’80 per cento del Parlamento, in modo, quindi, molto consensuale (mentre quelle adottate in Italia sono state sempre caratterizzate da aspre fasi conflittuali). Anche le normative specifiche del 1998 hanno avuto una solida base consensuale; tramite queste normative si è definito un periodo transitorio che terminerà nel 2004 quando il nuovo sistema sarà interamente in vigore . In Italia, invece, il periodo transitorio è di 18 anni ma, secondo alcune stime, le ultime pensioni di reversibilità computate, almeno in parte, secondo il regime contributivo verranno erogate sino al 2060-2070 . Il “contributivo svedese” è a più pilastri. Il pilastro pubblico è finanziato tramite un prelievo del 18,5 per cento su salari e stipendi (invece del 36 per cento circa in vigore in Italia). Questa aliquota complessiva è, a sua volta, in due parti: il 16,5 per cento serve a finanziare una pensione “contributiva” le cui prestazioni sono funzione, principalmente, dei versamenti e dell’età in cui si decide di andare a riposo; il 2 per cento alimenta una “pensione premio” ed è investito in un fondo pensione “a capitalizzazione” a scelta del lavoratore. Un secondo pilastro è rappresentato da fondi integrativi aziendali o categoriali (di norma finanziati tramite prelievi aggiuntivi del 2,5-3 per cento di salari e stipendi): rappresentano il 15 per cento delle erogazioni previdenziali complessive. Un terzo pilastro sono conti previdenziali individuali agevolati fiscalmente: il 5 per cento delle erogazioni previdenziali totali. Ogni anno, l’equivalente svedese del nostro Inps invia a ciascun iscritto una busta colore arancione che contiene una lettera con informazioni dettagliate sulla posizione previdenziale in base al pilastro pubblico; informative analoghe vengono mandate dai fondi pensione e da banche e finanziarie per quanto attiene “i conti previdenziali individuali”.

Unitamente a riforme per rendere più flessibile il mercato del lavoro ed incoraggiare il lavoro degli anziani (eliminando, in pratica, i limiti di età), il “contributivo alla svedese” sta avendo effetti positivi sotto il profilo sia economico sia finanziario. Proiezioni al 2050 suggeriscono che, nonostante l’invecchiamento della popolazione, la spesa pubblica per la previdenza aumenterà gradualmente dal 9 per cento al 10,7 per cento del Pil (e non ci saranno “gobbe” tali da portarla, come in Italia, al 17/19 per cento del Pil); il tasso di risparmio delle famiglie sul reddito disponibile ha raggiunto il 5,2 per cento nel 2001 (e stime preliminari per il 2003 lo pongono all’8,2 per cento) rispetto al 2,5 per cento del periodo a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Il tasso di occupazione degli anziani è elevato (il 66,5 per cento in media e il 69 per cento per gli uomini) sia rispetto alle medie europee, sia soprattutto riguardo alla situazione italiana (28 per cento in media e 40 per cento per gli uomini). Le differenze principali tra il “contributivo all’italiana” e quello “alla svedese” risalgono alla storia dei due sistemi previdenziali e non possono essere appianate in un lasso di tempo relativamente breve.

Un problema all’orizzonte in Svezia (come peraltro in Italia) è il meccanismo di indicizzazione delle pensioni pubbliche: agganciato solo all’indice dei prezzi al consumo non incorpora gli aumenti di produttività e, se tali aumenti sono sostenuti (pure grazie alla rivoluzione tecnologica in atto), comporta un impoverimento relativo dei pensionati, specialmente di quelli che hanno una lunga vita in quiescenza. Le riforme “sistemiche” adottate in Italia ed in Svezia possono rappresentare una soluzione ai problemi previdenziali dell’Ue? Naufragata l’idea di una “Maastricht previdenziale” (ossia di un accordo europeo sulle linea-guida ed i parametri da adottare), si profila una lenta e graduale “Lisbona previdenziale”, un confronto progressivo sulle prassi migliori da incorporare dei sistemi pensionistici dei singoli paesi dell’Ue analogo, sotto il profilo metodologico, a quello adottato dal Consiglio europeo del marzo 2000 per rilanciare la competitività e l’innovazione tecnologica in Europa. Ci sono lezioni che si possono già trarre dalle analisi comparate effettuate e dai dibattiti nei simposi internazionali a cui si è fatto cenno? Quali sono pertinenti sia alle discussioni in corso in Italia sia della posizione che ha l’Italia alla guida degli organi di governo dell’Ue? Delle tante, tre sono le più pertinenti ed urgenti.

