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Mjollnir
17-03-04, 22:24
Ipazia: martire pagana

di Alessandra Colla ("Risguardo IV", Brindisi 1985, pp. 283-303)


Premessa

Ancora in tutto il XIX secolo «la memoria di Ipazia rimane, tra tutte le
memorie umane, una delle più venerate»: lo scrive, curiosamente, il
cattolico francese Charles Péguy, elogiando la nobiltà di questa paganissima
figura femminile «rimasta in armonia così perfetta [...] sino alla morte e
durante la morte [...] mentre il mondo intero crollava, frantumandosi per
tutta la vita temporale dell'universo e forse per l'eternità». Nel XX
secolo, Ipazia cade nel dimenticatoio: e quasi vent'anni fa proprio a me,
all'epoca studentessa fuori corso di filosofia, toccò parlarne per una
pubblicazione non destinata al grande pubblico e tributaria del Libro di
Ipazia di Mario Luzi (1978). Quella che segue è la mia ricerchina: un mio
breve studio, fonti greche e latine, due poemetti francesi del XIX secolo.
Non ho mai più scritto di Ipazia, in questi vent'anni. Ma ne sono diventata,
chissà come, una cultrice. Può darsi che lo diventi davvero, in futuro.


"...Quella femmina... fatta a pezzi"


La storiografia cosiddetta tradizionale (nel senso di consuetudinaria o
convenzionale) ha fissato nell'anno 476 la nascita del Medio Evo, in
concomitanza con la caduta di quel "Sacro" Romano Impero d'Occidente che, in
realtà, non era più da un pezzo né sacro (perché affetto da decadente
misticismo medio-orientale), né romano (perché già dalla fine del IV secolo
i barbari si erano interessati all'Italia e a parte dell'Europa in veste di
conquistatori), né - tantomeno - d'Occidente (perché l'avvenuta translatio
imperii aveva reso Caput mundi una Bisanzio mercantile e levantina, al posto
di una Roma peraltro già corrotta).

Di fatto, ogni periodo storico è qualcosa di relativo, e non certo di
assoluto, tanto che gli anni scelti a designarne le scansioni temporali si
configurano come puramente convenzionali e simbolici: ossia come dipendenti
da diverse problematiche e inquadrati secondo differenti angolazioni.

In ogni caso, è fuor di dubbio che fra il IV e il V secolo della nostra èra
si assiste al trapasso - sempre traumatico, e talvolta decisamente tragico -
da un mondo (quello romano) ancora impregnato di certi valori (si pensi all'
eroico quanto sfortunato tentativo operato da Giuliano, ultimo sovrano della
dinastia costantiniana, di restaurare religioni e culti pagani) a un altro
mondo, reso totalmente diverso e incomprensibile al precedente dalla
massiccia penetrazione del cristianesimo nella vita pubblica e dal
riversarsi delle popolazioni germaniche e in generale barbariche nel seno
stesso di un impero ridotto ormai a un «tronco disseccato fino alle radici,
ancora vigoroso all'esterno, ma di dentro moribondo» (parafrasando Leconte
de Lisle).

A questa stregua, dunque, perché non considerare come avvisaglia del crollo
della paganità e dei valori a essa connessi l'anno 313? Allora, in un
convegno a Milano, gli Augusti Licinio e Costantino, dopo la vittoria
riportata nell'anno precedente su Massenzio (sconfitto definitivamente al
Ponte Milvio), si accordano e si spartiscono l'Impero, delimitando le
rispettive aree di potere: al primo l'Oriente, al secondo l'Occidente. Nella
stessa occasione, gli Augusti promulgano il famoso Editto di Milano: un
editto di tolleranza che sopprime ogni discriminazione religiosa, concedendo
quindi libertà di culto ai cristiani, stabilisce la restituzione delle
proprietà ecclesiastiche in precedenza confiscate e abolisce il culto pagano
come religione di Stato, sostituendovi ufficiosamente il cristianesimo.

