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Malaparte
19-04-09, 18:37
Cosa intendete per "Impero"?
Che senso ha parlare di "Impero" oggi?

Logomaco
19-04-09, 19:00
Cosa intendete per "Impero"?
Che senso ha parlare di "Impero" oggi?


Per Impero in intendo un'organizzazione statale che, per fare esempi vicini a noi, sia omologa a quello romano, "bizantino" e a quello russo, specie pre-pietrino.

Oggi non ha molto senso, secondo me, perchè ormai la decadenza è arrivata a tal punto che un'organismo politico del genere in concreto non potrebbe più funzionare.

Combat
19-04-09, 21:18
La storia ed i modelli servono per meglio orizzontarci, per meglio capire da che parte è bene andare...

Malaparte
19-04-09, 21:54
La storia ed i modelli servono per meglio orizzontarci, per meglio capire da che parte è bene andare...

Vorresti spiegarti meglio, caro il mio taglialegna? :446:

Anton Hanga
19-04-09, 22:16
Siccome nel vecchio forum c'era una discussione praticamente identica inserisco qui gli interventi piu' significativi, tanto per fornire un po' di materiale utile:

"Spesso i nostri interlocutori e avversari politici, al pronunciare della sola parola "Impero", inorridiscono, altri tendono a irrederci, perchè sa di vecchiume, di reazionario ecc. L'idea di Impero, strettamente connessa a quella di Kontinentalblock, è il mito che noi inseguiamo, perchè è parte della nostra civiltà, da Alessandro Magno, a Federico II, a Gengis khan, sino all'ultimo tentativo di integrazione euroasiatica dell'Unione Sovietica. Perchè riteniamo l'Impero l'unica forma di organizzazione politica in grado di tutelare/preservare nazioni ed etnie differenti e garantire il bonum commune, superando definitivamente il capitalismo e instaurando un ordine pacifico. Impero non significa "tornare al medioevo", immaginando una inversione del genere umano a epoche superate, dove la struttura socio-economica era molto diversa e la gestione del potere politico non era dominata dal ceto borghese. Significa superare il capitalismo con forme di gestione economica di tipo socialista e comunitario (che ogni nazione stabilirà a seconda dei propri usi e costumi) ma nel quadro di una organizzazione politica il cui vertice non sarà più situato nello stato-nazione, ma in un unico centro e non governato da un Partito (la cui radice è "Pars" ossia la sola parte), ma da una élite che rappresenti tutte le sue popolazioni.
Il cosiddetto "Impero americano", è l'esatto opposto di ciò che sosteniamo, perchè la sua natura (di potenza marittima) è sostanzialmente diversa. Si regge sul disordine o caos, tende a destabilizzare l'ordine internazionale, a fomentare le guerre etniche, a porre in primo piano la sopravvivenza dell'inesistente nazione americana depredando in maniera piratesca le materie prime e tutte le risorse della Terra. Sono due idee completamente differenti di Impero (la seconda sarebbe più corretto definirla Imperialismo), inconfondibili."

Anton Hanga
19-04-09, 22:17
Claudio Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, Genova, Effepi 2005, pp. 130.


Questa raccolta di saggi di Claudio Mutti è particolarmente raccomandata a coloro che hanno le idee un po’ confuse su ciò che nella sostanza dev’essere un Impero. Se, difatti, esso svolge essenzialmente una funzione equilibratrice - a tutti i livelli - nello spazio che lo delimita, non si può certo pensare che un Impero si estenda solo su popolazioni accomunate da un’unica visione del mondo o religione. Comune, sarà, invece, la visione spirituale traducentesi in una comune scala di valori, ma variamente espressa dalle popolazioni dell’Impero.
L’Eurasia, che è teatro delle vicende storiche e metastoriche trattate dallo studioso parmense, è, com’ebbe a dire Giuseppe Tucci, caratterizzata da una essenziale “unità spirituale”. Ma per svolgere la sua funzione equilibratrice, l’Impero deve appunto estendersi su tutto il continente eurasiatico, e per tal via viene a risolversi tutta una serie di dicotomie frutto di un autentico dis-ordine, quali la conflittualità tra autorità spirituale e potere temporale, tra “Oriente” e “Occidente”. Le contraffazioni dell’idea di Impero, al contrario, mirano a procrastinare quella che si profila come un’autentica lacerazione nell’Ordine principiale della manifestazione, con tutte le conseguenze nefaste che ne conseguono.
I personaggi che qui vengono presi in esame realizzarono entità geopolitiche autenticamente imperiali, o tentarono di realizzarle: Giuliano Imperatore, Attila, Alessandro il Grande, Federico II, Mehmet II.
Il primo, qualificato da una storiografia partigiana come “l’apostata”, promosse un enoteismo solare in grado di fungere da antidoto contro le tendenze esclusiviste dei seguaci dei culti semitici, della cui tradizione tuttavia l’Imperatore non disconosceva la legittimità, tanto che del dio dei Giudei egli riconosceva la “potenza”; ai cristiani, invece, Giuliano contestava di essersi allontanati dalla loro tradizione, e particolarmente interessanti sono i passi dedicati al Kulturkampf rivolto contro quelli fra costoro che disprezzavano la visione religiosa degli antichi: “Chi crede una cosa e ne insegna un’altra, si comporta in maniera sleale e disonesta” (dalla circolare De professoribus, p. 30).
Nel capitolo dedicato ad Attila – Flagellum dei, Servus Dei – vengono svolte interessanti considerazioni sul significato dell’azione guerriera, ed opportunamente si sfata il trito luogo comune della “barbarie orientale”.
Alessandro presenta poi particolari agganci con la tradizione islamica: l’esegesi lo identifica col Dhû l-Qarnayn coranico, ma il macedone, nel suo spingersi alle estremità dell’Oriente e dell’Occidente, è anche colui che ha realizzato quelli che il tasawwuf (l’esoterismo islamico) chiama inbisât (ampiezza) e ‘urûj (esaltazione), il che lo pone sul piano del Profeta dell’Islâm, protagonista dell’isrâ’ (viaggio notturno – ‘orizzontale’ - al Tempio ultimo) e del mi‘râj (ascesa fino al punto più prossimo a Dio raggiungibile da un essere umano). Si capisce così che il vero imperatore è sia Rex che Pontifex, ed in ciò equivale al califfo dell’Islâm, che è amîr (comandante: funzione regale) e imâm (direttore della preghiera: funzione sacerdotale).
L’istituzione del califfato fu d’altra parte il modello del grande Hohenstaufen, il quale “attribuiva all’Impero non soltanto un’origine divina, m anche uno scopo supremo: la salvezza stessa degli uomini” (p. 82). Secondo Claudio Mutti, dopo l’estensione della sua autorità anche su Gerusalemme (1229), “l’Impero federiciano sembra dunque recuperare, anche se in una misura poco più che simbolica, quella dimensione mediterranea ed eurasiatica che caratterizzò le grandi sintesi imperiali a partire dall’epoca di Alessandro Magno” (p. 89).
A sottolineare il fatto che l’Imperium è una categoria dello spirito, e pertanto non è esclusiva prerogativa di una razza, etnia o religione, l’Autore prende in esame il caso del sultano ottomano Mehmet II (“il Conquistatore”). Nel saggio significativamente intitolato Roma dopo Roma viene esaminato il trapasso di autorità e di poteri che trasferiva agli Ottomani l’eredità dei Cesari bizantini dopo la presa di Costantinopoli nel 1453. Coscienti del significato di tale evento – ovvero il possesso della sede dell’Impero - gli ottomani si qualificarono come unici imperatori “romani” (Qaysar-i Rûm), negando il titolo ai loro avversari; secondo Giorgio Trapezunzio (1466), “imperatore è colui che a giusto titolo possiede la sede dell’Impero, e la sede dell’Impero Romano è Costantinopoli. Chi dunque possiede di diritto Costantinopoli è imperatore” (cit. da p. 106).
In poche ma efficaci pagine, l’Autore ben illustra come la conquista ottomana di Costantinopoli si configurò come l’unica possibilità di sopravvivenza per una civiltà millenaria, ed “in tal modo, il cristianesimo orientale poté vivere per secoli in un clima favorevole, al riparo delle correnti devastatrici della modernità, sicché la cultura bizantina poté continuare a fiorire, dopo il 1453, entro i confini dell’«Impero romano turco-musulmano»” (p. 114).
Questo libro, edito da una piccola casa editrice, può essere reperito celermente scrivendo a Effepi Edizioni, Via Balbi Povera, 7 – 06149 Genova, oppure inviando un e-mail a effepiedizioni@hotmail.com. (E.G.)


