PDA

Visualizza Versione Completa : Il mondo antico e il libero arbitrio



Ichthys
24-11-03, 01:10
Emidio Spinelli

HANS JONAS: IL MONDO ANTICO
E I PROBLEMI DELLA LIBERTÀ

1. In apertura, mi sembra opportuno offrire informazioni e commenti sul lavoro inedito di Hans Jonas, che ho individuato all’interno del ricchissimo Nachlass conservato presso il “Philosophisches Archiv” dell’Università di Konstanz e una cui sezione è stata qui tradotta per la prima volta in italiano . Si tratta di una serie di 14 lectures tenute presso la “New School for Social Research” di New York nella primavera del 1970, di diversa lunghezza, che occupano in totale 331 pagine dattiloscritte e che portano l’impegnativo titolo di Problems of freedom .
L’originario progetto di Jonas era quello di trattare il tema della libertà in modo molto più ampio. È quanto confermano alcune note e indicazioni bibliografiche allegate al dattiloscritto (cfr. HJ 1-3-4d). Qui il corso viene presentato con il titolo di Problems of Human Freedom in Philosophy and Religion e viene fornita una lista di autori e testi, che va dall’antichità greca e cristiana (Platone, Aristotele, Stoici, Epicurei, Cicerone; San Paolo, Agostino, Boezio) all’età moderna (Hobbes, Spinoza, Locke, Hume, Reid, Kant, Schopenhauer, Mill) e contemporanea (James, Ryle, Ayer, Austin). Evidentemente per problemi di tempo, Jonas non riuscì tuttavia a portare a termine il suo ambizioso progetto, che voleva esaminare genesi e sviluppo del “problema libertà” lungo l’intera storia del pensiero occidentale . Egli decise allora di restringere l’ambito della sua analisi e, adottando i tipici strumenti (sia filosofici che storici) del suo approccio ermeneutico, si limitò a presentare un originale resoconto della nascita del concetto di libertà – o, più esattamente, di una pluralità di diversi e talvolta perfino antagonistici concetti di libertà – nel mondo antico, dalle sue origini greche ad Agostino. Credo di poter aggiungere che egli non sentì questa restrizione di campo come una diminuzione o una scelta di secondo piano, almeno se dobbiamo prestar fede alla seguente, autoironica ma verace, affermazione di principio, che leggiamo in uno dei saggi di Technik, Medizin und Ethik: «ma ci sono poi sempre quei retrogradi come me che restano fedeli all’idea che ci sia ancora qualcosa da imparare dalla filosofia classica su come si possa domandare e pensare» .

