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Visualizza Versione Completa : il Duce a Trieste



Aryan
15-08-04, 01:27
Discorso Di Trieste
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Il 20 Settembre 1920 - cinquantesimo anniversario del compimento della prima fase dell'unità d'Italia - il Duce pronunciava questo discorso in Trieste, al Politeama Rossetti. Coglieva l'occasione per considerare, in una sintesi critica, l'attivo e il passivo del Risorgimento italiano e della più recente Storia d'Italia, per stabilire la genesi, i compiti e i fini del Fascismo. Questo discorso - critico e programmatico a un tempo - è uno di quelli che pongono, nei momenti più torbidi e tristi, le chiare basi della ricostruzione. In esso appare quel supremo ideale della missione di Roma che è destinato a divenire, dopo il 1922, uno dei capisaldi spirituali e pragmatici del Regime Fascista.
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Io non vi considero, o triestini, come degli italiani ai quali non si può dire ancora la verità o tutta la verità, perché io vi considero come i migliori fra gli italiani, ed il vostro entusiasmo di oggi me lo dimostra. L'evento, che ebbe il 20 Settembre 1870 in Roma il suo compimento, fu un magnifico quadro dentro ad una mediocre cornice, né su ciò mi soffermerò.

Dopo cinquant'anni dalla Breccia di Porta Pia, noi dobbiamo fare il nostro esame di coscienza. Una nazione come la nostra, che era uscita da una lunga divisione plurisecolare, che aveva appena raggiunto l'unità, non aveva ossa sufficientemente robuste per reggere il peso di una politica mondiale. Un uomo grande nel pensiero italiano, Francesco Crispi, ruppe questa tradizione.

In cinquant'anni di vita, l'Italia ha realizzato progressi meravigliosi. Prima di tutto c'è un dato di fatto: ed è la vitalità della nostra stirpe, della nostra razza. Ci sono delle nazioni che ogni anno devono compulsare con una certa preoccupazione i registri dello stato civile, perché, o signori, è appunto in questo disquilibrio che si producono le grandi crisi dei popoli, e voi sapete a chi alludo. Ma l'Italia non ha di queste preoccupazioni. L'Italia faceva 27.000.000 di abitanti nel 1870; ne ha 50.000.000 adesso: 40.000.000 nella penisola, ed è il blocco più omogeneo che ci sia in Europa. Perché, a paragone del blocco boemo, ad esempio, dove 5.000.000 di ezechi governano 7.000.000 di un'altra razza, l'Italia non ha che 180.000 tedeschi nell'Alto Adige immigrati in casa nostra; non ha che 360.000 slavi immigrati in casa nostra, mentre tutto il resto è un blocco unico e compatto. E accanto a questi 40.000.000 in Italia, ce ne sono 10.000.000 che hanno straripato in tutti i continenti, oltre tutti gli oceani: 700.000 italiani sono a Nuova York, 400.000 nello stato di San Paolo, dove la lingua di stato dovrà divenire la lingua italiana, 900.000 nella repubblica argentina, 120.000 in Tunisia, quella Tunisia alla quale rinunciammo in un momento di minchioneria colossale: quella Tunisia che abbiamo riconquistato attraverso l'opera meravigliosa dei coloni siciliani che ivi hanno trasportato le loro tende che oggi lavorano per la reggenza francese, ma che molto probabilmente lavoreranno domani sotto la reggenza italiana.

E' un peccato che gli stranieri ci conoscano poco, ma è anche più grave che gli italiani conoscano poco l'Italia, perché se la conoscessero, si vedrebbe che molti popoli d'oltre confine sono ancora più indietro di noi, si saprebbe che nel campo industriale il più potente impianto idroelettrico del mondo è in Italia. E non mi si parli di forze reazionarie in Italia. Mi fanno ridere quelli che parlano di governo reazionario, specialmente se sono elementi immigrati o rinnegati di Trieste; perché se c'è un paese al mondo dove la libertà sta per sconfinare nella licenza, dove la libertà è patrimonio inviolabile di tutti i cittadini, è l'Italia.

Non si è visto ancora in Italia quello che si è visto in Francia, dove per uno sciopero politico la Repubblica francese, ha sciolto la Confederazione generale del Lavoro, ha legato i capi e li tiene ancora n galera; non si è visto ancora quello che si è visto in Inghilterra, dove elementi cosiddetti non desiderabili sono spediti oltre la Manica, e non si è visto ancora in Italia quello che si è visto compiuto nell'ultra democratica repubblica degli Stati Uniti, dove in una sola notte 500 cosiddetti sovversivi vengono legati e spediti in 24 ore oltre l'Atlantico. Se c'è qualche cosa da dire è questo: è tempo di imporre una ferrea disciplina ai singoli ed alle folle, perché un conto è la rinnovazione sociale, alla quale non siamo contrari, ed un conto è la dissoluzione in casa. Finché si parla di trasformazione, noi ci siamo tutti, ma quando invece si vuol fare il salto nel buio, allora noi poniamo il nostro alto là. Passerete, diciamo, ma passerete sui nostri corpi; e prima dovete vincere la nostra resistenza.

Ora, dopo mezzo secolo di vita italiana, che io vi ho così schematicamente riassunto, Trieste è italiana e sul Brennero sventola il tricolore. Se fosse possibile attardarci un minuto a misurare la grandiosità dell'evento, voi trovereste che il fatto che sul Brennero ci sia il tricolore, è un fatto di importanza capitale, non solo nella storia italiana, ma anche nella storia europea. Il tricolore sul Brennero significa che i tedeschi non caleranno più impunemente nelle nostre contrade. Si sono messi tra noi e loro i ghiacciai e sopra i ghiacciai quei magnifici alpini che andavano all'assalto del Monte Nero, che si sono sacrificati all'Ortigara ed hanno sulle loro bandiere il motto: " Di qui non si passa". (Applausi fragorosi).

Ora è un fatto importantissimo che Trieste è venuta all'Italia dopo una vittoria colossale.

Se noi non fossimo così quotidianamente presi dalle necessità della vita materiale, se non avessimo continuamente attraversato il pensiero da altri problemi mediocri e banali, noi sapremmo misurare tutto ciò che si svolse sulle rive del Piave nel Giugno ed a Vittorio Veneto nell'Ottobre. Un impero andò in sfacelo in un'ora, un impero che aveva resistito nei secoli, un impero dove si era sviluppata necessariamente un'arte sopraffina di governo che consisteva nel suo eterno divide et impera, saggiamente, secondo la sapienza di Budapest e di Vienna. Questo impero aveva un esercito, aveva una politica tradizionale, aveva una burocrazia, aveva legato tutti i cittadini a suffragio universale. Quest'impero che sembrava potente, invincibile, crollò sotto i colpi delle baionette del popolo italiano.

