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janus77 (POL)
17-02-04, 23:46
Vi presento un mio articolo, pubblicato nel 2003 sulla rivista Orientamenti, su un tema che ha sempre diviso gli studiosi della Tradizione, con la speranza di aprire un proficuo dibattito.

Il vero senso della Regalità

Nei nostri scritti più volte si è fatto riferimento alla differenziazione gerarchica e tradizionale delle funzioni sociali e in tutte le suddette occasioni, per quanto ci fosse consentito dal tema affrontato e dallo spazio concessoci, è sempre stata nostra premura porre in essere tutti quegli approfondimenti necessari per evitare ogni fraintendimento sul reale significato da associare alla funzione della Regalità, che “da sempre” è motivo di profonda confusione nei più disparati ambienti di studio della Tradizione. Proprio tale esigenza chiarificatrice ci ha indotto ad impegnarci in questo articolo in una opera di solare e cristallina fedeltà alla Dottrina, che sappia finalmente dissipare quel coacervo di errate interpretazioni che si sono sviluppate ed ingigantite negli anni a seguito della nota “divergenza” tra Renè Guènon e Julius Evola sulla regolare o meno dipendenza gerarchica degli kshatriya rispetto ai brahmana e, quindi, sulla superiorità o meno della Contemplazione o della conoscenza interiore rispetto all’Azione: distorsioni queste, che riteniamo essere ben più radicate di semplici preoccupazioni nostre. A tal punto, evidenziamo come in questo nostro scritto il nostro fine sarà rappresentato dall’esplicitare, in maniera più chiara e documentata possibile, l’irrealtà di tale antagonismo e l’impropria mescolanza dei domini effettuata dai cechi (e sordi) adulatori dei due grandi maestri della Sophia Perennis, siano essi “evoliani”, siano essi “guènoniani”. L’errore, infatti, commesso dai più, è quello di porre su uno stesso piano d’analisi dottrine, simboli, miti, che devono necessariamente e regolarmente essere approfonditi in sedi di studio separate, escludendo, inoltre, le varie “equazioni personali” di chi certe nozioni ha trasmesso ed insegnato: la nostra è una diretta critica al modus di ricerca che negli anni è stato portato avanti da alcuni studiosi della Tradizione, causa prima della confusione dottrinale di cui stiamo trattando. Riporteremo direttamente dei passi da diversi scritti per esporre al meglio le nostre idee, anche per non essere accusati di arbitrarietà nei giudizi e nelle valutazioni. Un ottimo viatico per manifestare le nostre considerazioni sarà la disamina del falso mito, molto in voga negli ambienti tradizionali che si rifanno al pensiero evoliano, per il quale ci sarebbe sempre stata, secondo il tradizionalista italiano, una prevalenza della casta guerriera su quella sacerdotale, un rapporto di subordinazione a cui spesso è stato applicato il simbolismo del sole rispetto alla luna. In alcuni nostri articoli abbiamo riportato fedelmente l’origine cosmologica ed ontologica del sistema castale nelle diverse forme che la Tradizione ha assunto presso popoli diversi etnicamente e distanti geograficamente, esplicitata, oltre che da numerosi miti e rivelazioni, più volte da noi citati, anche dai rappresentanti più noti del “tradizionalismo integrale” (Schuon, Coomaraswamy,…), che in Guènon aveva il suo massimo esponente. Lo Stato Tradizionale si componeva di tre varna o caste: i sacerdoti o philosopoi, platonicamente intesi, in cima alla piramide “sociale”, poi i guerrieri e i produttori. Ma come e se differisce la visione evoliana? “La ripartizione degli individui in caste, o gruppi equivalenti, secondo la natura e il diverso rango delle attività rispetto alla spiritualità pura, si ritrova con tratti costanti in ogni più alta forma di civiltà tradizionale e costituisce l’essenza della legislazione primordiale e dell’ordine secondo giustizia…: le attività dei servi o lavoratori – sudra – poi quelle della borghesia – vaisya – più in alto, la nobilità guerriera – kshatriya – e, infine, gli esponenti dell’autorità e del potere spirituale (i brahmana, nel senso originario, e i capi quali pontifices).” (Rivolta contro il mondo moderno, J. Evola, ed. Mediterranee, pag. 120, Roma 1993)! Il riferimento diretto al testo ci ha permesso di evidenziare chiaramente come la predisposizione culturale di qualcuno abbiamo prevalso sull’analisi oggettiva del pensiero evoliano, che sicuramente non si distaccava minimamente dalle verità trasmesse dagli