2. Nonostante questo orizzonte circoscritto, le sue lezioni conservano un’omogeneità interna, che deriva sia dall’unitaria lente di lettura scelta e mantenuta sempre da Jonas nel corso della trattazione, sia dall’indubbia organicità del tema affrontato. Prima di addentrarsi nella ricostruzione dei possibili motivi che spinsero Jonas a privilegiare la questione della libertà, vale forse la pena, per scrupolo di completezza, fornire un sintetico riassunto dei punti principali affrontati nelle 14 lectures.
Nel presentare il proprio corso Jonas mette in discussione la validità assoluta del tradizionale approccio agostiniano al problema della libertà, quello che connette «il problema della libertà umana con il problema della volontà libera» (p. 1) , a suo avviso inapplicabile sic et simpliciter al mondo greco, classico e post-classico. Assumendo una diversa prospettiva di lettura, Jonas richiama l’attenzione sul background socio-politico, sullo sfondo del quale il concetto di libertà andrebbe compreso nella Grecia antica, mentre nel contempo sottolinea la privazione giuridica di libertà che caratterizza la condizione degli schiavi nel mondo antico (pp. 1-22). Una simile interpretazione chiama in causa due differenti aspetti del concetto di libertà: (a) una libertà “negativa”, ovvero una libertà intesa come «non esser soggetti al volere di alcuno» (p. 23) e (b) una libertà “positiva”, ovvero una libertà assunta nel senso del potere di agire o di non agire, di essere insomma «padrone di sé e possibilmente padrone di altri» (ibid.). Attraverso un’attenta rilettura di alcuni testi fondamentali (in particolare la Repubblica di Platone e l’Etica Nicomachea di Aristotele) Jonas è in grado di affermare che la libertà nella Grecia classica deve essere intesa come una questione di potere o capacità e del successo che ne consegue, e non come una questione di possibilità teoretica (pp. 23-49) . Dopo questa selettiva ricostruzione delle posizioni platoniche e aristoteliche, Jonas offre una sintetica presentazione della nuova, profondamente differente situazione politica creatasi in seguito all’affermazione del potere di Alessandro Magno e dei suoi successori in età ellenistica (pp. 57-62), per poi passare ad analizzare, all’interno di questo periodo, nell’ordine: l’idea di cosmopolitismo e l’uso retorico del logos (pp. 62-69); più in generale il ruolo dei Cinici e del loro concetto di libertà (pp. 69-75); la funzione centrale assunta dal ricorso alla mitologia e dall’ampia diffusione di idee filosofiche, anche al di fuori dei centri tradizionali di cultura, ad esempio Atene (pp. 75-77). A questo punto emerge una questione di centrale importanza: il sorgere e lo sviluppo dell’idea di fato, immediatamente legata al concetto di libertà proprio degli Stoici e ancor più ampiamente al loro sistema filosofico, analizzato nelle sue varie articolazioni interne e incentrato sulla nozione forte, ma non costrittiva di “determinismo” (pp. 77-108). L’esame delle dottrine stoiche prosegue quindi con la tematizzazione della differenza, tipica soprattutto dello stoicismo romano, fra ciò che è in nostro potere e ciò che invece non lo è (pp. 108-140) e con un ritorno all’idea di kosmos, retto dal nesso fatale delle cause, che pone in seria discussione il ruolo della libertà umana in un sistema rigidamente determinato (pp. 140-161). Gli spunti offerti dalla filosofia stoica consentono a Jonas di volgersi ora alla tradizione ebraico-cristiana e di insistere su ciò che la diversifica dal pensiero greco precedente, soprattutto rispetto alla concezione del mondo e dell’uomo. In questo contesto assume particolare importanza il ruolo della nozione biblica di “creazione”, nonché il dogma del peccato originale, che viene presentato enfatizzando in particolare gli argomenti addotti al riguardo da Paolo (pp. 162-187). Dopo aver insistito su di un puntuale, storicamente e filosoficamente fondato confronto fra le posizioni stoiche e cristiane in merito alla libertà umana (pp. 187-200), Jonas esamina le paradossali conclusioni paoline (pp. 200-205). Queste pagine fungono da introduzione alla figura – davvero centrale nell’economia del corso – di Agostino, del quale viene offerto un breve profilo biografico e storico-filosofico, con il debito inquadramento degli influssi filosofici tradizionalmente riconosciuti (secondo la serie: scetticismo accademico-manicheismo-neoplatonismo) e con un opportuno richiamo alla novità della sua personale, radicalmente nuova soluzione cristiana (pp. 205-233). Dal punto di vista dei testi Jonas dedica ampio spazio al commento di alcuni passi di opere agostiniane (con particolare insistenza sul De libero arbitrio e sull’Ad Simplicianum), spaziando dalla fase anti-manichea a quella pre-pelagiana e pelagiana. Tali note esegetiche sono seguite da una breve ricostruzione dei punti salienti del pelagianesimo, delle sue idee circa la libertà umana e la grazia divina, sistematicamente messe a confronto con la ben più radicale posizione di Agostino (pp. 233-279). Jonas sembra addirittura voler prendere partito nella disputa: grazie ad un esame incrociato dei testi e di alcuni concetti chiave (come quelli di grazia, amore-agape-eros, vocatio, adpetitus, ecc.), egli arriva a concludere che proprio Agostino appare responsabile di un fraintendimento delle teorie di Pelagio e di un sostanziale tradimento del loro genuino significato (pp. 279-301). Nella lezione conclusiva viene posta in primo piano la «strana oggettivazione della sfera esistenziale» (p. 306), che il dibattito sul libero arbitrio fra Agostino e Pelagio sembra implicare. Il vero – e forse infinito – problema di Agostino è quello di spiegare il ruolo della soggettività umana sullo sfondo di un rigoroso pensiero cristiano; al di là delle personali preferenze, nessuno può in ogni caso sottovalutare la sua soluzione, poiché essa, insistendo sulla funzione nodale del volere umano, rappresenta una prima, radicale risposta dopo il difficile, complicato, non lineare passaggio dal paganesimo alla cristianità (pp. 302-331).

