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Visualizza Versione Completa : Il mostro chimico continua a uccidere



Davide (POL)
15-01-04, 13:13
Venti anni fa una nuvola di gas tossico fuoriuscì dallo stabilimento Union Carbide uccidendo decine di migliaia di persone. Oggi quella fabbrica è in disuso, ma le 2.000 tonnellate di veleni che vi sono depositate continuano a seminare vittime contaminando l'ambiente circostante


Lo stabilimento della Union Carbide oggi è una carcassa arrugginita. L'impianto che sintetizzava fosgene-isocianato di metile è uno scheletro di serbatoi e tubature corrosi dalla ruggine e dalle intemperie, tra la sterpaglia che reclama il sito. Fiocchi di fibra bianca si staccano dai vecchi rivestimenti, formano mucchietti sui vialetti interni della fabbrica: sembra cotone, ma è amianto. E' riversa su un fianco, rotta, la cisterna numero 610: è quella che nella notte tra il 2 e il 3 dicembre del 1984 si era surriscaldata al punto da scoppiare, lasciando uscire 40 tonnellate di isocianato di metile con cianuro idrogeno, mono metil-ammine e altre sostanze. Portata dal vento, la nuvola di gas investì in pieno i poverissimi quartieri che costeggiano la fabbrica a nord: mezzo milione di persone ha respirato quel cocktail letale. Fu uno dei peggiori incidenti industriali della storia umana, migliaia di persone sono morte soffocate quella stessa notte: 1,600 disse il governo, forse 6.000 sostengono le organizzazioni che da allora si occupano delle vittime e dei sopravvissuti. Molti di più sono morti in modo lento nei mesi e anni seguenti, di tumore ai polmoni e di altre malattie: il bilancio sfiora le 20mila persone.
Tra le polveri velenose
Lo stabilimento che produceva fertilizzanti e insetticidi è in disuso da allora, ma continua a uccidere. Il motivo sono le tonnellate di prodotti chimici ancora depositate là dentro. Per rendersene conto basta seguire il viale che dai cancelli porta verso la palazzina ormai diroccata degli uffici e poi piega verso gli impianti. Su un lato, sotto una tettoia, decine di bidoni arrugginiti e corrosi lasciano vedere malloppi di polvere nera compatta, come bruciata: era un deposito di urea. Più in là, una palazzina a un piano con i muri sfondati lascia vedere pezzi di plastica nera, il polietilene di grandi sacchi ormai lacerati: ne esce un materiale giallastro che si sbriciola. Dietro agli uffici, un enorme hangar era il magazzino: ai due lati sono accumulati migliaia di sacchi di polvere giallina - urea e Ddt, dice chi conosce lo stabilimento. L'odore è forte. D'estate, quando la temperatura a Bhopal supera i 40 gradi, diventa insopportabile. Il pavimento è coperto dalla stessa polvere, lavata e indurita: nella stagione delle piogge qui si allaga tutto, la polvere gialla si scioglie e finisce nel canale del drenaggio che corre al centro dell'hangar per defluire negli scoli urbani. Due pozzi al centro del magazzino sono pieni di liquido nero, in uno galleggia una rana stecchita. Fuori, un'altra tettoia e un altro ammasso di sacchi che perdono il loro contenuto, blocchi nerastri e gialli: su un carrello c'è scritto «residui naftolo». Ogni palazzina diroccata, magazzino, deposito contiene sacchi lacerati che sversano il loro contenuto: chissà se qualcuno li ha contati, potrebbero essere diecimila. «Pensa se si incendiasse la sterpaglia e bruciasse anche questa roba», dice Biju Kumar, attivista di un centro di documentazione indipendente, che ci guida nella visita. Per raggiungere le carcasse degli impianti di sintesi bisogna farsi largo tra i rovi. Kumar gratta il terreno con un bastoncino e scopre uno strato nero e gommoso, chissà quale veleno indurito. Qua è là «torte» di vacca: le mucche entrano a pascolare tra i fiocchi di amianto. Sui muri dell'ennesimo magazzino pieno di sacchi e polverine gialle sono disegnati grandi cuori bianchi con i nomi di innamorati. Secondo stime indipendenti, nello stabilimento Union Carbide dopo l'incidente restavano circa 2.000 tonnellate di sostanze tossiche. Da 19 anni stanno contaminando i dintorni, portati soprattutto dall'acqua delle piogge.