Il risorgimento italiano non è che una lotta fra un popolo ed uno Stato, fra il popolo italiano da una parte e lo Stato asburgico dall'altra, fra la forza viva a venire e il morto passato. Era fatale che avendo passato il Mincio nel 1859 e l'Adige nel 1866, nel 1915 si dovesse passare l'Isonzo e giungere oltre: era fatale, tanto fatale che oggi gli stessi neutralisti, lo stesso uomo del "parecchio", Giolitti, intervistato da un giornalista americano, ha dovuto riconoscere che l'Italia, pena il suicidio, pena la morte, pena maggiore: la vergogna, non poteva rimanere neutrale. Era per lui questione di modo e di tempo. Ma essenziale per noi è che l'uomo del "parecchio" abbia detto che l'Italia doveva intervenire più tardi o prima non importa, e che era logico e fatale che l'intervento si sviluppasse a fianco dell'Intesa.

Questa rivendicazione del nostri interventismo è quella che ci dà la massima soddisfazione. E che cosa importa se leggo in un libro nero e melanconico che Trieste, Trento e Fiume rappresentano ancora un deficit di fronte alla guerra? Questo modo di ragionare è ridicolo. Prima di tutto non si riducono gli avvenimenti della storia ad una partita computistica di dare ed avere, di entrata ed uscita. Non si può fare un bilancio preventivo nei fatti della storia, e pretendere che collimi col bilancio consuntivo. Tutto questo è frutto di una melanconia filosofica abbastanza diffusa in Italia dopo la guerra.

Ma speriamo che passi presto, per dar posto a sentimenti di ottimismo e di orgoglio. Questo dopoguerra è certamente critico: lo riconosco; ma chi pretende che una crisi gigantesca come quella di cinque anni di guerra mondiale si risolva subito? Che tutto il mondo ritorni tranquillo come prima in meno di due anni? La crisi non è di Trieste, di Milano, d'Italia, ma mondiale, e non è finita.

La lotta è l'origine di tutte le cose perché la vita è tutta piena di contrasti: c'è l'amore e l'odio, il bianco e il nero, il giorno e la notte, il bene e il male e finché questi contrasti non si assommano in equilibrio, la lotta sarà sempre nel fondo della natura umana, come suprema fatalità. E del resto è bene che sia così. Oggi può essere la lotta di guerra economica, di idee, ma il giorno in cui più non si lottasse, sarebbe giorno di malinconia, di fine, di rovina. Ora, questo giorno non verrà. Appunto perché la storia si presenta sempre come un panorama cangiante. Se si pretendesse di ritornare alla calma, alla pace, alla tranquillità, si combatterebbero le odierne tendenze dell'attuale periodo dinamico. Bisogna prepararsi ad altre sorprese, ad altre lotte. Non ci sarà un periodo di pace sino a quando i popoli si abbandoneranno ad un sogno cristiano di fratellanza universale e potranno stendersi la mano oltre gli oceani e le montagne. Io, per mio conto, non credo troppo a questi ideali, ma non li escludo perché io non escludo niente: tutto è possibile, anche l'impossibile e l'assurdo. Ma oggi, come oggi, sarebbe fallace, pericoloso, criminoso costruire le nostre case sulla fragile sabbia dell'internazionale cristiano-socialista-comunista. Questi ideali sono rispettabili, ma sono ancora molto lontani dalla realtà. (Applausi).

Quale l'azione del Fascismo in questo periodo così travagliato del dopoguerra? Primo pilastro fondamentale dell'azione Fascista è l'italianità, cioè: noi siamo orgogliosi di essere italiani, noi intendiamo, anche andando in Siberia, di gridare ad alta voce: Siamo Italiani ! Ora è appunto tutto questo che ci separa da molta altra gente che è così grottesca e piccina e che nasconde la sua italianità perché in Italia c'era una volta l'80% di analfabeti. Analfabeta non significa niente, perché anche la piccola mediocre istruzione elementare può essere peggiore dell'analfabetismo puro e semplice. E' vecchia idealità quella di credere che è più intelligente uno che sa scrivere di uno che, essendo forse più intelligente non lo sa.

Quella gente si vergogna, per esempio, se gli emigranti italiani distribuiscono qualche generosa coltellata: ma tutto questo è un modo molto brillante di dimostrare che gli italiani non sono vigliacchi né rammolliti e che hanno il mezzo di difendere l'italianità quando i consoli non sanno difenderla. Ora noi rivendichiamo l'onore di essere italiani, perché nella nostra penisola, meravigliosa e adorabile -adorabile benché ci siano degli abitatori non sempre adorabili - s'è svolta la storia più prodigiosa e meravigliosa del genere umano. Pensate voi a un uomo che stia pure nel lontano Giappone o nell'America dei dollari o in qualche altro sito anche recondito, pensate se quest'uomo possa essere civile senza conoscere la storia di Roma. Non è possibile.

Roma è il nome che riempie tutta la storia per 20 secoli. Roma dà il segnale della civiltà universale; Roma che traccia strade, segna confini e che dà al mondo le leggi eterne dell'immutabile suo diritto. Ma se questo è stato il compito universale di Roma nell'antichità, ecco che dobbiamo assolvere ancora un altro compito universale. Questo destino non può diventare universale se non si trapianta nel terreno di Roma. Attraverso il cristianesimo, Roma trova la sua forma e trova il modo di reggersi nel mondo. Ecco Roma che ritorna centro dell'impero universale che parla la sua lingua. Pensate che il compito di Roma non è finito, no, perché la storia italiana del medioevo, la storia più brillante di Venezia, che regna per 10 secoli, che porta le sue galee in tutti i mari, che ha ambasciate e governi , governi di cui oggi si è perduta la semente, non si è chiusa. La storia dei comuni italiani, è una storia piena di prodigi, piene di grandezza, di nobiltà. Andate a Venezia, a Pisa, ad Amalfi, a Genova, a Firenze, e voi troverete là sui palazzi, nelle strade, il segno, l'impronta di questa nostra meravigliosa e non ancora marcita civiltà.

Ora, amici che ascoltate, dopo questo periodo, sul principio dell'800 in cui l'Italia era divisa in 7 piccoli stati, sorse una generazione di poeti: la poesia ha anche il compito di suscitare l'entusiasmo e di accendere le fedi e non per niente il più grande poeta dell'Italia moderna, lo vogliano o no gli scribi che non sanno esprimere nel loro cervello un'ideuzza, il più grande poeta d'Italia, Gabriele D'Annunzio, realizza, nella magnifica unità di pensiero e di sentimento, l'azione che è una caratteristica del popolo italiano. ( Il pubblico scatta in piedi al grido di :"Viva D'Annunzio, Viva Fiume")

Siamo orgogliosi di essere italiani, non già per un criterio di gretto esclusivismo. Lo spirito moderno ha il timpano auricolare teso verso la bellezza e la verità. Non si può pensare un uomo moderno che non abbia letto Cervantes, Shakespeare, Goethe, che non abbia letto Tolstoj. Ma tutto questo non deve farci dimenticare che noi abbiamo tenuto il primato, che noi eravamo grandi quando gli altri non erano nati, che mentre il tedesco Klopstock scriveva la verbosa messiade, Dante Alighieri dal 1265 al 1321 giganteggiava. E abbiamo ancora la scultura di Michelangelo, la pittura di Raffaello, l'astronomia di Galileo, la medicina di Morgagni e accanto a questi il misterioso Leonardo da Vinci, che eccelle in tutti i campi e, se volete passare all'arte della politica e della guerra, ecco Napoleone, ma soprattutto Garibaldi latinamente italiano.