3. Se a questo punto passiamo dal piano della mera descrizione dei contenuti del corso alla determinazione delle motivazioni che probabilmente guidarono la scelta di Jonas, ci muoviamo innegabilmente su di un terreno meno certo, ma non per questo meno interessante ai fini della corretta valutazione del peso specifico che Problems of Freedom può avere nel più vasto ambito della sua produzione filosofica.
La prima domanda che a mio avviso è possibile porsi è: perché Jonas decise di scegliere il tema della libertà? Prima di concentrare l’attenzione su alcuni aspetti fondamentali del suo approccio, tenterò di dare a questa domanda una risposta plausibile – anche se speculativa, bisogna ammetterlo –, senza tuttavia pretendere di fornire una soluzione definitiva. Formulerò al riguardo una serie di ipotesi, anche allo scopo di ricollocare il testo di Jonas “nel suo luogo e nel suo tempo” .
Innanzi tutto, non bisogna certo lasciarsi andare a profonde speculazioni per affermare che il problema della libertà umana era stato e sarà sempre per Jonas cruciale. Questo è vero sin dall’inizio dei suoi sforzi di riflessione filosofica, per l’esattezza sin dai suoi primi lavori, dedicati a Augustin und das paulinische Freiheitsproblem e, come è noto, a Der Begriff der Gnosis . Anche in quest’ultimo caso, infatti, lo studio dell’essenza dello gnosticismo costituiva per lui

«una questione di interesse non soltanto storico, in quanto aggiunge sostanzialmente qualcosa alla nostra conoscenza di un periodo cruciale dell’umanità dell’Occidente, ma anche di interesse intrinsecamente filosofico, in quanto ci pone faccia a faccia con una delle più fondamentali risposte dell’uomo alla sua specifica situazione e con le intuizioni che soltanto una posizione così radicale può produrre, ed è perciò di considerevole apporto alla nostra umana conoscenza in generale» .

Considerazioni e rinvii che muovono nella stessa direzione, del resto, possono essere senza difficoltà rinvenuti lungo tutto l’arco della produzione di Jonas, a partire ad esempio dalla significativa scelta del titolo tedesco di uno dei suoi scritti più interessanti: Organismus und Freiheit .
In secondo luogo, si può supporre che la scelta di Jonas volle essere una reazione e una presa di posizione rispetto alla vasta e diffusa discussione sul problema del “libero arbitrio”, ben documentata in libri e articoli pubblicati fra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta da membri influenti della comunità filosofica di lingua inglese (soprattutto negli Stati Uniti, ma anche altrove). A coloro che amano le statistiche, vorrei suggerire di controllare la lunga lista di opere dedicate al tema del libero arbitrio in tale periodo e discusse da Harald Ofstad in una sorta di “mega-recensione” apparsa nel 1967 sulla rivista «American Philosophical Quarterly». Ofstad cita ben 223 titoli (sic!), ma aggiunge, quasi a volersi scusare, che «alcuni articoli e note minori sono stati lasciati fuori» .
In terzo luogo, il problema della libertà – un tipico enigma morale – e le questioni relative alle sue radici storiche si adattava, in modo più specifico e potremmo dire quasi “contingente”, alla nuova direzione assunta dalla filosofia di Jonas non appena egli cominciò a riflettere sugli enormi rischi della nostra era tecnologica e sui nuovi “doveri” degli esseri umani derivanti dal nostro atteggiamento di fronte al “Prometeo scatenato”. La migliore testimonianza di questa svolta etica è fornita dallo stesso Jonas nella nota introduttiva ai suoi Philosophical Essays:

«così è accaduto che, verso la fine degli anni ‘60 – passando da una giustificazione “teorica” ad una “pratica”, sotto la pressione degli eventi e ancor più delle grandiose possibilità che si profilavano all’orizzonte – ho cominciato ad occuparmi di etica e, alla fine, a ricercare i fondamenti di un’etica adeguata alle questioni su cui prima o poi saremo chiamati a decidere» .

Ugualmente chiara e utile può essere un’altra testimonianza auto-biografica, che si riferisce alla fase finale del periodo dominato dall’analisi biologica attuata da Jonas su das Organische:

«motivo conduttore dell’interpretazione è stato per me il concetto della libertà che ho creduto di scoprire embrionalmente già nel ricambio organico e ho visto esaltarsi nell’evoluzione animale in gradi fisici e psichici sempre più elevati fino a giungere al vertice, nell’uomo. Qui il rischio della libertà, nel quale la natura si è avventurata con la vita e la sua caducità, diventa una questione di responsabilità dei soggetti stessi. Si apre così la dimensione della moralità che in quanto dottrina del dovere oltrepassa la dottrina dell’essere, ma si fonda pur sempre su questa» .

