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Visualizza Versione Completa : Lettera agli Italiani



Pieffebi
19-11-03, 14:43
dal Corriere della Sera

" Corriere della Sera del 19/11/2003


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Lettera agli italiani
Andrè Glucksmann
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Tutta la Storia testimonia del disdegno italiano per le avventure guerresche. Nelle grandi ore del Rinascimento le città della penisola, malgrado le continue battaglie, si accordavano per ridurre al minimo le perdite umane. Ci vollero le orde spietate calate dalla Francia e dalla Germania per spazzare via questo brillante abbozzo di una comunità europea dove l'arte di vivere prevaleva sull'arte della guerra, e i valori della civiltà sulle fantasticherie dell'aggressività militare. Nei peggiori momenti del XX secolo, persino le smargiassate del Duce non sfuggirono all'ironia dei suoi compatrioti, e alla resistenza di qualcuno di loro. È proprio perché noi europei sappiamo bene quanto - culturalmente, esteticamente e moralmente - l'umanesimo reinventato nel Quattrocento aborra i furori bellicosi, che siamo commossi e colpiti dall'esempio italiano.
D'un tratto, senza sgomento, né panico, né recriminazione, un popolo in lacrime ma dignitoso e raccolto si eleva all'altezza del compito. Ha compreso che i suoi carabinieri sono stati assassinati in una terra lontana perché l'Italia ha insegnato all'Europa l'arte e la dolcezza di vivere insieme in una società «civile», sfuggendo alla legge della sciabola e del ricatto terroristico. Per ricostruire l'Iraq e instaurare un minimo di democrazia, occorre garantire ai cittadini un livello elementare di sicurezza. I carabinieri sono morti per la pace, e tutta l'Italia sembra averlo capito. Resiste. Non si piega davanti agli assassini. Non ritira i suoi uomini. L'Italia è avanti rispetto ad altri Paesi tra i quali il mio, la Francia, così pronto tuttavia a dare lezioni ai vicini. Quando a Bagdad sono saltate in aria le sedi dell'Onu e della Croce Rossa, Ginevra ha denunciato - a ragione - un 11 settembre delle Nazioni Unite e delle Ong. Gli attentati hanno sempre come obiettivo la popolazione civile, perché colpiscono quanti vengono in suo soccorso.
Le prime vittime dei terroristi iracheni sono gli iracheni. Sabotare le condotte per togliere l'acqua ai bambini, e abbattere i guardiani di una fragile sicurezza, significa terrorizzare la gente comune. Alessandro Carrisi, il più giovane dei carabinieri, «ha fatto cose bellissime per i bambini iracheni», dice sua sorella. È stato ucciso. Cacciare «gli stranieri» è tentare di ristabilire il dominio dei più crudeli. L'Europa abbandonerà un popolo intero alla legge delle bombe umane? L'Italia dice no. Non vuole che i suoi figli siano morti per niente. Ma sembra, nel nostro Vecchio continente, piuttosto sola. L'istante sublime nel quale una nazione commemora i migliori dei suoi svanirà, le dispute proprie alle buone democrazie riprenderanno il loro corso. Ma non dimentichiamo che il sacrificio dei militari italiani si fa sentire ben aldilà delle frontiere e parla a tutti quelli, cristiani o musulmani, ebrei o atei, che osano squadrare il terrorismo dall'alto in basso, nella verità cruda della sua oscenità e della sua ferocia.
No, i vostri soldati non sono morti per nulla. Hanno fatto sbarramento a una barbarie nichilista dotata di una forza devastante che, a Manhattan, si è rivelata potenzialmente terribile quanto l'arma nucleare. «Che l'elettricità sia tagliata e il petrolio abbandonato nei pozzi. Che la vita civile si fermi. Alla fine, l'occupazione fallirà...»: così Joseph Samaha ha descritto due mesi fa (nel libanese El Safir) la «mentalità della distruzione» che ha colpito a Nassiriya. Diciannove dei vostri sono caduti nel campo della libertà. No, l'Italia non è sola. È davanti, in piedi. "


Non tutti hanno capito, caro signore. Solo tutti quelli che ne hanno gli strumenti culturali, morali e ....intellettivi, e non sono accecati dal ......"sol dell'avvenire".

Saluti liberali

Nanths
19-11-03, 14:55
Ma cos'è il trionfo della becera retorica? Ma basta, non se ne può più....

Pieffebi
19-11-03, 20:19
almeno armiamoci e partite.....dalla parte giusta......e contro il nemico giusto. Vista l'abitudine di tanti "intellettuali", come diceva Bertrand Russel, di essere quasi sempre dalla parte opposta degli intelligenti (e di dove dovrebbe condurre loro l'intelligenza), in politica.....una vera rarità.
Inoltre non ha parlato di Dio Po, nè di entità inesistenti. Ma di dati di fatto essenziali, seppur espressi in estrema sintesi.
Direi un articolo che presuppone un'analisi (che l'autore ha fatto altrove in occasioni diverse) ineccepibile, esposto in modo consono all'occasione. Benedetta la retorica.

Shalom!!!

Pieffebi
19-11-03, 20:45
da http://www.enel.it/magazine/emporion ...
" Medio Oriente
I tre volti del terrore
di Ludovico Incisa di Camerana

Il ruolo centrale dell’Iraq nell’attuale momento internazionale è ormai indubbio perché tale centralità è valida sotto diversi aspetti. Centrale è infatti il suo ruolo nel conflitto tra il mondo occidentale e il terrorismo: un conflitto che, come ha dimostrato l’attentato contro le truppe italiane a Nassiriya, è incompatibile con ogni forma di neutralismo e di radicalismo pacifista . Centrale è egualmente il suo ruolo nel futuro assetto strategico del Medio Oriente più ancora della Palestina dove la costruzione del muro, iniziativa non del tutto saggia, ha peraltro avuto l’effetto di indurre, almeno temporaneamente, il fronte arabo-palestinese a riflessioni più realistiche, permettendo i primi volonterosi approcci verso Israele del nuovo primo ministro Abu Ala. Centrale il suo ruolo come banco di prova della capacità degli Stati Uniti e delle potenze europee di trovare una soluzione concordata, non solo per l’Iraq ma per tutte le operazioni politiche e militari imposte dai nemici dell’Occidente . Centrale, infine, il suo ruolo nel destino delle formule di collaborazione universale incarnate delle Nazioni Unite, sempre più screditate dalla loro inefficacia di fronte alle nuove guerre del secolo XXI.

La priorità comunque è data dalla guerra contro il terrorismo, anche a causa della terribile sequenza che, nel corso di otto giorni di questo novembre, è stata contrassegnata: l’8 dalla tragica irruzione in un quartiere residenziale di Riad di un commando kamikaze, il 12 dall’assalto ad un presidio italiano in Iraq, il 15 dall’attentato alle due sinagoghe ad Istanbul. L’evidente concatenazione esistente tra questi eventi dimostra che l’offensiva terrorista rispecchia una strategia complessa, non solo diretta contro bersagli militari e politici, ma per nulla priva di obbiettivi psicologici . E’ quanto risulta da un’analisi dei tre episodi.

L’attentato di Nassiriya rientra nel terrorismo militare , nell’attacco suicida a basi militari. Si mira ad alzare il tiro, ad aumentare al massimo con la guerriglia la vulnerabilità delle guarnigioni militari occidentali in Iraq, costringendole prima o poi a reagire energicamente e indiscriminatamente, colpendo la popolazione, benché essa sia non meno vittima dei soldati stranieri . Tale terrorismo può essere sgominato solo da forze locali, nazionali ovviamente irachene, donde una necessità inderogabile: la ricostruzione rapida di quell’esercito locale improvvidamente disciolto e liquidato nell’euforia della guerra lampo della primavera scorsa .

L’attentato alle sinagoghe di Istanbul è un barbaro esempio di terrorismo, ma di terrorismo “politico” ossia rispondente a un calcolo preciso. Si è voluto scientemente sottolineare l’inammissibilità di una presenza religiosa ed etnica estranea in un paese governato da un governo islamico, anche se moderato. Si sono risuscitati i fantasmi delle persecuzioni subite, in una storia turca non remota, da minoranze religiose, come i cristiani armeni e greci e da minoranze etniche come i curdi. La strage avvenuta nell’ex capitale dell’impero ottomano preannuncia, insomma, una vita non facile per un paese come la Turchia, che non ha ancora completamente e chiaramente definito al suo interno il rapporto tra il potere civile, tendenzialmente confessionale e non privo di nostalgie arcaiche, e un potere militare, laicista e modernizzante ma fortemente nazionalista. Il fatto che la Turchia abbia assunto, nonostante l’appoggio avuto dagli Stati Uniti nell’Alleanza atlantica e nei rapporti con l’Unione Europea, un atteggiamento equivoco durante la campagna contro l’Iraq di Saddam Hussein, impedendo lo spiegamento dell’esercito americano nel territorio iracheno confinante, ha probabilmente indotto le centrali terroristiche ad identificare nella Turchia un anello debole dello schieramento occidentale e quindi un’area suscettibile di offrire uno spazio propizio a manovre eversive . In questo senso l’attacco alle due sinagoghe si presenta come un’azione destabilizzante contro il sistema politico turco, oltre a costituire un ulteriore atroce episodio del conflitto arabo-israeliano.