Queste sono le Dolomiti del pensiero, dello spirito italiano, ma accanto a queste Dolomiti, quasi inaccessibili, c'è un panorama di culmini e di vette minori, che dimostrano che non si può assolutamente pensare alla civiltà umana senza il contributo formidabile recatovi dal pensiero italiano. E questo bisogna ripetere qui dove stanno, ai nostri confini, tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili e che pretenderebbero, soltanto perché sono in tanti di sopprimere e soppiantare questa nostra meravigliosa civiltà che ha resistito due millenni e si prepara a resistere il terzo.

Quanto al secondo pilastro del Fascismo esso significa antidemagogia e pragmatismo. Non abbiamo nessun preconcetto, non ideali fissi e soprattutto non orgoglio sciocco. Coloro che dicono: "Siete infelici, eccovi la ricetta per la felicità", mi fanno venire a mente la reclame :" Volete la salute?". Noi non promettiamo agli uomini felicità qui né al di là, a differenza dei socialisti, che pretenderebbero di mascherare la faccia dei Mediterranei con la maschera russa.

Una volta c'erano i cortigiani che bruciavano incenso davanti ai re e ai papi, e ora, c'è una nuova genia che brucia incenso senza sincerità davanti al proletariato. Dicono: solo chi ha l'Italia nelle mani ha diritto di governare e magari costoro non sanno governare nemmeno la propria famiglia. Noi no. Noi teniamo altro linguaggio, molto più serio e spregiudicato e più degno di uomini liberi. Noi non escludiamo che il proletariato sia capace di sostituire altri valori, ma diciamo al proletariato: prima di pretendere di governare una nazione incomincia col governare te stesso: comincia a rendertene degno, tecnicamente, e prima ancora moralmente, perché governare è cosa tremendamente complessa, difficile e complicata. (Applausi). La nazione ha milioni e milioni di individui i cui interessi contrastano, e non ci sono esseri superiori che possano conciliare tutte queste contrarietà per fare una unità di progressi e di vita.

D'altra parte noi non siamo passatisti assolutamente legati ai sassi e alle macerie. Nelle città moderne tutto deve trasformarsi. Ai trams, alle automobili, ai motori, le vecchie strade delle nostre città non resistono più. Poiché in esse passa il flutto della civiltà. Si può distruggere per ricreare il più bello, grande e nuovo, ma mai distruggere col gusto del selvaggio che spezza una macchina per vedere che cosa c'è dentro. Non ci rifiutiamo a modificazioni anche nella città dello spirito, appunto perché lo spirito è delicato. A me non ripugna nessuna trasformazione sociale necessaria. Così accetto anche questo famoso controllo delle fabbriche ed anche la gestione cooperativa sociale delle fabbriche, ma semplicemente chiedo che si abbia la coscienza morale pulita, la capacità tecnica per mandare avanti le aziende; chiedo che queste aziende producano di più, e se ciò mi è garantito dalle maestranze operaie e non più padronali, non ho difficoltà a dire che gli ultimi hanno il diritto di sostituire i primi.

Quello cui ci opponiamo noi Fascisti è la mascheranza bolscevica del socialismo italiano. E' strano che una razza che ha avuto Pisacane e Mazzini vada a cercare i vangeli prima in Germania e poi in Russia. Bisognerebbe studiare un po' Pisacane e Mazzini e si vedrebbe che alcune delle verità che si pretendono rivelate dalla Russia non sono che verità già consacrate nei libri dei nostri grandi maestri italiani. Ma infine come pensate che il comunismo sia possibile in Italia, il paese più individualista del mondo? Questo è possibile dove ogni uomo è un numero, ma non in Italia, dove ogni uomo è un individuo, anzi una individualità. Ma poi, cari signori, esiste ancora in Russia questo bolscevismo? Non esiste più. Non più consigli di fabbrica, ma dittatori di fabbrica; non 8 ore di lavoro, ma 12; non eguaglianza di salari, ma 35 categorie di salari; non secondo il bisogno, ma secondo i meriti. Non c'è in Russia nemmeno quella libertà che ha l'Italia. C'è una dittatura del proletariato? No! C'è una dittatura dei socialisti? No! C'è una dittatura di pochi uomini intellettuali non operai, appartenenti ad una frazione del partito socialista, combattuta da tutte le altre frazioni.

Questa dittatura di pochi uomini è quella che si chiama bolscevismo. Ora, in Italia noi non ne vogliamo sapere, e gli stessi socialisti, compresi quelli che hanno veduto la Russia, quando voi li interrogate, riconoscono che non si può trapiantare in Italia quello che va male in Russia. Solamente hanno il torto di non dirlo apertamente, hanno il torto di giocare sull'equivoco e di mistificare le masse. Ripetiamo, noi non siamo contrari alle masse operaie, perché esse sono necessarie alla nazione, sono necessarie, sacrosantamente necessarie. I 20 milioni di italiani che lavorano col braccio hanno il diritto di difendere i loro interessi. Quella che noi combattiamo è la mistificazione dei politicanti a danno delle classi operaie; noi combattiamo questi nuovi preti in mala fede che promettono un paradiso nel quale non credono neppure essi. Quelli che a Trieste fanno i bolscevichi più accesi, lo fanno semplicemente per rendersi simpatici alle masse slave che abitano qui vicino. (Applausi fragorosi.)

E se io ho una disistima profonda, un disprezzo profondo di molti capi del movimento bolscevico d'Italia, è perché li conosco bene, perché li ho conosciuti tutti quanti, sono stato con loro a contatto; so benissimo che quando fanno i leoni sono conigli, so benissimo che fanno come quei tali frati di Arrigo Heine, che predicano apertamente l'acqua e bevono nascostamente il vino. Noi vogliamo appunto che questa turpe speculazione finisca, anche perché è antinazionale.

Mi sapete dire per qual caso singolare in tutte le questioni i socialisti italiani sono contro l'Italia? Mi sapete dire perché sono sempre coi popoli che avversano l'Italia? Cogli albanesi, coi croati, coi tedeschi, e con tutti gli altri popoli? Mi sapete spiegare perché si grida viva l'Albania che fa la guerra per avere Valona che è albanese e non si grida viva l'Italia che fa la guerra per avere Trento e Trieste che sono italiane? Ma che criterio è questo di essere sempre contro l'Italia e di gridare sempre stupidissimi "via"?