4. Sarebbe interessante riproporre, attraverso un’analisi attenta e completa, tutte le riflessioni contenute in questo denso corso di lezioni, per mostrare quanto esse siano produttive, anche da prospettive e ottiche di lettura fra loro differenti. Non è tuttavia questa la sede per offrire un simile esame dettagliato dei molteplici punti, che pure sarebbero degni di nota. Quello che mi propongo di fare – con abbondanza di citazioni dirette e con l’intento dichiarato di far emergere i meriti di un approccio molto originale, dal punto di vista sia teoretico che metodologico – è di concentrare l’attenzione, quasi a mo’ di commentario analitico, unicamente su alcuni punti a mio avviso salienti della quarta lezione di Problems of freedom, che è specificamente dedicata alle riflessioni e alle soluzioni offerte dalla dottrina stoica antica rispetto alla determinazione del raggio d’azione della libertà umana.
Uno dei meriti dell’approccio di Jonas consiste nella chiarezza con cui egli individua i problemi “teoretici” della libertà. Essi possono essere riassunti in due domande, che condizionano il dibattito antico – ma che sono senz’altro attuali anche per la riflessione contemporanea sul tema della responsabilità morale:

1. dato per scontato il mio potere di agire e di tenere sotto controllo le mie azioni immediate, si può dire che io controllo o quanto meno influenzo il mio destino per mezzo dei miei atti? (cfr. p. 25)
2. se un’azione è detta libera quando è voluta, si può anche dire che la volontà era libera nel momento in cui la voleva? (cfr. ibid.)

Jonas dichiara immediatamente che il fatalismo classico, che egli definisce anche “pre-determinismo”, risponde negativamente alla prima domanda: nessuno può mutare i decreti del fato, anche se ciò non implica la negazione del potere di agire da parte dell’uomo e dunque non sfocia in alcuna forma di rassegnazione o quietismo (cfr. anche pp. 104-108).
Più complessa è la risposta alla seconda questione. Essa mette capo alla distinzione fra ragione e passione e soprattutto all’idea di una ragione capace di dominare le sue passioni. Insomma la riflessione sullo spazio di autonomia del volere umano genera il concetto di una libertà tutta interiore/interna del sé razionale, che pretenderà addirittura di essere compatibile con una forma forte di fatalismo deterministico.

5. Questi sono i problemi e gli snodi teorici che Jonas ha di fronte. Egli pensa di ritrovarli soprattutto nello stoicismo, che «reinterpreta la posizione dell’uomo all’interno del suo ambiente e in senso estremo all’interno dell’universo» (p. 49). La causa principale di questo diverso sguardo sull’universo viene legata alla situazione politica profondamente differente creata dalla crisi delle strutture politiche delle poleis greche e dall’affermazione del potere di Alessandro Magno e dei suoi successori (cfr. anche pp. 78-79). Queste vicende, interpretate forse sotto l’influsso forte delle note tesi di Droysen sul significato della categoria storiografica di “ellenismo” (definita infatti da Jonas come «un’utile convenzione»: p. 49) , determinano la perdita di significato del concetto classico di virtù e l’invenzione dell’idea dell’individuo privato (idiotes) . La fonte stessa della felicità e della libera realizzazione dell’uomo esula ormai dai confini della sfera pubblica, politica o in senso lato esterna e già con i Cinici viene trasferita nella vita interiore, nell’ambito privato del sé (cfr. pp. 74-75). La distruzione dell’indipendenza socio-politica delle poleis genera tuttavia anche un diffuso sentimento di incertezza, che rafforza l’idea secondo cui la libertà umana è sempre sotto la minaccia del «grande sconosciuto», di ciò che «non è prevedibile». Jonas attira la nostra attenzione sul ruolo di questa forza oscura, sempre incombente sulle nostre teste. Essa era nota nell’antichità sotto nomi diversi (caso, tyche, Fato, Moira, Ananke e così via) e può essere rintracciata «dietro numerose espressioni della mentalità greca dell’età classica» (p. 22). Per trovare «una reale nozione teoretica di necessità universale» (ibid.), si deve tuttavia attendere fino al periodo post-classico e più precisamente fino al dibattito sul (e contro il) determinismo stoico in età ellenistica . In quell’epoca il rapporto fra auto-determinazione umana e fatalismo diventa il tema fondamentale. Anzi, per citare le parole di Jonas:

«a questo punto risulta supremamente importante considerare in che modo il fato universale e la libertà umana furono messi in relazione reciproca nella concezione stoica. Uno dei compiti maggiori che la filosofia stoica, per il suo stesso spirito e per le condizioni della sua impostazione, aveva delineato per sé era la riconciliazione dell’idea del Fato (determinismo universale) con l’idea della virtù (auto-determinazione). Non esiste virtù senza auto-determinazione e questo, in uno schema legato al determinismo universale, pone problemi del tutto particolari» (p. 76).