In questo contesto strategico si comprende meglio il significato di un’azione terrorista, quella nella capitale dell’Arabia Saudita che non ha registrato, diversamente dagli attentati, a suo tempo perpetrati in altri paesi musulmani, in particolare a Bali in Indonesia e a Casablanca in Marocco, vittime occidentali. Si è voluto, in primo luogo, chiaramente indicare alla ricca borghesia del mondo arabo, non solo saudita, ma anche egiziana, libanese, sudanese, asiatica (è appunto a nazionalità “orientali” cha appartengono le vittime) che la guerra scatenata dal fondamentalismo islamico contro l’Occidente non consente né la complicità con il nemico cristiano e occidentale né l’indifferenza o la neutralità . In secondo luogo in vista di una successione al trono saudita, non troppo lontana, al Qaeda, che ha un’origine e una fonte di finanziamento in un settore tribale locale, non ha esitato ad indicare con la sua sanguinosa impresa che cercherà d’influire sulla successione stessa più con le cattive maniere che con le buone, tanto che alcuno osservatori hanno ravvisato nella sanguinosa scorreria il prologo allarmante di una futura guerra civile. Nel frattempo i fatti di Riad non possono non diffondere un clima psicologico di sospensione, di insicurezza e di inquietudine nel mondo arabo .

Nell’insieme la strategia terrorista ha rivelato in una settimana cruenta, seguita altresì da una recrudescenza della guerriglia irachena, un disegno temibile perché freddamente coerente. Alla risposta inflessibile alla sfida data da Washington e Roma, deve perciò corrispondere una soluzione rapida della situazione irachena. Ma non bastano per questo le rituali evocazioni dell’intervento di una Onu che non ha mai fatto miracoli. Occorre una decisione comune, non influenzata da meschini risentimenti, della “vecchia” e della “nuova” Europa, congiuntamente con gli Stati Uniti. Una volta tanto da capitale del pettegolezzo e dell’inerzia politica Bruxelles dovrebbe trasformarsi per la questione del Medio Oriente in capitale delle idee e dei programmi operativi . ".

Bien dit.

Shalom!!!

mustang
19-11-03, 22:42
In origine postato da Nanths
Ma cos'è il trionfo della becera retorica? Ma basta, non se ne può più....
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La solita fastidiosa allergia al tricolore, nanths

Sei noioso.

mustang
19-11-03, 22:53
....vittime

Sono caduti, non sono vittime.
Hanno fatto l’appello ed è stato gridato “presente!”.
Sono caduti, infatti, non sono vittime.
Hanno avuto gli onori nel perimetro della falange.
Hanno avuto i grani recitati dai cappellani, sotto il profilo delle lance dei santi, accarezzati dal legno del Crocifisso.
Hanno avuto recitata la chiamata per nome e per grado, declinati secondo l’elegante formalità militare dove la morte non è un posto per farci entrare chi non racconterà più nulla, ma il luogo dove un popolo abbevera la propria memoria fino al racconto del granito mosso a commozione, una statua perfino.
E non è retorica questa bara sul camion nudo, puntellato col tricolore, lasciato scivolare nel corteo a marcia ridotta, quasi a evocare lo stantuffo dei muli: come un tempo, coi morti in grigioverde aggrappati sull’affusto di cannone (puntellato col tricolore).
Non è retorica rivederli ancora al ginnasio, confonderli con i nomi della lapide dell’atrio.
Non è retorica il frammento di Teognide: “Morendo non perirono, eterni essi s’ergevano a monumento”.
Sono caduti in guerra, non sono vittime civili – non sono capitati in una disgrazia per caso, non sono passanti strappati alla vita, non sono guardie ammazzate dai ladri, non sono i frutti frutti muti e innocenti di una cieca violenza, venuta da chissà dove – non hanno familiari da destinare a quella carriera molto in voga, quella dei “parenti delle vittime”.
Sono appunto combattenti lanciati nell’occhio del fuoco ed è perciò che non hanno uno di quei funerali con la rabbia telegenica, uno di quei riti cui abbiamo assistito tante volte, uno di quegli uffici gravati da procurata isteria ideologica.

Sono solo combattenti i caduti di Nassiriyah e hanno avuto un funerale lento.
Sono solo combattenti i carabinieri e i soldati di Nassiriyah e hanno avuto compostezza.
Nessuno ha potuto gridare “li hanno lasciati soli”, nessuno ha sputato contro le auto blu, nessuno ha innalzato indignazione contro lo Stato perché infine, i combattenti, non hanno mai uno Stato, i combattenti hanno solo una Nazione.
Questi combattenti di Nassiriyah, accompagnati dalle vedove, dagli orfani, dai loro pari cerchiati dalle bende, non hanno uno Stato di cui essere vittima e capro espiatorio a uso della folla, hanno la Nazione: una faccia di madre sfigurata dalla fierezza di avere figli degni di uscirsene dalla basilica di San Paolo con le note inzuppate della Leggenda del Piave.
Come un tempo, coi muli, sull’affusto di cannone.

Ferrara su il Foglio

Pieffebi
20-11-03, 14:01
dal quotidiano torinese

" La Stampa del 20/11/2003


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Da Londra il presidente americano lancia un «manifesto» per far fronte alle sfide del XXI secolo

Bush all'Europa: tre pilastri per una nuova alleanza
Multilateralismo, uso della forza quando necessaria, democrazia globale
Maurizio Molinari
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Multilateralismo efficace, diritto all'uso della forza quando non vi sono alternative e promozione globale della democrazia . Il presidente americano, George W. Bush, sceglie Londra per offrire all'Europa i "tre pilastri" di una "alleanza di valori" per affrontare nel XXI secolo la sfida del terrorismo e delle armi di distruzione di massa. Poco dopo essere stato salutato a Buckingham Palace da 41 colpi di cannone della Guardia Reale, Bush si è rivolto all'Europa parlando dalla Banqueting House del Whitehall Palace - dove fu giustiziato Carlo I nel 1649 - alla platea dell'Istituto reale per la sicurezza e la difesa, laboratorio inglese della guerra al terrorismo.
Il progetto di Bush guarda oltre le campagne militari in Iraq e in Afghanistan seguite all'11 settembre, propone all'Europa di avere una politica comune, di ampio respiro, per affrontare una guerra che sarà lunga. I "tre pilastri" descrivono l'intenzione di creare un nuovo ordine internazionale. Il multilateralismo deve essere "efficace", saper "far fronte alle sfide del nostro tempo": l'intento è evitare che l'Onu "subisca la fine della Lega delle Nazioni" e a questo scopo "bisogna affrontare i pericoli non soltanto con le risoluzioni, ma con determinazione". Ponendo il multilateralismo in cima all'agenda, Bush mira a rispondere alle accuse di unilateralismo e lascia intendere che Usa e Gran Bretagna stanno lavorando sodo per presentarsi all'appuntamento del settembre 2004 con la richiesta fatta dal Segretario Generale Kofi Annan di "avanzare idee concrete per la riforma dell'Onu".
Multilateralismo significa richiesta all'Europa di "lavorare assieme per pace e sicurezza", coordinando le politiche sugli altri due "pilastri": uso della forza per difendersi "dall'aggressione del Male se la diplomazia dovesse fallire" e promozione globale della democrazia come antidoto al terrorismo, sfidando chi ritiene che "in Medio Oriente non possa fiorire". Sull'approccio al mondo arabo Bush fa autocritica: "Sia noi sia la Gran Bretagna per troppo tempo abbiamo accettato il baratto di tollerare l'oppressione per il bene della stabilità". Ma chiudere gli occhi di fronte alla dittature non ha pagato: sono i tiranni gli alleati protettori del terrorismo, coloro che potrebbero consegnare ai kamikaze le armi di distruzione di massa.
"Dobbiamo far fronte alle nostre responsabilità", sottolinea a più riprese il Presidente, ribadendo che "sarà mantenuta la promessa della democrazia" fatta agli iracheni e che è intenzionato a fare lo stesso con i palestinesi. Applicare la "strategia della libertà" al Medio Oriente significa promuovere la nascita di una "democrazia palestinese" che si liberi della "vecchia guardia, corrotta e collegata al terrorismo". Il riferimento a Yasser Arafat è palese, come lo è la richiesta all'Europa di interrompere ogni rapporto con lui e "opporsi a quelle forme di antisemutismo che avvelenano i dibattiti sul futuro del Medio Oriente". E la prima volta che Bush definisce "antisemite" alcune delle critiche europee allo Stato ebraico. La richiesta a Israele è più bassa voce: " Congelare la creazione degli insediamenti e non pregiudicare l'esito dei negoziati creando muri e recinti" .
Di fronte a un pubblico che lo acclama il Presidente non lesina battute. Ai manifestanti che lo contestano dice che "hanno lo stesso entusiasmo per la libertà di parola che c'è oggi a Baghdad". Alla Francia di Jacques Chirac, bastione del fronte antiguerra, ricorda che Parigi contesta Washington dai tempi in cui il premier Clemenceau bacchettò nel 1918 il presidente Woodrow Wilson, icona del multilateralismo americano, per aver proposto i quattordici punti del suo "Piano di pace".
Ma c'è dell'altro. Per spiegare la solidità dell'alleanza angloamericana Bush ne descrive le fondamenta ricordando non solo la comune lotta al nazifascismo ma enumerando i padri fondatori: i filosofi Locke e Adam Smith per le libertà e, soprattutto, i predicatori della "Buona novella", William mondale, John Wesley e William Booth . E' nel puritanesimo la spinta morale di George Bush. "