Quattro arabi si rivoltano in Libia: via dalla Libia ! Seimila albanesi attaccano: via da Valona ! E se domani i croati della Dalmazia ci attaccheranno, i socialisti diranno: via dalla Dalmazia ! E se domani su questi monti arsicci del Carso si sviluppasse un movimento insurrezionale contro Trieste, temo che i socialisti d'Italia direbbero anche: via da Trieste ! (A questo punto tutto il pubblico scatta in piedi gridando "Mai !"). Ma ci sono anche italiani di qui e fuori di qui che affogherebbero loro in bocca il grido fratricida.

Ed è lo stesso della loro opposizione alla guerra. Vedete, la guerra è cosa orribile. Lo sanno coloro che l'hanno fatta. Ma allora bisogna spiegarsi: o la guerra in se e per se, fatta per qualsiasi ragione, sotto qualsiasi latitudine, per qualsiasi pretesto, non deve farsi e allora io rispetto questi umanitari, questi tolstoiani se dicono: io aborro dal sangue per qualsiasi ragione sia versato. Li rispetto e li ammiro, sebbene trovi ciò leggermente inattuabile. Ma i socialisti gridano "abbasso la guerra", quando la fa l'Italia e "viva la guerra" quando la fa la Russia. Voi avete un giornale che era lieto quando i cosiddetti bolscevichi marciavano su Varsavia e usava un stile prettamente militare: "Mentre scriviamo, il cannone, ecc". Lo sappiamo a memoria. Ma allora la guerra non è la stessa cosa. La guerra russa non fa vedove, non fa orfani? Non è fatta coi cannoni, aeroplani, e tutte le armi infine che straziano e uccidono corpi umani? O voi, dunque, siete contrari a tutte le guerre, e allora noi potremo discutere insieme, ma se voi fate distinzione fra guerra e guerra, guerra che si può fare e guerra che non si può fare, allora noi vi diciamo che il vostro umanitarismo ci fa schifo. E se avete ragione di fare la guerra, avevamo ragione noi di farla per i destini della nazione nel 1915. (Applausi).

Quale può essere quindi - e volgo alla fine - il compito dei Fascisti? Il compito dei Fascisti in Italia è questo: tenere testa alla demagogia con coraggio, energia ed impeto. Il Fascio si chiama di combattimento e la parola combattimento non lascia dubbi di sorta. Combattere con armi pacifiche, ma anche con armi guerriere. Del resto tutto ciò è normale in Italia perché tutto il mondo si arma e quindi è assolutamente necessario che noi che siamo italiani, ci armiamo a nostra volta. Ma il compito dei Fascisti di queste terre è più delicato, più sacro, più difficile, più necessario. Qui il Fascismo ha ragione d'essere; qui il Fascismo trova il suo terreno naturale di sviluppo. In questa giornata storica mentre la crisi italiana sembra aggravarsi - non importa, si risolverà - io ho fiducia illimitata nell'avvenire della nazione italiana. Le crisi si succederanno alle crisi, ci saranno pause e parentesi, ma andremo all'assestamento e non si potrà pensare a una storia di domani senza la partecipazione italiana. Perché è bensì vero che nel 1919 l'Italia ha avuto un Nitti e nel 1920 un Giolitti, ma se questa è la faccia nera della situazione, dall'altra parte la faccia splendente di questa situazione è Gabriele D'Annunzio, il quale ha realizzato l'unica rivolta contro la plutocrazia di Versaglia.

Molti ordini del giorno, molti articoli di giornali, molte chiacchiere più o meno insulse, ma l'unico che abbia compiuto un gesto vero e reale di rivolta, l'unico che per dodici o tredici mesi ha tenuto in scacco tutte le forze del mondo è Gabriele D'Annunzio insieme coi suoi legionari. Contro quest'uomo di pura razza italiana si accaniscono tutti i vigliacchi ed è per questo che noi siamo fierissimi ed orgogliosi di essere con lui, anche se contro di noi si accanisca la vasta tribù degli scemi. Quest'uomo significa anche la possibilità della vittoria e della resurrezione. E questa possibilità esiste, perché abbiamo fatto la guerra e abbiamo vinto ed è ridicolo che coloro che di più hanno beneficiato della guerra, in stipendi, in voti, in onori, siano proprio coloro che sputano oggi su questa guerra e su questa vittoria. Ad ogni modo io penso, e questa vostra adunata me ne fa testimonianza solenne, che l'ora della riscossa del valore nazionale è spuntata. C'è da una parte un vasto mondo che brulica, ma c'è anche un mondo che non è immemore che non è ignorante. (Applausi vivissimi.)

Mentre partivo da Milano, mi giungeva da Cupra Marittima, un piccolo paese dell'Italia centrale, un invito del sindaco che mi chiamava a commemorare i caduti in guerra. Non ho accettato perché i discorsi mi pesano. Ma questo episodio, come il pellegrinaggio dell'Ortigara, il pellegrinaggio sul Grappa, il pellegrinaggio del 24 Ottobre sulle pietraie del Carso, vi dice che i valori ideali e morali non sono ancora tutti perduti e stanno anzi risorgendo. Noi vogliamo aiutare questa rinascita di valori spirituali e morali e vogliamo aiutarla colle opere scritte e fatte.

Ieri ebbi un minuto di viva commozione passando l'Isonzo. Tutte le volte che ho passato quel fiume con lo zaino sulle spalle, mi sono chinato a bere quell'acqua cristallina e limpida. Se non avessimo varcato quel fiume, oggi il tricolore non sarebbe su San Giusto.

Qui è il significato vero e proprio della guerra. Orbene, se il tricolore è issato su San Giusto, vi è issato perché 20 anni fa un triestino fu il precursore di questa gesta; vi è issato anche perché nel 1915 i battaglioni italiani si precipitarono sui reticolati austriaci; ed a questa gesta tutta l'Italia ha preso parte, dagli alpini delle montagne di Piemonte, di Lombardia, del Friuli, alle fanterie magnifiche dell'Abruzzo, delle Puglie, della Sicilia ed ai soldati dell'isola generosa e ferrigna, della Sardegna dimenticata anche troppo dal Governo italiano. E quei generosi figli non si sono ancora levati in rappresaglie contro i demagoghi dell'Italia, perché sono ancora sempre pronti a compiere il loro dovere.

Triestini ! Il tricolore di San Giusto è sacro: il tricolore sul Nevoso è sacro; ancora più sacro è il tricolore sulle Dinariche. Il tricolore sarà protetto dai nostri eroici morti: ma giuriamo insieme che sarà difeso anche dai vivi ! (Calda e lunga ovazione.)