Tiberio Graziani,
Prefazione a: Claudio Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea d’impero, Edizioni Effepi, Genova 2005

Anton Hanga
19-04-09, 22:18
L’impero è, secondo la generalità degli studiosi di scienze politiche ed in particolare di quelli di geopolitica, una costruzione politica di difficile e complessa definizione. I tratti del “più grande corpo politico conosciuto dall’uomo” che maggiormente colpiscono l’osservatore sono, senza dubbio, quelli relativi alle sue caratteristiche fisiche; in primo luogo la grande estensione territoriale (il gigantismo imperiale), la varietà dei climi e l’eterogeneità del paesaggio geografico. Ulteriori segni distintivi che contribuiscono a definire la fisionomia dell’impero, quale unità geopolitica, sono la plurietnicità, l’autosufficienza economica ed un potere politico e militare coeso.
I caratteri sopra riportati, tuttavia, non riescono a descrivere pienamente l’impero. Infatti esistono nazioni, stati federati o confederazioni di stati che pur presentando questi stessi elementi, impero non sono. A tal riguardo Philippe Richardot, nel suo Les grands Empires. Histoire et géopolitique , riporta il caso del Brasile, del Canada e dell’Unione indiana, cui potremmo aggiungere quello degli Stati Uniti d’America, della Russia e in una certa misura anche quello della Confederazione degli Stati Indipendenti. Questi moderni sistemi politici si estendono su ampie superfici, sono plurietnici, posseggono le condizioni per essere economicamente autosufficienti, ma certamente non sono classificabili, oggi, come imperi. Condividono però con l’impero simili problemi strategici, in particolare quelli connessi con la difesa delle frontiere e la diluizione della potenza militare.
Se dal piano meramente descrittivo si passa a quello più speculativo, analitico, cercando di individuare la dinamica che anima e sostiene questa particolare unità geopolitica, anche il modello oggi accademicamente più accreditato, quello espresso dalle coppie “centro-periferia” e “dominatori-dominati” , che il Richardot giudica determinista, ma seducente per la sua forza semplificatrice, non sembra essere appropriato per dare una definizione o spiegazione dell’impero. I casi riportati dal già citato Richardot che rendono inefficace l’applicazione di questo modello, relativamente alla comprensione dell’impero, sono quelli classici dell’Impero di Alessandro Magno, dell’Impero romano e di quello russo. L’Impero di Alessandro sopravvive alla morte del suo fondatore, spostando il suo centro nell’Egitto dei Tolomei, dunque in una regione periferica dell’edificio realizzato dal Macedone; Roma, a partire dal III secolo d. C., non ha più una sede centrale certa, ma itinerante. Infatti, come osserva Richardot, dal 284 al 305 non c’è più centro né periferia, essendo l’Impero decentralizzato in quattro regioni militari. In seguito Bisanzio, ribattezzata nel 330 Costantinopoli, diventa la seconda capitale dell’Impero, fino a tramutarsi, nel 1453, da città periferica dell’antico impero romano in centro d’irradiazione del sistema imperiale ottomano.
Un altro caso in cui il modello “centro-periferia” non ci aiuta nella comprensione della costruzione e nel mantenimento dell’ecumene imperiale è fornito dall’impero russo, sia che la sua origine venga fatta risalire alla Rus’ di Kiev, la capitale della odierna Ucraina, che propriamente significa Marca, cioè… periferia, sia che esso venga presentato come un lascito dell’antico impero “nomade” di Gengis Khan .
L’impero non è dunque definibile per il suo gigantismo territoriale, né per la eterogeneità etnica e culturale, né per un centro geografico definito e la sua correlata periferia. La definizione di tale entità geopolitica va trovata, quindi, altrove. Il termine latino imperium esprime l’esercizio dell’autorità di un capo militare, ma l’impero, quale entità geopolitica concreta, sebbene fondi, nella generalità dei casi, il proprio potere sul ceto militare, non sempre segue logiche militari o esclusivamente di potenza, come sostenuto, nella prima metà dell’Ottocento, da Leopold von Ranke (Die Grossen Machte).
Ciò che contraddistingue e qualifica l’impero rispetto alle altre costruzioni politiche, o più precisamente geopolitiche, sembra essere invece la funzione equilibratrice che esso tende ad esercitare nello spazio che lo delimita.
Ogni costruzione imperiale persegue infatti l’obiettivo di regolare i rapporti tra le nazioni, i popoli e le etnie che concretamente la costituiscono, in modo tale che le singole particolarità e specificità non siano compromesse l’una a discapito dell’altra, ma al contrario siano salvaguardate e “protette”, in particolare laddove le modeste dimensioni o la scarsa forza militare o economica di una data specificità pongano la stessa in condizioni tali da essere fagocitata e distrutta dai suoi nemici. L’impero assolve tale compito in uno spazio circoscritto e continuo, e la continuità spaziale è certamente un suo tratto distintivo.
La funzione regolatrice assolta dall’impero trova la propria ragion d’essere, oltre che nella coscienza del comune spazio abitato, soprattutto nella comune visione spirituale, seppur variamente intesa ed espressa nelle culture delle differenti popolazioni dell’impero. Ogni edificio imperiale infatti esprime una unità spirituale che, pur veicolata secondo forme particolari, fa sempre riferimento ad un unico sistema di valori. Ad esempio, il macedone Alessandro che si proclama Re dei Re ed erede dell’impero persiano degli Achemenidi, o il Sultano Mehmet II che, appena conquistata Costantinopoli, si fregia del titolo di Qaysar-i Rum, Cesare romano, testimoniano per questo unico sistema di valori di cui ora essi sono i protettori, i garanti e, soprattutto, i continuatori.
È proprio a tale unità spirituale, espressa storicamente nella realizzazione di entità geopolitiche imperiali o nella tendenza a costituirle, che i saggi di Claudio Mutti qui raccolti rivolgono la loro attenzione. Una unità che le varie scuole storiografiche razionalistiche hanno contribuito a celare e frammentare a seconda del riduzionismo, generalmente di radice illuministica, che le ha contraddistinte.
In particolare, quel che viene messo in evidenza nei vari saggi di Mutti è la continuità del mito (o idea) dell’Impero nelle vicende dello spazio eurasiatico, continuità assicurata nella realtà storica da protagonisti di diversa cultura o etnia e dalla loro esplicita volontà di unificare l’Oriente e l’Occidente, cioè l’Asia e l’Europa, quasi volessero, con tale affermazione eroica, rivendicare una unità che il divenire storico (l’entropia o il disordine della manifestazione storica) aveva lacerato. Parallelamente alla funzione regolatrice ed in conformità con essa, l’Impero ne esplica dunque anche un’altra, che potremmo definire “religiosa” nel suo significato etimologico e più profondo: quella che appunto consiste nel “riunire” entro il limes di uno stesso spazio quelle componenti, materiali e spirituali, che contribuiscono a qualificarlo come una coerente, armonica ed organica unità geopolitica. Da questa prospettiva la fase “espansiva” dell’Impero, lungi dal ridursi ad un mero espansionismo territoriale, motivato soltanto dalle preoccupazioni materiali connesse ad ogni politica di potenza, riproduce sul piano storico una necessità d’ordine metafisico, dottrinale, cioè il riassorbimento in un ordine superiore, in questo caso generalmente sopranazionale, delle incomplete, separate ed antagoniste realtà geopolitiche. La realizzazione storica dell’edificio imperiale è pertanto la riproposizione, nel dominio politico-sociale, del kosmos in opposizione al chaos del divenire storico.
L’impero, quindi, oltre ad essere “il più grande corpo politico conosciuto dall’uomo” è, essenzialmente, la più alta sintesi geopolitica conosciuta dall’umanità intera.
La continuità dell’idea dell’Impero e la sottesa unità spirituale, che Mutti sottolinea con scrupolosità scientifica, ora trattando della funzione storica e metastorica di figure imperiali quali quelle di Giuliano l’”Imperatore”, di Federico “il Sultano battezzato” o di Attila “il Servo di Dio”, ora evidenziando il significato politico e culturale dell‘Impero “romano turco-musulmano”, ora rilevando nel linguaggio simbolico dell’Antelami temi e argomenti che, in ambiti culturali lontani, ripropongono lo stesso sistema di valori, rafforzano – sul piano della storia interpretata come tentativo di realizzare unità imperiali - l’ipotesi già enunciata nel secolo scorso dal tibetologo Giuseppe Tucci in relazione alla scoperta dell’“unità spirituale eurasiatica”: sintagma che esprime, in parte, ciò che in termini tradizionali è meglio traducibile come “unità essenziale delle tradizioni”. Anche un etnologo ed antropologo di scuola sociologica come Marcel Mauss riconosceva d’altronde, ed è significativo che a ricordarcelo sia un geopolitico, il francese François Thual, che “dalla Corea alla Bretagna esiste una unica storia, quella del continente eurasiatico” . Questa unica storia che si dipana nel paesaggio eurasiatico è la storia antica ed attuale degli sforzi imperiali per unificare il continente.
In chiusura di un testo che non compare in questa raccolta, ma che ne sarebbe un utile e prezioso corollario, il nostro Autore, a proposito di Alessandro il Bicorne, unificatore dell’Europa e dell’Asia, campione dell’idea imperiale, e dunque, potremmo dire, eurasiatista ante litteram, scrive: “la sua figura si colloca sullo sfondo dello spazio eurasiatico, che costituisce non solo lo scenario storico, ma la proiezione spaziale stessa corrispondente all’idea di Impero”.
Unità spirituale eurasiatica e idea dell’Impero sono dunque indissolubilmente legate; un legame che Imperium di Mutti ha il lodevole merito di riproporre alla nostra attenzione, in un momento storico particolare, quello che vede la nostra più grande patria, l’Eurasia, aggredita dalle potenze talassocratiche d’Oltreoceano. Certamente questo libro non passerà inosservato.

Tiberio Graziani

(Prefazione a: C. Mutti, Imperium. Epifanie dell'idea di Impero, Effepi, Genova)

Anton Hanga
19-04-09, 22:19
Imperium
L'idea imperiale come soluzione ai problemi del presente





L'Impero è, secondo la generalità degli studiosi di scienze politiche ed in particolare di quelli di geopolitica, una costruzione politica di difficile e complessa definizione. I tratti del più grande corpo politico conosciuto dall'uomo che maggiormente colpiscono l'osservatore sono, senza dubbio, quelli relativi alle sue caratteristiche fisiche; in primo luogo la grande estensione territoriale (il gigantismo imperiale), la varietà dei climi e l'eterogeneità del paesaggio geografico. Ulteriori segni distintivi che contribuiscono a definire la fisionomia dell'Impero, quale unità geopolitica, sono la plurietnicità, l'autosufficienza economica ed un potere politico e militare coeso.

I caratteri sopra riportati, tuttavia, non riescono a descrivere pienamente l'Impero. Infatti esistono nazioni, stati federati o confederazioni di stati che pur presentando questi stessi elementi, Impero non sono. A tal riguardo Philippe Richardot, nel suo "Les grands Empires. Histoire et géopolitique", riporta il caso del Brasile, del Canada e dell'Unione indiana, cui potremmo aggiungere quello degli Stati Uniti d'America, della Russia e in una certa misura anche quello della Confederazione degli Stati Indipendenti. Questi moderni sistemi politici si estendono su ampie superfici, sono plurietnici, posseggono le condizioni per essere economicamente autosufficienti, ma certamente non sono classificabili, oggi, come imperi. Condividono però con l'Impero simili problemi strategici, in particolare quelli connessi con la difesa delle frontiere e la diluizione della potenza militare.