Saluti liberali

Pieffebi
20-11-03, 21:07
da www.ilfoglio.it

" Non solo Carmagnola
Contro il terrorismo c’è un “modello Italia” che agli esperti piace molto
Apprezzamenti dalla Rand Corporation Fermezza (e rispetto delle regole) dietro le espulsioni decise da Pisanu
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Roma. La manifestazione indetta ieri mattina a Firenze dai sindacati era nata contro il terrorismo interno, ma ha positivamente risentito della maggior concordia nazionale del post Nassiryah. Solo qualche fischio iniziale prontamente represso per la delegazione di An, poi gli echi della polemica lanciata dalla tribuna da Olga D’Antona, parlamentare ds, per le responsabilità sulla scorta negata a Marco Biagi. Ma l’unità ha tenuto. Terrà anche sul fronte più delicato, la lotta al terrorismo, internazionale? “La prova che sta dando l’Italia in questi giorni è importante”, ci dice Michael Wermuth, superconsulente antiterrorismo alla Rand Corporation. “Non mi riferisco solo alla presenza in Iraq, ma all’intelligence e ai diversi segnali italiani molto più netti che in passato”. “Con la vostra legge 438 del 15 dicembre 2001”, dice Wermuth, informatissimo, “avete introdotto nuovi reati commisurati alla nuova realtà del terrorismo internazionale. Ma in effetti l’Italia resta più garantista della Francia, la cui ‘Legge per la sicurezza quotidiana’ lascia ampio margine a espulsioni e restrizioni decretate dall’autorità amministrativa: la Francia ha sempre avuto un’interpretazione limitativa dei diritti in materia, nel 1986 non si fece problemi a espellere Massud Rajavi per imbonirsi Teheran, o a trasferire alle carceri speciali di Algeri militanti del Gia. La Gran Bretagna, che critica gli Usa per il no alla Corte penale internazionale, con il suo Antiterrorism Act ha deciso per gli stranieri sospetti di terrorismo la carcerazione senza termini, di qui diverse contese animate nelle corti britanniche. Nessuno ha seguito la via drastica del Patriot Act del 26 ottobre 2001, che attribuisce agli investigatori americani poteri prima sconosciuti, né ha scelto di attribuire ai detenuti stranieri per terrorismo quella qualifica di ‘enemy combatant’ applicata a Guantanamo”. Wermuth sorvola sul fatto che anche in America c’è un dibattito, su questi poteri eccezionali. “Ma espellendo alcuni estremisti, l’Italia ha detto chiaramente che nessun appeasement è possibile”, conclude Wermuth. L’unità regge anche su questo L’espulsione dell’“imam di Carmagnola” e di sette maghrebini è stata adottata lunedì dal ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu in qualità di massima autorità di sicurezza nazionale, e tale prerogativa gli è affidata e confermata da norme approvate dall’Ulivo al governo. La rottura è forte, rispetto al “metodo Giovannone” seguito per decenni con il terrorismo mediorientale. Sino a ieri, la concordia politica ha tenuto anche su questo. A esprimere dubbi, oltre al radicale Daniele Capezzone, erano solo giuristi di sinistra come Carlo Federico Grosso e Giuliano Pisapia. Al Viminale precisano che i provvedimenti non sono arbitrari, occorrono relazioni delle autorità di pubblica sicurezza e di intelligence. “I magistrati italiani sono venuti più volte negli Usa”, precisa Wermuth, “hanno le trascrizioni delle decine e decine di collegamenti nel vostro paese di al Qaida”. Il tentativo di Grosso e Pisapia – invocare la protesta del potere giudiziario “scavalcato” dal ministro – non ha successo in ragione del fatto che erano stati i pm di Torino sulla base di quegli elementi a richiedere l’arresto degli indagati ora espulsi. Ma il gip aveva detto no. Il presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi, Enzo Bianco, f non ha invece dubbi che “le espulsioni sono state assunte verso personaggi sui quali l’intelligence fa ritenere che si addensassero forti elementi di oscurità e pericolosità sociale”. Di Giuseppe Pisanu, notoriamente prudente e meticoloso, Bianco si fida abbastanza. “Si può e si deve espellere, in presenza di elementi forti. E anche in passato, non so poi se il metodo Giovannone ci abbia davvero giovato. Il terrorismo è la nuova minaccia del secolo. Per sconfiggerlo, non solo l’autorità di sicurezza può e deve avvalersi dei suoi poteri, ma sarebbe il caso di avviare rapidamente una Procura nazionale antiterrorismo”. "

Saluti liberali

MrBojangles
20-11-03, 23:52
In origine postato da mustang
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Sei noioso.

:D

"Mattia nel..."

mustang
21-11-03, 00:17
....sui codardi


L’11 settembre 2001 il terrorismo internazionale ha dichiarato guerra al mondo libero.
Per vincere, ha due obiettivi: rompere il fronte nemico e impedire al mondo libero di aiutare il mondo non ancora libero a risollevarsi in libertà e prosperità.
Ci sono alcuni protagonisti del nostro mondo che fanno o rischiano di fare il gioco di chi ci vuole semplicemente morti.
Sono: l’Onu, un po’ di Europa, la Francia, la Germania e il pensiero benaltrista, che mentre sogna un altro mondo possibile si fa sfilare da sotto i piedi la terra su cui marciare in protesta, perché a Londra e a Baghdad si può manifestare, su altre terre no.

Successe con lo spirito di Monaco a favore del nazismo, può succedere con l’esprit de Paris a favore dei nuovi totalitarismi terroristi.
Come mai l’Onu, che dalle fosse comuni di Saddam non scappava, forse anche perché faceva finta di non vederle per restare lì a mercanteggiare arricchendo la cricca baathista, ora fugge dall’Iraq e forse perfino dall’Afghanistan?
Perché è stata colpita?
Certo, come gli italiani, che però restano ad aiutare gli iracheni a costruire il loro nuovo Iraq.
L’Onu serve nelle aree di crisi, di caschi blu a Brugherio o a Velletri non si sente il bisogno.
Segue nella scelta di andarsene la Croce rossa, tranne quella italiana.
Appunto.
Così mentre i francesi festeggiano la vittoria nella Prima guerra mondiale davanti alla tv e assieme ai tedeschi non solo non mandano fanti di pace ma nemmeno un marco o un franco per dare una speranza a Baghdad, qualcuno ci può spiegare per quale assurdo patto d’instabilità i soldati italiani rischiano la vita anche per la sicurezza dell’Europa indolente, mentre molti “vecchi” europei si baloccano con il bilancino dei presunti errori passati degli americani?
E il futuro degli iracheni? E la battaglia contro il terrorismo?

L’Europa non c’era a Nassiriyah, la missione italiana in Iraq invece c’era.
Se un onore meritano i caduti, e chi lì resta, non meritano onore alcuno quelli che si voltano dall’altra parte.

su il Foglio

saluti

MrBojangles
21-11-03, 00:45
"Io vi dico, Bush può essere battuto. Un grande errore la guerra in Iraq"