altri maestri precedentemente dai noi citati, in riferimento alla gerarchia sociale nelle civiltà tradizionali. A tal punto è necessario far comprendere ai più ciò che Evola realmente intendeva e che ha provocato l’evidenziata stortura interpretativa, richiamando alla mente l’idea originaria di un Reggente, che nelle civiltà, dirette emanazioni della Tradizione Primordiale, si identificava sia nella figura del Pontifex sia in quella del Rex; si ricordi una parola d’ordine della tradizione nordica riportata da Evola:” Chi è Capo ci sia ponte”. Si ricordi, inoltre, come nell’antico Egitto il Faraone rappresentava una diretta manifestazione di Rà o di Horo:” Ho stabilito che tu ti levi quale re del Sud e del Nord nella sede di Horo, come il sole, eternamente”. Similmente nella tradizione indo-iranica il Re era considerato della stessa stirpe degli Dei e “ha lo stesso trono di Mithra, sorge col Sole”. Nella Romanità il Rex Sacrorum era la personificazione di Giove, somma autorità sia politica che religiosa. Si rammenti come il sovrano fosse nominato dall’interrex, dopo gli auguri officiati dallo stesso Capo e seguiti dalla lex curiata, intesa come riconoscimento obbligatorio del Rex da parte della comunità, e come il “rito” si completasse solamente con l’inauguratio, solo con la quale si attribuivano i “poteri sacerdotali”. Similmente all’Imperatore (e Pontefice Massimo) era associata una qualità trascendente, essendo la massima espressione della solarità e dell’imperium: sol dominus romani imperii (riferito a Giuliano Imperatore)…”Il re, munito di forza non terrestre, radicato nel “più che vivere” appariva in via naturale come colui che eminentemente può rendere in atto il potere dei riti e aprir le vie al mondo superiore. Per cui, in quelle forme di tradizione ove si ha una casta sacerdotale distinta, il re, secondo la sua originaria dignità e funzione, appartiene ad essa e, a dir vero, come capo di essa”(Rivolta contro il mondo moderno, J. Evola, pag. 29)”!. Il Signore, che incarnava la qualità trascendente dell’invictus, era il Figlio del Cielo e della Terra, come si riscontra nella tradizione estremo-orientale, simbolo vivente del centro e della stabilità, a cui esotericamente si associava l’idea della Giustizia e della Grande Pace, ma anche il potere di guarigioni miracolose, come spesso accadde per i sovrani medioevali, in cui l’azione o la forza regale era un simbolo vivente di una presenza divina: in tutto ciò si ritrovano tutte le caratteristiche del Signore Universale, di colui che la tradizione indù denomina come Cakravartì o Volgitore della Ruota, vero ed unico rappresentate di Dio sulla Terra, l’imperator pacificus di dantesca memoria, titolo già ricevuto da Carlo Magno. E’ questo il motivo, inoltre, per cui la concezione ermetico-alchemica nel pensiero evoliano non è inquadrabile in un dominio cosmologico né può essere considerata eterodossa, come comunemente inteso, rappresentando l’Ars Regia un “sistema” totalizzante ed universale per il conseguimento della Grande Liberazione: il predominio dell’opera al rosso sull’opera al bianco non costituisce un arbitraria inversione, ma una precisa qualificazione spirituale per colui che non abbisogna più di alcuna via o iniziazione, perché oramai giunto in cima al monte, su quella Vetta Una ove è possibile sentirsi della stessa origine e della stessa natura di Dio. Medesime considerazioni, oltre che nel pensiero evoliano, le si ritrova in diversi testi di Guènon, quando disquisendo sul termine Hamsa, attribuito all’unica casta primordiale, lo si caratterizza come un grado spirituale elevatissimo, nel quale i poteri sacerdotale e guerriero non esistevano allo stato di funzioni separate, ma costituivano un’unica funzione, detta ativarna, cioè al di là delle caste: si rammenti in proposito il simbolo bifacciale di Giano, che proprio nel terzo volto che non si vede conserva la propria essenza e la propria Unità e che nelle sue due metà manifestate e visibili, una maschile e sacerdotale, una femminile e guerriera, rappresentate in certe raffigurazioni da una chiave ed uno scettro, incarna già la successiva e regolare dipendenza dei guerrieri rispetto ai sacerdoti. Da tali riferimenti è d’obbligo desumere un’importante considerazione, quella per cui il riferimento evoliano alla Regalità, come appena evidenziato, non è assolutamente riferibile alla casta degli kshatriya, ma, lo ripetiamo, ad una dimensione che esula