Se dal piano meramente descrittivo si passa a quello più speculativo, analitico, cercando di individuare la dinamica che anima e sostiene questa particolare unità geopolitica, anche il modello oggi accademicamente più accreditato, quello espresso dalle coppie centro-periferia e dominatori-dominati, che il Richardot giudica determinista, ma seducente per la sua forza semplificatrice, non sembra essere appropriato per dare una definizione o spiegazione dell'Impero. I casi riportati dal già citato Richardot che rendono inefficace l'applicazione di questo modello, relativamente alla comprensione dell'Impero, sono quelli classici dell'Impero di Alessandro Magno, dell'Impero romano e di quello russo. L'Impero di Alessandro sopravvive alla morte del suo fondatore, spostando il suo centro nell'Egitto dei Tolomei, dunque in una regione periferica dell'edificio realizzato dal Macedone; Roma, a partire dal III secolo d. C., non ha più una sede centrale certa, ma itinerante. Infatti, come osserva Richardot, dal 284 al 305 non c'è più centro né periferia, essendo l'Impero decentralizzato in quattro regioni militari. In seguito Bisanzio, ribattezzata nel 330 Costantinopoli, diventa la seconda capitale dell'Impero, fino a tramutarsi, nel 1453, da città periferica dell'antico Impero Romano in centro d'irradiazione del sistema imperiale ottomano.

Un altro caso in cui il modello centro-periferia non ci aiuta nella comprensione della costruzione e nel mantenimento dell'ecumene imperiale è fornito dall'Impero Russo, sia che la sua origine venga fatta risalire alla Rus di Kiev, la capitale della odierna Ucraina, che propriamente significa Marca, cioè... periferia, sia che esso venga presentato come un lascito dell'antico impero nomade di Gengis Khan.

L'Impero non è dunque definibile per il suo gigantismo territoriale, né per la eterogeneità etnica e culturale, né per un centro geografico definito e la sua correlata periferia. La definizione di tale entità geopolitica va trovata, quindi, altrove. Il termine latino Imperium esprime l'esercizio dell'autorità di un capo militare, ma l'Impero, quale entità geopolitica concreta, sebbene fondi, nella generalità dei casi, il proprio potere sul ceto militare, non sempre segue logiche militari o esclusivamente di potenza, come sostenuto, nella prima metà dell'Ottocento, da Leopold von Ranke (Die Grossen Machte).

Ciò che contraddistingue e qualifica l'Impero rispetto alle altre costruzioni politiche, o più precisamente geopolitiche, sembra essere invece la funzione equilibratrice che esso tende ad esercitare nello spazio che lo delimita.

Ogni costruzione imperiale persegue infatti l'obiettivo di regolare i rapporti tra le nazioni, i popoli e le etnie che concretamente la costituiscono, in modo tale che le singole particolarità e specificità non siano compromesse l'una a discapito dell'altra, ma al contrario siano salvaguardate e protette, in particolare laddove le modeste dimensioni o la scarsa forza militare o economica di una data specificità pongano la stessa in condizioni tali da essere fagocitata e distrutta dai suoi nemici. L'impero assolve tale compito in uno spazio circoscritto e continuo, e la continuità spaziale è certamente un suo tratto distintivo.

La funzione regolatrice assolta dall'Impero trova la propria ragion d'essere, oltre che nella coscienza del comune spazio abitato, soprattutto nella comune visione spirituale, seppur variamente intesa ed espressa nelle culture delle differenti popolazioni dell'Impero. Ogni edificio imperiale infatti esprime una unità spirituale che, pur veicolata secondo forme particolari, fa sempre riferimento ad un unico sistema di valori. Ad esempio, il macedone Alessandro che si proclama Re dei Re ed erede dell'impero persiano degli Achemenidi, o il Sultano Mehmet II che, appena conquistata Costantinopoli, si fregia del titolo di Qaysar-i Rum, Cesare romano, testimoniano per questo unico sistema di valori di cui ora essi sono i protettori, i garanti e, soprattutto, i continuatori.

La funzione dell'Impero quindi al dilà della semplice amministrazione di un territorio e si pone come forza pacificatrice tra le bellicosità che animano gli stati nazionali. Va, infatti, notato che il valore delle nazioni è negato geopoliticamente, cioè come capacità d'imprimere durevolmente il proprio marchio sul corso degli eventi. L'Impero non nega però la realtà della nazione, in quanto comunità etnicamente, culturalmente, linguisticamente e storicamente omogenea, generalmente regolata da medesime leggi e consuetudini, entro la quale ogni membro ha con l'altro un rapporto privilegiato. In questo senso, però, la nazione è una sorta di famiglia allargata, che non può - come successo in passato con certi nazionalismi - pregiudicare i rapporti con i membri di altre nazioni, che non può essere causa o pretesto di guerre e inimicizia, ma solo strumento nel quale il singolo coltiva in massimo modo la sua identità più autentica, quella collettiva. In breve, l'Impero rigetta la concezione di stato-nazione come sortito dalla Rivoluzione borghese (altrimenti detta Francese), blocco monolitico e chiuso verso l'esterno, nel quale si coltiva non l'amore per se stessi, ma l'odio per l'altro; rigetta categoricamente il termine del confine, della frontiera, come entità che divide, anziché unire, due nazioni. Il medesimo concetto di patria è artificioso, come già rilevava Platone: senza nulla togliere al valore intrinseco in esso, né alle azioni che in suo nome sono state compiute, resta appunto come la "patria" sia un concetto, ma non una realtà. In materia, capita a proposito la famosa massima di Julius Evola: "La mia patria è là dove si combatte per le mie Idee".

L'ideale "nazione" animò i cuori di molti giovani durante il XIX secolo, l'epoca appunto durante la quale sorsero le realtà di "stati-nazione" (già comunque nascoste nelle pieghe della storia di tempi precedenti: si pensi ad esempio alla monarchia nazionale francese in lotta con l'Impero). Eppure, già nel '900 la nazione mostra tutti i suoi limiti: i grandi attori di questo secolo sono state, invece, le ideologie, e dunque gli "imperi" che se ne fecero interpreti: il Terzo Reich per il Nazionalsocialismo, l'Unione Sovietica per il Comunismo, gli Stati Uniti d'America per il Capitalismo. Dei giganti erano scesi in campo a contendersi il mondo: solo le briciole potevano restare alle formiche nazioni. Questa realtà, al tempo, fu chiara solo a poche grandi menti: si pensi ad esempio Drieu la Rochelle e Evola o, addirittura già nel XIX secolo, a Friedrich Wilhelm Nietzsche. Ma oggi, che possiamo guardare a quegli eventi col senno di poi, e con sott'occhio le conseguenze, appare davvero palese il decadere degli stati-nazione, e inutile insistere ancora nel difenderli. Se il XIX fu il secolo delle nazioni, e il XX delle ideologie, non c'è dubbio che il XXI sarà quello degl'Imperi.