Da questo momento in poi, è tutto un susseguirsi di trionfi per la
cristianità, con le conseguenze disastrose che si possono facilmente
immaginare per l'antica civiltà di matrice indoeuropea. Qualche data: nel
318 Costantino concede ai vescovi cristiani alcune prerogative
giurisdizionali, insieme al diritto di ricevere beni in eredità da parte
delle singole chiese e comunità ecclesiali a esse congiunte, gettando così
le basi del futuro potere temporale ecclesiastico. Nel 325 si tiene a Nicea
un concilio, composto prevalentemente da vescovi orientali e convocato dall'
imperatore Costantino: nel corso di esso si ribadisce la condanna dell'
arianesimo (già sancita nel 320 in un sinodo riunito ad Alessandria d'
Egitto: Ario, prete di Alessandria, insegnava che il Figlio non è della
stessa sostanza del Padre, infliggendo così un serio colpo al dogma della
Trinità) e viene invece formulata la confessione di fede secondo l'
interpretazione di Atanasio, futuro vescovo di Alessandria e sostenitore
dell'omoiusia (od omusia: identità di sostanza. Omusiani vennero detti i
suoi seguaci), in base alla quale si afferma che il Figlio è effettivamente
della stessa sostanza del Padre; nella stessa occasione viene formulato il
Credo (nel 381, il Secondo Concilio Ecumenico di Costantinopoli confermerà
le deliberazioni del Concilio di Nicea). Nel 360, l'unico bagliore che
rischiara tenebre destinate a durare ancora per molto: a Lutetia, in Gallia,
le legioni di Costanzo II si rifiutano di obbedire all'ordine di
trasferimento in Oriente per una nuova campagna contro i Persiani e
proclamano Augusto il loro comandante, il Cesare Giuliano, che entrerà
trionfalmente a Costantinopoli nel 361, poco dopo la morte del deposto
imperatore, avvenuta il 3 novembre dello stesso anno. Ma l'avventura di
Giuliano (dai cristiani soprannominato poi spregiativamente l'Apostata) si
conclude, troppo presto e troppo tragicamente, il 26 giugno del 363, in un
combattimento vittorioso sotto le mura di Ctesifonte, nel corso di una
campagna contro il re Sapore II, della dinastia Sassanide.

Nemmeno vent'anni dopo, nel 380, la situazione è radicalmente mutata: degli
antichi splendori che Giuliano aveva tentato di resuscitare non restano che
ricordi e - in troppo pochi animi - non sopite nostalgie; l'Impero è ormai
una diarchia, non solo di nome ma, quel che è peggio, di fatto. I due
Cesari, d'Oriente e d'Occidente, si disinteressano ormai nel modo più
assoluto di tutto quanto non accade direttamente nell'area immediata della
loro influenza: sono diversi i problemi, le esigenze, gli interessi; e di
romano non sono rimaste che le leggi. Troppo poco per parlare di unità.
Tuttavia, l'imperatore d'Oriente Teodosio I e quello d'Occidente Graziano
trovano ancora un punto d'accordo con l'Editto di Tessalonica (appunto nel
380), che dichiara il cristianesimo religione ufficiale dell'Impero, e
proibisce i culti pagani. Ma la disposizione non sembra sufficiente: nel 391
Teodosio I, di passaggio a Roma e approfittando della posizione di secondo
piano occupata da Valentiniano II (succeduto nel 383 al fratello Graziano),
emana un ulteriore provvedimento di assoluto divieto del culto pagano a
Roma. L'anno seguente, nel 392, altre leggi speciali di Teodosio I allargano
all'Egitto la proibizione dei culti pagani, dando il via a una incontrollata
e lunga serie di violenze iniziate nello stesso anno con la distruzione
della biblioteca di Alessandria (e del Serapeion [1], centri fiorenti di
intensa vitalità culturale e filosofica, nonché ultimo baluardo della
sapienza greca e antica in genere, contrapposto al dilagante e ottuso
dogmatismo cristiano), e destinate a sfociare - ma non a concludersi - nel
415 con l'uccisione della filosofa Ipazia.