Il forum con il professor Arthur Schlesinger è diviso in tre parti. La prima sul ricordo di Kennedy, che sarà il tema della sua conversazione di oggi al Centro Studi Americani. La seconda per aiutarci a «leggere» Bush e l’America e dunque l’Iraq. La terza verterà sulla campagna elettorale Usa e sull’attenzione da dedicarvi. Cominciamo: qual è la ragione del ricordare Kennedy oggi? Perché ci riguarda ancora? Per una serie di eventi politici che ha ancora senso 40 anni dopo?
«Sabato sarà il quarantesimo anniversario dell’assassinio del presidente Kennedy. E 40 anni in politica sono un tempo molto lungo. Come diceva WIlson, già una settimana in politica è un tempo molto lungo. Quando ero giovane gli avvenimenti di 40 anni prima mi sembravano preistoria. Ma Kennedy è ancora molto vivo per diverse ragioni. È stato il primo presidente americano che era nato nel XXo secolo, l’uomo più giovane mai eletto a quella carica, il primo cattolico, ha rappresentato la generazione che ha combattuto e vinto la guerra. Inoltre il suo ricordo è stato mantenuto vivo dalla tv, cosicché al pubblico appare sempre giovane e pieno di talento. Ma credo ci siano ragioni più profonde della semplice preservazione della sua immagine televisiva alla base della sua continua vitalità. Kennedy è stato soprattutto la voce della ragione. Possedeva un’obiettività nel giudizio su se stesso e sulle sue azioni. E aveva una grande fede nei valori latenti che sono propri del popolo americano. Sperava di poter attingere a queste stesse riserve come prima di lui avevano fatto altri presidenti quali Eisenhower, Wilson e Franklin Delano Roosevelt. Se volete, in un certo senso, rappresentava la faccia migliore dell’America. Poi, la natura tragica della sua morte ha fatto sì che rappresentasse l’eroe ucciso, e la sua vita che fosse una vita incompiuta, così piena di promesse non mantenute. La migliore America, quella più generosa. Purtroppo oggi l’America ha un volto diverso».
Oggi siamo in un’America contraddistinta da tre fenomeni. Il primo è un presidente eletto dalla Corte Suprema e non dal popolo, con le relative zone d’ombra. Il secondo è la tragedia dell’11 Settembre. Il terzo è la guerra in Afghanistan e poi in Iraq, sotto la leadership di Bush, episodi di una guerra al terrorismo che potrebbe essere infinita. Dunque un percorso di guerra potenzialmente infinito con alleanze imprecise: non più la Nato o il rapporto privilegiato con l’Europa ma la coalition of the willing, che è ben altro, una sorta di «chi ci sta ci sta» sotto la guida Usa. E alla fine troviamo la grave crisi irachena. Professor Schlesinger, ci guidi attraverso questo periodo della storia americana.
«Non mi piace criticare il mio Paese quando sono all’estero, ma invoco la globalizzazione: il mondo di oggi è affare che ci riguarda tutti. Io ero contrario alla guerra e trovo molto fastidiosa la dottrina di Bush della guerra preventiva che rende gli Usa giudice, giuria ed esecutore della sentenza. Siamo l’unico Paese autorizzato a combattere una guerra preventiva, che si basa su notizie precise, accurate e affidabili a proposito delle intenzioni e della capacità del presunto nemico. Ma se c’è qualcosa di evidente è il fatto che Saddam, a parte essere un tiranno mostruoso, non rappresenta un pericolo chiaro e imminente per gli Usa. Se avesse posseduto armi di distruzione di massa e le avesse utilizzate avrebbe fatto il gioco di Bush perché questo avrebbe costituito un palese atto di aggressione tale da legittimare l’intervento degli Usa. Io distinguerei fra la guerra in Afghanistan, contro i Talebani, secondo me necessaria perché avevano dato protezione ad Al Qaeda, ovvero a Osama Bin Laden, e quella in Iraq, perché come ha ammesso lo stesso Bush non c’è nessuna prova di un qualsiasi rapporto fra Osama e Saddam. La guerra al terrorismo è sì necessaria, ma va condotta con mezzi quali l’azione di polizia e controlli finanziari. E la guerra all’Iraq non ha alcuna relazione con la guerra contro il terrorismo. Oggi in Iraq ci sono più terroristi di quanti ce ne fossero all’epoca di Saddam. Tra l’altro avete mai visto Saddam vestito all’araba? No, perché era un laico, vestiva all’occidentale. Disprezzava i fondamentalisti come Osama che a sua volta disprezzava i laici come Saddam, quindi l’idea di un’alleanza fra queste due persone che si disprezzavano reciprocamente è assolutamente ridicola. Quando la gente faceva congetture sul rifugio di Osama a nessuno, anche prima della guerra, è mai venuto in mente che potesse trovarsi in Iraq. Non credo poi si debba pensare che tutti gli americani all’unanimità sono favorevoli alla guerra. Se si pensasse a come Bush è stato eletto e si tenesse conto anche dei voti al candidato dei Verdi Ralph Nader, emergerebbe che Bush ha perso per 3, 5 milioni di voti. I recenti sondaggi poi mostrano un Paese diviso, dove chi tenderebbe a non votare Bush supera chi tenderebbe a farlo. Il fatto quindi che Bush sia riuscito a proiettare il suo Paese in guerra dovrebbe indurci a non sottovalutarlo come leader solo perché ha una sintassi un po’ precaria e una scarsa fluidità verbale. Dopotutto anche Eisenhower aveva una sintassi altrettanto incerta eppure è stato un grandissimo leader. Bush è molto abile e ingegnoso, e ha approfittato del fatto che l’11 Settembre ha creato un senso di vulnerabilità personale fra gli americani. Ecco perché loro rispondono alle sue iniziative, questo è stato un fattore decisivo».
Cosa c’è dietro l’11 Settembre? Perché è accaduto?
«Chi lo sa?! Bisognerebbe chiederlo a Osama Bin Laden e Al Qaeda. Ma è chiaro che alla base c’è il fanatismo religioso, motivato chissà dal sentimento di offesa per la presenza delle truppe americane in Arabia Saudita. La cosa più pericolosa per il mondo è sempre la presenza di chi è convinto di adempiere alla volontà dell’Onnipotente. Sono state uccise più persone nella storia per motivi religiosi che per qualsiasi altra ragione: basta pensare a Irlanda, Filippine, Kashmir, Cipro, Indonesia, Sri Lanka. Il XXo secolo è stato anche caratterizzato da un fanatismo laico con nazismo, fascismo, comunismo. Il XXIo invece promette di essere un secolo di fanatismo religioso. Secondo la definizione di Doyles, “un fanatico è chi fa quello che farebbe il Signore se solo fosse al corrente dei fatti”. E oggi sono loro la maggiore fonte di pericolo al mondo».
Lei ha scritto un lucido articolo sulla New York Review of Books in cui spiega che la dottrina della guerra preventiva differisce da tutto ciò che nella storia americana è stato sostenuto dagli altri presidenti, da Eisenhower a Reagan compreso. Può approfondire questo concetto?
«La dottrina della guerra preventiva, oggi pomposamente chiamata legittima difesa preventiva, in realtà è stata anticipata dai giapponesi nell’attacco a Pearl Harbour. Una data che Roosevelt disse sarebbe rimasta scritta nell’infamia e che oggi è diventata la base della politica estera americana. Truman era contrario alla guerra preventiva, Eisenhower la riteneva inconcepibile e inimmaginabile, Kennedy la rifiutò quando gli fu proposta dal comando di Stato maggiore durante la crisi dei missili a Cuba. Anche Robert Kennedy vi si oppose dicendo che sarebbe stata una sorta di Pearl Harbour alla rovescia, e aggiunse: “Per 175 anni noi non siamo stati quel genere di Paese”. Sembrerebbe evidente invece che oggi lo siamo diventati. Credo che questa dottrina di Bush sia però sempre più difficilmente sostenibile poiché in Iraq non sono state trovate armi di distruzione di massa né prove di un legame tra Bin Laden e Saddam Hussein. Dunque l’ammissibilità di una guerra preventiva si basa su un’intelligence che sia affidabile, precisa, incontrovertibile. In particolare Bush Secondo ha trovato molto più difficile mettere insieme una coalition of the willing rispetto a suo padre, che invece reagiva a un palese atto di aggressione. Mentre nel caso dell’Iraq non c’è stato niente del genere da parte di Saddam che, per quanto sia un mostro, sapeva bene che un suo atto di aggressione avrebbe fatto il gioco di Bush legittimando l’attacco in Iraq. In conclusione ritengo che la nuova dottrina di Bush sulla guerra preventiva poggi su basi assai fragili».
Professore, sembra ci sia un’inflazione di paragoni storici con quello che sta succedendo in Iraq. Si va da Monaco alla ricostruzione del Giappone e della Germania. Bush a un certo punto ha anche evocato l’esperienza delle Filippine. Il paragone più difficile da fare appare comunque il Vietnam. Da storico, quali sono secondo Lei le analogie con il Vietnam e quali le differenze?
«Ritengo che la storia sia una serie infinita di episodi unici. Tuttavia esistono delle analogie che sono legittime. Ho sempre pensato che Monaco rappresentasse un evento terribile, però i crimini e gli errori che sono stati commessi dopo cercando di evitare che quel crimine si ripetesse sono stati addirittura peggiori. Per esempio se pensiamo alla vecchia generazione, quella che ha fatto la guerra, l’allora segretario di Stato di Kennedy diceva che “la pacificazione è un errore meraviglioso” e sulla base di questa idea si è sempre opposto al ritiro delle forze americane dal Vietnam. Certo, bisogna anche dire che Ho Chi Min non era Hitler, non aveva né i suoi intenti né le sue capacità, Ho Chi Min in fondo lottava semplicemente per l’indipendenza e per l’autodeterminazione del suo popolo. In questo caso l’analogia con Monaco ha ottenuto come effetto quello di non prendere neanche in considerazione di ritirarsi dal Vietnam. Per quanto riguarda l’Iraq, non penso che Bush abbia mosso la guerra per motivi meschini, per il petrolio o per favorire aziende petrolifere a lui vicine, o per far piacere a Israele, e neanche per vendicare la mancata vittoria del padre. Credo che lui abbia fatto la guerra in Iraq perché voleva lasciare un segno, una traccia nella storia, anche se poi ci sono stati anche dei benefici per Israele o per le compagnie petrolifere. Perché, come dicono i neoconservatori, Bush voleva “democratizzare” l’Iraq e per estensione il mondo arabo. Mentre noi stiamo qui a discutere, Bush a Londra continua a perorare la causa della “democratizzazione” e “modernizzazione” dell’Iraq attraverso la guerra».
Il presidente Kennedy ha avuto pochi eredi, tre in tutto, in un quarantennio a dominio largamente repubblicano. Lindon Johnson, che è caduto nel disastro del Vietnam, Jimmy Carter è stato sconfitto pesantemente da Reagan dopo il piccolo disastro in Iran, Bill Clinton ha governato invece per otto anni, anni in cui però non sono state fatte neanche un decimo delle riforme dei tre anni di Kennedy. È possibile che ora ci sia un nuovo erede. Si dice che il più probabile sia Wesley Clark, sarebbe la prima volta che in 120 anni di storia d’America sarebbe un generale a rappresentare i democratici. Cosa vuol dire che il kennedismo è irripetibile, un mito che dobbiamo dimenticare? Che le distanze tra democratici e repubblicani sono strette, e quindi dobbiamo restare senza speranza?
«Va detto innanzitutto che l’opposizione a Bush non ha mai trovato grande spazio sui media americani. Il New York Times, per esempio, sebbene con i suoi editoriali avesse espresso perplessità sulla guerra in Iraq, ha pubblicato in prima pagina i discorsi e le motivazioni di Rumsfeld e Cheney mentre ha relegato a pagina 38 le opinioni contrarie del senatore Byrd o del senatore Kennedy. Anche la quantità di tempo attribuita alle posizioni contrarie al conflitto non è stata pari a quella attribuita invece alle posizioni favorevoli alla guerra. Per quanto riguarda i candidati non credo che vi sia uno all’altezza di Stevenson o di John Kennedy. C’è per esempio il senatore Kerry, del Massachussetts, ma la sua campagna non è partita bene, non è riuscito a raccogliere molta forza intorno a sé. C’è poi l’ex governatore del Vermont, Howard Dean, che ha utilizzato internet molto bene però non ha una grande esperienza in campo internazionale. Per quanto riguarda Wesley Clark, è sicuramente un liberal, è un personaggio che mi piace molto, ma quando parla di elezioni presidenziali sembra l’ora del dilettante. Si parla di una possibile accoppiata Dean-Clark, con Clark nel ruolo di vicepresidente perché sarebbe capace da solo di neutralizzare l’elemento della sicurezza posto con tanta forza dal governo. Se Kerry ricevesse una nomination, lui ha votato per la guerra ed è un ex veterano del Vietnam, andrebbe bene sul piano della sicurezza interna, ma avrebbe bisogno di Bob Graham, della Florida, l’unico tra l’altro a votare contro la guerra in Iraq. Graham è stato per due volte governatore della Florida, e noi sappiamo quanto questo stato sia determinante in America».
Lei dice giustamente che oggi c’è molto più terrorismo in Iraq di quanto ce ne fosse all’inzio della guerra. A questo punto visto che il disastro è stato fatto dall’intervento americano e dei suoi alleati, come se ne esce?
«Siamo intrappolati. Non possiamo tirarcene fuori immediatamente. L'amministrazione Bush, che si faceva vanto di disprezzare istituzioni internazionali come le Nazioni Unite, adesso sta cercando di ributtare la patata bollente nelle loro mani. Chiaramente le nazioni della “vecchia Europa” che si erano espresse contro la guerra non sono certo inclini a investire né le loro truppe né i loro soldi in un conflitto a cui erano contrari fin dall’inizio e sul quale avevano detto che avrebbe causato un disastro».
C’è stata una guerra e non c’è ancora un Dopoguerra. Ha la percezione in questo momento che si possa distinguere l’azione militare dall’azione di pace e solidarietà verso la popolazione? Ha la percezione cioé che ci possa essere una presenza militare guidata dagli Usa almeno fino a quando l’irakizzazione del conflitto non passerà nelle mani dell’Onu? E si tratta di una presenza, come si tende a caratterizzare quella italiana, con teoricamente obiettivi di pace ma con vittime di guerra?
«Come la maggior parte degli americani debbo dire che io non conosco molto dell’Iraq. E a differenza della Gran Bretagna e della Francia noi americani non abbiamo questa grande esperienza storica nel Medio Oriente, tranne per quel che riguarda missionari e petrolieri. I francesi avevano cinquanta anni di esperienza in Vietnam, noi zero. Ora, l’ignoranza di un Paese non costituisce necessariamente un preludio alla vittoria in quel Paese. Quindi non sono in grado di rispondere a questa domanda perché non ne so niente».
Novembre 2004 sarà una campagna elettorale all’insegna della guerra. I sondaggi dicono che Bush è in calo. Su chi punterebbe i Suoi soldi? Su Howard Dean o George Bush?
«Non sono neanche tanto sicuro che Dean sarà il candidato democratico. Voterò per chiunque sia contro Bush, tranne che per Lieberman, il più bacchettone del Senato americano. Voterò per colui che avrà più chance nel battere Bush, ma non so chi sia. Non c’è una figura che spicca come era nel caso di Kennedy o di Clinton».
Potrebbe anche vincere di nuovo Bush?
«È possibile, ma credo anche che Bush possa essere battuto. È chiaro che dipenderà da una serie di fattori. Se Saddam e Osama venissero catturati o uccisi è chiaro che le possibilità di battere Bush si ridurrebbero. Mi piace ripetere ancora una volta quella vecchia frase di Wilson secondo cui “in politica una settimana in realtà è un tempo infinito”, quindi immaginatevi dodici mesi. Può succedere di tutto, persino un altro 11 Settembre».
Professore, come avrebbe affrontato il presidente Kennedy il problema Saddam?
«Credo che avrebbe portato avanti la guerra contro Al Qaeda, quindi in Afghanistan, ma non avrebbe mai fatto la guerra in Iraq. Lui non credeva che la guerra fosse una grande esperienza perché l’aveva provata sulla sua pelle».
(A cura di Federica Fantozzi
e Cinzia Zambrano)

