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janus77 (POL)
08-04-04, 09:44
L’ascesi del combattere

Gli ultimi sviluppi degli accadimenti internazionali hanno fatto risuonare nella mente dei più parole come guerra, pace e giustizia, con un senso di normalità, con la percezione, anche tra molti che si definiscono tradizionalisti, che tali terminologie debbano e possano assumere solo quel significato profano e moderno che si usa attribuirli. Non ci interessa, qui, analizzare gli avvenimenti contemporanei che contrappongono una fantomatica civiltà (?) occidentale ad un’altra di presunta ispirazione coranica, ricadendo questi nel campo secondario ed accessorio del divenire storico, ma precisare e puntualizzare alcuni concetti, che in un’ottica tradizionale assumono valore di veri e propri simbolismi, come la Guerra, dalla quale potremo far scaturire anche alcune considerazioni su simbolismi collegati, come quelli della Pace e della Giustizia. In tutte le Civiltà Tradizionali, che autorevolmente possono essere definite tali, di ogni tempo non è mai stata contemplata l’arte della guerra e del combattimento come l’idea di un’azione fine a se stessa o che avesse come unico scopo la realizzazione o il raggiungimento di risultati esclusivamente materiali e transitori: questa “azione per l’azione” è una concezione tipica della dissoluzione moderna, essendo, infatti, caratterizzata da un falso principio di contrapposizione tra tutto ciò che rientra nell’ambito della contemplazione (idea anch’essa stravolta) e ciò che è inerente all’azione materializzata. Le testimonianze che il combattere fosse presso i popoli forgiati dalla Tradizione, non un’azione meccanizzata, ma una vera e propria ascesi, sono molteplici e riscontrabili in diverse e variegate culture del mondo. La guerra nel divenire, quella rivolta contro i nemici esterni, doveva fungere solamente da supporto, da viatico per la battaglia, per il combattimento per l’essere, contro le debolezze, le passioni e le paure, presenti nella propria interiorità, che impediscono alla propria anima, all’individualità umana di librarsi in volo verso la personalità divina, esistente e vivente dentro ognuno di noi. E’ questo quella pratica di purificazione del mondo sottile, della “confluenza tra i due mari” (tra il mare metafisico e il mare puramente materiale e grossolano) o di ricostruzione del proprio Tempio in un animo distrutto, di cui parla Henry Corbin, il noto gnostico islamista; è il concetto della seconda nascita spirituale, che riconsegna all’uomo il suo stato di purità ed integrità primordiale. E proprio nella tradizione islamica, è questo il principio che forgia l’idea della grande guerra santa – el-jihândul-akbar – e della piccola guerra santa – el-jihândul-açghar -: il rito, il sacrificio eroico-ascetico del combattimento, come mezzo preliminare ed indispensabile di una realizzazione spirituale. Il guerriero, rinunciando a tutto, si immola in battaglia, nella piccola jihad, per purificare il suo animo, tramite la grande jihad, per donare il proprio spirito nella mani di Allah: ”Di coloro che restano uccisi nella via di Dio, la realizzazione non andrà perduta: (DIO) lì dirigerà e disporrà il loro animo. Lì farà quindi entrare nel paradiso che Egli ha loro rivelato” (Corano, XLVII, 5-6-7). Le gesta della cavalleria crociata e templare e le saghe sulla leggenda del Santo Graal ci confermano come il simbolismo dell’ascesi guerriera fosse più che mai presente anche nella Cristianità medioevale, nel suo esoterismo, nella sua tradizione. Il crociato, il templare, al di là delle contingenze storiche, si conducevano in Terra Santa per difendere il Tempio di Dio, trasmutando la loro missione terrena, tramite il combattimento, in una pratica di ricostruzione nella loro interiorità microcosmica. La Terra Santa ed il Tempio erano simboli così importanti per i cavalieri di San Bernardo per sublimare la propria lotta in una dimensione universale e trascendentale, è la vera ascesi dell’azione: “Chi vuol salvare la propria vita la perderà, ma chi la cederà la renderà veramente vivente”. E’ il senso della sfida tra Sir Gawain e il Cavaliere Verde, è la ricerca di Parsifal della Coppa dell’Immortalità. I simboli o i miti di tale pratica ascetica possono mutare attraverso le diverse tradizioni, ma, come lo spirito tradizionale e primordiale rimane immutato attraverso il tempo e forme diverse che va ad assumere, così il principio della Guerra rimane sempre eguale a se