Il fondo, però, non è ancora toccato, anche se ormai manca poco: nel 394 un
quarto editto di Teodosio I abolisce i giochi di Olimpia (in questa data,
infatti, cessa il computo degli anni per Olimpiadi, almeno ufficialmente), e
ordina la chiusura del celebre tempio dedicato a Zeus che sorgeva in quella
città[2]. Non a torto, questo provvedimento che sancisce, in certo modo, la
fine ufficiale della religione pagana, viene considerato anche come il colpo
definitivo al cuore della civiltà stessa del mondo antico. Ormai l'Impero è,
di fatto, romano-barbarico[3].

Questi, dunque, sono gli antefatti del dramma che travolgerà Ipazia. Nei
cento anni che ne precedono l'assassinio, l'arte e la cultura subiscono una
battuta d'arresto, almeno per quanto ne riguarda la libertà d'espressione:
forma e contenuti sono appiattiti, quasi schiacciati dalla crescente potenza
della nuova religione che tutto abbatte e sconvolge. In un clima dominato
solo dalla letteratura patristica e da un'arte di ispirazione religiosa ed
ecclesiastica, sopravvive soltanto la filosofia, e segnatamente quella
neoplatonica.

Il neoplatonismo sorse nella prima metà del III secolo della nostra èra ad
opera di Ammonio Sacca, che fondò la Scuola di Alessandria. Non avendo
lasciato nulla di scritto, di lui sappiamo solo quel che ne riportarono i
suoi discepoli: da Porfirio di Tiro, a esempio, apprendiamo che Ammonio
nacque e fu educato in una famiglia cristiana, ma che, una volta accostatosi
alla filosofia, abbracciò nuovamente la religione pagana. Ma Ammonio Sacca
verrà superato, e di gran lunga, dal discepolo Plotino, considerato a buon
diritto l'autentico grande filosofo di questo indirizzo: il suo insegnamento
(sviluppato nella seconda metà del III secolo) conferisce al neoplatonismo
la sua formulazione teoretica più elevata e vigorosa. Nel IV secolo il
neoplatonico Giamblico fondò una scuola in Siria, dalla quale derivò, nello
stesso periodo, la scuola di Pergamo[4]. è proprio in quest'epoca che si
manifesta la grande importanza politica del neoplatonismo: esso, infatti,
rappresentò la concezione filosofica pagana contrapposta, fino a tutto il V
secolo, all'ormai imperante Stimmung cristiana. Fin verso la metà del V
secolo, tuttavia, la scuola neoplatonica di Alessandria fu improntata a un
orientamento nettamente filosofico-scientifico, del quale furono esponenti
di rilievo Teone e sua figlia Ipazia.

Di Teone Alessandrino si sa ancor meno che della figlia: matematico noto a
ai suoi tempi, subì il fascino dell'altra scuola neoplatonica, quella
siriana, che tentava una sistematica utilizzazione della matematica e delle
discipline a essa connesse per fini più propriamente metafisici; è appunto
in questa prospettiva che Teone curò una famosa edizione degli Elementi di
Euclide, e scrisse un commento al trattato Mathematiké syntaxis di Tolomeo.

Della figlia Ipazia (o Ippazia) sappiamo poco di più, e c'è da pensare che
la sua fama ingiustamente oscurata sia giunta fino a noi solo a causa della
sua tragica fine. La data della sua nascita è incerta: si presume possa
essere collocata fra il 360 e il 370. Assai più sicura, invece, è la data
della morte, precisata fin quasi al giorno, che Cassiodoro Epifanio, nell'
Historia ecclesiastica tripartita[5], situa «nel quarto anno dell'episcopato
di Cirillo, sotto il decimo anno di regno di Onorio e il sesto di Teodosio»,
vale a dire circa nel 415, «nel mese di marzo, nei giorni precedenti la
Pasqua». I cenni sulla vita di Ipazia sono scarsi: il padre Teone la istruì
a fondo nelle discipline matematiche ed astronomiche; dopo aver completato i
suoi studi ad Atene, Ipazia preferì dedicarsi poi alla filosofia e al suo
insegnamento e, tornata ad Alessandria, vi aprì ella stessa una scuola, e
tenne poi le sue lezioni anche nel Serapeion[6].