Innanzitutto bisogna riconoscere questa fondamentale distinzione, tra imperialismo ed Impero. L'imperialismo, come già ebbe a rilevare Lenin, altro non è che la "fase suprema del capitalismo": passando dalla fase della libera concorrenza a quella dei grandi monopoli, gli stati borghesi passano sotto il controllo dei trusts e riproducono nella politica internazionale la lotta che tra essi si sviluppa già in campo economico. La tendenza è, appunto, quella alla progressiva centralizzazione del capitale: la creazione, insomma, di un polo unico (immobile secondo Kautsky, in continuo rivolgimento interno secondo Lenin), politico ed economico, che rappresenta una sorta di parodia borghese dell'Impero universale. Di là da qualche semplificazione eccessiva, possiamo riconoscere in questa teoria una rappresentazione piuttosto veritiera della realtà - rapportandola naturalmente ai giorni nostri, in cui la lotta tra i diversi imperialismi (statunitense, britannico, francese, tedesco, ecc.) si è concluso e, in virtù del suddetto processo di centralizzazione, ha dato vita ad un solo imperialismo capitalista. Il modello che con la globalizzazione si tenta d'imporre, è quello di un Occidente borghese e capitalista - il centro dell'impero - che conduce un'esistenza di straordinaria opulenza e spreco grazie all'olocausto imposto al cosiddetto "terzo mondo", cui sono imposti la fame, la miseria e il saccheggio costante. Nel primo gli abitanti sono forme svuotate della loro umanità, meri produttori-consumatori completamente conformi al modello standard presentato dalla pubblicità; nel secondo gli uomini sono schiavi disperati di quel primo mondo senza speranza.
All'imperialismo capitalista giunge così ad opporsi l'antichissimo concetto di Impero universale. Esso è presente in tutte le maggiori forme di sapienza e tradizione antica. In Cina troviamo l'Impero celeste, o Impero del mezzo, in India la figura del cakravartin, "imperatore universale", in Europa prima gli imperi di Alessandro Magno e di Roma, poi il germanico Sacro Romano Impero e il Ghibellinismo. Dal punto di vista metafisico, l'Impero ha una funzione cosmico-ordinatrice, dovendo ricreare sulla Terra l'ordine universale. Al di là di questo, l'Impero spezza gli iniqui limiti delle nazioni, delle patrie o, peggio, degli stati, e riunisce a sé le entità affini che si riconoscono in una comune Tradizione e in un comune Destino. L'Impero, al contrario dell'imperialismo, non è una forma di prevaricazione, avocando a sé unicamente le genti che ne sono naturalmente parte, né un fenomeno di centralizzazione, poiché, come dimostrano gli esempi storici sopra menzionati, il potere rimane ampiamente alle singole comunità basilari.

Il destino dell'Europa è Roma, la memoria dell'Impero. L'essenza dell'Impero è quella di unire in una sola compagine statale diversi popoli e nazioni, collocandosi sopra di loro, rimanendo neutrale dal punto di vista nazionale. La costante tendenza all'unificazione del continente dimostra che sono questi i principi ispiratori che, contro le interpretazioni razionaliste e giuridiche che cercano di sfigurarne la funzione, è l'Impero la soluzione dei problemi dei popoli europei e mediterranei.

Malaparte
19-04-09, 22:36
Grazie, commenterò dopo aver letto.

Ierocle
20-04-09, 16:13
MASSIMO JANIGRO
GLI USA SONO UN IMPERO?


Postfazione a:
Costanzo Preve, La quarta guerra mondiale
Edizioni all'insegna del Veltro