Il mercurio nel latte
Al di là del muro sul fondo si vedono case, o meglio baracche - un po' muratura e un po' teloni e lamiere: è la «colonia» Adel Ayuf Nagar, qualche migliaio di abitanti, a poche centinaia di metri in linea d'aria dal più vicino deposito di veleni. Intorno allo stabilimento ci sono cinque simili «colonie», o borgate: Jayaprakash Nagar, al di là della strada di fronte ai cancelli principali, fu la più colpita dalla nuvola di gas, mentre quelle sui lati ovest e sud sono addossate ai muri di cinta. Nel 2002 il Peoples' Science Institute, istituzione indipendente che ha sede a Dehra Dun (India settentrionale), ha analizzato campioni d'acqua di sei pozzi in queste «colonie»: a Adel Ayuf Nagar hanno trovato 56 milligrammi di mercurio per litro. Arif Nagar, la baraccopoli sul lato sud, arriva a 70 milligrammi per litro: la soglia massima tollerabile secondo il Bureau of Indian Standard è un milligrammo per litro. Il mercurio era tra i metalli usati alla Union Carbide nella produzione del Sevin, o carbaryl, un pesticida. Un ex funzionario dell'azienda, nella testimonianza resa al tribunale di New York nel 1997, aveva elencato i metalli pesanti e altre sostanze scaricati sistematicamente fuori dallo stabilimento prima del 1984: includevano piombo e mercurio.
Tra i rottami della vecchia «control room», accanto alla parete con i termometri che dovevano controllare la temperatura nei vari passaggi della lavorazione, un plastico mostra la conduttura che portava reflui dalla fabbrica a un bacino artificiale, oltre la borgata di Adel Ayuf Nagar: oggi quella specie di laghetto, disseccato, è coperto di terreno biancastro. Poco dopo l'incidente i tecnici della Union Carbide scaricarono i reflui raccolti sul momento - sostanze come diclorobenzene, idrocarburi polinucleari aromatici e ftalati - in altri due bacini e poi infine un terzo, chiamati «Solar Evaporation Pond»: lapalissiano, dei fluidi in uno stagno artificiale evaporeranno. Ora lo stagno è una pozzanghera che si allaga nella stagione delle piogge, pezzi di polietilene rotto emergono ai bordi erbosi dove pascolano mucche e capre, i bambini giocano, e gli abitanti della colonia usano quel fango per intonacare le case o lastricare i vicoli dell'ennesima borgata, una nuova, Blue Moon Nagar.
La tragedia della Union Carbide aveva fatto sensazione in tutto il mondo, diciannove anni fa, ma oggi nessuno fa più molto caso a questo stabilimento che è come una bomba a scoppio ritardato. Le polveri tossiche portate dalle piogge percolano nei terreni, inquinano le falde. Sono entrate nella catena alimentare. Negli ultimi due anni parecchie indagini indipendenti lo hanno provato. Nel 2002 Greenpeace decise d'improvviso di lanciare una campagna su Bhopal e cominciò ad analizzare campioni d'acqua di falda e di terriccio nel raggio di 5 chilometri dallo stabilimento: attorno agli scoli dell'unità che produceva Sevin il terreno conteneva mercurio fino al 12 percento del peso.
Nello stesso anno il tossicologo Amit Nair, di un'organizzazione indipendente di New Delhi chiamata Srishti, aveva trovato tracce di metalli pesanti come nickel, cromo, mercurio e piombo nel latte materno, oltre che nel cibo, nel terreno, nelle falde idriche di quelle colonie (lo cita un'inchiesta di Down to Earth, quindicinale ambientalista pubblicato a Delhi che conduce una campagna sui rischi industriali).