Il compito che Jonas si pone è appunto quello di ricostruire il peso e la consistenza teorica di questi problemi, anche perché egli è convinto – diversamente da molti studiosi, che privilegiano in tal caso l’opera e il pensiero di Aristotele – che lo stoicismo è «la prima scuola filosofica a dedicare esplicita attenzione alla libertà come problema e come fine per l’uomo» (p. 77). Questa conclusione può forse sembrare troppo radicale, ma le ragioni filosofiche con cui Jonas la difende meritano di essere considerate con attenzione. Egli ritiene infatti che

«il problema della libertà può presentarsi in connessione con la concezione di una legge universale di tutte le cose; cioè, è nel confronto con una dottrina del determinismo universale o nel confronto con una universalizzazione del concetto di causa che il problema della libertà per la prima volta appare in quanto problema, nel senso di stabilire se la libertà sia possibile oppure no e se sì in che modo, senza violare un principio che altrimenti è tanto strettamente fissato quanto il principio della determinazione universale risultava essere nella filosofia stoica» (p. 78).

La lettura che Jonas offre dell’approccio stoico al problema della libertà umana risulta estremamente corretta, soprattutto perché non fa di questo difficile tema una questione ristretta all’ambito esclusivamente morale. Parlare di libertà per uno stoico implicava infatti aver già chiarito e spiegato presupposti indispensabili di natura fisica e logica. Insomma quello che Jonas giustamente coglie è un aspetto essenziale del pensiero stoico: il suo carattere sistematico. Egli sembra dunque riconoscere in modo esplicito e accettare la distanza storica che ci separa da questa scuola filosofica antica e che ci impone di mettere fra parentesi i nostri pregiudizi interpretativi e di abbandonare una visione della struttura interna del sapere sicuramente familiare per noi, ma non esportabile sic et simpliciter alla mentalità antica, stoica in particolare. È vero infatti che noi siamo soliti per così dire isolare e dipartimentalizzare singole questioni in singoli ambiti, considerando ad esempio logica, fisica ed etica come campi distinti – addirittura forse incomunicanti – dello scibile, ciascuno dotato di autonomia insieme contenutistica e metodologica. Altrettanto vero, però, è che un simile approccio non vale assolutamente nel caso dello stoicismo antico, che non alza “steccati” fra le varie parti della filosofia.
Un passo di Diogene Laerzio offre dettagliate metafore, che chiariscono una simile attitudine sistematica della dottrina stoica:

«Gli Stoici paragonano la filosofia ad un essere vivente: alle ossa ed ai nervi corrisponde la Logica, alle parti carnose l’Etica, all’anima la Fisica. Oppure la paragonano ad un uovo: la parte esterna, il guscio, è la Logica, la parte seguente, il bianco, è l’Etica, la parte più interna, il tórlo, è la Fisica. Oppure la paragonano ad un fertile campo: la siepe esterna è la Logica, il frutto è l’Etica, la terra o gli alberi la Fisica. Oppure la paragonano ad una città ben munita di mura e razionalmente amministrata. E nessuna parte è separata dall’altra, come pur dicono alcuni Stoici, ma sono tutte piuttosto strettamente congiunte fra loro. Anche l’insegnamento veniva trasmesso congiuntamente e non separatamente. Altri danno il primo posto alla Logica, il secondo alla Fisica, il terzo all’Etica […]» [Diogene Laerzio (=DL) VII 40, tr. Gigante].

Una volta accettata questa idea di un solido, forte sistema stoico, si deve concordare con Jonas e con la lezione di metodo che egli ci offre. La sua descrizione delle nozioni di libertà e responsabilità, infatti, è sempre supportata da un’analisi attenta delle dottrine stoiche basilari negli ambiti strettamente correlati di teologia e fisica .

6. È questo dunque lo sfondo su cui si debbono collocare e leggere le idee stoiche relative al concetto di libertà. Esse presuppongono sia una solida teoria sullo stato fisico del mondo sia una fine relazione dialettica fra il tutto – visto come un kosmos perfetto, armonioso, ordinato, proporzionato e bello – e le sue parti .
Jonas ritiene che una simile dottrina rappresenti uno degli aspetti più nuovi del sistema stoico: in base a essa, si può affermare che esiste una forma stretta di necessità, che tuttavia non può essere identificata con una forma di costrizione, almeno non nel caso degli esseri umani. Il termine tecnico usato dagli Stoici per esprimere tale forma di necessario determinismo è heimarmene. Jonas spiega questo concetto, parzialmente oscuro, nel modo seguente:

«La necessità universale che regola tutte le cose e le rende conformi all’interesse del tutto viene chiamata heimarmene. Si tratta di un nome antico, elevato dagli Stoici a una posizione centrale nel canone dei termini cosmologici e filosofici. Heimarmene significa destino. Non è la stessa cosa di ananke, che significa costrizione. Heimarmene significa distribuzione, <assegnazione> come in un sistema politico di governo, dove funzioni, ruoli, premi e punizioni sono assegnati, distribuiti a turno. Qualsiasi cosa accada è parte di una distribuzione o dispensazione universale» (pp. 92-93).