In primo luogo, il passaggio a sistemi “contributivi” comporta tensioni tra due obiettivi contrastanti, ed impliciti in tutti i meccanismi previdenziali: il mantenimento dei livelli di reddito (per le fasce medie e medio-alte) e la ridistribuzione a favore di quegli anziani che in vita attiva hanno avuto bassi salari e frequenti periodi di disoccupazione od inoccupazione. Se non temperato, il “contributivo” pone a rischio soprattutto le donne (una volta raggiunta la terza età). Ciò implica tetti alle prestazioni meno elevati di quelli in atto in Italia (al fine di disporre delle risorse necessarie per ridistribuire a favore dei meno fortunati). Ciò vuole anche dire limiti al cumulo dei redditi da lavoro – quanto meno prima che siano stati raggiunti i 65 anni (età che in molti paesi del club del “contributivo” sta viaggiando verso i 67 anni). Ciò comporta anche “contributi di solidarietà” in capo ai beneficiari di pensioni più consistenti. Secondo Banca mondiale e Ocse, il tetto dovrebbe essere pari a quattro volte il salario medio (quindi, circa 2,500 euro al mese al lordo delle imposte). In secondo luogo, transizioni troppo lunghe da varie guise di “retributivo” a varie fogge di “contributivo” aggravano i problemi, prima di risolverli. La “gobba” previdenziale italiana viene spesso indicata come un esempio di questo fenomeno . Un’accelerazione delle fasi di transizione è auspicabile e deve essere studiata con cura. In terzo luogo, la gestione di “conti previdenziali individuali” alla base del “contributivo”, anche del pilastro pubblico, significa profonde modifiche nel funzionamento degli enti ed istituti di previdenza in Italia ed in gran parte degli altri paesi dell’Ue. Questo cambiamento è reso fattibile dalla net economy – come sviscera Robert Shiller nel suo ultimo libro – ma non si realizzerà senza un management all’altezza (aperto al resto del mondo ed accettato, dunque, nel club del “contributivo”) e senza vasti e profondi programmi di formazione del personale .

10 ottobre 2003

(da Ideazione 5-2003, settembre-ottobre) "


Saluti liberali

Pieffebi
27-10-03, 17:02
dal quotidiano di Confindustria

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Il Sole 24 ore del 27/10/2003


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Previdenza / In base ai dati della Commissione Brambilla il sistema sarà in equilibrio a partire da chi ha iniziato a lavorare nel 2000