Seguace delle dottrine neoplatoniche, e orientata verso una conciliazione
delle teorie platoniche e aristoteliche, divenne ben presto celebre per il
suo vasto sapere e per la sua bellezza: nei suoi Poèmes antiques Leconte de
Lisle ne fa una giovane donna, e parla dello «spirito di Platone» e del
«corpo di Afrodite» mirabilmente congiunti. La realtà storica è un po'
diversa, giacché nel 415 Ipazia doveva avere all'incirca fra i
quarantacinque e i cinquantacinque anni. Autrice indubbia di commenti a
opere di Apollonio, Diofanto e Tolomeo, di lei non ci è giunto alcuno
scritto, ma si sa che le sue lezioni erano frequentatissime in grazia della
sua abilità di oratrice e del suo scrupoloso attenersi al pensiero
autenticamente platonico e aristotelico. In un'epoca in cui l'oscurantismo
tipico di un sistema statale corrotto e fatiscente si compiaceva di
fariseismi e cacce alle streghe (e più che mai la donna e la ragione erano
considerate opera delle potenze maligne), la vergine Ipazia era (stando a
quanto ne dice ancora Cassiodoro Epifanio) stimata e rispettata «per la sua
castità e integrità di costumi». Non bastano quindi - non possono bastare -
l'invidia, la maldicenza e il risentimento in senso nietzscheano a spiegare
la fine oltraggiosa riservata a Ipazia da un gruppo di straccioni fanatici:
a monte, sicuramente, c'è ben altro.

Nonostante l'atmosfera di terrore e di morte aleggiante su Alessandria in
disfacimento, simbolo della ben più vasta crisi che stava attanagliando
tutto il mondo civile allora conosciuto, e a dispetto dell'ardore religioso
troppo presto e troppo facilmente mischiato all'ingiustizia della forza e
del numero, non mancavano gli spiriti liberi: fra questi erano Sinesio[7],
allievo di Ipazia prima e vescovo cristiano poi, che non mancò mai di
intrattenere con lei rapporti di pura e profonda amicizia, né venne meno,
anche dopo la conversione, agli elevati precetti filosofici neoplatonici; e
Oreste, prefetto di Alessandria, del quale ancora Cassiodoro ci dice che s'
incontrava di frequente con Ipazia, presumibilmente per gli stessi motivi di
Sinesio. In realtà (almeno secondo quanto riporta la Historia ecclesiastica
tripartita), sembra che nei tempi immediatamente precedenti l'assassinio di
Ipazia - non viene specificato se si tratti di giorni, settimane, mesi o
forse di più ancora: ma non ci sembra improbabile supporre un lasso di tempo
piuttosto lungo, se ci soffermiamo un attimo a considerare le conseguenze
scaturite dagli editti del 391 e 392 - sembra, dunque, che violenze e
soprusi venissero perpetrati ai danni dei cristiani di Alessandria e delle
zone limitrofe. Gli incidenti non dovettero essere, tutto sommato, di
scarsissima rilevanza, se è vero che i monaci del deserto (cui fa cenno
Leconte de Lisle) stanziati sul monte Nitia calarono su Alessandria e «nel
nome di Cirillo diedero zelantemente inizio a scontri»[8] con la
popolazione. I primi tumulti non ebbero un esito molto felice per i monaci,
giacché si conclusero con l'uccisione di Ammonio, uno dei quattro
«venerabili uomini» che «reggevano i monasteri dell'Egitto» (gli altri tre
erano Dioscoro, Eusebio ed Eutimio).