dalla gerarchia delle funzioni sociali, contenendola in potenza, ma non in atto. Se è vero che molti sovrani provenivano dalle file dei guerrieri, è vero anche e soprattutto che, avuta la consacrazione sacerdotale per l’attribuzione della funzione regale, il loro status ontologico mutava, non rimanendo quello originario. Esempi di tal genere li abbiamo precedentemente ritrovati a Roma e nell’antico Egitto, in cui il Rex o il Faraone, dopo l’iniziazione pontificale, divenivano essi stessi i capi dei collegi sacerdotali. A suffragare le nostre idee non vi sono solo analisi ed approfondimento dottrinale di carattere puramente personale, ma anche l’insegnamento di un altro grande testimone della Tradizione, cioè Guido De Giorgio:”L’ascesi del Capo è in un senso superiore a quella dei Guerrieri perché è più vasta e integrale accogliendo in sé tutti gli sviluppi della vita attiva per mantenerli nell’ambito tradizionale con l’autorità spirituale dei Sacerdoti e la potenza dei Guerrieri, dagli uni attingendo la coscienza, dagli altri la personalità…asceticamente ultimo dinanzi a Dio primo dinanzi agli uomini”(La Tradizione Romana, G. De Giorgio, ed. Mediterranee, pag. 161 Roma 1989). E’ d’uopo osservare, quindi, che quando Evola, nella sua introduzione allo scritto guènoniano “La crisi del mondo moderno”, come in altre occasioni, pone in evidenza che solo l’azione materializzata può essere considerata subordinata alla contemplazione, esprime una verità, non solo da lui riconosciuta, perché proprio nel testo citato l’autore sottolinea come l’azione dei guerrieri fosse sempre stata caratterizzata da una profonda passionalità: rammentiamo come già nello scritto sulla politeia platonica abbiamo associato microcosmicamente l’aretè della Fortezza alla psyche, dalle passioni appunto caratterizzata, e direttamente realizzata nella funzione gerarchica e “sociale” dei guerrieri; infatti, si ricordino le incertezze e l’emotività sentimentale di Arjuna, l’Arciere, durante la crudele e sanguinosa lotta contro i parenti Kaurava, che solo la stabilità di Krsna, avatara di Vishnu, trasmuta in Azione sacrale, e noi aggiungiamo, in Azione, non più guerriera, ma Regale! A tal punto crediamo sia fondamentale cominciare un attento e particolareggiato lavoro di correzione terminologica, per sgombrare il campo da ogni incomprensione. Ci riferiamo in particolare alle due vie dell’iniziazione, la cui esplicazione completa conduce all’acquisizione solare e trionfale del Re: mentre è d’obbligo continuare a denominare iniziazione sacerdotale, la via d’ascensione spirituale, che, come sia Guènon sia Dante ci ricordano, conduce chi già possiede uno status di primordialità spirituale, di Uomo Vero “alla conquista” degli stati superumani, seguendo la via dei Grandi Misteri per la realizzazione dell’Identità Suprema, cioè “l’entrata” nel Paradiso Celeste, crediamo sia consigliabile denominare la via che conduce al superamento dei Piccoli Misteri, cioè alla ritrovata “edenicità” o “adamicità” originaria, solo iniziazione guerriera e non più regale, come fatto dai vari maestri della Dottrina, nella mente dei quali, però, non albergava la confusione di domini che stiamo manifestando. Ai più il nostro non sembri un inutile rigorismo terminologico, ma una necessaria precisazione per porre ogni elemento nel suo giusto dominio d’appartenenza gerarchica. Si comprenda come l’iniziazione guerriera rappresenti il passaggio del guado, la trasmutazione ontologica dal divenire all’essere, l’assunzione dell’aretè della Sapienza, che ordina e governa, e non della Fortezza, che manifesta la passionalità: in tale ascesi l’uomo dalla circonferenza torna al centro, riconsegna al noùs, al Sè il dominio primordiale, si “fa” Uomo di Giustizia. L’ulteriore ascensione verso il Cielo è la predetta via “che consiste nel godimento della visione di Dio, cui la virtù umana non può ascendere se non soccorsa dalla luce divina, e che è rappresentata dal Paradiso Celeste”(De Monarchia, III, Dante). Naturalmente, invitiamo chi riflette su certe nostre considerazioni a ben guardarsi dalle insidie sempre presenti nel non tener conto dell’inevitabile sviluppo ciclico discendente: crediamo sia ovvio capire, che, per esempio, quando sia Dante sia i vari maestri della Tradizione riferiscono, in un tempo già molto lontano dalle manifestazioni sacrali prima accennate, all’Imperatore o ai vari sovrani la via dell’iniziazione guerriera ed al