Nel 2035 pensioni pagate dai contributi
Solo allora gli anni di vita residua saranno «coperti» dai versamenti
Giuliano Cazzola
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Il rito si è consumato: lo sciopero generale è cosa fatta. Perché non voltare pagina? Il Governo si è dichiarato disponibile a discutere gli aspetti più controversi (dal punto di vista sindacale) della riforma previdenziale: i criteri per lo smobilizzo del Tfr e le modalità della cosiddetta decontribuzione (ovvero della riduzione fino a cinque punti percentuali dell'aliquota contributiva per i nuovi assunti).
Inoltre, l'esecutivo ha assunto un (singolare) impegno: se le parti sociali presenteranno una proposta complessivamente equipollente, per quanto riguarda i risparmi a regime, il Governo è pronto a prenderla in considerazione. Sarebbe bene, allora, che Cgil, Cisl e Uil scegliessero una linea di confronto. Un comportamento di assoluta e assurda intransigenza creerebbe seri problemi anche all'ala riformista dell'opposizione i cui più autorevoli esponenti (si vedano le recenti dichiarazioni di Piero Fassino e di Enrico Letta) non se la sentano di schierare la coalizione su di una posizione negativa in controtendenza rispetto a quanto avviene in diversi Paesi europei, su esplicita indicazione della Ue.
- Il progetto del Governo. I punti salienti del progetto governativo sono noti. Dopo l'emendamento del Governo non mancano certo elementi di carattere strutturale nel progetto di riforma delle pensioni Maroni-Tremonti. Oltre a quanto previsto nel disegno di legge già approvato dalla Camera si è aggiunta una robusta misura sull'età pensionabile, nel senso che, a partire dal 1° gennaio 2008, si potrà andare in pensione solamente di vecchiaia (65/60 anni) o dopo aver maturato 40 anni di contribuzione oppure - sperimentalmente fino al 2015 - optando per il trattamento di anzianità (57 anni di età, 58 se si tratta di lavoratori autonomi, e 35 di versamenti).In quest'ultimo caso, però, la prestazione sarà calcolata con il metodo contributivo. Fino alla fine del 2007, invece, sono confermate le regole attuali, con l'aggiunta di un ricco bonus contributivo e fiscale per quanti (dipendenti pubblici o privati), avendo maturato i requisiti del trattamento di anzianità, decidessero di rimanere in servizio.
- Le conseguenze. Continuiamo a pensare che sarebbe stato meglio anticipare la revisione dell'impianto della legge Dini e andare a regime con maggiore gradualità. Oltre a ragioni di natura finanziaria (fino al 2008 non vi sarà una riduzione della spesa pensionistica, proprio quando, entro il 2006, l'Italia dovrebbe realizzare il pareggio di bilancio) la soluzione indicata dal Governo è assai discutibile sul versante dell'equità, nel senso che saranno ricompensati (con gli incentivi appunto) coloro che già sono beneficiati dalle regole del sistema pensionistico. Si osservi, in proposito, la tabella a fianco, presa dalla relazionedella Commissione presieduta da Alberto Brambilla che, alla fine del 2001, condusse la verifica sulle performance della riforma Dini. Ricordiamo, per inciso, che quella relazioneviene sempre citata dai sindacalisti a sostegno delle loro tesi. Vi sono calcolati, per diversi periodi lavorativi ed età anagrafiche, gli anni di pensione coperti dai contributi versati, rispetto alla vita residua al pensionamento (del titolare e del coniuge superstite).
A 58 anni di età, con 35 anni di anzianità, in sostanza, grazie al vantaggio insito nel calcolo retributivo (che rapporta il trattamento pensionistico al reddito dell'ultimo periodo della vita attiva) le coorti dei pensionati dei prossimi anni (fino al fatidico 2015) riceveranno già un rilevante beneficio non sostenuto dal relativo apporto contributivo, nel senso che il loro montante versato lascerà scoperti un bel numero di anni, durante i quali la pensione sarà ugualmente erogata . Una sostanziale equivalenza tra contributi versati e vita residua (la differenza sarà di circa un anno) si raggiungerà solo intorno al 2035, nel pieno del sistema contributivo, per coloro che hanno iniziato a lavorare nel periodo 2000-2010. Si capisce, allora, che il disegno del Governo - di esonerare dalla riforma i pensionati dei prossimi anni e di premiarli con le incentivazioni - corrisponde a un calcolo politico in vista del 2006, quando scadrà la legislatura.
- Maggiore equità. Sarebbe il caso, allora, di non tralasciare l'iniezione di ulteriori dosi di equità, in occasione del dibattito parlamentare. Alla fine del 2007, infatti, il passaggio al nuovo regime (il cosiddetto «scalino») continua a restare troppo brusco. Sarebbe certamente più efficace e giusta una scelta che agisca gradualmente e preventivamente sull'età anagrafica, anziché sull'anzianità contributiva, e che dislochi, nel prossimo decennio, l'età minima di pensionamento in un range flessibile compreso tra 62 e 67 anni . Adesso la riforma è strabica. "

Saluti liberali

Pieffebi
08-12-03, 15:10
up!!

Dario
09-12-03, 15:54
Perchè nessuno parla mai dei contributi che lavoratori ed imprese versano per fini pensionistici e vengono invece utilizzati per fini assistenziali, compresa mobilità e cassa integrazione? Queste risorse non dovrebbero forse derivare da altre fonti invece che impoverire il monte pensioni?

lsu
10-12-03, 20:57
In origine postato da Dario
Perchè nessuno parla mai dei contributi che lavoratori ed imprese versano per fini pensionistici e vengono invece utilizzati per fini assistenziali, compresa mobilità e cassa integrazione? Queste risorse non dovrebbero forse derivare da altre fonti invece che impoverire il monte pensioni?