Fu probabilmente in quell'occasione che Ipazia, preoccupata dell'incolumità
di quanti le erano cari, consigliò Oreste di diradare e fors'anche di
interrompere i rapporti, soprattutto quelli di amicizia, col vescovo
Cirillo. L'ascendente di Ipazia sulle autorità civili di Alessandria, del
resto, doveva essere notevole, e non si limitò forse a manifestarsi solo in
questa circostanza: certo è che la Historia ecclesiastica tripartita e altre
fonti ancora testimoniano che Ipazia venne ritenuta colpevole delle
persecuzioni nei confronti del vescovo Cirillo - persecuzioni seguite alle
intemperanze giustificate dai monaci del deserto, a torto o a ragione, nel
nome, appunto, di Cirillo -, e per questo motivo massacrata barbaramente. A
pochi giorni dalla celebrazione di un nuovo rito d'amore, la Pasqua, nel
nome di un nuovo dio di misericordia...


Note

1 Denominazione propria di qualunque tempio dedicato al dio Serapide. Il più
famoso, vasto e imponente, eretto in puro stile greco dall'architetto (anch'
esso greco) Parmeniskos, sorgeva in Alessandria. Quando l'Egitto passò sotto
la signoria di Roma, il tempio fu per secoli meta ininterrotta di
visitatori, anche illustri, provenienti da ogni parte dell'Impero romano: lo
storico Tacito (Storie, lib. IV, cap. LXXXI, LXXXII) menziona la visita al
tempio dell'imperatore Vespasiano. La fortuna del Serapeion cominciò a venir
meno a partire dal 391, anno in cui il paganesimo alessandrino subì uno dei
colpi più duri a opera del cristianesimo trionfante.

2 Ancora a proposito della relatività dei periodi storici dal punto di vista
meramente storiografico, ricordiamo qui che alcuni studiosi propongono di
iniziare con questa data il cosiddetto Medio Evo.

3 Incalcolabili furono le conseguenze: forse la più grave, anche se la meno
riconosciuta, consiste nel passaggio dalla «cultura (o civiltà) della
vergogna» alla «cultura (o civiltà) della colpa», secondo la felice
distinzione introdotta alla fine degli anni Trenta dall'antropologa
americana Margaret Mead. Come il termine stesso indica, nel primo tipo di
civiltà il valore fondamentale è quello di 'onore', che implica un nesso
intimo, diretto con l'ambiente sociale in cui la persona si situa. L'onore
comporta un modo particolare di rapportarsi alla comunità cui si appartiene,
una relazione qualitativa che investe tutto il ceppo familiare del membro, e
addirittura la cerchia di chi gli è vincolato da legami di amicizia, affetto
e simili. Ne deriva che è sufficiente una mancanza nei riguardi del gruppo,
perché il trasgressore possa disonorare il proprio nome e di conseguenza
quello del proprio gruppo familiare, coinvolgendo così negativamente anche
'estranei' , per vari motivi vincolati al soggetto della trasgressione e al
suo gruppo di appartenenza. In questo tipo di civiltà, dunque, la massima
pena per il membro consiste nel venire estromesso dalla vita della comunità,
nella perdita di reputazione: parafrasando il Nietzsche di Al di là del bene
e del male («Sentenze e intermezzi», 183), la comunità è scossa non tanto
dal fatto che uno dei suoi membri abbia potuto ingannarla, quanto dal fatto
che ora essa non potrà più credergli. La cultura così contrassegnata è
propria dei Greci, dei Latini, dei Celti, degli Scandinavi, degli
Ario-Indù - ovvero del complesso delle genti indoeuropee. (Propria, ma non
esclusiva: si pensi, nell'area estremo-orientale, alla civiltà giapponese e
al valore sommo che in questa rivela la polarità 'onore-vergogna'). Le
«culture della vergogna» si contrappongono radicalmente alle «culture della
colpa», nelle quali l''impressione', il sentimento basilare sotteso alla
struttura della società è appunto quello di 'colpa'. Ma si badi: colpa non
tanto nei confronti della comunità, bensì nei confronti di una entità
suprema da cui si suppone discendano norme rigidamente dogmatiche, tradotte
in precetti morali. Da questa 'emozione della colpa' nasce la categoria
mentale-morale di 'peccato', connessa al convincimento dell'ineluttabilità
di sanzioni, eseguibili sia nel presente che in una vita ultraterrena. Com'è
noto, questa interiorizzazione della mancanza viene istituzionalizzata (dopo
essere stata, in un certo senso, ipostatizzata) nelle religioni
monoteistiche. 4 Della scuola di Pergamo fu illustre allievo il futuro
imperatore Giuliano; discepolo degli scolari di Giamblico, Giuliano riteneva
che il neoplatonismo coniugasse il doppio vantaggio di rimanere entro la
tradizione dell'antica cultura pagana, e al tempo stesso di soddisfare le
nuove esigenze religiose venute a diffondersi nell'Impero.