Facile fare il direttore del fogliaccio....

mustang
21-11-03, 01:00
In origine postato da MrBojangles
"Io vi dico, Bush può essere battuto. Un grande errore la guerra in Iraq"

Il forum con il professor Arthur Schlesinger è diviso in tre parti. La prima sul ricordo di Kennedy, che sarà il tema della sua conversazione di oggi al Centro Studi Americani. La seconda per aiutarci a «leggere» Bush e l’America e dunque l’Iraq. La terza verterà sulla campagna elettorale Usa e sull’attenzione da dedicarvi. Cominciamo: qual è la ragione del ricordare Kennedy oggi? Perché ci riguarda ancora? Per una serie di eventi politici che ha ancora senso 40 anni dopo?
«Sabato sarà il quarantesimo anniversario dell’assassinio del presidente Kennedy. E 40 anni in politica sono un tempo molto lungo. Come diceva WIlson, già una settimana in politica è un tempo molto lungo. Quando ero giovane gli avvenimenti di 40 anni prima mi sembravano preistoria. Ma Kennedy è ancora molto vivo per diverse ragioni. È stato il primo presidente americano che era nato nel XXo secolo, l’uomo più giovane mai eletto a quella carica, il primo cattolico, ha rappresentato la generazione che ha combattuto e vinto la guerra. Inoltre il suo ricordo è stato mantenuto vivo dalla tv, cosicché al pubblico appare sempre giovane e pieno di talento. Ma credo ci siano ragioni più profonde della semplice preservazione della sua immagine televisiva alla base della sua continua vitalità. Kennedy è stato soprattutto la voce della ragione. Possedeva un’obiettività nel giudizio su se stesso e sulle sue azioni. E aveva una grande fede nei valori latenti che sono propri del popolo americano. Sperava di poter attingere a queste stesse riserve come prima di lui avevano fatto altri presidenti quali Eisenhower, Wilson e Franklin Delano Roosevelt. Se volete, in un certo senso, rappresentava la faccia migliore dell’America. Poi, la natura tragica della sua morte ha fatto sì che rappresentasse l’eroe ucciso, e la sua vita che fosse una vita incompiuta, così piena di promesse non mantenute. La migliore America, quella più generosa. Purtroppo oggi l’America ha un volto diverso».
Oggi siamo in un’America contraddistinta da tre fenomeni. Il primo è un presidente eletto dalla Corte Suprema e non dal popolo, con le relative zone d’ombra. Il secondo è la tragedia dell’11 Settembre. Il terzo è la guerra in Afghanistan e poi in Iraq, sotto la leadership di Bush, episodi di una guerra al terrorismo che potrebbe essere infinita. Dunque un percorso di guerra potenzialmente infinito con alleanze imprecise: non più la Nato o il rapporto privilegiato con l’Europa ma la coalition of the willing, che è ben altro, una sorta di «chi ci sta ci sta» sotto la guida Usa. E alla fine troviamo la grave crisi irachena. Professor Schlesinger, ci guidi attraverso questo periodo della storia americana.
«Non mi piace criticare il mio Paese quando sono all’estero, ma invoco la globalizzazione: il mondo di oggi è affare che ci riguarda tutti. Io ero contrario alla guerra e trovo molto fastidiosa la dottrina di Bush della guerra preventiva che rende gli Usa giudice, giuria ed esecutore della sentenza. Siamo l’unico Paese autorizzato a combattere una guerra preventiva, che si basa su notizie precise, accurate e affidabili a proposito delle intenzioni e della capacità del presunto nemico. Ma se c’è qualcosa di evidente è il fatto che Saddam, a parte essere un tiranno mostruoso, non rappresenta un pericolo chiaro e imminente per gli Usa. Se avesse posseduto armi di distruzione di massa e le avesse utilizzate avrebbe fatto il gioco di Bush perché questo avrebbe costituito un palese atto di aggressione tale da legittimare l’intervento degli Usa. Io distinguerei fra la guerra in Afghanistan, contro i Talebani, secondo me necessaria perché avevano dato protezione ad Al Qaeda, ovvero a Osama Bin Laden, e quella in Iraq, perché come ha ammesso lo stesso Bush non c’è nessuna prova di un qualsiasi rapporto fra Osama e Saddam. La guerra al terrorismo è sì necessaria, ma va condotta con mezzi quali l’azione di polizia e controlli finanziari. E la guerra all’Iraq non ha alcuna relazione con la guerra contro il terrorismo. Oggi in Iraq ci sono più terroristi di quanti ce ne fossero all’epoca di Saddam. Tra l’altro avete mai visto Saddam vestito all’araba? No, perché era un laico, vestiva all’occidentale. Disprezzava i fondamentalisti come Osama che a sua volta disprezzava i laici come Saddam, quindi l’idea di un’alleanza fra queste due persone che si disprezzavano reciprocamente è assolutamente ridicola. Quando la gente faceva congetture sul rifugio di Osama a nessuno, anche prima della guerra, è mai venuto in mente che potesse trovarsi in Iraq. Non credo poi si debba pensare che tutti gli americani all’unanimità sono favorevoli alla guerra. Se si pensasse a come Bush è stato eletto e si tenesse conto anche dei voti al candidato dei Verdi Ralph Nader, emergerebbe che Bush ha perso per 3, 5 milioni di voti. I recenti sondaggi poi mostrano un Paese diviso, dove chi tenderebbe a non votare Bush supera chi tenderebbe a farlo. Il fatto quindi che Bush sia riuscito a proiettare il suo Paese in guerra dovrebbe indurci a non sottovalutarlo come leader solo perché ha una sintassi un po’ precaria e una scarsa fluidità verbale. Dopotutto anche Eisenhower aveva una sintassi altrettanto incerta eppure è stato un grandissimo leader. Bush è molto abile e ingegnoso, e ha approfittato del fatto che l’11 Settembre ha creato un senso di vulnerabilità personale fra gli americani. Ecco perché loro rispondono alle sue iniziative, questo è stato un fattore decisivo».
Cosa c’è dietro l’11 Settembre? Perché è accaduto?
«Chi lo sa?! Bisognerebbe chiederlo a Osama Bin Laden e Al Qaeda. Ma è chiaro che alla base c’è il fanatismo religioso, motivato chissà dal sentimento di offesa per la presenza delle truppe americane in Arabia Saudita. La cosa più pericolosa per il mondo è sempre la presenza di chi è convinto di adempiere alla volontà dell’Onnipotente. Sono state uccise più persone nella storia per motivi religiosi che per qualsiasi altra ragione: basta pensare a Irlanda, Filippine, Kashmir, Cipro, Indonesia, Sri Lanka. Il XXo secolo è stato anche caratterizzato da un fanatismo laico con nazismo, fascismo, comunismo. Il XXIo invece promette di essere un secolo di fanatismo religioso. Secondo la definizione di Doyles, “un fanatico è chi fa quello che farebbe il Signore se solo fosse al corrente dei fatti”. E oggi sono loro la maggiore fonte di pericolo al mondo».
Lei ha scritto un lucido articolo sulla New York Review of Books in cui spiega che la dottrina della guerra preventiva differisce da tutto ciò che nella storia americana è stato sostenuto dagli altri presidenti, da Eisenhower a Reagan compreso. Può approfondire questo concetto?
«La dottrina della guerra preventiva, oggi pomposamente chiamata legittima difesa preventiva, in realtà è stata anticipata dai giapponesi nell’attacco a Pearl Harbour. Una data che Roosevelt disse sarebbe rimasta scritta nell’infamia e che oggi è diventata la base della politica estera americana. Truman era contrario alla guerra preventiva, Eisenhower la riteneva inconcepibile e inimmaginabile, Kennedy la rifiutò quando gli fu proposta dal comando di Stato maggiore durante la crisi dei missili a Cuba. Anche Robert Kennedy vi si oppose dicendo che sarebbe stata una sorta di Pearl Harbour alla rovescia, e aggiunse: “Per 175 anni noi non siamo stati quel genere di Paese”. Sembrerebbe evidente invece che oggi lo siamo diventati. Credo che questa dottrina di Bush sia però sempre più difficilmente sostenibile poiché in Iraq non sono state trovate armi di distruzione di massa né prove di un legame tra Bin Laden e Saddam Hussein. Dunque l’ammissibilità di una guerra preventiva si basa su un’intelligence che sia affidabile, precisa, incontrovertibile. In particolare Bush Secondo ha trovato molto più difficile mettere insieme una coalition of the willing rispetto a suo padre, che invece reagiva a un palese atto di aggressione. Mentre nel caso dell’Iraq non c’è stato niente del genere da parte di Saddam che, per quanto sia un mostro, sapeva bene che un suo atto di aggressione avrebbe fatto il gioco di Bush legittimando l’attacco in Iraq. In conclusione ritengo che la nuova dottrina di Bush sulla guerra preventiva poggi su basi assai fragili».
