PDA

Visualizza Versione Completa : Patagonia , Mapuche Contro Benetton



Davide (POL)
13-07-04, 14:20
http://www.benetton.com/press/sito/_media/photo/z_camp92_chair.jpg


Un potere che si esprime in numeri: 16 mila bovini da macellazione, 260 mila pecore e montoni allevati, 1 milione 300 mila chili di lana esportati ogni anno in ...



La storia inizia nel 1991, quando i fratelli trevigiani si affacciano in Argentina con una mossa eclatante: l'acquisto di tutte le proprietà della Compañía de Tierras del Sud Argentino S.A. Il costo dell'operazione è considerevole: 50 milioni di dollari, ma anche il ritorno. Oggi la Compañía è proprietaria di 900 mila ettari e i Benetton sono i primi possidenti terrieri dello Stato. Un potere che si esprime in numeri: 16 mila bovini da macellazione, 260 mila pecore e montoni allevati, 1 milione 300 mila chili di lana esportati ogni anno in Europa, 80 milioni di dollari investiti in attività varie. Per questo l'edizione domenicale del quotidiano 'La Nacion' ha dedicato a Luciano Benetton una copertina col titolo: 'L'uomo che ha comprato la Patagonia'. E sempre per questo i media hanno seguito attentamente il processo contro la coppia mapuche. Un episodio solo in apparenza piccolo, che sta invece avendo conseguenze politiche, sociali ed economiche.
La storia ha per protagonisti Atilio Curiñanco e Rosa Nahuelquir, mapuche con alle spalle vite faticose. Atilio per 15 anni ha lavorato in una fabbrica di congelamento carni, mentre Rosa ha sbarcato il lunario come operaia tessile. Nel frattempo la coppia ha cresciuto quattro figli a Esquel, dove sarebbero rimasti se nel febbraio 2002 la ditta di Rosa non avesse chiuso. A quel punto i 300 pesos al mese di Atilio non bastavano più, così la famiglia ha deciso di cambiare vita. "Ci siamo rivolti all'Istituto autarchico di colonizzazione", raccontano, "e abbiamo chiesto se fosse libero un lotto di 525 ettari chiamato Santa Rosa. Volevamo una risposta scritta, ma non è mai arrivata. Ci è stato invece detto a voce che il terreno era demaniale e inutilizzato, dunque potevamo occuparlo".
_Per sicurezza, dicono i coniugi Curiñanco, il 23 agosto 2002 hanno informato delle loro intenzioni anche il commissariato di Esquel. Dopodiché si sono trasferiti sul lotto Santa Rosa, dove "abbiamo arato la terra, creato un sistema di irrigazione, piantato ortaggi e frutta, allevato animali e risistemato lo steccato". Giorni su giorni a spaccarsi la schiena dalla mattina alla sera. Fino a quando, il 2 ottobre 2003, alla porta dei Curiñanco si sono presentati 15 agenti di polizia che li hanno sgomberati, sequestrando tutti gli attrezzi e prendendosi pure una coppia di buoi.
Il perché è presto detto. Il 30 agosto la Compañía de Tierras aveva denunciato i coniugi mapuche. Le accuse erano due: avere occupato un terreno che in realtà apparteneva alla Compañía, e averlo fatto in modo violento e occulto, abbattendo il recinto e approfittando dell'oscurità. Ipotesi che i coniugi Curiñanco hanno sempre rigettato, ma che sono parse convincenti al giudice delle indagini preliminari José Oscar Colabelli. Lo stesso giudice è stato in seguito sospeso dall'incarico per avere ordinato lo sgombero di un'altra famiglia, rivelatosi ingiustificato. Ma intanto la causa ha fatto la sua strada, lasciando i Curiñanco disoccupati, senza terra e alla sbarra, con una causa penale e una civile intentate dai Benetton.
Le due sentenze di primo grado sono giunte alla fine di maggio, ma non hanno portato pace. I Curiñanco sono stati assolti dall'accusa di usurpazione di territorio, dal momento che non sono risultati atti violenti o occulti. Allo stesso tempo hanno dovuto restituire il lotto Santa Rosa alla Compañía, in quanto il giudice ha ritenuto attendibili le fotocopie autenticate degli atti di proprietà presentati in aula. "Bene così", commentano i portavoce della Compañía: "Ci interessava ribadire il diritto alla proprietà, e ci siamo riusciti. Quanto all'aspetto penale, prima del processo abbiamo avvicinato la famiglia mapuche proponendo un accordo. Se ci restituivano il lotto Santa Rosa avremmo ritirato la denuncia, ma non ne hanno voluto sapere".