5 La Historia ecclesiastica tripartita - così chiamata perché, dapprima
composta da Cassiodoro Epifanio, fu in seguito risistemata e ampliata da
Socrate Sozomeno e da Teodoreto - narra (in 12 libri) gli avvenimenti
svoltisi dall'anno 324 fino all'anno 439 (443).

6 Pochi anni dopo la morte di Ipazia il neoplatonismo ritornò in Atene, dove
sorse una nuova scuola che si proponeva di riprendere la grande tradizione
dell'Accademia platonica; lo scolarca più illustre fu Proclo (410-485). L'
Accademia neoplatonica verrà poi definitivamente chiusa nel 529 per ordine
dell'imperatore Giustiniano.

7 Sinesio, patrizio di Cirene, nacque forse nel 370, e fu quindi
praticamente coetaneo di Ipazia, della quale fu discepolo ad Alessandria.
Probabilmente nel 406, divenne vescovo di Cirene, sembra con scarsa
convinzione e addirittura prima di aver abbracciato completamente la fede
cristiana. Di lui ci sono pervenuti, oltre alle lettere, alcuni Inni e un
trattato filosofico, il Diòn (composto forse tra il 404 e il 405), scritto
in difesa della cultura ellenica, ritenuta il mezzo più efficace per
sviluppare le potenzialità dell'intelletto umano. In questa prospettiva la
cultura greca non è considerata in opposizione a quella cristiana, non è la
«dea Ragione» cara agli immortali princìpi dell'89, bensì appare come un
metodo al di là e al di sopra delle fedi, al cui sviluppo è in grado di
contribuire validamente. Sinesio morì nel 413, due anni prima della sua
maestra Ipazia.

[8] San Cirillo d'Alessandria è ricordato come uno dei più grandi teologi
della Chiesa Orientale. Nacque probabilmente in Alessandria verso il 370
(anch'egli, dunque, contemporaneo e addirittura coetaneo di Ipazia e di
Sinesio), nipote del patriarca di quella città, Teofilo. Nel 412 succedette
allo zio nella sede patriarcale di Alessandria, dove rimase fino al 444,
data della sua morte. Gli inizi del suo episcopato si rivelarono alquanto
burrascosi, e soprattutto movimentata fu la lotta da lui sostenuta contro il
governatore imperiale di Alessandria, Oreste. Sembra non fosse lui il
diretto responsabile dell'assassinio di Ipazia, caduta vittima, in realtà,
di un tumulto popolare perché sospettata di essere la consigliera di Oreste:
al riguardo, Cassiodoro Epifanio afferma decisamente che «questo fatto
attirò non poco livore nei confronti di Cirillo e della Chiesa di
Alessandria».




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Da Historia ecclesiastica Philostorgii, VIII - 9 [a] [1]

Costui [Filostorgio] dice che Ipazia figlia di Teone era stata istruita dal
padre nelle scienze matematiche; e tuttavia era divenuta assai più erudita
del proprio maestro, sopra tutto riguardo all'arte di osservare le stelle, e
insegnava a molti le scienze matematiche. Ma quest'empio [Filostorgio] dice
pure che sotto il regno di Teodosio il Giovane quella femmina venne fatta a
pezzi dai sacerdoti del culto omusiano.