Si dovrebbe aggiungere che la distribuzione di ruoli e funzioni dovuta a questo speciale tipo di “destino” non è cieca, ma è stricto sensu teleologica, ha uno scopo, per l’esattezza quello di “mantenere il cosmo nella sua condizione migliore di auto-aggiustamento” (p. 98). Se questo è vero, il concetto stoico di “destino” e più in generale la nozione stoica di “determinismo” assume un valore teologico e dovrebbe essere identificata con una forma specifica di “provvidenza”, che non si estende tuttavia fino agli eventi individuali di ogni singola esistenza. Il presupposto teoretico che consente una simile identificazione e che rappresenta un punto cruciale della teologia e della fisica stoiche potrebbe essere rinvenuto nell’immanentismo stoico (ma non in una forma embrionale di panteismo, un termine che Jonas si rifiuta di usare, poiché esso sarebbe ancora estraneo al lessico e all’universo concettuale delle scuole filosofiche greche).
In effetti, secondo Jonas, gli Stoici ritengono che

«il divino è totalmente immanente nell’universo nella forma del logos divino, che è identico al tutto, e che è il principio ordinatore e di governo del tutto (p. 98). […] È un postulato o assioma stoico quello secondo cui in un universo di questo tipo ogni cosa è ordinata e pre-ordinata. C’è una concatenazione di cause, in base alla quale qualsiasi cosa accada in natura ha il proprio immediato antecedente, è necessariamente legata alla sua causa prossima. Questa causa prossima è tanto limitata, tanto particolare quanto il suo effetto e a sua volta è preceduta e determinata da una causa prossima, e ciascuna cosa è parte di questa continua catena di causa-effetto» (p. 88).

Non c’è dubbio che una tale posizione sia strettamente deterministica, anche se Jonas ritiene che non la si possa assimilare al “modello meccanicistico” proprio del materialismo e soprattutto di ogni tipo di atomismo (antico, moderno o contemporaneo), dove troviamo piuttosto una concezione della necessità causale “non-teleologica” .

7. Se questa è la raffigurazione stoica della struttura fisica dell’universo, quale spazio specifico è lasciato agli esseri umani? Quale è la relazione fra gli esseri umani in quanto agenti morali e la totalità degli eventi, che forma e caratterizza la “storia” dell’intero kosmos? Come dobbiamo intendere e valutare la presunta virtù attribuita agli esseri umani in quanto membri sicuramente speciali del tutto?
È difficile dare una risposta a queste domande. Gli Stoici si servono di un modello metaforico: quello di un corpo organico, in cui ciascuna parte svolge una funzione vitale, non per se stessa, ma per il corretto funzionamento del tutto. Se diamo per acquisito questo modello al fine di determinare il ruolo degli esseri umani, diventa evidente che essi debbono completamente integrarsi «nella rete di interazioni, inter-relazioni, che costituiscono il tutto dell’universo» (p. 86), poiché – come scrive Jonas – «nessuna parte può separarsi, rendersi indipendente rispetto al tutto. Essa è ciò che è in virtù dell’intera esistenza e in costante interdipendenza con tutte le altri parti» (ibid.).
La metafora della “rete” (network), tuttavia, mostra anche come ogni parte abbia un compito specifico, unico all’interno del tutto e per il tutto. Dato quanto abbiamo detto fino a questo punto, la parte speciale assegnata agli esseri umani sembra essere abbastanza chiaramente definita. Jonas sostiene che la loro proprietà o funzione distintiva non consiste unicamente nel possesso e nell’uso delle mani;

«ciò che risulta veramente distintivo dell’uomo, però, è la ragione. Il concetto stoico di ragione è il centro del concetto stoico di uomo e anche il centro dell’etica stoica e quindi il centro del concetto stoico di libertà» (p. 100).