_Un fatto, quest'ultimo, che i Curiñanco confermano, e che giustificano con la loro voglia di pubblica verità. Una voglia rimasta identica anche dopo la sentenza di restituzione. Delusa, la signora Rosa ha dichiarato in pubblico che "il giudice era stato comprato dai Benetton" (salvo poi ritrattare per sfuggire a un'altra causa). Da parte sua il marito Atilio ha invece detto che ricorrerà in appello. Ma nel frattempo la domanda che tutti in Argentina si sono posti è questa: perché grandi proprietari terrieri come i Benetton, i più grandi di tutta la nazione, si sono infilati per soli 500 ettari in una battaglia tanto impopolare? "Una cosa è certa", commenta Gustavo Manuel Macayo, avvocato dei Curiñanco: "Ancora una volta non sono stati rispettati i diritti delle popolazioni indigene della Patagonia. E ancora una volta la controparte è costituita dalla famiglia Benetton, la quale peraltro non ha diritto di occupare quelle terre".
In che senso? Per spiegarlo bisogna tornare indietro di un secolo, afferrando una storia antica che dopo il caso Santa Rosa potrebbe trasformarsi in attualissima diatriba economica. L'avvocato dei Curiñanco contesta infatti l'atto con cui a fine Ottocento lo Stato argentino donò a dieci latifondisti inglesi le stesse terre che sarebbero poi finite ai Benetton. "Il presidente argentino José Félix Uriburu", dice Macayo, "diede a ciascuno di quei signori circa 90 ettari di terra in Patagonia. Ma per farlo ha violato le leggi del tempo. Ad esempio, non si è rivolto all'ufficio notarile generale del governo. Non ha rispettato il limite massimo previsto per le donazioni di 625 ettari. E inoltre ha giustificato le donazioni con le migliorie apportate dagli stessi inglesi nei territori: ma come si poteva parlare di migliorie nel 1896, se ancora adesso le migliorie scarseggiano?". Ora, continua Macayo, "il problema non riguarda più solo la storia del Santa Rosa, i Curiñanco e nemmeno i Benetton. È un'ingiustizia nazionale, e va risolta con un'indagine che porterò al Congresso della nazione, dove molti sono pronti a sostenermi. Se avrò ragione, i possedimenti dei Benetton dovranno tornare a chi spettano, cioè ai mapuche".
Logico che la Compañía de Tierras non condivida una singola parola di questa tesi. "Abbiamo i documenti originali che provano la totale legittimità del possesso delle terre", dice l'ufficio stampa Benetton: "Siamo tranquilli". D'altro canto non è la prima volta che in Patagonia i Benetton si trovano nel mirino delle proteste. Spesso l'organizzazione mapuche 11 ottobre ha attaccato i fratelli trevigiani, considerati "latifondisti che sfruttano terre non loro". Di più: il portavoce Mauro Millán ha denunciato tempo fa presunte irregolarità della Compañía de Tierras nella gestione del personale (260 assunti, 100 nella società partecipata Cosulan, più 340 nell'indotto). "C'è la testimonianza di un lavoratore", ha detto, "che inizia alle quattro del mattino e finisce quando cala il sole". La Compañía replica: "Mai avuto significative controversie in materia di lavoro, come dimostra l'altissima fidelizzazione del lavoro". Il che, in sostanza, significa: nessun dipendente si è mai messo contro di noi, anche perché "di lavoro da quelle parti ce n'è poco, e quel poco lo dà la Compañía", come onestamente dice l'ufficio stampa.
_L'intera controversia, ci tiene ad aggiungere la Compañía, prescinde comunque dalla volontà dei Benetton. "I mapuche", spiega, "considerano la Patagonia un territorio che è stato sottratto ingiustamente nell'Ottocento e che gli spetta per diritto. Se ci attaccano, è solo per attirare l'attenzione sulle loro questioni". Sarà. Vero è però che i movimenti mapuche non sono gli unici ad avercela coi Benetton. Anni fa, per dire, si è molto risentito il comune di El Maitén, località nella provincia del Chubut dove la Compañía possiede 47 mila 510 ettari sul totale di 60 mila. Era stato deciso un aggiornamento del patto fiscale, l'azienda dei Benetton si è rifiutata di coprire la differenza e solo dopo un lungo tira e molla ha accettato di pagare 100 mila dollari. Lo stesso ha dovuto fare con un altro Comune della zona, quello di Epuyén, a cui ha versato 35 mila dollari.