Da Historia ecclesiastica Philostorgii, VIII - 9 [b]

La filosofa Ipazia: Filostorgio dice che Ipazia, figlia di Teone, fu
istruita dal padre nelle discipline matematiche, ma che divenne di gran
lunga più erudita del suo maestro, sopra tutto in astronomia, e che insegnò
a molti le discipline matematiche. Tuttavia questo empio [Filostorgio]
afferma che sotto il principato di Teodosio il Giovane costei fu fatta a
pezzi dagli omusiani.

Da Historia ecclesiastica tripartita - Cassiodori Epiphanii: XI - 12, 1/5

12. Vi era allora in Alessandria una donna di nome
Ipazia, figlia del filosofo Teone e tanto colta da emergere tra i filosofi
suoi contemporanei, e da ricevere proprio lei la successione nella scuola
platonica derivata da Plotino, così da tenere ella stessa tutte le lezioni
filosofiche. Per questo motivo tutti accorrevano a lei a causa della sua
autentica fedeltà professata nei confronti dell'antica dottrina.

2 Infatti ella si prestava di buon grado anche a
contraddittori e dispute senza alcun imbarazzo, anzi, si mostrava anche in
mezzo agli uomini, ma con tale riservatezza che tutti la stimavano e la
rispettavano per la sua castità e integrità di costumi.

3 Fu allora, dunque, che divampò l'invidia contro questa
donna. Infatti, poiché frequentemente si incontrava con Oreste, la
popolazione ecclesiastica le si sollevò contro, poiché sembrava che lei
stessa l'avesse dissuaso dall'intrattenere rapporti di amicizia col vescovo.

4 Per questo motivo alcuni uomini travolti da un
acerrimo odio, e a capo dei quali era un lettore[2], un certo Pietro, avendo
ordito una congiura, spiarono la donna mentre tornava a casa e, fattala
scendere a forza dalla carrozza, la trascinarono alla chiesa, che è chiamata
di Cesare, e là, spogliatala delle vesti, la lapidarono. In seguito, dopo
averla letteralmente fatta a pezzi, ne bruciarono i resti.

5 Questo fatto attirò non poco livore nei confronti di
Cirillo e della chiesa di Alessandria; infatti è noto che stragi e violenze
sono aliene dai Cristiani. Questi avvenimenti dunque accaddero nel quarto
anno dell'episcopato di Cirillo, sotto il decimo anno di regno di Onorio e
il sesto di Teodosio, nel mese di marzo, nei giorni precedenti la Pasqua.


Note



[1] La Historia ecclesiastica Philostorgii è contenuta nella monumentale
Patrologia graeca, curata dall'abate francese Jacques-Paul Migne in due
edizioni: una col testo greco e la traduzione latina (in 166 volumi), di cui
ci si è serviti nel presente saggio; e una con la sola traduzione latina (in
85 volumi). Per amore di completezza e nel rispetto obiettivo dell'
informazione storica si è inteso qui riportare sia la traduzione del testo
greco [a], sia quella del testo latino [b]: come il Lettore può notare,
emergono dalla comparazione dei testi tradotti leggere sfumature, per lo più
lessicali. Del resto la formula «questo empio» rilevabile in entrambe le
lezioni indica chiaramente che non si tratta qui dell'originale storia
ecclesiastica di Filostorgio, bensì di una registrazione effettuata
probabilmente in epoca posteriore (non sappiamo di quanto) alla stesura
personale di Filostorgio stesso: inevitabili, quindi, distorsioni e
travisamenti, anche impercettibili seppure forse intenzionali, del testo
originariamente stilato dall'autore. Si ribadisce qui la volontà di offrire
al Lettore, laddove sia possibile, l'opportunità di accedere direttamente
alle fonti o, quanto meno, di riferirvisi con la massima precisione e
imparzialità. Sulla Historia ecclesiastica tripartita, si veda la nota 5,
più oltre.



[2] Titolo ecclesiastico indicante, nella Chiesa latina, il chierico che ha
ricevuto il secondo degli ordini minori.


Tratto da: www.alessandracolla.com

(e grazie a nhmem per averlo recuperato ;) )