Viviamo oggi in un ordine imperiale? È ragionevole ed opportuno ricorrere alla categoria di impero anche se ciò comporta uno stravolgimento del suo senso? In che sistema-mondo viviamo? Diversi ed importanti, talvolta anche angoscianti, sono gli interrogativi che suscita l’attuale condizione globale, a causa della perdita di punti di riferimento.
Ci troviamo sicuramente in anni decisivi, in giorni mutevoli. Stiamo assistendo ad un riassestamento dell’ordine internazionale, gli attentati terribili, coreograficamente perfetti, dell’11 settembre 2001, hanno riaperto questioni che sembravano chiuse. Hanno portato la brutalità nel cuore dell’Occidente ed hanno alimentato numerosi interrogativi sul corso delle cose. Insieme al ‘siamo tutti americani’, la parola d’ordine circolata su giornali e televisioni di tutto il mondo è stata allora: ‘nulla sarà più come prima’. E mentre le immagini degli attentati facevano simultaneamente il giro del globo (la globalizzazione è anche, o forse soprattutto, condivisione immediata di notizie ed esperienze), le reazioni non tardavano ad arrivare: una parte della popolazione mondiale piangeva, un’altra non si disperava. Eppure gli attentati non portarono effettivamente a nulla, non ‘significa[ro]no nulla’ , non raggiunsero alcun risultato politico, pur essendo un atto politico; nulla al di là della dimostrazione, nulla al di là della paura, dell’immensa paura che fecero scaturire negli Stati Uniti e nell’Occidente tutto.
E con l’11 settembre 2001 “si chiude la belle epoque della globalizzazione […] il sogno di una via tecnico-amministrativa al benessere universale, di una “mobilitazione” semiautomatica di tutte le coscienze e di tutte le culture verso i vittoriosi modelli dell’Occidente” . Si apre così l’epoca dell’incertezza, della paura e del disincanto verso le parole d’ordine utilizzate per comprendere il ‘mondo di prima’. Questo disincanto, proprio di un pensare orfano della certezza tecnica, che finora lo aveva cullato, non può che chiedere una cosa: il ritorno della politica. L’esonero che la tecnica globalmente intesa aveva imposto alla politica, ha infatti mostrato tutti i suoi limiti.
C’era la convinzione che alla base della ‘globalizzazione’ ci fossero leggi ‘vere’, indiscutibili, che l’economia, guidata dall’ennesima ‘mano invisibile’ di smithiana memoria avrebbe di per se stessa portato ordine e prosperità. C’era immensa fiducia nella tecno-scienza applicata, quanta era la sfiducia riservata alla politica classicamente intesa, alla politica come scienza umana e proprio per questo fallibile, superata, obsoleta. Ed invece l’11 settembre ha ‘svelato’ (perché effettivamente non ha cambiato nulla) una situazione differente da quella che ci appariva. Ci ha mostrato il ‘Re nudo’.
Ed il Re è nudo in un ordine internazionale che all’11 settembre non aveva ancora metabolizzato la caduta del blocco imperiale sovietico, che non si era ancora dispiegato, ben nascosto dietro l’illusione della ‘globalizzazione’ buona e giusta, coacervo di libero mercato, tecnologia e belle speranze. Il Re è nudo quando milioni di persone ‘dimenticate’ dal progresso globale festeggiano alla vista dell’immane tragedia americana e quando gli americani, scossi ed increduli si chiedono: “ma perché ci odiano?”
Dietro la decantata ‘globalizzazione’ si nascondevano quindi tutta una serie di contraddizioni, più o meno gravi: in sostanza il mondo non era quello che appariva su giornali e televisioni, non era quello che vedevamo. L’11 settembre è stato un giorno di svolta, di cesura storica proprio perché ci ha presentato la realtà per come effettivamente era ed è, con tutte le sue ingiustizie, con tutti i suoi conflitti aperti, con tutte le sue grandi (ed ovvie) diversità. E soprattutto con tutta la sua carenza di politica. In quale mondo viviamo allora?
Tutta questa situazione di ansia, insicurezza e paura ha portato ad un’estenuante ricerca di definizioni che fossero sufficienti a spiegare la situazione contemporanea; via allora ad una sterminata pubblicistica che si è trovata ad indagare i più diversi aspetti dell’attualità, includendo spesso impropriamente filosofia e psicologia d’accatto; via ad un’indagine storica di circostanza, allo studio della geopolitica, alla riscoperta dei testi sacri, allo studio delle religioni ed in particolare dell’Islam (con mille fraintendimenti, voluti o meno) e soprattutto via alle teorie storico-apocalittiche più strane e, al tempo stesso, inevitabilmente semplicistiche. Tra queste quella dello ‘scontro di civiltà’, scenario già preconizzato da Samuel Huntington in un articolo del 1993 e sviluppato successivamente nel libro del 1996 , oggi recuperato e divenuto un ‘must’ per chiunque voglia occuparsi di politica internazionale e geopolitica. ‘Scontro di civiltà’ lo abbiamo sentito dire inizialmente dall’establishment statunitense, da politici locali in tutto il mondo o quasi e soprattutto lo abbiamo letto e sentito, fino alla noia, su giornali e televisioni. Probabilmente non si è trattato solo della solita semplificazione giornalistica, bensì di una parola d’ordine utilizzata ad arte per creare consenso e spirito partigiano, laddove tutta la campagna propagandistica in sostegno a quella militare statunitense si basava su di una rozza, ma efficace dicotomia bene/male, che riprendeva la famosa categorizzazione schmittiana amico/nemico.
In tutto questo florilegio di notizie (si parla, a ragione, di ‘bombardamento mediatico’), di approfondimenti, di opinioni gettate al vento, di toni esacerbati si è spesso, spessissimo, perso il senso delle parole. Si ripete che in tutte le guerre la prima vittima sia la verità, ma ad essere sacrificato, in queste circostanze, è anche il significato delle espressioni abusate. Così formule quali ‘scontro di civiltà’, ‘stati canaglia’, ‘diritti umani’, se non anche ‘siamo tutti americani’ o ‘nulla sarà più come prima’, ripetute ossessivamente in ogni dove, sono rimaste mero significante, perdendo il loro significato. E tra le tante parole inflazionate del vocabolario ‘desueto’ (Ulrich Beck parla di concetti-zombie ) che è stato adoperato per interpretare il momento, sicuramente non è mancato il concetto di ‘impero’.
L’abuso del termine ‘impero’ è dovuto dal fatto che il ruolo che gli Stati Uniti hanno assunto nel tempo (dalla Seconda Guerra Mondiale ed ancor di più dopo l’ottantanove), storicamente inedito, ha destato curiosità e paragoni storici di vario genere. L’accostamento con l’Impero Romano è stato ed è tutt’ora ricorrente. Probabilmente per pigrizia intellettuale, mancanza di inventiva, non si è trovato un termine che fosse più calzante rispetto al ruolo che gli Stati Uniti, potenza sui generis del secolo scorso e dell’inizio di questo, hanno. Così, sia sostenitori che detrattori della potenza nordamericana, hanno di volta in volta adoperato la formula ‘impero’.
Altisonante, maestosa, la parola ‘impero’ rimanda immediatamente a qualcosa di grande, di importante; fa pensare ad un potere ‘illimitato’, imposto, arbitrario e ad una forte proiezione verso l’esterno, verso stati e territori altri. Il concetto di ‘impero’ è non a caso associato alla pratica di una politica espansionistica, imperialista appunto. E imperialisti sono apparsi gli Stati Uniti, sin dalla loro origine. Hanno negli anni condotto guerre, assunto ed esercitato potere, modellato il mondo circostante, sono stati paese determinante, hanno spesso, se non sempre, detto l’ultima parola su questioni di politica internazionale che riguardavano l’intero universo di stati, hanno rappresentato, in due guerre mondiali e nel loro seguito politico, il ‘bene’, ma soprattutto hanno ricoperto il ruolo della ‘nazione indispensabile’.
