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Davide (POL)
13-01-04, 11:59
Venerdì scorso la Royal Dutch Shell, una delle più grandi industrie petrolifere del mondo, ha lanciato una bomba sul mercato azionario sotto forma di un annuncio: abbiamo meno riserve di quanto avevamo detto. Il 20 per cento in meno, a voler essere precisi, per un totale di circa 4 miliardi di barili di greggio. Il mercato, com'era prevedibile, non l'ha presa bene: le azioni della compagnia anglo-olandese hanno subito registrato un calo del 7,5 per cento mandando in fumo 4,3 miliardi di euro e riposizionando la Shell molto al di sotto delle sue dirette concorrenti, la British Petroleum e l'americana ExxonMobil. Le riserve non sono andate distrutte in un incidente navale o in un sabotaggio della resistenza irachena. Semplicemente, non sono mai esistite.


Licenza
di mentire
I dirigenti della Shell hanno fatto, con il petrolio, quello che Parmalat ha fatto con la carta intestata della Bank of America: hanno certificato il possesso di una ricchezza inesistente per continuare ad attirare i polli, ovvero gli investitori e i piccoli risparmiatori. La stima delle riserve è infatti una misura chiave per valutare la salute di una compagnia petrolifera. Sebbene sia sempre più difficile trovare nuovi giacimenti, ultimamente Shell sembrava più spregiudicata delle concorrenti nello sfruttare il petrolio in Nigeria e molto più fortunata nello scovare nuovi giacimenti di gas in Australia. Oggi si scopre che il gas australiano, dato per acquisito nel 1997, non è nemmeno ancora entrato nel mercato asiatico.

Il problema è che - incredibile ma vero - per le compagnie petrolifere non è previsto alcun sistema di controllo indipendente sulle stime fornite. Bisogna fidarsi della parola visto che le compagnie sono lasciate libere di auto-certificare il livello e l'accessibilità delle proprie riserve. Ogni tanto gli ingegneri verificano se quel dato pozzo o quel giacimento contendono effettivamente quella data riserva, ma poi è la compagnia a decidere se rendere pubblica l'informazione. Certo, bisogna gonfiare parecchio le cifre per arrivare a una sovrastima complessiva del 20 per cento. Secondo il "Financial times" potrebbero essere stati i manager delle strutture locali del gruppo, che avevano interesse a sovrastimare le riserve per avere più soldi o per fare carriera. Ma è chiaro che il quotidiano economico britannico ha una spasmodica necessità di mele marce, per salvare la faccia al sistema complessivo.

C'è da dire che, almeno dalle parti della borsa di New York, qualche riforma la stanno facendo sul serio. Tanto è vero che la mossa della Shell - ammettere tutto subito, per evitare guai peggiori - è stata direttamente causata dall'adozione di nuove linee guida da parte della Securities and Exchange Commission, l'organismo di controllo della borsa statunitense già travolto dall'erongate e altri scandali simili. Stavolta la Sec mostra di volere intaccare perfino i privilegi di "Big Oil", e molto probabilmente quest'ultimo scandalo costringerà a istituire un sistema di controllo indipendente anche per le potenti industrie petrolifere. Senza contare che la "licenza di mentire" riguarda esclusivamente le grandi sorelle del mondo anglosassone visto che le industrie petrolifere emergenti - come ad esempio quelle russe - hanno l'obbligo di presentarsi con una stima fornita da terzi se vogliono anche soltanto avvicinarsi al mercato.


Omissioni all'italiana
Resta un'ultima considerazione da fare riguardo all'informazione di casa nostra. La notizia sulla picchiata delle azioni Shell a seguito della "confessione" è stata battuta dalle agenzie venerdì, e sabato il "Financial times" le ha dedicato la prima pagina e vari commenti all'interno. Per rintracciare la stessa notizia sull'equivalente nostrano del quotidiano britannico, "il Sole 24 ore", bisogna andare a pagina ventiquattro dove, nelle ultime tre righe di un rassicurante articolo sul mercato petrolifero «rimasto al palo nonostante i profitti eccezionali», si menziona la perdita in borsa registrata dalla Shell. Nessun titolo, nessun editoriale, nessuna riflessione. Ma c'è di peggio.

Il lunedì successivo, nell'inserto del "Corriere della Sera" dedicato all'economia, fra la selva di consigli per gli acquisti intitolati «Ecco dieci segugi per correre in Piazza«oppure «Bond, il calendario della sicurezza«e fra i pregevoli articoli giustamente scandalizzati dedicati a Parmalat e affini, incredibilmente non c'è nemmeno una riga né sulla Shell né sul timore, espresso lunedì da tutta la stampa anglosassone, che anche le altre sorelle come Bp, Chevron Texaco e ExxonMobil, possano avere gonfiato le stime. Ovviamente, se il sospetto fosse confermato, il settore petrolifero più che "rimanere al palo" registrerebbe un vero e proprio tracollo. Eppure il "Corriere" non reputa necessario rovinare il clima giocoso, tutto strizzate d'occhio ai neo-scommettitori della borsa nostrana, inserendo la notizia della svalutazione delle azioni Shell e dell'ennesima truffa ai danni degli investitori.

Sabina Morandi_
Liberazione 13 01 04__

Davide (POL)
13-01-04, 12:00
La multinazionale per paura dei controlli rivela: -20% di riserve. Il titolo crolla in borsa

Cara benzina. Nonostante supereuro, infatti, il prezzo alle pompe non diminuisce. Anzi, in qualche caso ci sono stati nuovi aumenti (Agip e Ip, per esempio), che hanno fatto imbestialire i consumatori. Certo, il petrolio ha raggiunto prezzi record da dieci mesi a questa parte (oltre 30 dollari al barile, per altro ieri si è un po' abbassato): c'è di mezzo l'inverno rigido negli Usa, ma molto dipende dal fatto che non arriva sul mercato il greggio iracheno e quindi la produzione non aumenta e i prezzi restano alti. Ma, sottolineano le associazioni dei consumatori, fatti due calcoli il prezzo della benzina non solo non dovrebbere aumentare, ma anzi dovrebbe diminuire. Per una corretta comparazione, osserva l'Intesa, basta prendere i primi tre mesi del 2003 quando il prezzo del petrolio si collocava agli stessi valori di oggi di 30/31 dollari al barile, il prezzo industriale, quindi senza tasse, della benzina si situava ad una media di 35 cent al litro mentre l'euro aveva un valore medio di 1.07 sul dollaro. L'euro adesso si è rivalutato del 20% rispetto a quei mesi e quindi il prezzo industriale della benzina dovrebbe attestarsi a circa 28 centesimi al litro. Se a ciò si somma la nuova accisa pari a 55, 86 centesimi e il 20% dell'iva si ottiene che il litro di benzina dovrebbe attestarsi a 0,9977 euro al litro. «Da questa semplice comparazione - dice l'Intesa Consumatori - si evince che i cittadini pagano, rispetto al prezzo attualmente alla pompa, circa 6 centesimi in più al litro, facendo maggiormente guadagnare in un anno 1.200 milioni di euro ugualmente distribuite tra petrolieri e governo».

Liberazione
13 01 04