stesso. Anche la civiltà greco-romana ci offre altri esempi di suddetta immutabilità. Come non ricordare che Omero ci narra l’ammirabile tensione eroica di un Ettore che, pur consapevole di una morte certa ed orribile, non fugge e dona la propria vita, abbandonando la propria città, la propria moglie e il proprio figlio, pur di non venire meno alla via gloriosa che gli dei avevano riservato al suo spirito; e come non rammentare le dolorose quanto simboliche fatiche dell’Eracle dorico. In molti autori latini, come Cicerone e Livio, inoltre, ritroviamo la figura dell’antico rito romano della devotio, consistente nel sacrificio della propria vita in battaglia per propiziare ed aiutare la vittoria del popolo romano. Una mors triumphalis che conduce il legionario romano alla Vittoria spirituale e che si ricollega ai riti e ai simboli della comune tradizione indoeuropea, e quindi alle concezioni proprie della tradizione nordica e di quella ario-iranica. Nelle saghe nordiche come l’Edda il guerriero ario intendeva la propria lotta, innanzitutto, in un senso metafisico, considerando la propria identità una radice solare ed olimpica che, in ogni dove, sconfigge ed annienta la presenza delle tenebre. Il combattente caduto in battaglia, similmente alla concezione islamica e romana, trova il riposo e la dimora eterna nella celeste sede del Walhalla, accompagnato dalle muse nordiche della guerra e della vittoria, le Walkirie, dove Odino-Wotan era il dio-re. Analoga idea è riscontrabile presso la tradizione iranica e precisamente nel culto ario di Mithra, dove le Fravashi, che insieme alla Walkirie è possibile considerare dei demoni che guidano l’anima, conducono i figli della Luce contro gli eterni avversari del dio solare e delle proprie individualità. Per comprendere meglio tale concetto è necessario rammentare lo scontro tra Indra, dio indo-ario della guerra, e il mostro Vŗta, in cui la divinità, decapitando il proprio avversario, decapita in una realtà trascendente le proprie debolezze e le proprie meschinità. Abbiamo, infine, lasciato in coda le riflessioni inerenti al testo indo-ario della Bhagavad-gità e del guerriero Arujna, perché riteniamo che le considerazioni che ne potranno scaturire meglio di altre potranno servire allo scopo di fornire qualche collegamento tra il simbolismo della Guerra e quelli delle Pace e della Giustizia, come accennato all’inizio di questo scritto. Il simbolismo della guerra nella Bhagavad-gità esprime tutta la sua valenza e tutta la profondità del suo principio ispiratore: Arjŭna è un principe ario che si trova in un campo di battaglia, simbolo delle sue incertezze, a dover fronteggiare nemici che sono rappresentati da persone a cui è legato da sentimenti di affetto e d’amicizia, e che durante la lotta è affiancato dalla presenza del dio Krshna, che gli impartisce l’insegnamento tradizionale del combattimento. Il guerriero è lacerato dal dolore della scelta e dal dubbio che la decisione di voler combattere fosse quella giusta. E’ per dissolvere le incertezze nel cuore di Arjŭna che Krshna spiega al giovane dubbioso come un vero combattente non può piegarsi alla pietà ed alle passioni dell’anima, come il suo pensiero dovesse superare gli ostacoli dell’individualità, spiritualizzando la sua azione, rendendola libera dai desideri e dalle debolezze: “Nei forti sono le forze esenti da desiderio e da passione, sono il fulgore nel fuoco, in tutte le creature la vita e l’austerità negli asceti. Sono l’intelletto dei sapienti e la gloria dei vittoriosi” (Bhagavad-gità, VII, 11, 9, 10). Ritorna più chiara che mai la lotta del guerriero contro i nemici della propria interiorità, che deve essere vinta seguendo la pratica dell’azione senza desiderio ovvero il principio dello wu-wei della tradizione estremo-orientale. Ci si trova innanzi un uomo che, geometricamente, dalla circonferenza del continuo divenire giunge al Centro, dove vi è l’eterno presente, l’essere, il motore immobile di aristotelica memoria: l’uomo che ha in sé la propria legge, perché rappresenta l’unità primordiale. La guerra, quindi, intesa non come caotica distruzione, ma come metodo per recuperare l’armonia, il combattimento che ristabilisce l’ordine perduto, la legge,la Giustizia. Ma essa è vana, se in quel centro e in quell’unità non si vivifica la presenza divina – Shekinah – la Grande Pace, che è in tutti gli uomini che tale guerra hanno combattuto e hanno vinto.


(pubblicato sulle riviste Algiza, Ciaoeuropa, Camelot)