Perchè molti dei signori qui sopra, di centrodestra, che trovano ottima la riforma delle pensioni, non ricordano che le pensioni gliele pagheremo noi giovani eterni precari, noi che non andremo mai in pensione se non con cifre da fame. Dopo aver vissuto con cifre da fame. Senza mai aver evaso fiscalmente.

Dario
11-12-03, 10:08
Tristemente realistico.

Pieffebi
11-12-03, 14:15
Io pago regolarmente i contributi da ben oltre 20 anni. Nessuno mi paga la pensione. Stando alle regole di quando sono stato assunto fra pochissimi anni avrei avuto diritto alla "minima". Sono totalmente d'accordo invece di dover lavorare almeno altri 20 anni (per raggiungere, a Dio piacendo, i 65 di età). E' giusto, anche se non piacevolissimo sul piano personale.

Saluti liberali

lsu
12-12-03, 13:02
In origine postato da Pieffebi
Io pago regolarmente i contributi da ben oltre 20 anni. Nessuno mi paga la pensione. Stando alle regole di quando sono stato assunto fra pochissimi anni avrei avuto diritto alla "minima". Sono totalmente d'accordo invece di dover lavorare almeno altri 20 anni (per raggiungere, a Dio piacendo, i 65 di età). E' giusto, anche se non piacevolissimo sul piano personale.

Saluti liberali

Non lo metto in dubbio.
Ma, correggimi se sbaglio, forse lavori per un Ente Pubblico e forse hai un contratto a tempo indeterminato. E il tuo Ente ha un CCNL.
Quindi hai quasi la certezza di poter lavorare e quindi versare contributi.

Se invece tu fossi un atipico che "gode" della legge 30 o di quelle altre porcherie contrattuali (che esistevano anche prima del II governo Berlusconi) flessibili e super-precarie, ti troveresti in questa condizione:
- lavorare saltuariamente
- impossibilità di fare un mutuo: la casa non la comprerai mai
- vuoti contributivi
- poco lavoro uguale pochi soldi uguale bassa qualità della vita ergo risparmiare su tutto anche su salute e formazione
- incertezza totale per il futuro: se non hai una posizione economica, non hai nemmeno una posizione sociale. Sinteticamente: non ti sposa nessuno.
- Figli? Come pensare di mantenerli?
- la riforma delle pensioni potrà risucchiare la liquidazione che finirà nel cumulo contributi che servirà a erogarti una miserrima pensione dell'ordine di un 70% della retribuzione media degli ultimi 10 anni lavorativi. Quindi, da pensionato prendi ancora meno di quando lavoravi.

Ebbene, a questo punto, che me ne faccio della pensione???
Meglio avere tutto in busta subito. E non dimenticare mai di vivere alla giornata...

Pieffebi
12-12-03, 22:17
Il problema che poni è serio, ma non attiene alla questione delle pensioni, ne' a quella della flessibilità del lavoro, ne' a quella del costo del lavoro e della competitività economica assunte isolatamente. Attiene alla trasformazione complessiva dello Stato Sociale, del mercato del lavoro e del sistema dei diritti.

Saluti liberali

mustang
13-12-03, 00:34
In origine postato da Dario
Perchè nessuno parla mai dei contributi che lavoratori ed imprese versano per fini pensionistici e vengono invece utilizzati per fini assistenziali, compresa mobilità e cassa integrazione? Queste risorse non dovrebbero forse derivare da altre fonti invece che impoverire il monte pensioni?
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Te ne accorgi solo ora?
Questo è il meraviglioso risultato ottenuto dopo anni e anni di consociativismo fra Dc e Pci e la concertazione fra governi e sindacati.
E dell'INPS, per legge "governata" dai sindacati.

lsu
15-12-03, 23:40
In origine postato da Pieffebi
Il problema che poni è serio, ma non attiene alla questione delle pensioni, ne' a quella della flessibilità del lavoro, ne' a quella del costo del lavoro e della competitività economica assunte isolatamente. Attiene alla trasformazione complessiva dello Stato Sociale, del mercato del lavoro e del sistema dei diritti.