Come è possibile, però, garantire nello stesso tempo l’uso razionale dei nostri poteri e il pieno compimento della nostra libertà? E come può l’esercizio della nostra libertà assicurare la conquista del fine più alto, cioè della felicità, intesa come completo (interno ed esterno) “ben-essere” (cfr. p. 80), che già Aristotele aveva posto come summum bonum? Nessun filosofo stoico ammette che la nostra libera azione possa modificare quanto detta il fato divino. Il nostro logos, in quanto parte del logos universale, deve limitarsi alla conoscenza del tutto e delle sue più minute interconnesioni e inter-relazioni. È facile constatare come questa soluzione sia perfettamente in linea con l’amore tipicamente greco per la contemplazione, per quella theoria, che ancora una volta Aristotele aveva celebrato come lo specifico e più alto fine umano nel libro X della sua Etica Nicomachea. Gli Stoici, però, attribuiscono anche un valore diverso e nuovo a questa dimensione teoretica della vita umana, dal momento che la amplificano – dice Jonas – «nel senso religioso di essere capaci di discernere l’identità del proprio più intimo principio con il principio del tutto» (p. 102).
Una delle migliori testimonianze circa tale attitudine, che ha a che fare insieme con gli aspetti più innovativi della gnoseologia, dell’etica e della teologia stoiche, può essere trovata in un famoso passaggio delle Epistole di Seneca:

«Che cos’è la felicità? Quiete e tranquillità continua, che otterrai se sarai di animo grande e irremovibilmente fermo nei buoni propositi. A tale mèta come si arriva? Mediante una piena intelligenza della verità, mantenendo nelle azioni ordine, misura, convenienza, avendo una volontà schiva del male e rivolta al bene, che opera in armonia con la ragione, senza mai scostarsene, e si mostra degna di amore ed assieme di ammirazione. Infine per darti in breve una norma, sappi che l’animo del saggio deve essere tale quale s’addice ad un dio» (Sen. ep. 92, 3, tr. Boella).

Questa sorta di assimilazione alla divinità non trasforma tuttavia tout court gli uomini in dèi. Gli esseri umani non possono avere in alcun modo il potere ontologico di creare se stessi così come quello di creare altri enti naturali; né possono mutare l’ordinata catena di cause ed effetti, che è all’opera intorno a loro. A dire il vero la loro parte migliore, lo hegemonikon, possiede una piccola parte del logos universale, ma la capacità del loro potere razionale è limitata; o meglio – si dovrebbe dire – sembra che essa sia radicalmente passiva. Di fatto dal punto di vista epistemologico il nostro logos ha solo il potere di dare il proprio assenso a quelle rappresentazioni comprensive (cioè catalettiche), che sorgono da ciò che è e sono impresse e stampate in noi esattamente in accordo con ciò che è, di un genere tale che non potrebbero sorgere da ciò che non è .
Sul piano etico, comunque, gli esseri umani – le uniche entità razionali pienamente sviluppate – possono e debbono agire in accordo con la legge universale e conformare la propria volontà individuale a quella del tutto. Come amavano dire gli Stoici antichi – e fra loro soprattutto Cleante – il saggio, che è anche l’unico uomo libero secondo loro, si sottomette agli ordini di Zeus e si piega al logos comune, che il potere divino ha disposto per il miglior successo di ciascuna cosa e insieme del tutto.
Molti passi potrebbero essere portati a sostegno di questa attitudine “religiosa” dello stoicismo antico. A parte il suo celebrato Inno a Zeus, mi sembra opportuno citare almeno i famosi versi di Cleante rivolti sempre a Zeus e registrati ancora una volta da Seneca [Sen. ep. 107, 11=Stoicorum Veterum Fragmenta (SVF) I 527, tr. Boella; cfr. anche Sen. De vita beata XV 5]:

«Conducimi, o padre e signore dell’alto cielo,
dovunque vuoi: sono pronto ad obbedire;
eccomi pieno di slancio. Supponi che io sia contrario,
seguirò la tua volontà lagnandomi
e con l’animo avverso subirò ciò che avrei potuto fare di buon animo.
Chi segue i fati lo conducono, chi recalcitra lo trascinano
(ducunt volentem fata, nolentem trahunt)».

Dottrine identiche o simili, fortemente influenzate da una visione deterministica o forse più esattamente fatalistica, vengono attribuite anche a Zenone, Crisippo e più tardi a Epitteto e sembrano essere una sorta di “patrimonio comune” della scuola stoica. Si può citare in proposito un altro passo, che illustra la teoria stoica meglio di qualsiasi prolissa parafrasi:

«Crisippo nel libro primo Dei fini afferma inoltre che il vivere secondo virtù coincide col vivere nell’esperienza degli accidenti naturali; ché le nostre nature sono parti della natura dell’universo. Per questo motivo il fine è costituito dal vivere secondo natura, cioè secondo la natura singola e la natura dell’universo, nulla operando di ciò che suole proibire la legge a tutti comune, che è identica alla retta ragione diffusa per tutto l’universo ed è identica anche a Zeus, guida e capo dell’universo» (DL VII 87-88, tr. Gigante).