Lo stato di contaminazione del vecchio stabilimento e dei suoi dintorni era noto alle autorità pubbliche. Dieci anni fa, nel 1994, dopo una grande agitazione pubblica circa lo stabilimento Union Carbide, le autorità statali avevano ordinato dei sopralluoghi e rimosso 44 tonnellate di residui catramosi della produzione di Sevin, oltre a 2,5 tonnellate di alfa-naftolo: tutto fu poi immagazzinato in un'area coperta. Down to Earth riferisce anche che in due riprese, nel 1991 e nel '96, i laboratori di ricerca del dipartimento di sanità dello stato del Madhya Pradesh, di cui Bhopal è la capitale, avevano condotto indagini nelle colonie più colpite dal gas durante l'incidente e analizzato l'acqua delle falde, trovandole contaminate. Nel `96 un'indagine federale fu promossa dal Central Bureau of Investigation e condotta dalle maggiori istituzioni scientifiche del paese, l'istituto di ingegneria ambientale Neeri e l'Indian Institute of Chemical Technology: allarmati, questi avevano raccomandato una bonifica a fondo del sito industriale, ma nulla è successo.
Allora lo stabilimento era ancora di proprietà della Union Carbide India, filiale indiana della multinazionale. Nel febbraio del 2001 la casa madre si è fusa con Dow Chemical, che però non ha rilevato anche l'impianto di Bhopal, passato sotto la custodia del governo indiano. Il rimpallo delle responsabilità è uno dei motivi per cui la bonifica non è mai avvenuta. Il governo del Madhya Pradesh chiama in causa quello dell'Unione, che chiama in causa Dow, che rinvia ai soldi già versati da Union Carbide.
La politica della medicina
Così decine di migliaia di abitanti delle baraccopoli attorno allo stabilimento continuano ad assorbire veleni, lentamente. La loro salute non sembra una preoccupazione pubblica, però: non rientrano nel numero dei «gas affected people», le vittime ufficiali della tragedia del 1984. Del resto anche la definizione di «vittime» è oggetto di polemiche: quelle riconosciute con una pratica presso il tribunale hanno diritto a una bella «smartcard» con microchip, che dà diritto alle cure nel Bhopal Memorial Trust Hospital, l'ospedale costruito nel 1998 con la vendita di azioni della Union Carbide India. Gli altri non hanno diritto a granché. «Fin da subito è stato chiaro che la gestione della medicina qui a Bhopal era la questione politica più delicata», commenta Satinath Sarangi nella minuscola sede della «Clinica di medicina popolare e documentazione di Bhopal», una palazzina a un piano come le casette di lavoratori che la circondano, non lontano dalla vecchia fabbrica: è più nota come Sambhavna Clinic, dal nome della Fondazione formata nel 1995 da un piccolo gruppo di attivisti e medici (piccola istituzione di grande autorevolezza internazionale). E' una questione politica, dice Sarangi, «perché neppure dopo l'incidente Union Carbide volle dire cosa c'era di preciso in quella nuvola di gas: tutt'oggi i medici devono limitarsi a cercare di curare i sintomi. E poi perché il governo qui ha cercato di minimizzare i numeri sia dei morti che delle persone colpite. Lo stato ha cercato su calare una cortina di silenzio sugli effetti a lungo termine del disastro. Pensa: ha abbandonato ogni indagine epidemiologica sui sopravvissuti». Già, l'Indian Council of Medical Research, istituto pubblico, aveva istituito un centro di ricerca sul disastro di Bhopal e condotto accurate ricerche sugli effetti a lungo termine dell'esposizione ai gas. Ma il programma è stato sospeso nel 1994, senza neppure pubblicare il lavoro fin lì condotto.
Dice Satinath Sarangi: «A Bhopal tutte le istituzioni che potevano avere un ruolo hanno fallito. Le organizzazioni internazionali, la giustizia, le istituzioni scientifiche, i governi - sia quello indiano che quello degli Stati uniti - e anche i media, che si ricordano della tragedia sono negli anniversari. Ma questo è vero ovunque ci siano impianti chimici in questo paese. Quello che vedete in quello stabilimento è solo la punta dell'iceberg, ogni fabbrica chimica qui scarica bellamente i suoi reflui. Bhopal non ha insegnato nulla».