Aryan
15-08-04, 02:13
Secondo Discorso Di Trieste
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Ancora una volta il Duce sceglieva Trieste redenta per esporre in ampia sintesi la posizione del Fascismo di fronte agli assillanti problemi di politica estera. Questo discorso fu pronunciato al Politeama Rossetti di Trieste, il 6 Febbraio 1921. La citazione che chiude il discorso è presa dall'Eneide, canto I, v. 287.
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Per delineare quali direttive debba seguire la politica estera dell'Italia, nell'immediato e mediato futuro, è opportuno gettare, preliminarmente, uno sguardo d'insieme, sulla situazione mondiale, sulle forze e correnti che vi agiscono e prospettare quali possano esserne gli sbocchi e i risultati. Tutti gli Stati del mondo si trovano fra di loro in un rapporto fatale d'interdipendenza, il periodo della splendide isolation è passato per tutti. Si può ben dire che colla guerra e dalla guerra, la storia del genere umano ha acquistato un ritmo mondiale. Mentre l'Europa dissanguata, stenta a ritrovare il suo equilibrio, economico, politico e spirituale, già si annunciano, oltre i confini del vecchio continente, formidabili antitesi d'interessi. Alludo al conflitto fra Stati Uniti e Giappone i cui episodi recenti, che vanno dalla faccenda del "cavo" al "bill" contro l'immigrazione gialla in California, sono nella cronaca dei giornali. Il Giappone conta oggi 77 milioni di abitanti; gli Stati Uniti 110 milioni. Che la coscienza della inevitabilità di un urto fra questi due Stati esista, può trovarsi in questo particolare significantissimo: il libro che ha avuto ed ha a Tokio la maggiore diffusione in tutte le zone della popolazione, s'intitola: La nostra prossima guerra cogli Stati Uniti . Quella che si profila è la guerra dei continenti per un dominio del Pacifico. L'asse della civiltà mondiale tende a spostarsi. Fu, sino al 1500, nel Mediterraneo; dal 1492 in poi, scoperta dell'America, passò nell'Atlantico: da oggi, si annuncia il suo trapasso al più grande oceano del pianeta.

Dissi altra volta che ci avviciniamo al secolo "asiatico". Il Giappone è destinato a funzionare da fermento di tutto il mondo giallo, mentre non è detto che Isaac Rufus, diventato lord Reading e viceré delle Indie, riuscirà a salvare in quelle terre l'imperialismo britannico.

Spostandosi l'asse della civiltà da Londra a New York (che fa già 7 milioni di abitanti e sarà, fra poco, la più grande agglomerazione umana della terra) e dall'Atlantico al Pacifico, c'è chi prevede un graduale decadimento economico e spirituale della nostra vecchia Europa, del nostro continente piccolo e meraviglioso, che è stato, sino ad ieri, guida e luce per tutte le genti. Assisteremo a questo oscurarsi ed eclissarsi del "ruolo" europeo nella storia del mondo?

A questa domanda inquietante e angosciosa rispondiamo: è possibile. La "vita" dell'Europa, specialmente nelle zone dell'Europa Centrale, è alla mercé degli americani. D'altra parte l'Europa ci presenta un panorama politico ed economico tormentatissimo, un groviglio spinoso di questioni nazionali e di questioni sociali e talvolta accade che il comunismo sia la maschera del nazionalismo e viceversa. Non sembra vicina realtà quella di una "unità" europea. Egoismi ed interessi di nazioni e di classi si accampano in fieri contrasti. La Russia non è più un enigma dal punto di vista economico. In Russia non c'è comunismo e nemmeno socialismo, ma una rivoluzione agraria a tipo democratico, piccolo-borghese. Rimane l'enigma dal punto di vista politico. Quale politica estera persegue in realtà la Russia? E' una politica di pace o di guerra? La varietà dei fatti a nostra conoscenza ci porta ad oscillare perennemente, fra l'una e l'altra ipotesi. In altri termini: sotto l'emblema falce e martello, si nasconde o non si nasconde il vecchio panslavismo, che, oggi sarebbe inoltre dominato da una ferrea necessità "rivoluzionaria" che è quella di allargare la rivoluzione nel resto d'Europa per salvare il Governo dei Soviet in Russia?

Se la Russia farà una politica di guerra la sorte degli Stati baltici (Lituania, Lettonia, Estonia) appare segnata. Incerto anche il destino della Polonia, che potrebbe essere schiacciata al muro ostile tedesco dell'eventuale straripare dei russi. Ci sono in quelle plaghe dell'Europa nord-orientale, punti di dissidio, fra gli Stati. C'è un dissidio polacco-lituano-russo a proposito di Wilna 263.000 polacchi, 118.000 lituani, 8.000 bianco-ruteni, 83.000 israeliti. Le stesse cifre proporzionalmente si hanno per Grodno. Quanto all'Alta Slesia che tiene agitatissimo il mondo tedesco e quello polacco, le statistiche tedesche danno queste cifre: 1.348.000 polacchi; 588.000 tedeschi. L'Alta Slesia è, dunque, polacca, ma il suo destino sarà deciso dal plebiscito convocato pel 15 Marzo.

La grande guerra si è conclusa con sei, finora, trattati di pace: Versailles, S. Germano, Trianon, Neuilly, Sevres, Rapallo. Nessuno di questi trattati, ha accontentato in tutto i vincitori: nessuno di questi trattati, nemmeno quello di Rapallo, che si volle definire un trionfo delle negoziazioni amichevoli e pacifiche, è stato accettato dai vinti. Ognuno di questi trattati ha dei punti controversi o di difficile realizzazione. Per quello che riguarda il "trattatissimo" di Versailles, è in piedi, proprio in questo momento, la grossa questione dell'indennità che la Germania dovrebbe pagare: è una cifra che dà le vertigini. L'ultima parola non è stata ancora detta. Tutto quello che si fa, specie dai diplomatici, è un definitivo che ha sempre un ironico carattere di provvisorio. I tedeschi che hanno realizzato l"union sacrèe" del non pagare, annunciano che faranno delle controproposte e se ne parlerà a Londra, presenti gli stessi tedeschi, fra qualche settimana. La nostra opinione è che se i tedeschi possono pagare, devono, sino al grado della loro possibilità, pagare. I "tecnici" stabiliscano questa loro possibilità. Non bisogna dimenticare, prima di abbandonarsi a compiangere i tedeschi, che se vincevano, la indennità che noi avremmo dovuto pagare, era già stata fissata in 500 miliardi d'oro; che i tedeschi hanno scatenato la guerra e che il primo irredentismo inscenato dai tedeschi è diretto contro l'Italia, per la loro minoranza calata abusivamente nell'Alto Adige.

Dal trattato di S. Germano è uscita l'attuale repubblica austriaca. Può vivere così com'è formata? Generalmente si opina di no. Rimane l'ipotesi di una confederazione danubiana sull'asse Vienna-Budapest ma la "Piccola Intesa", composta dagli eredi, vigila a che non si ritorni, sotto una forma o l'altra, all'antico.