Papato quella dell’iniziazione sacerdotale, l’unità primordiale dei due principi è già frantumata e che i vari “re” in questione non hanno alcun riferimento ontologico col Signore di Pace e di Giustizia, su cui abbiamo argomentato in precedenza, rivestendo un dominio esclusivamente temporale e, quindi, necessariamente subordinato rispetto all’autorità spirituale: in ciò si anticipano e si evitano delle obiezioni che sarebbero potute sorgere a riguardo di una presunta contraddizione tra il ghibellinismo dantesco e la determinazione delle due distinte via d’iniziazione; anche un attenta e non profana lettura dei vari canti della Divina Commedia può manifestare la perfetta e regolare simmetria tra Impero e Papato, simboleggiati rispettivamente dall’Aquila e dalla Croce, quando non riferiti, lo ripetiamo, alle determinazioni degenerescenti del divenire ciclico. Da tutte le analisi che si sono fin qui susseguite crediamo sia necessario dedurre come la realizzazione completa delle due vie d’iniziazione, guerriera prima e sacerdolate poi, dei Piccoli e dei Grandi Misteri, conduca al vero Sovrano, al Re del Mondo, a colui che ha attuato l’Identità col Divino, cioè all’Uomo Universale o Cristo Mistico, colui che riprende e vivifica la funzione di Manu, del Legislatore primordiale ed universale. Nell’antichità tale attribuzione era spesso conferita ad alcune personalità mitiche: il Minosse dei Greci, che si ritrovava nel Menes degli Egizi o nel Menw dei Celti, era il Legislatore dei vivi ed il Giudice dei morti, come se si indicassero due aspetti di un unico principio. Anche nella tradizione biblica ritroviamo chi assume la funzione di Re del Mondo, di Sovrano Universale: precisamente ci riferiamo alla figura di Melki-Tsedeq, anch’egli Re e Sacerdote, significando il suo nome “Re di Giustizia” e parimenti “Re di Salem”, cioè “della Pace”. A tal punto, riteniamo di aver qualificato con sufficiente precisione il nostro pensiero sulla Regalità, che riteniamo essere, per quelle che sono le nostre possibilità, in piena concordanza con gli insegnamenti della Dottrina Tradizionale, confermando quanto scritto più volte, cioè la primaria importanza da noi attribuita ad uno studio, ad un approfondimento, ad un Azione che siano effettivamente impersonali e non vanamente inficiati da sterili e pericolosi personalismi né tanto meno da “innovativi” sistemi filosofici pseudo-tradizionali, di pura matrice razionalistica:”L’uomo che ha la Virtù non discute – l’uomo che discute non ha la Virtù”(Lao-Tze). Concludiamo la nostra trattazione con alcune brevi considerazioni sull’attualità di quanto fin qui argomentato nell’odierna società del progresso, ritenendo il nostro impegno per nulla indirizzato ad un vano e vuoto intellettualismo. Le condizioni di degenerescanza che l’ultima fase del Kalì-yuga impone al nostro mondo non consentono di avere molta fiducia nelle possibilità di un cambiamento ontologico, operato puramente da un piano umano, essendo da tempo distrutte tutte quelle “reggenze” tradizionali che in passato più volte hanno consentito piccole o grandi rivoluzioni. Al militante della Tradizione, però, è rimasta l’immagine gloriosa di un popolo che con la sua Potenza, con i suoi riti, con il suo Ius seppe condizionare, comandare e ordinare il Fas degli Dei, la loro volontà, cioè Roma e la sua “eterna presenza eroica”. Ed a questa eroicità, che fu comune nell’antichità anche alla Grecia Dorica, che bisogna modellare il proprio modus vivendi, rifacendosi ai “isti sunt potentes a saeculo viri famosi”, riscoprendo quella Virtus, che era propria dei Rex, i quali “androginicamente” riuscivano ad unire la Contemplazione e l’Azione, come un maschio ed una femmina, rappresentando spesso la donna, la Sophia, la Shakti indù, la Madonna Intelligentia dei Fedeli d’Amore l’Illuminazione Trascendente, che bisognava vincere e conquistare. Da ciò il precetto di seguire la Via Maestra, similmente a quella templare, che era, che è contemplativa e guerriera allo stesso tempo, perché Una è la sua radice: non ci si abbondi, quindi, né a borghesi intellettualismi né a sterili ribellismi, ma si sappia essere Re nella propria quotidianità, nella propria esistenza, nella propria interiorità, rimanendo IN PIEDI in ogni circostanza, di fronte ad ogni avversità, ad ogni nemico, con il corpo e con il Cuore!


janus77it@hotmail.com

Mjollnir
22-02-04, 00:34
Ringrazio Janus per questo interessante contributo :)