Marina Forti inviata a Bhopal
Il Manifesto 15 01 04

Davide (POL)
15-01-04, 13:16
Senza fondi Gli abitanti di Bhopal chiedano di risanare la zona. Il governo: «usate i soldi delle vittime»

Nel marzo del 2001 una delegazione di attivisti di Bhopal era andata in Michigan (Usa) per incontrare Michael Parker, Ceo (amministratore delegato e capo esecutivo) di Dow Chemical. Chiedeva che la multinazionale chimica si assumesse le sue responsabilità circa la bonifica del sito industriale dismesso della vecchia Union Carbide. «Ci ha detto: se volete una bonifica usate i soldi già versati da Union Carbide e custoditi nelle casse dello stato indiano», riferisce Satinath Sarangi, attivista del «Gruppo d'informazione e azione su Bhopal» e co-fondatore della Sambhavna Clinic, che faceva parte di quella delegazione. «Gli abbiamo risposto che quei soldi sono riservati a risarcire le vittime. E però un mese dopo anche il governo indiano ha proposto la stessa cosa». Così, gli attivisti di Bhopal hanno anche realizzato che era rimasta una bella sommetta, nel conto destinato ai risarcimenti. E dire che Union Carbide se l'era cavata con poco. Nel 1989, con un accordo extragiudiziario concluso con il governo dell'India, aveva accettato di versare 470 dollari a titolo di risarcimento alle vittime («Erano appena 43 centesimi per ogni azione», fa notare Sarangi). Era circa un settimo della somma che il governo di New Delhi aveva chiesto nel 1985, quando si era costituito come rappresentante delle vittime e aveva promosso un'azione legale contro Union Carbide. Soprattutto, il governo indiano rinunciava a ogni futura azione civile contro l'azienda, che aveva così esaurito le sue responsabilità: alcune organizzazioni popolari tentarono invano ricorsi contro quell'accordo, affermando che le vittime non erano state consultate.
Le vittime hanno ricevuto - parecchi anni dopo, tra il `95 e il `96 - circa 15mila rupie, suppergiù 400 dollari di allora (l'equivalente del costo di 5 anni di cure mediche, calcola Satinath Sarangi: «Cento volte meno degli standard americani e meno perfino dei risarcimenti riconosciuti dalla Ferrovie Indiane in caso di incidente»). Circa mezzo milione di persone ha ricevuto i compensi: una tantum, perché di pensioni per vedove o disabili non si parla neppure. «I soldi della Union Carbide furono versati in un conto custodito dalla Corte Suprema: era un conto in dollari, mentre i risarcimenti sono stati distribuiti in rupie e anni dopo, quando il valore del dollaro era salito parecchio. Insomma: abbiamo calcolato che tra interessi e apprezzamento della valuta in quel conto restino 15 milioni di rupie». E' da quei soldi che il governo, e Dow, propongono di finanziare la bonifica. Un gruppo di vittime ha invece presentato una petizione alla Corte Suprema: fa notare che nessuno ha ricevuto gli interessi su quelle somme distribuite oltre dieci anni dopo. Intanto la bonifica non è neppure nei programmi.

Marina Forti
Il Maifesto 15 01 04