Noi pensiamo che, per forza di cose, a una Confederazione economica danubiana, presto o tardi, ci si arriverà e allora le condizioni dell'Austria e in particolar modo quelle di Vienna, ne verrebbero migliorate sino ad attenuare il movimento annessionistico pro-Germania. Dal punto di vista della giustizia, e quando ci fosse una manifesta e chiara volontà di popolo, l'Austria avrebbe diritto di "alienarsi" alla Germania. Questa ipotesi non ci può lasciare indifferenti, per via del confine al Brennero, questione di vita o di morte, per la sicurezza della valle padana. Un'Austria affamata ed elemosinante, non può scatenare un'irredentismo pericoloso contro di noi; unita alla Germania, la questione dell'Alto Adige si farebbe certissimamente più acuta. Quanto all'Ungheria essa può attendere una ragionevole revisione del Trattato che la mutilava da ogni parte. Bisogna però aggiungere che il capitolo "Fiume" è definitivamente sepolto nella storia ungherese. In tutto il mondo balcanico esistono focolai d'infezione di nuove guerre. Citiamo: Montenegro, Albania. Siamo per la indipendenza del primo e della seconda, se dimostrerà di saperla godere. Macedonia che è bulgara (1.181.000 bulgari, di fronte a 499.000 turchi ed a 228.000 greci). La Bulgaria ha diritto a un porto sull'Egeo. E' questo di un interesse capitale per l'espansione economica italiana in Bulgaria. Il trattato di Sèvres ha massacrato la Turchia per iperbolizzare la Grecia di Venizelos e di Costantino che ha dato alla guerra europea il sacrificio di ben 787 "euzoni". Pensiamo che per ciò che riguarda il Mediterraneo Orientale, l'Italia debba seguire una politica piuttosto turcofila.

A suo tempo, immediatamente dopo la firma del trattato, il Comitato Centrale dei Fasci diede il suo giudizio sul trattato di Rapallo, trovandolo "accettabile per il confine orientale, inaccettabile e deficiente per Fiume, insufficiente e da respingere per Zara e la Dalmazia". A tre mesi di distanza quel giudizio non appare smentito dagli avvenimenti successivi. Il trattato di Rapallo è un compromesso infelice, contro il quale sul Popolo furono elevate pagine di critica che è, ora, inutile riesumare. Si tratta di spiegare come l'Italia vittoriosa sia giunta a Rapallo. E la spiegazione non richiede eccessivi sforzi mentali. Siamo arrivati a Rapallo, come conseguenza logica della politica estera - fatta o impostaci - prima della guerra, durante la guerra e dopo la guerra. Per spiegare Rapallo, bisogna pensare agli alleati, due dei quali, essendo mediterranei per posizione geografica (Francia) o per interessi e colonie (Inghilterra) non possono vedere di buon occhio il sorgere dell'Italia in potenza mediterranea. onde si spiegano, in loro, lo zelo e tutte le manovre più o meno oblique con cui sono riuscite a creare nell'Adriatico Superiore e Inferiore, il contraltare marittimo - jugoslavo e greco - dell'Italia. Rapallo si spiega pensando a Wilson e ai suoi cosiddetti "experts"; alla mancanza assoluta di propaganda italiana all'estero; alla stanchezza mortale e perfettamente comprensibile della popolazione. Rapallo si spiega col convegno delle Nazionalità oppresse tenutosi nell'Aprile del 1918 a Roma e quel convegno si riattacca all'infausta pagina di Caporetto. Tutto si paga nella vita. Il 12 Novembre del 1920 abbiamo pagato a Rapallo la rotta del 24 Ottobre 1917. Senza Caporetto, niente Patto di Roma. In quel congresso i jugoslavi ci vendettero del fumo, poiché in realtà essi nulla, assolutamente nulla, fecero per disintegrare dall'interno la duplice monarchia, della quale furono fedelissimi servitori sino all'ultimo, con lealismo tradizionalmente croato. Non per niente, dopo il suo decesso, la monarchia d'Absburgo tentava regalare ai jugoslavi la sua flotta di guerra. Ma nell'Aprile del 1918 si creava - consenzienti tutte le correnti dell'opinione pubblica italiana, compresa la nostra e la nazionalista - l'irreparabile; si elevavano, cioè, al rango di alleati effettuali e potenziali i nostri peggiori nemici e si capisce, che a vittoria ottenuta, costoro non hanno accettato il ruolo dei vinti, ma hanno insistito sul loro ruolo di collaboratori e hanno rivendicato anche nei nostri confronti la relativa quota-parte del bottino comune. Dopo il Patto di Roma, non si poteva piantare il ginocchio sul petto alla Jugoslavia: questa la verità. Così è accaduto che il popolo italiano, stanco ed impoverito, snervato da due lunghi anni di inutili trattative, demoralizzato dalla politica di Cagoia e dalla tremenda ondata di disfattismo postbellico alla quale solo i Fasci hanno potentemente reagito, ha accettato o subito il trattato di Rapallo, senza manifestazioni di gioia o di rammarico. Pur di finirla, una buona volta, molta gente avrebbe trangugiato anche la linea terribile di Montemaggiore. Tutti i partiti, di tutte le gradazioni di destra o di sinistra, hanno accettato il trattato come un "meno peggio". Noi lo abbiamo subìto considerandolo soprattutto come una cosa effimera e transitoria (c'è mai stato nel mondo e specialmente sulle sabbie mobili della diplomazia qualche cosa di definitivo?) e, nell'intento di preparare tutte le forze affinché la prossima o lontana, ma fatale revisione, migliori il trattato e non lo peggiori; porti il nostro confine alle Dinariche, ma non porti mai più il confine jugoslavo all'Isonzo. La sorte toccata alla Dalmazia ci angoscia profondamente. Ma la colpa della rinuncia non è da attribuirsi tutta ai negoziatori dell'ultima ora: la rinuncia era già stata perpetrata nel Parlamento, nel giornalismo, nell'Università stessa, dove un professore ha stampato libri - naturalmente tradotti a Zagabria - per dimostrare - a modo suo - che la Dalmazia non è italiana !

La tragedia dalmata è in questa ignoranza, malafede e incomprensione, colpe alle quali speriamo di riparare colla nostra opera futura, intesa a far conoscere, amare e difendere la Dalmazia italiana.

Firmato il trattato, si poteva annullarlo con uno o l'altro di questi due mezzi: o la guerra all'esterno o la rivoluzione all'interno. L'una e l'altra assurde ! Non si fa scattare un popolo sulle piazze contro un trattato di pace, dopo cinque anni di calvario sanguinoso. Nessuno è capace di operare tale prodigio !

