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Ichthys
28-03-04, 01:26
http://www.lastampa.it/_settimanali/ttl/estrattore/Tutto_Libri/art15.asp

Quei maledetti longobardi
Giorgio Ruffolo: «La fatale spaccatura fra Nord e Sud del paese è l'eredità oggettiva di quell'invasione>>

13/3/2004

Un libro appena uscito di Giorgio Ruffolo, brillante protagonista del dibattito politico nei primi governi del centro-sinistra, che parla dei secoli che sono stati come se fossero ieri, o ieri l'altro. Come se Ruffolo, anziché muoversi tra Antica Roma, invasioni barbare, Medio Evo, fosse in ricognizione attraverso quegli Anni Sessanta in cui era segretario generale della programmazione economica. O stazionasse sul finire degli Anni Ottanta, quando era ministro dell'Ambiente. Invece sta parlando di epoche e protagonisti remoti. E affronta il tutto senza fronzoli. I Longobardi? "Diciamo la verità: all'Italia, forse per una oscura legge di contrappasso, sono toccati, in definitiva, i barbari meno intelligenti e più grossolani d'Europa. Totalmente incapaci di fondersi con il popolo vinto, allevatori di maiali e cacciatori forsennati, totalmente incapaci di lavoro produttivo, gente rozza, per l'Italia una vera maledizione...". Maledetti longobardi, dunque, che - a parte l'immettere un po' di parole nuove nel vecchio lessico - determinano, secondo Ruffolo, la "fatale spaccatura fra il Nord e il Sud del paese, che è l'eredità oggettiva di quell'invasione, l'altra eredità, della frammentazione, del privatismo politico, dell'indifferenza e diffidenza verso lo Stato; un sentimento che diventerà una radice avvelenata del carattere nazionale...". E la stagione dei liberi Comuni? In ogni conflitto si doveva usare fino in fondo la forza, sino al terrore. L'obiettivo di ogni lotta era la rovina completa di uno dei contendenti: "la vita civile delle città italiane diventava, così, un terribile gioco a somma zero". Con l'incapacità di trasformare la politica in un gioco a somma positiva dove, grazie all'accettazione del compromesso, "tutti, accettando una perdita immediata, realizzano nel tempo un superiore guadagno...". Che sia da allora che il termine compromesso porta con sé un senso non di matura accettazione della realtà ma di svilimento dell'immagine interiorizzata della propria appartenenza? E' un libro giovane e vigoroso quello con cui Giorgio Ruffolo, giunto alla soglia degli ottant'anni, ha deciso di sistemare un po' di conti. Non tanto con il nostro lontano passato - dall'Antica Roma al Rinascimento, come parrebbe suggerire il titolo del suo saggio, Quando l'Italia era una superpotenza - quanto, piuttosto, con le rifrazioni di questo passato nel nostro presente. Ruffolo affronta una sfida non da poco: senza accademiche specializzazioni ma, anche, senza false modestie sul fronte delle sicurezze intellettuali. Con una scrittura di coinvolgente sobrietà - sicuramente piacerà a coloro che amano la divulgazione storica di taglio anglosassone - Ruffolo evita le trappole della storia evenemenziale, le marce forzate sotto la sferza di madama cronologia. Le fasi storiche sono da lui catturate in velocissimi affreschi. L'ascendere e il curvarsi dei cicli economici, delle fortune politiche, delle stagioni culturali: tutto viene fatto rivivere con fulminante sintesi ma senza perdere il gusto del dettaglio, dell'aneddoto, del ritratto efficace. Si comprende che Ruffolo - nelle sterminata e rigorosa biografia alla quale ha attinto - soprattutto per il periodo più remoto, ha avuto un modello. Qualcuno che rifuggiva dalle rigidità accademiche, scompigliato ma tutt'altro che privo di un suo ordine interiore. Capace di applicare agli eventi di un lontano passato la duttile analisi di una passione politica pervasiva e presente. C'è, in questo libro, un'aria e un apprezzamento che si coglie ancora prima di giungere agli espliciti riconoscimenti immessi in bibliografia. Riguarda la stagione di riflessione culturale e di divulgazione storiografica che ha avuto in Gugliemlo Ferrero non secondario protagonista. E che si era concretizzata, giusto un secolo fa, nei cinque volumi dedicati da Ferrero alla Grandezza e decadenza di Roma: tutti pubblicati fra il 1902 e il 1906 dall'editore Treves di Milano. Come è noto la fatica di Ferrero, giornalista e saggista di grande successo, venne stroncata dall'epiteto di dilettante attribuitogli da Gaetano De Sanctis, a lungo illustre storico dell'antichità presso l'università di Torino prima di trasmigrare sul finire degli Anni Venti alla cattedra romana. Cattedra che De Sanctis dovrà lasciare nel 1931, avendo rifiutato giuramento di fedeltà al regime. Nel 1923, licenziando il quarto volume della sua Storia dei Romani De Sanctis sente anche lui l'urgenza di parlare - attraverso il passato, per mezzo della sua storia di Roma - del presente. Tanto che appone all'opera una dedica non equivoca: "A quei pochissimi che hanno parimenti sdegno di essere oppressi e di farsi oppressori". Rifrazioni. Rifrazioni fra Antica Roma e regime autoritario mussoliniano in un De Sanctis che pure, davanti al nuovo Impero (quello del Duce), avrà poi qualche cedimento. Vicenda di obbligate rifrazioni anche oggi: tra passato lontano e vicinissimo presente. Dove materia dell'interrogarsi di Ruffolo non è certo l'improponibile contrapposizione tra ieri e oggi. O la meschina comparazione tra la ben modesta collocazione del nostro Paese sul palcoscenico planetario e i successi colti in periodi lontanissimi dall'Antica Roma (il ferro di Roma). O dai vitalissimi banchieri e mercanti di Milano e Firenze, Genova e Venezia su tutta l'Europa quattrocentesca (l'oro dei mercanti).
Ruffolo si dedica a cose più serie e utili. Lavora sulla terra di nessuno, a confine tra continuità e intermittenze, dove si modellano molti dei caratteri originari della nostra storia. E' una sfida che, di tanto in tanto, a distanza di decenni (il saggio L'Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione di Giulio Bollati è del 1983), qualche coraggioso riprende. Scommessa proficua soprattutto nei periodi di stasi, quando perfino la bellezza e la composita civiltà giunta da un passato ineguagliabile, paiono contare poco o nulla davanti ad ambizioni di grana grossa e di corto respiro. Dimentiche, come dice Ruffolo, dell'essenza del miracolo italiano: "L'aver creato una ricchezza che non si trasformò in potenza ma si trasfigurò in bellezza". Tanto che, come dice Braudel, "quando sull'Italia cadde la notte, tutta l'Europa ne fu illuminata".
LUOGHI COMUNI
Giorgio Boatti (gboatti@venus.it)