Alla base di questa determinazione politica vi è, particolarmente in tempi più recenti, una chiara ispirazione religiosa, fortemente influenzata dal proliferare di correnti cristiano-millenariste, che vede negli Stati Uniti la ‘nazione redentrice’, concezione che ben si collega all’idea del ‘destino manifesto’, formula messianica che da sempre guida le ambizioni politiche statunitensi.
Ma una politica imperialista non fa, di per sé, un ‘impero’. Per essere ‘impero’ occorrono innanzitutto volontà e consapevolezza, progettualità e lungimiranza, ispirazione e determinazione, decisione e senso di responsabilità. Non si può essere imperi “per caso” e non lo si può essere stentatamente o parzialmente, a giorni alterni. Dopo l’11 settembre la vigorosa e ‘muscolosa’ reazione statunitense ha ampiamente fatto pensare ad uno stato che si faceva impero. L’imporre condizioni al mondo, il non rispettare vincoli internazionali, il non sottostare al giudizio di alcuno hanno dato l’impressione di una volontà propriamente imperiale. In sostanza l’unipolarismo apparso spesso arrogante, il fare e disfare alleanze alla bisogna, il ricorrere alla nuova guerra ‘preventiva’ estranea ai canoni del diritto internazionale, il comportamento deciso e ‘menefreghista’ tipico di chi non deve rendere conto ad altri e neppure alle regole internazionali, tanto da far parlare degli USA come di una ‘potenza revisionista’, hanno fatto gridare alla presenza di un nascente impero. E poi l’onnipresenza, l’influenza globale, l’essere culturalmente modello egemone: tutto questo facilita il paragone al modello imperiale. Non bastano però queste caratteristiche per creare un ordine imperiale, non basta avere l’arroganza del manzoniano Innominato . Ci vuole ben altro, ci vuole la responsabilità che troppo spesso gli Usa sembrano restii ad assumersi.
Tuttavia la categoria di impero merita un’ampia riflessione. Per molti aspetti gli Stati Uniti potrebbero essere un impero, è una suggestione da comprendere e verificare, soprattutto in vista dei cambiamenti che già da prima del fatidico 2001 si stanno delineando. Questi cambiamenti coinvolgono molteplici aspetti del vivere comune e, naturalmente, il potere con le sue forme: il sistema postecumene di Westfalia (1648), imperniato sulla sovranità inviolabile degli stati, ha retto fino al decennio passato ed è ora in evidente declino. Irrealistico pensare ad una prossima e totale dissoluzione dello stato come soggetto politico-amministrativo (lo stato svolge ancora troppe funzioni importanti, prima fra tutti quella di controllo dell’ordine pubblico), naturale prevedere, invece, la continua erosione della sovranità nella sua concezione classica.
Ma se “la fine del modello ‘Westfalia’ si manifesta innanzitutto nello scompaginamento di un ordine, di una forma storica specifica delle relazioni internazionali” a questo scompaginamento non segue, o almeno non sembra seguire, un ordine che possa subentrare, una forma storicamente determinata che dia chiarezza al sistema delle relazioni internazionali.
Perché lo stato, centro del sistema di ‘Westfalia’ non ha subito solo un’erosione esterna da forze sovranazionali (di vario genere e carattere), ma anche un’erosione interna che si è chiamata di volta in volta ‘autonomia locale’, ‘regionalismo’, ‘devolution’. Simmetricamente, al processo di ‘globalizzazione’ ha una contropartita di ‘localizzazione’, come riscoperta delle ‘piccole patrie’, delle tradizioni locali, come voglia di autodeterminarsi in piccoli spazi. Ma come nota G. Marramao, il sentimento ‘glocale’ non rappresenta la resistenza di antiche tradizioni al ‘globale’, “bensì è una vera e propria produzione di località” , una creazione di miti, simboli, tradizioni che nascono da una voglia di comunità, voglia prettamente moderna, frutto del ‘globale’ stesso. Lo stato quindi è doppiamente svuotato della sua sovranità: e dall’esterno, dal potere sovranazionale, e dall’interno dall’esigenza, tutta nuova, di ‘località’.
È lo stato che rimane in bilico tra la ‘morte’, la mera sopravvivenza od un nuovo ruolo ancora da scoprire , il tutto conseguenza di un diverso rapporto tra uomo-spazio-luogo. Del resto la ‘globalizzazione’ è “essenzialmente sconfinamento, sfondamento dei confini, deformazione di geometrie politiche” ed anche “uccisione della distanza” e “emancipazione dello spazio dal luogo” e lo stato che ha rappresentato il ‘luogo’ per definizione della politica, non può che subirne le logiche conseguenze ed essere rimesso in discussione. Ogni dimensione del vecchio ordine politico nazionale ed internazionale è quindi in bilico, in feroce cambiamento, in crisi. È proprio il frammentarsi della sovranità, l’intrecciarsi di diversi poteri che non hanno una scala gerarchica, l’affacciarsi sulla scena internazionale di una pluralità di soggetti, di carattere pubblico e privato, economico e politico che hanno fatto ricomparire la categoria di ‘impero’. “La sovranità ha assunto una forma nuova, composta da una serie di organismi nazionali e sovranazionali uniti da un’unica logica di potere. Questa nuova forma di sovranità globale è ciò che chiamiamo impero” sostengono Hardt e Negri nel loro libro Impero, indagine storico-filosofica sul potere e sulle sue forme.
A questo lavoro è toccato di riattualizzare ha avuto il ruolo di riattualizzare la nozione ‘impero’, pur proponendolo in una forma differente da quella comunemente intesa, e di riaprire la discussione sull’attualità di questo concetto, sulla pertinenza del suo uso contemporaneo, estendendola anche ad una serie di significati e concezioni differenti rispetto a quelli espressi ed indagati nel testo stesso. Una riattualizzazione che ha spianato la strada al termine ‘impero’ già prima dell’11 settembre (l’opera è del 2000), che ha riproposto questa ‘vecchia’ categoria per interpretare un inedito presente.
‘Impero’ quindi preconizzabile nel ‘nuovo ordine mondiale’ con la presenza di uno stato egemone che esercita un potere imperiale, attuando una politica di potenza ed imponendo un sistema ‘unipolare’ agli altri stati. Ed ‘impero’ preconizzabile anche nel ‘nuovo ordine della globalizzazione’, in un sistema che non ha un centro od uno stato egemone, ma che è apolide, ubiquitario, liquido, fatto di reti che si intrecciano, in un mondo che non conosce più alcun rapporto di centro/periferia o interno/esterno, ma che chiama ‘luoghi’ i suoi punti sulla rete, al tempo stesso propaggini ed alimentatori del sistema stesso di potere. Sicuramente le due definizioni non si escludono tra loro.
La sfida di un ipotetico impero che si manifestasse sarebbe proprio questa: esercitare, da un lato, la capacità geopolitica di controllare lo spazio che rientra nella sua area di egemonia militare, spendere le proprie capacità economiche e, dall’altro lato, dovrebbe essere capace di ‘dare una forma’ politica ad uno stato di forze ‘liquido’ e all’apparenza ingovernabile, in quanto impolitico; dovrebbe essere capace di farsi vettore delle forze denominate ‘globalizzazione’ che caratterizzano questo periodo storico e far sì che esse diventino motore dell’impero, così permettendo la diffusione di un modello culturale ‘universalista’. Si tratterebbe insomma di saper utilizzare e gestire, a fini di dominio, quelle forme di potere economiche, finanziarie, tecnologiche, che sfuggono agli stati e che ne stanno decretando la parziale inutilità e quindi il declino. Solo una forma politica che sappia rispondere a questa serie di ‘sfide’ e risolverle politicamente potrebbe essere definita ‘Impero’.