Si è potuta fare in Italia una rivoluzione per imporre l'intervento, ma nel Novembre 1920 non si poteva pensare a una rivoluzione per annullare un trattato di pace, che, buono o cattivo, era accettato dal 99 percento degli italiani ! Io non tengo, fra tutte le virtù possibili e pensabili, alla coerenza; ma testimoni esistono e documenti stenografici fanno fede, che, dopo Rapallo, io ho sempre dichiarato che due cose mi rifiutavo di fare contro il trattato: la guerra all'esterno e la guerra all'interno. Pensavo anche che era pericoloso imbottigliarsi in un'opposizione armata al trattato, rimanendo in un punto periferico della Nazione, come Fiume.

Due mesi di polemiche e note quotidiane dei mesi di Novembre e Dicembre, stanno a testimoniare trionfalmente la mia opera di solidarietà colla causa di Fiume e la mia aperta e recisa opposizione al Governo di Giolitti. Gran peccato che l'oblio cada così rapidamente sugli scritti di un quotidiano; né io ho l'abitudine melanconica di riesumare ciò che pubblico. Ma la realtà indistruttibile è che giorno per giorno ho battagliato perché il Governo di Roma riconoscesse quello di Fiume; perché al convegno di Rapallo fossero invitati i rappresentanti della Reggenza; perché da parte del Governo di Roma si evitasse ogni attacco armato contro Fiume. A Tragedia iniziata ho bollato come un enorme delitto l'attacco della vigilia di Natale e ho segnato all'indomani i "titoli d'infamia" del Governo di Giolitti e sempre ho esaltato lo spirito di giustizia, di libertà e di volontà che è lo spirito immortale della legione di Ronchi.

Accade per gli avvenimenti della storia, come talvolta a teatro: ci sono delle platee ringhiose che, avendo pagato il biglietto, pretendono che la rappresentazione, a qualunque costo, vada a termine. Così oggi in Italia incontrate due categorie d'individui: gli uni, tipo Malagodi e Papini, che rimproverano a D'Annunzio di essere sopravvissuto alla tragedia fiumana e altri che rimproverano a Mussolini di non aver fatto quella piccola cosa leggera, facile, graziosa, che si chiama una "rivoluzione". Io ho sempre disdegnato gli alibi vigliacchi, coi quali e pei quali, in Italia - deficienza, impotenza, rancori e miserie - ci si sfoga su teste di turco reali o immaginarie. I Fasci di Combattimento non hanno mai promesso di fare la rivoluzione in Italia, in caso di un attacco a Fiume, e specialmente dopo la defezione di Millo. Io poi, personalmente, non ho mai scritto o fatto sapere a D'Annunzio che la rivoluzione, in Italia, dipendeva dal mio capriccio. Non faccio bluff e non vendo del fumo. La rivoluzione non è una boite à surprise che scatta a piacere. Io non la porto in tasca e non la portano nemmeno coloro che del suo nome si riempiono la bocca rumorosamente e all'atto pratico non vanno oltre al tafferuglio di piazza, dopo la dimostrazioncella inconcludente, magari col provvidenziale arresto che salva da guai peggiori. Conosco la specie e gli uomini. Faccio la politica da vent'anni. A guerra iniziata fra Caviglia e Fiume, o c'era la possibilità di scatenare grandi cose o altrimenti, per un senso di pudore, bisognava evitare l'eccessivo vociare e le sparate fumose, dileguate subito senza traccia e senza sangue.

La storia raccolta di fatti lontani insegna poco agli uomini; ma la cronaca,storia che si fa sotto gli occhi nostri, dovrebbe essere più fortunata. Ora la cronaca ci dice che le rivoluzioni si fanno con l' esercito, non contro l'esercito; colle armi, non senza armi; con movimenti di reparti inquadrati, non con masse amorfe, chiamate a comizi di piazza. Riescono quando le circonda un alone di simpatia da parte della maggioranza; se no, gelano e falliscono. Ora, nella tragedia fiumana, esercito e marina non defezionarono. Certo rivoluzionarismo fiumano dell'ultima ora non si definiva; andava da taluni anarchici a taluni nazionalisti. Secondo taluni "emissari", si poteva mettere insieme il diavolo e l'acqua santa; la nazione e l'anti-nazione; Misiano e Delcroix. Ora io, dichiaro che respingo tutti i bolscevismi, ma qualora dovessi, per forza, sceglierne uno, prenderei quello di Mosca e di Lenin, non fosse altro perché ha proporzioni gigantesche, barbariche, universali. Quale rivoluzione allora? La nazionale o la bolscevica ? Una grande incertezza - complicata da tante cause minori - confondeva gli animi, mentre la nazione più che in un senso di rivolta per ciò che accadeva attorno a Fiume, si raccoglieva in un senso di dolore e una sola cosa auspicava: la localizzazione dell'episodio e la sua rapida, pacifica conclusione.

Delle due l'una, nel caso che ci fosse stata e non c'era assolutamente, dato il contegno delle forze armate di cui disponeva il governo, la possibilità di un moto insurrezionale da parte nostra: o la disfatta o la vittoria. Nel primo caso tutto sarebbe andato perduto irreparabilmente nel baratro di una inutile guerra civile. Facciamo pure per amore di polemica, la seconda ipotesi; l'ipotesi della vittoria colla caduta del governo e del regime. E nel secondo tempo? Dopo la più o meno facile demolizione, quale direzione avrebbe avuto la rivoluzione? Sociale, come volevano taluni bolscevizzanti - quelli della formula "sempre più a sinistra", equivalente della grottesca "corsa al più rosso" - o nazionale e dalmatica e reazionaria come la volevano altri?

Non possibilità di conciliazione fra le due correnti. Per una rivoluzione socialoide, che significato avrebbero potuto avere ancora le questioni territoriali e precisamente dalmatiche? Nell'altro caso di una rivoluzione nazionale, contro il trattato di Rapallo, il tutto si sarebbe limitato ad un annullamento formale del trattato e a una sostituzione di uomini, per poi addivenire a un altro trattato, in un'altra Rapallo qualsiasi, poiché un giorno o l'altro, la nazione avrebbe dovuto finalmente avere la sua pace. Non si sanava un episodio di guerra civile, scatenando più ampia guerra, in un momento come quello che si attraversava, e nessuno è capace di prolungare e di creare artificiosamente situazioni storiche conchiuse e superate. A chi sa elevarsi al disopra delle meschine passioni e sa trarre una sintesi del vario cozzare degli elementi, e scernere il grano puro dal loglio equivoco, è concesso il privilegio dell'anticipazione sul Natale fiumano che può essere chiamato il punto d'incrocio tragico fra la ragione di Stato e la ragione dell'Ideale; il convegno terminale di tutte le nostre deficienze e di tutte le nostre grandezze !