La vita felice e libera, che deriva da un retto esercizio della virtù, è descritta di conseguenza come «un corso armonioso di vita», «una corrente favorevole» (euroia biou): come indica chiaramente la metafora, dobbiamo essere in accordo con noi stessi e con il tutto, dobbiamo “sintonizzarci” con il corso universale e necessario della natura . Ricapitolando, per gli Stoici è impossibile che il punto più alto della nostra moralità, ovvero l’azione virtuosa come completa realizzazione della natura razionale dell’uomo, non riveli un accordo perfetto, una congruenza totale con l’armoniosa costituzione dell’universo .
Come abbiamo visto, gli Stoici sembrano nutrire una vera e propria passione per le metafore. Essi assimilano il tempo limitato del nostro destino al ruolo assegnato agli attori sulla scena: come la perfetta “star”, che è in grado di recitare la sua parte preferita così come parti diverse in situazioni e circostanze diverse, anche il saggio, il perfetto sophos idealizzato dallo stoicismo antico , accetta qualsiasi ruolo scritto per lui dal divino ‘regista’ del mondo, poiché nessuno può “improvvisare” o mutare il copione che regola il tutto.
Epitteto condensa questi concetti e queste idee nel modo seguente:

«non devi cercare che gli avvenimenti vadano come vuoi, ma volere gli avvenimenti come avvengono: e vivrai sereno» (Epict. ench. 8, tr. Cassanmagnago; cfr. anche diss. II 14, 7).

E questo accade – aggiunge ancora Epitteto – per le seguenti ragioni:

«l’uomo […] Dio l’ha introdotto nel mondo come spettatore di Lui e delle sue opere; e, anzi, non solo come spettatore, ma anche come interprete delle medesime. Perciò è vergognoso per l’uomo cominciare e finire dove cominciano e finiscono anche gli esseri senza ragione; bisogna piuttosto che egli cominci di lì e finisca là dove finisce la nostra natura. Essa finisce nella contemplazione, nella comprensione delle cose e in una condotta di vita in armonia con la natura. Fate attenzione, dunque, a non morire senza aver contemplato queste cose» (Epict. diss. I 6, 19-22, tr. Cassanmagnago) .

8. Se questo è il sottofondo sistematico e palesemente teologico della dottrina stoica, siamo ancora legittimati a parlare di libertà?
Jonas sembra gettare l’ombra del dubbio su questa possibilità, perché ai suoi occhi una forma radicale di fatalismo rischia di distruggere qualsiasi potere autonomo nelle azioni umane e relega la nostra libertà all’interno del debole regno del sé interiore, incapace di agire sul benché minimo legame della predeterminata catena degli eventi. Come sottolinea Jonas in conclusione della sua analisi della dottrina stoica

«il problema teoretico degli Stoici è come la libertà di assentire o dissentire, confermare o non confermare, combattere o non combattere sia compatibile con il principio del determinismo universale, che in quanto universale ed esteso a tutto dovrebbe ricomprendere perfino l’atto stesso del volere. Questa difficoltà teoretica non fu risolta in modo soddisfacente dalla Stoa. Il principio cui si richiama la loro soluzione è che dobbiamo distinguere fra ciò che accade nella concatenazione corporea di causa ed effetto e ciò che accade nella sfera più intima del nostro essere, la sfera della nostra || auto-determinazione razionale. Come possono questi due aspetti essere sufficientemente separati l’uno dall’altro fino al punto di rivendicare l’autonomia dell’uno mentre l’altro si trova completamente sotto l’universale necessità?» (pp. 103-104).

Nonostante i dubbi sollevati da Jonas, però, è senz’altro giusto riconoscere anche un aspetto positivo – o quanto meno degno di attenzione – nel modello stoico di vita libera e felice. Anthony Long, ad esempio, suggerisce che la dottrina stoica ci invita «a vedere il mondo come una cosmopoli o un eco-sistema di cui ogni persona è parte integrante» . Anzi, come potremmo dire con terminologia contemporanea cara anche ai dibattiti bioetici, essa detta all’uomo – il più razionale fra gli abitanti di questo nostro mondo – la necessità di sincronizzare il proprio, individuale orologio biologico con la cosmo-biologia del sistema più vasto in cui egli vive . O, se preferiamo far echeggiare il famoso messaggio etico (ed “ecologico”) di Jonas, potremmo dire che anche gli Stoici ci impongono – ancora e con forza sempre maggiore – l’esigenza di rispettare un consapevole e diffuso Prinzip Verantwortung.