Entrambi gli episodi sono stati ripresi dalla stampa locale e dal quotidiano nazionale 'El Clarín', il quale da tempo dedica ai Benetton un'attenzione critica. Ora sarà interessante vedere come affronterà la nuova querelle, centrata sul rapporto tra la Compañía de Tierras e lo Stato argentino. In più occasioni la comunità mapuche ha criticato l'eccessiva accondiscendenza delle autorità al potere dei Benetton, o perlomeno una certa contiguità, e stavolta un sintomo di vicinanza c'è. A 'L'espresso' risulta infatti che la Compañía partecipi alla realizzazione di un commissariato di polizia sulla strada nazionale 40, nel cuore della Patagonia. E l'azienda conferma: "Abbiamo messo a disposizione un casotto che già esisteva", racconta l'ufficio stampa Benetton: "Ci ha chiesto aiuto la polizia del Chubut, a corto di denari, e noi abbiamo contribuito". "Un intervento mirato a presidiare sempre più i territori mapuche", lo definisce il gruppo 11 ottobre. "Un'iniziativa rivolta alla sicurezza stradale", ribatte la Compañía: "L'incrocio tra la strada nazionale 40 e quella per Cholila è sempre stato pericoloso, adesso sarà possibile controllarlo meglio".
Quale che sia la verità, la polemica descrive bene il clima. Pesante. Un crescendo di tensione alimentato da continui attacchi e repliche. Esattamente quello che successe quando la Compañía fu accusata di modificare il corso dei fiumi per irrorare meglio i suoi pascoli, provocando danni all'ambiente. Su questa ipotesi è stata aperta dalle autorità un'inchiesta, dedicata in particolare alla deviazione del rio Chubut. E sempre i fiumi sono stati al centro di un'altra contestazione, stavolta a opera di Enrique Cleri, presidente della Cámara de prestadores de servicios turísticos del Chubut occidentale, il quale si è opposto al fatto che l'accesso ai corsi d'acqua nelle tenute Benetton fosse regolato da cancelli e lucchetti: "È profondamente ingiusto", ha protestato: "Ci stanno rubando la nostra identità di abitanti della Cordigliera".
Inutilmente la Compañía de Tierras ha detto e ridetto che il solo scopo dei recinti è quello di tutelare l'integrità dei territori, e che i cittadini possono richiedere l'accesso a laghi e fiumi delle sue tenute. I mapuche non ci sentono. E neppure Carlos Maestro, ex governatore della provincia del Chubut, il quale ha scritto su 'Viva' (rivista del 'Clarín'): "Comprano le nostre terre, le migliori. La comprano senza vincoli e ostacoli. Quando i Benetton comprano un milione circa di ettari significa che in Patagonia comprano tutto. Nelle loro terre hanno fiumi, laghi, piante, minerali, tutto... Me li immagino, i Benetton, che raccontano ai loro amici italiani come hanno potuto comprare un milione di ettari senza alcun problema".
Quale sarà il futuro della Patagonia con queste premesse? Quali accordi potranno portare a un maggiore equilibrio tra le ragioni economiche della Compañía e il risentimento storico dei mapuche? Nessuno azzarda ottimismo. Al contrario, anche tralasciando la causa dei Curiñancos, si profilano altre ragioni di scontro tra latifondisti e indigeni. Molti mapuche sono ad esempio preoccupati per lo sfruttamento minerario in atto da parte di potenti società, attratte in Patagonia dalla scoperta di filoni d'oro. Il 2 giugno scorso la stampa riportava la notizia che quattro dipendenti della Inversiones Mineras Argentinas S.A. sono stati intercettati mentre trafficavano all'interno di terreni privati. Fonti locali riferiscono a 'L'espresso' che nella stessa zona del lotto Santa Rosa sono stati effettuati una decina di carotaggi nel terreno. E anche la Compañía de Tierras si sta dando da fare, partecipando con il 60 per cento delle azioni alla recentissima società Minera Sud Argentina S.A. Un capitolo finora sconosciuto che autorizza il dubbio: non è che la causa contro i coniugi Curiñanco sia stata giustificata dall'interesse per un terreno potenzialmente prezioso? "Al momento", risponde l'ufficio stampa Benetton, "la società Minera Sud Argentina prevede interventi soltanto al nord e al centro del Paese. Certo, se spuntasse una clamorosa miniera al sud, sarebbe assurdo rinunciare...".
Un concetto, quello del 'rinunciare', che la Compañía de Tierras raramente applica in Patagonia. Al contrario le sue iniziative sono numerose e ben finanziate. Un esempio evidente è il Museo Leleque, a 20 chilometri dal comune di El Maitén, sorto sulla terra della Compañía e sostenuto dai Benetton con 800 mila dollari, ai quali vanno sommati altri 60 mila l'anno investiti nel centro studi 'El hombre patagónico y medio'. Nelle intenzioni dei fondatori la struttura doveva valorizzare i 13 mila anni di storia patagonica. Una promessa mantenuta con rigorose ricerche scientifiche, che però non hanno sedotto le popolazioni indigene. Viceversa le hanno irritate fin dall'inaugurazione, avvenuta il 12 maggio 2000. Quel giorno lo slogan dei mapuche era: "Non siamo oggetti da museo. Siamo vivi e vorremmo essere ascoltati".


L'Espresso, 13 luglio 2004 _ _
_ _