Il primo è quello di Fiume. Non sentiamo il bisogno di accumulare frasi per ripetere la nostra solidarietà colla città olocausta. Abbiamo dato, proprio in questi giorni, le prove più tangibili della nostra solidarietà al Fascio Fiumano di Combattimento, per rimetterlo in condizioni tali da impegnare la lotta contro la croataglia che ritorna a farsi viva. L'azione dei fascisti deve tendere a realizzare, per il momento, l'annessione economica di Fiume all'Italia. Sollecitare governo e privati. Nello stesso tempo mantenere con ogni mezzo la fiamma dell'italianità, in modo che all'annessione economica si passi in breve a quella politica. A ciò si arriverà, malgrado tutto. Tutta la solidarietà fascista, nazionale e governativa dev'essere concentrata su Zara, in modo che la piccola città possa adempiere al suo delicato e grandioso compito storico. Tutela efficace degli italiani rimasti negli altri

centri della Dalmazia. Niente collegio separato per gli slavi in Istria o per i tedeschi nell'Alto Adige. Non si può creare un precedente siffatto che ci porterebbe molto lontano. I francesi della Val d'Aosta, che sono, in realtà, ottimi italiani, non hanno collegio speciale o altri privilegi del genere. Questa duplice circoscrizione sarebbe un errore gravissimo. Tocca ai fascisti del Trentino e di Trieste, impedire a qualunque costo che si compia.

Gli orientamenti stabiliti l'anno scorso - nell'adunata del Maggio a Milano - non sono invecchiati o sorpassati.

Il Fascismo gode fama di essere "imperialista".Quest'accusa fa il paio coll'altra di "reazionarismo". Il Fascismo è anti-rinunciatario quando "rinunciare" significa umiliarsi e diminuirsi. A paragrafi:

Il Fascismo non crede alle Internazionali rosse che muoiono, si riproducono, si moltiplicano, tornano a morire. Si tratta di costruzioni artificiali e formalistiche, che raccolgono piccole minoranze, in confronto alle masse di popolazioni che vivendo, movendosi e progredendo o regredendo, finiscono per determinare quegli spostamenti di interesse, davanti ai quali vanno a pezzi le costruzioni internazionalistiche di prima, seconda, terza maniera.
Il Fascismo non crede alla immediata possibilità del disarmo universale.
Il Fascismo pensa che l'Italia debba fare, nell'attuale periodo storico, una politica europea di equilibrio e di conciliazione fra le diverse Potenze.

Da queste premesse generali consegue che i Fasci Italiani di Combattimento chiedono:

che i Trattati di pace siano riveduti e modificati in quelle parti che si appalesano inapplicabili o la cui applicazione può essere fonte di odi formidabili e fomite di nuove guerre;
L'annessione economica di Fiume all'Italia e la tutela degli italiani residenti nelle terre dalmatiche;
Lo svincolamento graduale dell'Italia dal gruppo delle nazioni plutocratiche occidentali attraverso lo sviluppo delle nostre forze produttive interne;
Il riavvicinamento alle nazioni nemiche - Austria, Germania, Bulgaria, Turchia, Ungheria - ma con atteggiamento di dignità, e tenendo fermo alle necessità supreme dei nostri confini settentrionali e orientali;
Creazione e intensificazione di relazioni amichevoli con tutti i popoli dell'Oriente, non esclusi quelli governati dai "Soviety" e del Sud-Oriente europeo;
rivendicazioni, nei riguardi coloniali dei diritti e delle necessità della nazione;
Svecchiamento e rinnovamento di tutte le nostre rappresentanze diplomatiche con elementi usciti da facoltà speciali universitari;
Valorizzazione delle colonie italiane del Mediterraneo e di oltre Atlantico con istituzioni economiche e culturali e con rapide comunicazioni.

Ho una fede illimitata nell'avvenire di grandezza del popolo italiano. Il nostro è, fra i popoli europei, il più numeroso e il più omogeneo. E' destino che il Mediterraneo torni nostro. E' destino che Roma torni ad essere la città direttrice della civiltà in tutto l'Occidente d'Europa. Innalziamo la bandiera dell'impero, del nostro imperialismo che non deve essere confuso con quello di marca prussiana o inglese. Commettiamo alle nuove generazioni che sorgono la fiamma di questa passione: fare dell'Italia una delle nazioni senza le quali è impossibile concepire la storia futura dell'Umanità.

Respingiamo tutte le stolide obiezioni dei sedentari che ci parlano di analfabetismo e di pellagra ed altro, quando si vede che mezzo secolo di "piede di casa" non ci ha guariti da questi che non sono né delitti, né vergogna. Al disopra dei pessimisti che vedono tutto grande in casa altrui e tutto piccolo in casa propria, dobbiamo avere l'orgoglio della nostra razza e della nostra storia. La guerra ha enormemente aumentato il prestigio morale dell'Italia. Si grida: "Viva l'Italia" nella lontana Lettonia e nella ancora più lontana Georgia. L'Italia è l'ala tricolore di Ferrarin, l'onda magnetica di Marconi, la bacchetta di Toscanini, il ritorno a Dante, nel sesto centenario della sua dipartita. Sogniamo e prepariamo - con l'alacre fatica di ogni giorno - l'Italia di domani, libera e ricca, sonante di cantieri, coi mari e i cieli popolati dalle sue flotte. con la terra ovunque fecondata dai suoi aratri. Possa il cittadino che verrà dire quel che Virgilio diceva di Roma: imperioum oceano, famam qui terminet astris: ponga i termini dell'Impero all'Oceano ma la sua fama si elevi alle stelle .

Mitteleuropeo
23-08-04, 11:59
Sembra di sentire Lippi, Menia, De' Vidovich, Sardos Albertini...
A parte qualche boiata pazzesca, tipo "gli Slavi invasori a casa nostra" (nell' italianissima Postojna, per esempio...) e lo stesso dicasi dei Sudtirolesi, il tutto suona ipocrita (il Fascismo e' contrario alla guerra, l' Italia doveva intervenire nella prima guerra mondiale a fianco dell' Intesa :confused: , l' Austria nei suoi confini attuali non puo' sopravvivere ;) ).

Meno male che la firma "Benito Mussolini" garantisce che queste balle non vengano credute.

Aryan
23-08-04, 21:10
l'Italia è una e indivisibile, il suo confine sacro passa sul crinale delle alpi giulie sino al monte Nevoso, e di qui al mare in linea retta incontrando il golfo del Carnaro tra Albona e Fiume. Cherso e Lussino sono italiane.

saluti

Mitteleuropeo
24-08-04, 10:46
In Origine Postato da Aryan
l'Italia è una e indivisibile, il suo confine sacro passa sul crinale delle alpi giulie sino al monte Nevoso, e di qui al mare in linea retta incontrando il golfo del Carnaro tra Albona e Fiume.

* Ho una carta davanti a me: il tuo "confine sacro" incontra il mare all' altezza di Laurana. Quindi secondo te Fiume e' croata e Postumia italiana. Mi dispiace, ma non condivido: semmai e' il contrario.

Saluti