1 Galli,C., Guerra senza spazio, “Micromega”, 5, 2001, p. 94.
2 Cacciari, M., Digressione su impero e tre Rome, “Micromega”, 5, 2001, p. 58.
3 Huntington, S.P., The clash of civilizations and the remaking of world order,1996; tr.it. Lo scontro delle civiltà ed il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997.
4 Beck U., Terrorismo e guerre del ventunesimo secolo , “la Repubblica”, 28 novembre 2001, p.17.
Alessandro Manzoni descrive così il suo personaggio: “Fare ciò che era vietato delle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare: essere temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’erano soliti averla dagli altri”. Ed ancora riferendosi al suo sistema di amicizie: “non già amici del pari, ma come soltanto potevano piacere a lui, amici subordinati, che si riconoscessero suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra”, Manzoni, A., I promessi sposi, Capitolo XIX, vv 285-290 e vv 295-297.
6 La dimostrazione che la sovranità non era più il pilastro dell’ordine internazionale si è avuta chiaramente con la guerra del Kosovo del 1999, occasione in cui gli Stati Uniti hanno affermato il proprio diritto a superare le sovranità nazionale in nome dei ‘diritti dell’uomo’.
7 Marramao, G., Passaggio ad Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 45.
8 Marramao, G., op.cit., p. 39.
9 “La decadenza degli Stati è così deterministicamente descrivibile, come il rotolare di un grave lungo un piano inclinato, oppure lo Stato potrebbe ancora valere come centro di decisione nei processi di globalizzazione?” si chiede Massimo Cacciari in op.cit., p. 44.
10 Galli, C., Spazi politici, Il Mulino, Bologna 2001, p. 133.
11 Beck,U., Che cos’è la globalizzazione, Carocci, Roma 1999, p. 39.
12 Giddens, A., Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994, p. 29.
13 Hardt M.- Negri A., Empire, 2000; tr.it., Impero, Rizzoli, Milano 2001, p. 14.