Professore, sembra ci sia un’inflazione di paragoni storici con quello che sta succedendo in Iraq. Si va da Monaco alla ricostruzione del Giappone e della Germania. Bush a un certo punto ha anche evocato l’esperienza delle Filippine. Il paragone più difficile da fare appare comunque il Vietnam. Da storico, quali sono secondo Lei le analogie con il Vietnam e quali le differenze?
«Ritengo che la storia sia una serie infinita di episodi unici. Tuttavia esistono delle analogie che sono legittime. Ho sempre pensato che Monaco rappresentasse un evento terribile, però i crimini e gli errori che sono stati commessi dopo cercando di evitare che quel crimine si ripetesse sono stati addirittura peggiori. Per esempio se pensiamo alla vecchia generazione, quella che ha fatto la guerra, l’allora segretario di Stato di Kennedy diceva che “la pacificazione è un errore meraviglioso” e sulla base di questa idea si è sempre opposto al ritiro delle forze americane dal Vietnam. Certo, bisogna anche dire che Ho Chi Min non era Hitler, non aveva né i suoi intenti né le sue capacità, Ho Chi Min in fondo lottava semplicemente per l’indipendenza e per l’autodeterminazione del suo popolo. In questo caso l’analogia con Monaco ha ottenuto come effetto quello di non prendere neanche in considerazione di ritirarsi dal Vietnam. Per quanto riguarda l’Iraq, non penso che Bush abbia mosso la guerra per motivi meschini, per il petrolio o per favorire aziende petrolifere a lui vicine, o per far piacere a Israele, e neanche per vendicare la mancata vittoria del padre. Credo che lui abbia fatto la guerra in Iraq perché voleva lasciare un segno, una traccia nella storia, anche se poi ci sono stati anche dei benefici per Israele o per le compagnie petrolifere. Perché, come dicono i neoconservatori, Bush voleva “democratizzare” l’Iraq e per estensione il mondo arabo. Mentre noi stiamo qui a discutere, Bush a Londra continua a perorare la causa della “democratizzazione” e “modernizzazione” dell’Iraq attraverso la guerra».
Il presidente Kennedy ha avuto pochi eredi, tre in tutto, in un quarantennio a dominio largamente repubblicano. Lindon Johnson, che è caduto nel disastro del Vietnam, Jimmy Carter è stato sconfitto pesantemente da Reagan dopo il piccolo disastro in Iran, Bill Clinton ha governato invece per otto anni, anni in cui però non sono state fatte neanche un decimo delle riforme dei tre anni di Kennedy. È possibile che ora ci sia un nuovo erede. Si dice che il più probabile sia Wesley Clark, sarebbe la prima volta che in 120 anni di storia d’America sarebbe un generale a rappresentare i democratici. Cosa vuol dire che il kennedismo è irripetibile, un mito che dobbiamo dimenticare? Che le distanze tra democratici e repubblicani sono strette, e quindi dobbiamo restare senza speranza?
«Va detto innanzitutto che l’opposizione a Bush non ha mai trovato grande spazio sui media americani. Il New York Times, per esempio, sebbene con i suoi editoriali avesse espresso perplessità sulla guerra in Iraq, ha pubblicato in prima pagina i discorsi e le motivazioni di Rumsfeld e Cheney mentre ha relegato a pagina 38 le opinioni contrarie del senatore Byrd o del senatore Kennedy. Anche la quantità di tempo attribuita alle posizioni contrarie al conflitto non è stata pari a quella attribuita invece alle posizioni favorevoli alla guerra. Per quanto riguarda i candidati non credo che vi sia uno all’altezza di Stevenson o di John Kennedy. C’è per esempio il senatore Kerry, del Massachussetts, ma la sua campagna non è partita bene, non è riuscito a raccogliere molta forza intorno a sé. C’è poi l’ex governatore del Vermont, Howard Dean, che ha utilizzato internet molto bene però non ha una grande esperienza in campo internazionale. Per quanto riguarda Wesley Clark, è sicuramente un liberal, è un personaggio che mi piace molto, ma quando parla di elezioni presidenziali sembra l’ora del dilettante. Si parla di una possibile accoppiata Dean-Clark, con Clark nel ruolo di vicepresidente perché sarebbe capace da solo di neutralizzare l’elemento della sicurezza posto con tanta forza dal governo. Se Kerry ricevesse una nomination, lui ha votato per la guerra ed è un ex veterano del Vietnam, andrebbe bene sul piano della sicurezza interna, ma avrebbe bisogno di Bob Graham, della Florida, l’unico tra l’altro a votare contro la guerra in Iraq. Graham è stato per due volte governatore della Florida, e noi sappiamo quanto questo stato sia determinante in America».
Lei dice giustamente che oggi c’è molto più terrorismo in Iraq di quanto ce ne fosse all’inzio della guerra. A questo punto visto che il disastro è stato fatto dall’intervento americano e dei suoi alleati, come se ne esce?
«Siamo intrappolati. Non possiamo tirarcene fuori immediatamente. L'amministrazione Bush, che si faceva vanto di disprezzare istituzioni internazionali come le Nazioni Unite, adesso sta cercando di ributtare la patata bollente nelle loro mani. Chiaramente le nazioni della “vecchia Europa” che si erano espresse contro la guerra non sono certo inclini a investire né le loro truppe né i loro soldi in un conflitto a cui erano contrari fin dall’inizio e sul quale avevano detto che avrebbe causato un disastro».
C’è stata una guerra e non c’è ancora un Dopoguerra. Ha la percezione in questo momento che si possa distinguere l’azione militare dall’azione di pace e solidarietà verso la popolazione? Ha la percezione cioé che ci possa essere una presenza militare guidata dagli Usa almeno fino a quando l’irakizzazione del conflitto non passerà nelle mani dell’Onu? E si tratta di una presenza, come si tende a caratterizzare quella italiana, con teoricamente obiettivi di pace ma con vittime di guerra?
«Come la maggior parte degli americani debbo dire che io non conosco molto dell’Iraq. E a differenza della Gran Bretagna e della Francia noi americani non abbiamo questa grande esperienza storica nel Medio Oriente, tranne per quel che riguarda missionari e petrolieri. I francesi avevano cinquanta anni di esperienza in Vietnam, noi zero. Ora, l’ignoranza di un Paese non costituisce necessariamente un preludio alla vittoria in quel Paese. Quindi non sono in grado di rispondere a questa domanda perché non ne so niente».
Novembre 2004 sarà una campagna elettorale all’insegna della guerra. I sondaggi dicono che Bush è in calo. Su chi punterebbe i Suoi soldi? Su Howard Dean o George Bush?
«Non sono neanche tanto sicuro che Dean sarà il candidato democratico. Voterò per chiunque sia contro Bush, tranne che per Lieberman, il più bacchettone del Senato americano. Voterò per colui che avrà più chance nel battere Bush, ma non so chi sia. Non c’è una figura che spicca come era nel caso di Kennedy o di Clinton».
Potrebbe anche vincere di nuovo Bush?
«È possibile, ma credo anche che Bush possa essere battuto. È chiaro che dipenderà da una serie di fattori. Se Saddam e Osama venissero catturati o uccisi è chiaro che le possibilità di battere Bush si ridurrebbero. Mi piace ripetere ancora una volta quella vecchia frase di Wilson secondo cui “in politica una settimana in realtà è un tempo infinito”, quindi immaginatevi dodici mesi. Può succedere di tutto, persino un altro 11 Settembre».
Professore, come avrebbe affrontato il presidente Kennedy il problema Saddam?
«Credo che avrebbe portato avanti la guerra contro Al Qaeda, quindi in Afghanistan, ma non avrebbe mai fatto la guerra in Iraq. Lui non credeva che la guerra fosse una grande esperienza perché l’aveva provata sulla sua pelle».
(A cura di Federica Fantozzi
e Cinzia Zambrano)

Facile fare il direttore del fogliaccio....

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Kennedy, quell'americano della guerra nel Viet-nam?.
Quello che dopo le bastoste prese non credeva più che la guerra fosse una grande esperienza?

Arthur Schlesinger ovvero della campagna elettorale americana.

MrBojangles
21-11-03, 01:03
In origine postato da mustang
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Kennedy, quell'americano della guerra nel Viet-nam?.
Quello che dopo le bastoste prese non credeva più che la guerra fosse una grande esperienza?