Saluti liberali

E'come togliere 10 cc. di sangue alla volta ad una persona: ad un certo momento muore. Quale dei prelievi è stato mortale? Tutti.

Dario
16-12-03, 10:42
In origine postato da mustang
Te ne accorgi solo ora?
Questo è il meraviglioso risultato ottenuto dopo anni e anni di consociativismo fra Dc e Pci e la concertazione fra governi e sindacati.
E dell'INPS, per legge "governata" dai sindacati. Questo lo avevo già capito. Tuttti i problemi dell'Italia sono da imputare, in ordine, al PCI, ai sindacati e ai lavoratori. Questo dal 1945 a tutt'oggi!!

Si vede quello che ottiene il tuo "governo del fare" con il pugno di ferro.

Ma non ti senti mai un tantino sciocco e ridicolo?

Felix (POL)
27-12-03, 04:55
In origine postato da lsu
Perchè molti dei signori qui sopra, di centrodestra, che trovano ottima la riforma delle pensioni, non ricordano che le pensioni gliele pagheremo noi giovani eterni precari, noi che non andremo mai in pensione se non con cifre da fame. Dopo aver vissuto con cifre da fame. Senza mai aver evaso fiscalmente.

destra o sinistra poco importa. La questione si pone nei termini seguenti:

a - secondo il meccanismo pensionistico attuale le pensioni dei vecchi vengono pagate dai giovani che lavorano

b - se si verifica una sproporzione tra vecchi pensionati e giovani paganti, questi non avranno mai una pensione decente, avranno pagato per non avere altrettanto a contraccambio

c - il rimedio è mantenere una corretta proporzione tra giovani paganti e vecchi pensionati

d - quello che si deve fare dunque è elevare il tasso di natalita, che come tutti sanno in Italia è ridotto al lumicino, ovvero la miseria di 1,2 figli x donna. Con una ripresa demografica, nel giro di una ventina d'anni la situazione tornerebbe a posto

e - per rendere sicuro e coerente il sistema di "scambio generazionale" dell'assistenza pensionistica, propongo di vincolare l'erogazione di una pensione all numero di figli.

Mi spiego. Si darebbe comunque una pensione minima a tutti, quella che garantirebbe la mera sopravvivenza, indipendentemente dall'esistenza di figli o dal numero di questi.
Per avere però una pensione maggiore, si dovrà aver fatto "n" numero di figli nel corso della propria vita. Mettiamo 2 o 3 per avere un livello "B" (ponendo che chi non ne avesse avuti, o ne avesse solo uno, fosse al livello minimo "A"), 3 o 4 per un livello "C" e così via.
In questo modo si vincolerebbe direttamente la procreazione alla pensione, che è in effetti il complemento socio-strutturale dei versamenti.
Anni fa si era solo dato per scontato che la gente avrebbe fatto almeno due o tre figli, e si era quindi imbastito il sistema su questa supposizione. La caduta a picco della natalità a partire dagli anni '70 ha smentito ciò, e ha sconvolto tutti i calcoli.
Oggi si tratta di non dare più "per scontato" un impegno demografico, ma di responsabilizzare la gente sulla questione delle risorse per la generazione anziana. È quello che i sociologi chiamano "patto generazionale", ovvero la solidarietà che esiste (o dovrebbe esistere) tra una generazione e l'altra.
La proposta è ragionevole, densa di significato e di implicazioni solidaristiche, e dovrebbe suscitare simpatie sia a destra che a sinistra.

saluti

Dario
27-12-03, 15:29
In origine postato da Felix
destra o sinistra poco importa. La questione si pone nei termini seguenti:

a - secondo il meccanismo pensionistico attuale le pensioni dei vecchi vengono pagate dai giovani che lavorano.... Erore, co' du ere, come tera e come guera. Sennò è erore....

La mia pensione io me la sono pagata versando 37 anni di contributi all'INPS. Se questi soldi sono stati rubati o sono stati usati per fare assistenza, casse integrazioni, mobilità, ecc. ecc. venissero tirati fuori da chi li ha utilizzati in modo improprio (Ministero del Tesoro?)