Ierocle
24-04-09, 12:17
La differenza tra impero e imperialismo secondo il geopolitico Agostino Degli Espinosa:



http://www.youtube.com/watch?v=nddMe5Pt0OM&feature=channel_page

Anton Hanga
24-04-09, 14:55
A proposito, si trovano in commercio copie del libro di Agostino Degli Espinosa, "L' Imperialismo USA" oppure ne e' prevista una ristampa a breve per qualche editore? :mmm:

Ierocle
24-04-09, 16:27
A proposito, si trovano in commercio copie del libro di Agostino Degli Espinosa, "L' Imperialismo USA" oppure ne e' prevista una ristampa a breve per qualche editore? :mmm:

L'edizione del libro di Degli Espinosa sull'imperialismo statunitense risale al 1932. Sono più di 500 pagine: sarà difficile trovare qualcuno che sia disposto a ripubblicarlo integralmente.

Spetaktor
24-04-09, 18:50
Il libro nero dell’imperialismo americano
1 January 2000 (19:45) | Autore: Claudio Mutti

Nell’Introduzione al libro di Dragos Kalajic Serbia, trincea d’Europa scrivevamo: “Se un giorno qualche storico di buona volontà dovesse compilare un Libro nero della democrazia liberale usando criteri analoghi a quelli seguiti dagli autori del Libro nero del comunismo, la somma delle vittime mietute dalle due massime democrazie mondiali, l’inglese e la statunitense, probabilmente non risulterebbe troppo inferiore a quei cento milioni di morti che la demagogia anticomunista ha addebitato a tutti i regimi comunisti messi assieme”. Questa autocitazione era necessaria, perché assomiglia molto al Libro nero da noi auspicato quello che Mauro Pasquinelli si è provato a scrivere, confermando coi risultati della sua ricerca le nostre supposizioni.

Il Libro nero di Pasquinelli è un vero e proprio inventario dei crimini statunitensi. Partendo da una rievocazione del genocidio compiuto contro le popolazioni autoctone del Nordamerica tra il 1607 e il 1880, la rassegna del terrorismo internazionale statunitense prosegue attraverso una lunga serie di capitoli: Filippine 1899-1902, il bombardamento di Dresda, Hiroshima e Nagasaki, Isole Marshall 1946-1968, Corea 1945-1953, Vietnam 1965-1975, Cambogia 1970-1989, Iran 1953-1988, Indonesia e Timor Est 1957-1999, Sudafrica 1960-1990, Congo 1960-1997, Angola 1975-2003, Guatemala 1953, Cile 1970-1976, Salvador 1978-1982, Nicaragua 1978-1999, Cuba 1959-2003, Haiti anni ’90, Grenada 1983, Panama 1989-2003, Beirut 1985, Sudan 1998, Magari-e Sharif 2001, Jugoslavia 1991-2003, Afghanistan 1978-2003, Israele, Palestina e Libano 1948-2003, Ruanda, Burundi e Congo 1994-2003.

L’elenco è completo. O quasi. Infatti Pasquinelli dimentica di registrare i crimini commessi dagli americani in Italia nel corso della seconda guerra mondiale, come i bombardamenti terroristici sulle popolazioni civili e sulle opere d’arte. Né viene fatta menzione dell’appoggio che gli angloamericani fornirono in Italia alle attività paramilitari dei collaborazionisti “partigiani”, anche se, come scrive Arturo Peregalli (L’altra Resistenza. Il PCI e le opposizioni di sinistra 1943-‘45, Graphos, Genova 1991), “l’accusa al movimento partigiano di essere inserito a pieno titolo nel fronte militare di guerra alleato ha avuto un evidente riscontro storico”. Infatti con la firma dei Protocolli di Roma gl’imperialisti atlantici stanziarono un finanziamento mensile di 160 milioni di lire (del valore di allora) a favore dei collaborazionisti antifascisti. Non si capisce, dunque, come l’autore possa affermare che “gli americani vedevano la resistenza partigiana come fumo negli occhi” e che, “se non fosse stato per la grande resistenza partigiana (…), il nostro continente si sarebbe trasformato in un grande protettorato americano” (p. 26). Certo, alla fine della guerra non tutto il continente diventò una colonia americana, ma mezza Europa sì.

Non è questo l’unico difetto del libro, che qua e là contiene altre pecche del genere, dovute per lo più ad una sorta di ingenua sudditanza nei confronti del conformismo “politicamente corretto”. Però, nonostante tutte le riserve che si possono fare sul risultato del lavoro di Pasquinelli, noi riteniamo che l’intenzione dell’autore debba essere positivamente apprezzata e che questa sua opera vada fatta circolare il più possibile. Insieme con altri libri analoghi, per esempio quelli di John Kleeves, essa fornisce tutti i dati necessari per una critica documentata articolata ai temi della propaganda americana.

* * *

Mauro Pasquinelli, Il libro nero degli Stati Uniti d’America. Storia criminale degli Usa (genocidi, invasioni, torture e terrorismo di stato…) (IBS) (BOL) (LU)



Claudio Mutti

Anton Hanga
24-04-09, 22:54
L'edizione del libro di Degli Espinosa sull'imperialismo statunitense risale al 1932. Sono più di 500 pagine: sarà difficile trovare qualcuno che sia disposto a ripubblicarlo integralmente.


Va bene, grazie comunque. :)

Spetaktor
25-04-09, 01:56
e di questo libro qualcuno sa qualcosa?

L'*imperialismo americano oggi, 1943
Friedrich Schonemann ; introduzione di Tina Achilli.
Dedalo libri, 1980