Arthur Schlesinger ovvero della campagna elettorale americana.

Tutta gente incensurata; e senza la proprietà di una radiolina a transistor...

Pieffebi
21-11-03, 20:57
In origine postato da mustang
....sui codardi


L’11 settembre 2001 il terrorismo internazionale ha dichiarato guerra al mondo libero.
Per vincere, ha due obiettivi: rompere il fronte nemico e impedire al mondo libero di aiutare il mondo non ancora libero a risollevarsi in libertà e prosperità.
[::::]

L’Europa non c’era a Nassiriyah, la missione italiana in Iraq invece c’era.
Se un onore meritano i caduti, e chi lì resta, non meritano onore alcuno quelli che si voltano dall’altra parte.

su il Foglio

saluti

Da www.corriere.it

" L’ASSE DEL CAOS

di ALBERTO RONCHEY


Dopo le ultime bombe di Istanbul, appare manifesto che Saddam Hussein e Osama Bin Laden perseguono strategie coordinate o parallele. Il dopoguerra iracheno, continuazione della guerra «con altri mezzi», ha dato fuoco alle polveri. Da qualche mese, il terrorismo internazionale islamista si radunava sul Tigri per la «guerra santa». L’infiltrazione degli agenti di Al Qaeda e altre sette, siriani, sauditi, giordani, iraniani, yemeniti o egiziani, convergeva sul terreno della guerriglia di Saddam, già impegnata nell’uccisione quotidiana di militari americani e nelle micidiali raffiche di razzi antiaerei contro gli elicotteri Black Hawks. Ha poi avuto inizio la serie degli attentati maggiori, o più clamorosi. L’aggressione contro l’Onu di Bagdad, perché riconosceva e legittimava il consiglio di governo provvisorio «collaborazionista». Con l’inizio del Ramadan di sangue, seguiva persino l’assalto alla Croce Rossa Internazionale, anche al prezzo di numerose vittime civili irachene, perché a Bagdad prestava un’immagine umanitaria o uno schermo pacifico all’occupazione. Quindi, seguì anche la strage degli italiani a Nassiriya, per dimostrare che non è praticabile una missione di pace mentre la guerra continua «con altri mezzi».
Ma dall’8 novembre, con l’attentato di Riad, il terrorismo seleziona e investe sempre più i suoi bersagli oltre l’Iraq su scala crescente. Dunque fuoco sulle sinagoghe di Istanbul, con il più grave attentato nella storia della Turchia. E fuoco sui turisti del Mar Rosso presso la frontiera giordano-israeliana, per intimidire quel re Abdallah che tenta d’avviare una ripresa della road map tra il palestinese Abu Ala e Ariel Sharon. Infine, durante l’incontro fra Bush e Blair a Londra, gli ulteriori e sanguinosi attentati a Istanbul contro due siti britannici, il consolato e la banca multinazionale, mentre nell’Iraq esplodevano le bombe di Kirkuk, Ramadi e Karbala. Ma non è tutto, come avvertono i messaggi di rivendicazione Al Qaeda.
La «guerra santa» o Jihad, a questo punto, è all’offensiva su più fronti. Nell’Iraq, senza risparmiare i civili iracheni, tende a cronicizzare l’ingovernabilità. Fuori dall’Iraq, usando anche sauditi contro sauditi e turchi contro turchi, tende a destabilizzare i governi islamici moderati. «Non ci arrenderemo al terrore», annuncia Erdogan per il governo di Ankara, vicino agli occidentali. Bush e Blair assicurano: «Resteremo finché sarà necessario». È chiaro che un ripiegamento dall’Iraq, più o meno a breve termine, può innescare disastrose reazioni a catena dal Golfo Persico al Mediterraneo.
Fra gli altri governanti moderati del mondo islamico, in Egitto il presidente Hosni Mubarak, malgrado la memoria dell’assassinio di Sadat, non ha un vicepresidente né un successore designato e all’età di 75 anni ha subìto un malore mentre inaugurava l’anno parlamentare al Cairo. Dunque l’annuncio di Bush e Blair, «resteremo finché sarà necessario», è una conclusione inevitabile, anzi è incontestabile anche da quanti in Europa avevano sollevato forti obiezioni contro la tesi che la guerra fosse necessaria e urgente o contro la mal concepita e mal condotta gestione del dopoguerra. "

Shalom!!!

MrBojangles
21-11-03, 21:35
Personalmente ritengo che gli attentati in Turchia siano, invece, la conferma che più che contro l'occidente, l'offensiva terroristica di Al-Qaida, sia rivolta all'interno del mondo arabo.
Ed in particolar modo contro quegli stati a regime laico (come era l'Iraq) o secolare.

E' l'integralismo che VUOLE la supremazia.
Niente ci impedisce di pensare che sia solo il primo passo, per sferrare poi, una volta ottenuto questo obiettivo primo, l'attacco agli "infedeli".

Che è l'obiettivo ultimo nella guerra contro gli "impuri".

Pieffebi
21-11-03, 21:42
I turchi non sono arabi, non sono neppure parenti alla lontana degli arabi. Sono di religioni islamica, sono uno Stato Laico, sono governati da un tizio che ha scommesso sulla possibilità di coniugare un Islam moderato e moderno con un sistema politico di tipo democratico. Per quanto ancora molto imperfetto.

Cordiali saluti

MrBojangles
21-11-03, 22:01
In origine postato da Pieffebi
I turchi non sono arabi, non sono neppure parenti alla lontana degli arabi. Sono di religioni islamica, sono uno Stato Laico, sono governati da un tizio che ha scommesso sulla possibilità di coniugare un Islam moderato e moderno con un sistema politico di tipo democratico. Per quanto ancora molto imperfetto.

Cordiali saluti

Giusto (in parte).
Correggo "arabi" con islamici; e confermo la mia opinione.
Infatti neanche gli indonesiani (se non mi sbaglio) NON sono arabi; e neanche i ribelli filippini. Ma fanno sicuramente parte della strategia di cui facevo cenno.

Il tuo assunto è giusto e, con questa correzione, giustifica il mio.

mustang
22-11-03, 00:16
interessante la teoria di bojangles secondo il quale Al Qaida ordinava attentati all'Iraq di Saddam con i soldi dell'Arabia.

Mentre è chiaro che i bersagli sono i pochi paesi islamici a regime democratico.

Oltre, naturalmente, tutto l'Occidente.

MrBojangles
22-11-03, 00:35
In origine postato da mustang
interessante la teoria di bojangles secondo il quale Al Qaida ordinava attentati all'Iraq di Saddam con i soldi dell'Arabia.

Mentre è chiaro che i bersagli sono i pochi paesi islamici a regime democratico.



Democratici come l'Arabia Saudita?

I soldi che usa Bin hanno le più disparate origini; e non è accertato che siano sauditi.
Sono sauditi gli attentatori delle T.T.; ma questo non fa che avvalorare la tesi che il Bin voglia PRIMA acquisire l'egemonia integralista "islamica", POI attaccare l'occidente "impuro".
Non potrebbe mai farlo se non DOPO aver ottenuto l'appoggio e l'alleanza dell'intera "nazione islamica integralistizzata".
Molti di questi Paesi sono a tutt'oggi alleati (freddini) dell'occidente; forti delle interconnessioni economico finanziarie che derivano dal petrolio.

Non è esattamente semplice, la questione; ho solo espresso un parere.

Pieffebi
22-11-03, 20:55
da www.ideazione.com

" Italia. Dopo Nassiriya
di Aldo G. Ricci

Oltre e al di là del dolore che ci unisce, tutti o quasi, per la strage terroristica dei militari italiani in Iraq (e che , non va dimenticato, si aggiunge alla lunga lista dello stillicidio quotidiano di vittime di altri contingenti nel teatro) ci sono due problemi di fondo che emergono dal più grave episodio luttuoso che le nostre Forze Armate abbiano registrato negli ultimi anni. Comincerò dal primo, quello a cui, forse, è più facile trovare risposte. Nelle ore successive hanno cominciato ad emergere degli interrogativi che richiedono risposte precise ed eventualmente interventi altrettanto decisi. Riassumendo, l’interrogativo è semplice: sono state adottate tutte le misure necessarie alla protezione della base italiana? E ancora, era ammissibile la scelta di collocare la base nel centro cittadino per una scelta psicologica di farsi vedere tra la gente?

E’ vero che i nostri soldati sono “operatori di pace”, come li ha definiti l’Osservatore Romano, segnando una correzione di rotta profonda rispetto alle posizioni iniziali rispetto al conflitto iracheno. Ma è altrettanto vero che in quell’area è in atto un conflitto unilaterale del terrorismo internazionale coalizzato ormai con i seguaci di Saddam contro le forze presenti sul terreno e tutte le organizzazioni, umanitarie e quant’altro, che in qualche modo sostengono lo sforzo per la normalizzazione del paese. E allora. Sono state osservate tutte le regole previste per una situazione di guerra? La risposta a questa domanda è essenziale non solo per una ragione di giustizia nei confronti dei caduti, ma anche, e forse soprattutto, per quelli che restano e che, data la situazione, ormai non possono fare altro che restare, sperando che la strategia politica sia in grado di far fare alla situazione quel salto d’intelligenza che fino ad oggi è mancato, impantanandosi in una guerriglia quotidiana che, così condotta, può solo prolungarsi e degenerare.

Di qui si arriva al problema dei problemi, il famoso: che fare? Nel quale sono accomunati, come ha giustamente ricordato Galli della Loggia sul Corriere della Sera, favorevoli e contrari all’intervento, perché se errori vi sono stati, di strategia o di tattica, quel che è certo è che mollare porterebbe a una catastrofe annunciata. Il passaggio di mano a un esecutivo iracheno a breve termine previsto dalla nuova strategia americana è certo un bel concetto, ma la discriminante sta tutta nella sua attuazione, nel come, quando e con chi. Perché il problema che non si vede mai affrontato in tutti i ragionamenti è quello del rapporto con il terrorismo.