P.S.: Il resto (la teoria della natalità) è già fallita all'era del Duce. E comunque ci sono gli extracomunitari che fanno abbastanza figli. Evitate di farli lavorare in nero e anche loro pagheranno le tasse come gli italiani.

Pieffebi
27-12-03, 17:42
In origine postato da lsu
E'come togliere 10 cc. di sangue alla volta ad una persona: ad un certo momento muore. Quale dei prelievi è stato mortale? Tutti.


Se fossi sotto terapia coumadinica il prelievo, anche a frequenza ravvicinata, potrebbe salvarti la vita ed evitare, non causare, il dissanguamento.

Saluti liberali

Felix (POL)
27-12-03, 18:06
In origine postato da Dario
Erore, co' du ere, come tera e come guera. Sennò è erore....

La mia pensione io me la sono pagata versando 37 anni di contributi all'INPS. Se questi soldi sono stati rubati o sono stati usati per fare assistenza, casse integrazioni, mobilità, ecc. ecc. venissero tirati fuori da chi li ha utilizzati in modo improprio (Ministero del Tesoro?)

P.S.: Il resto (la teoria della natalità) è già fallita all'era del Duce. E comunque ci sono gli extracomunitari che fanno abbastanza figli. Evitate di farli lavorare in nero e anche loro pagheranno le tasse come gli italiani.

hai detto una solenne c****a, scusa l'espressione.
La questione va al di là del DENARO, se non si era capito. È una questione di solidarietà generazionale, e di salute etnodemografica del nostro popolo italiano.
In pratica non hai fatto un commento alla mia proposta, hai solo espresso una reazione pavloviana in quanto persona individualista e materialista, menefreghista su tutto quanto riguarda il bene comune e la solidarietà sociale. Strano, da uno che si dice di sinistra....

:rolleyes:

Pieffebi
27-12-03, 18:16
da www.ansa.it

" PENSIONI, LA SPESA 2003 BALZA DELL'8,2% A 126,5 MILIARDI
ROMA - Non si arresta la crescita della spesa pensionistica dell'Inps che a fine 2003 segnera' un consistente +8,2% rispetto all'anno passato, frutto di una crescita sia del numero delle pensioni erogate (+1,1%), che del loro importo medio annuo (+6,6%). Nel complesso, l'importo annuo complessivo e' atteso crescere a 126.547 milioni di euro dai 116.856 milioni di un anno fa.
Emerge dalla Seconda nota di variazione al bilancio di previsione Inps dell'anno 2003 che l'Ansa e' in grado di anticipare e che indica in 134.052 milioni di euro il totale delle spese previdenziali per quest' anno: il 7,7% in piu' rispetto al dato di un anno fa (124.429 mln).
27/12/2003 13:13 "

Shalom!!!

krentak the Arising!
27-12-03, 21:27
In origine postato da Felix
destra o sinistra poco importa. La questione si pone nei termini seguenti

Sono d'accordo con la tua riflessione, anche se ritengo che il numero di figli non possa essere l'unico elemento in base al quale stabilire il valore della pensione da erogare (a meno che non abbia interpretato male il tuo pensiero).

Felix (POL)
27-12-03, 21:32
In origine postato da krentak
Sono d'accordo con la tua riflessione, anche se ritengo che il numero di figli non possa essere l'unico elemento in base al quale stabilire il valore della pensione da erogare (a meno che non abbia interpretato male il tuo pensiero).

infatti avevo proposto che una pensione minim debba essere garantita a tutti, anche senza figli. C'è anche chi, essendo sterile involontario, non ha colpa, nel qual caso andrebbe compensato con una quota.
Però rimane importante il principio di fondo: per avere una pensione bisogna fare i versamenti E FARE FIGLI, perchè i primi non bastano. È la generazione che viene dopo quella che paga, se non si fosse capito.

Dario
30-12-03, 20:49
In origine postato da Felix
hai detto una solenne c****a, scusa l'espressione.
La questione va al di là del DENARO, se non si era capito. È una questione di solidarietà generazionale, e di salute etnodemografica del nostro popolo italiano.
In pratica non hai fatto un commento alla mia proposta, hai solo espresso una reazione pavloviana in quanto persona individualista e materialista, menefreghista su tutto quanto riguarda il bene comune e la solidarietà sociale. Strano, da uno che si dice di sinistra.... E io, senza accorgermene, avrei fatto tutte queste cose? Ammappate quanto sò forte....