La contraddizione di fondo è infatti evidente. Il terrorismo, che è certamente minoritario nel mondo islamico, gode però di una rendita di posizione strategica che non accenna a incrinarsi. Le sue azioni puntano a destabilizzare l’Occidente per rovesciare i regimi islamici moderati e sostituirli con altri integralisti. Per questo colpisce l’Occidente e i moderati. Il mondo islamico moderato non è in grado di estirpare da solo il cancro che lo rode, ma se l’Occidente, colpito, contrattacca o attacca preventivamente, secondo la strategia Bush, si trova di fronte un magma in cui le distinzioni si perdono e viene a interpretare, come in Iraq, la parte dello straniero, dell’occupante, del simbolo del male, che trova nemici anche in strati che potenzialmente non sarebbero favorevoli all’integralismo.

Questo mi sembra il nodo da sciogliere: al di là dell’aspetto militare della lotta al terrorismo, la battaglia strategica va combattuta a livello politico, trovando il modo di coinvolgere l’islam moderato in questo scontro epocale, perché l’Occidente da solo non può vincerlo e rischia, altrimenti, di avvitarsi in una spirale dagli esiti imprevedibili. I prezzi da pagare ci saranno, ma che almeno servano davvero allo scopo!

19 novembre 2003 "

Saluti liberali

mustang
22-11-03, 23:29
....media

I media sono complici del terrorismo, sono lo strumento attraverso il quale viene non già consapevolmente informata bensì coscienziosamente smantellata la capacità di capire dell’opinione pubblica internazionale.

Questa verità sgradevole innanzitutto va detta perché è la verità, o almeno la nostra verità.
Ieri sera al Tg3 una corripondenza da Londra si chiudeva così:
“A Londra non ci sono stati gli scontri e i drammi che erano stati previsti, ma il sangue britannico è stato comunque versato altrove”.

Il poveretto che ha detto quelle parole non lo sa, ma la loro gravità è imperdonabile. E’ la dimostrazione di quel che diciamo. Per giorni i media hanno costruito a tavolino l’incubo della visita di George W. Bush a Londra.
Sono state previste giornate di sangue, sudore e lacrime.
Non è successo niente, a Londra. Bush ha mostrato il suo volto più decente, che ci vuole un bel pregiudizio per non vedere, e ha messo in rilievo com’è normale per il presidente della nazione più democratica del mondo il diritto della gente a manifestare.
La gente ha manifestato, con risultati di mobilitazione modesti, e il sipario è calato su un incontro politico e diplomatico che sancisce un’alleanza dei volenterosi e dei coraggiosi nel lucido disegno di rispondere alla guerra dichiarata dal terrorismo all’occidente.
Dunque, situazione intrattabile per i media, che perdono due a zero.

Dunque, i media si attribuiscono la vittoria a tavolino, e siccome a Londra non è successo niente, ma a Istanbul sì, e lì la gente è stata massacrata dai terroristi di Al Qaida, ecco l’accostamento malizioso, ecco la frase che spiega tutto: il sangue dell’occidente cola comunque, e cola per colpa di quei due, ma non a Londra bensì a Istanbul. Insomma, per loro responsabilità.
Loro, gli assassini.

Tutto questo è un’indecenza.
Come lo slogan “no blood for oil”, e il fatto che dopo averlo diffuso in tutto il pianeta, i media non hanno sentito il dovere civile di verificarlo: è in atto una rapina del petrolio iracheno oppure in atto un sacrificio di risorse e un grande sforzo internazionalista per la rinascita dell’Iraq da parte degli angloamericani? J
alal Talabani lo ha detto con chiarezza, vedi il Foglio di ieri: la “resistenza” irachena è più popolare nei media occidentali e su Al Jazeera che non in Iraq.
I governi di fronte ai media hanno un solo dovere: tenere le mani in tasca e disinteressarsene.
Ma la società no. Occorre mobilitarsi in una grande e duratura battaglia per strappare il velo di complicità che lega il sistema dei media, e i media come sistema e linguaggio omologato, alla bassezza ideologica, alla resa culturale, quella che porta a confondere un muro di difesa di nove chilometri utile a impedire l’arrivo degli assassini con un muro, quello di Berlino, che serviva a tenere in prigione uomini e donne che volevano essere liberi. Decrittare, denunciare.
Organizziamoci.

"il Ciccione" su il Foglio

saluti

mustang
22-11-03, 23:36
....Italia

Sosteniamo la sua candidatura per l’Iraq, sarebbe un bel segnale
per l’Europa dei traccheggiamenti

Al direttore - Sono passate poche settimane dalla commemorazione dei 60 anni trascorsi dall’8 settembre 1943 e dalla cosiddetta “morte della patria”.
Mi sembra forse prematuro affermare che, di fronte alle 19 bare schierate a San Paolo fuori le Mura, quel sentimento di appartenenza sia pienamente risorto.
Ma l’Italia si è certo stretta attorno ai suoi martiri.
Con commozione per il loro sacrificio. Con orgoglio. Con la consapevolezza che, a provocare quelle morti, è stata proprio l’humanitas dispiegata dalla nostra missione in Iraq nei confronti della popolazione civile, la particolare disposizione d’animo che riconosce nell’altro, prima di tutto, un altro uomo e un fratello.
I sorrisi dei bambini, la gratitudine delle genti di Nassiryiah ha determinato la condanna a morte da parte di chi non può tollerare che alla violenza e alla sopraffazione si sostituiscano l’amore, la comprensione, la civiltà, la democrazia: gli strumenti di una nuova convivenza.

Per questo il sacrificio e la testimonianza di Annalena Tonelli, missionaria in Africa, è così vicina a quella offerta dai carabinieri in missione di pace in Iraq.
Sono entrambi esempi di eroismo e di santità che traggono alimento dalla nostra civiltà cristiana.
Quella stessa radice cristiana che la moglie di uno dei carabinieri uccisi ha voluto sottolineare citando quel passo del Vangelo in cui si raccomanda di amare i nostri nemici e di pregare per i nostri persecutori. E’ forse un sentimento ancora fragile, quello che ha unito intorno al tricolore milioni di italiani, e intorno al presidente della Repubblica e al presidente del Consiglio, con solo poche e sgradevoli eccezioni, tutto il popolo italiano. Fragile, perché il vento della polemica e della strumentalizzazione potrebbe presto travolgerlo, ma prezioso.
E aiutato da altri fatti. Nell’arco di 24 ore, Roma ha passato il testimone a Firenze.
Contro la minaccia del terrorismo, con rare stonature e contro molti pronostici, le voci sono state unanimi e compatte da parte del mondo politico e sindacale, raccogliendo un appello rilanciato in prima persona da Silvio Berlusconi.
Qualcosa si muove. Lo hanno autorevolmente captato e sottolineato, da sponde opposte, Giuliano Ferrara ed Eugenio Scalfari.
Lo ripeto, forse è presto. Eppure, si respira un’aria nuova. C’è forse la voglia, ancora latente, ancora fragile, tutta da coltivare, di una nuova religione civile, la consapevolezza che sia stata scritta, a Nassiriyah come a Roma e Firenze, la prima pagina di una nuova tavola di valori comuni.

Il nesso inscindibile tra pace e libertà
Pace, Italia (e quella più grande Italia che è l’Europa), giustizia, libertà. Sopra questi quattro pilastri, gli stessi che sorreggono la civiltà occidentale, c’è molto da costruire. Scalfari cita, opportunamente, Mazzini, il sogno di un’Europa fondata sui popoli e sulle loro libertà. Vorrei ricordare come nel sottofondo dell’omelia del cardinale Camillo Ruini vi sia il magistero papale di Giovanni XXIII che, attraverso l’enciclica “Pacem in Terris”, ricorda come “in una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili”. E vorrei richiamare l’età dei Lumi, che, attraverso Immanuel Kant, esalta il nesso inscindibile tra pace e libertà. Nel trattatello “Per la pace perpetua – progetto filosofico”, Kant compie, è vero, la più straordinaria apologia laica della pace e la più determinata apologia del cosmopolitismo. Ma il filosofo tedesco non si stanca di ammonire il filosofo tedesco che “La costituzione civile di ogni Stato deve essere repubblicana”, cioè fondata su principi di libertà, uguaglianza e sulla dipendenza da una comune legislazione. Non c’è pace possibile, dunque, senza libertà, uguaglianza, democrazia e diritto internazionale. Forse, i morti di Nassiryiah e l’opera della nostra missione possono farci uscire dalle secche del dibattito di un’impossibile pace “senza se e senza ma”, per costruire la pace possibile dei diritti e delle libertà. Possiamo riconoscerlo tutti insieme? Possiamo adoperarci, uniti, perché il sacrificio dei morti di Nassiriyah e lo sforzo della nostra missione senta il sostegno compatto del paese? Possiamo adoperarci perché l’Europa abbandoni i traccheggiamenti di certe diplomazie e faccia sentire, in maniera determinata, una voce unitaria in grado di riappropriarsi dei valori costitutivi dell’Occidente di cui è stata culla? Possiamo?

Oggi c’è sul tavolo una candidatura autorevole che può testimoniare in Iraq questi valori. Quella di Emma Bonino. Sostenerla tutti insieme sarebbe un bel segnale.

Sandro Bondi, coordinatore di FI

un po' pomposetto ma il succo è questo: tutti per la "Bonino".

saluti

Pieffebi
25-11-03, 21:59
Beh se non si mette in testa di portare il "diritto all'aborto" alle musulmane (che prima, al di là delle opinioni morali di ciascuno, hanno comunque bisogno di altre cose....) ....potrebbe far benino.

Saluti liberali

Pieffebi
26-11-03, 20:50
up! per atterraggio morbido.........

Shalom!!!

Pieffebi
14-10-04, 16:14
up!