Per tornare a quel poco che ho capito del tuo discorso: io ho fatto 4 figli, posso riscuotermi la pensione per la quale HO VERSATO 37 ANNI DI CONTRIBUTI?

Felix (POL)
31-12-03, 02:52
In origine postato da Dario

Per tornare a quel poco che ho capito del tuo discorso: io ho fatto 4 figli, posso riscuotermi la pensione per la quale HO VERSATO 37 ANNI DI CONTRIBUTI?

ipotesi o realtà? nei due casi certamente ne avresti il diritto.
Con 3 o 4 figli la persona ha già dimostrato solidarietà, responsabilità ed impegno concreto per sostenere lo scambio di risorse tra generazioni. Merita quindi una buona pensione.

Dario
02-01-04, 14:21
E' realtà. Solo che, stupidamente, io considero condizione sufficiente per riscuotere la pensione il fatto di aver versato 37 anni di contributi.

La tua teoria sui figli mi pare che superi anche quella mussoliniana (raggiunge QUASI quella berlusconiana dei 1.000 euro dal secondo figlio in poi).

:lol :lol :lol

Felix (POL)
03-01-04, 00:13
stupidamente non so, ma di certo non hai fatto uno sforzo per comprendere il nocciolo del ragionamento sullo scambio solidaristico generazionale. Ti sei fermato solo ai soldi, ed agli slogans antiberlusconiani.

rileggi i post e rifletti

saluti

Dario
05-01-04, 12:40
In origine postato da Felix
stupidamente non so, ma di certo non hai fatto uno sforzo per comprendere il nocciolo del ragionamento sullo scambio solidaristico generazionale. Ti sei fermato solo ai soldi, ed agli slogans antiberlusconiani.

rileggi i post e rifletti

saluti Grazie Felix, ma ti assicuro di aver capito benissimo. E' un dibattito che facevamo anche tanti anni fa sul posto di lavoro. Lo "scambio solidaristico generazionale" benchè molto auspicabile, non è un sine qua non. Il problema è che lo stato italiano ha sempre basato le sue politiche come se questo scambio fosse naturale ed inalterabile, per cui ha usato i soldi che io ho versato per 37 anni per "altri fini".

Io inoltre sostengo che i miei figli pesano quanto i figli di Nuan-tong, mio vicino di casa filippino, in Italia da 14 anni e cittadino italiano.

E questa è una delle tante cose che la Lega non vuole capire, e per la quale si affanna a promettere 1.000 euro per il secondo figlio agli italiani. Anche la moglie di Nuan-tong, filippina cittadina italiana, prenderà i 1.000 euro per il terzo figlio che attende.

E adesso rifletti un pochino anche tu.... :D :D :D

P.S.: parlando di pensioni, mi viene quasi naturale pensare ai soldi. Di poesia parleremo domani. Sorry.

E le affermazioni contro Berlusconi non sono slogan. Purtroppo, prima o poi, te ne accorgerai anche tu che sono (tristi) fatti.

Pieffebi
20-04-04, 21:39
dal quotidiano di Confindustria

" Il Sole 24 ore del 20/04/2004


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Pensioni, l'ok del Senato prima del voto

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ROMA - Via libera del Senato alla riforma delle pensione prima della tornata elettorale. E il ministro Roberto Maroni non esclude che anche la Camera possa dare il suo sì definitivo prima del voto. Maroni assicura: dalla Conferenza dei capigruppo di palazzo Madama, in programma oggi, «gli scettici avranno qualche sorpresa». La riunione dovrebbe dare il via all'approdo in Aula della riforma per la prima settimana di maggio. Il testo giovedì potrebbe ottenere il disco verde della commissione Lavoro. Maroni ribadisce che sarà Berlusconi a convocare i sindacati. Ma Cgil, Cisl e Uil vanno all'attacco: l'assenza di confronto crea un problema di democrazia. E preparano nuove iniziative. Intanto l'Ocse afferma che Italia, Germania, Francia e Portogallo potrebbero superare la quota del 3% nel rapporto deficit-Pil. "

Saluti liberali

Pieffebi
12-10-04, 12:30
up!