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Visualizza Versione Completa : Summa Theologiae I: metafisica e in particolare teologia razionale



Thomas Aquinas
23-06-04, 18:56
Questione 2

Trattato di Dio. Esistenza di Dio

Lo scopo principale della sacra dottrina è quello di far conoscere Dio, e non soltanto in se stesso, ma anche in quanto è principio e fine delle cose, e specialmente della creatura ragionevole, come appare dal già detto; nell'intento di esporre questa dottrina, noi tratteremo: I - di Dio (I Parte); II - del movimento della creatura razionale verso Dio (II Parte, divisa in I-II e II-II); III - del Cristo, il quale, in quanto uomo, è per noi via per ascendere a Dio (III Parte).
L'indagine intorno a Dio comprenderà tre parti. Considereremo: primo, le questioni spettanti alla divina Essenza; secondo, quelle riguardanti la distinzione delle Persone; terzo, quelle che riguardano la derivazione delle creature da Dio.
Intorno all'Essenza divina poi dobbiamo considerare: 1. Se Dio esista; 2. Come egli sia o meglio come non sia; 3. Dobbiamo studiare le cose spettanti alla sua operazione, cioè la scienza, la volontà e la potenza.
Sul primo membro di questa divisione si pongono tre quesiti: 1. Se sia di per sé evidente che Dio esiste; 2. Se sia dimostrabile; 3. Se Dio esista.

ARTICOLO 1

Se sia di per sé evidente che Dio esiste

SEMBRA che sia di per sé evidente che Dio esiste. Infatti:
1. Noi diciamo evidenti di per sé quelle cose, delle quali abbiamo naturalmente insita la cognizione, com'è dei primi principi. Ora, come assicura il Damasceno "la conoscenza dell'esistenza di Dio è in tutti naturalmente insita". Quindi l'esistenza di Dio è di per sé evidente.
2. Evidente di per sé è ciò che subito s'intende, appena ne abbiamo percepito i termini; e questo Aristotele lo attribuisce ai primi principi della dimostrazione: conoscendo infatti che cosa è il tutto e che cosa è la parte, subito s'intende che il tutto è maggiore della sua parte. Ora, inteso che cosa significhi la parola Dio, all'istante si capisce che Dio esiste. Si indica infatti con questo nome un essere di cui non si può indicare uno maggiore: ora è maggiore ciò che esiste al tempo stesso nella mente e nella realtà che quanto esiste soltanto nella mente: onde, siccome appena si è inteso questo nome Dio, subito viene alla nostra mente (di concepire) la sua esistenza, ne segue che esista anche nella realtà. Dunque che Dio esista è di per sé evidente.
3. È di per sé evidente che esiste la verità; perché chi nega esistere la verità, ammette che esiste una verità; infatti se la verità non esiste sarà vero che la verità non esiste. Ma se vi è qualche cosa di vero, bisogna che esista la verità. Ora, Iddio è la Verità. "Io sono la via, la verità e la vita". Dunque che Dio esista è di per sé evidente.

IN CONTRARIO: Nessuno può pensare l'opposto di ciò che è di per sé evidente, come spiega Aristotele riguardo ai primi principi della dimostrazione. Ora, si può pensare l'opposto dell'enunciato: Dio esiste, secondo il detto del Salmo: "Lo stolto dice in cuor suo "Iddio non c'è"". Dunque che Dio esista non è di per sé evidente.

RISPONDO: Una cosa può essere di per sé evidente in due maniere: primo, in se stessa, ma non per noi; secondo, in se stessa e anche per noi. E invero, una proposizione è di per sé evidente dal fatto che il predicato è incluso nella nozione del soggetto, come questa: l'uomo é un animale; infatti animale fa parte della nozione stessa di uomo. Se dunque è a tutti nota la natura del predicato e del soggetto, la proposizione risultante sarà per tutti evidente, come avviene nei primi principi di dimostrazione, i cui termini sono nozioni comuni che nessuno può ignorare, come ente e non ente, il tutto e la parte, ecc. Ma se per qualcuno rimane sconosciuta la natura del predicato e del soggetto, la proposizione sarà evidente in se stessa, non già per coloro che ignorano il predicato ed il soggetto della proposizione. E così accade, come nota Boezio, che alcuni concetti sono comuni ed evidenti solo per i dotti, questo, p. es.: "le cose immateriali non occupano uno spazio".
Dico dunque che questa proposizione Dio esiste in se stessa è di per sé evidente, perché il predicato s'identifica col soggetto; Dio infatti, come vedremo in seguito, è il suo stesso essere: ma siccome noi ignoriamo l'essenza di Dio, per noi non è evidente, ma necessita di essere dimostrata per mezzo di quelle cose che sono a noi più note, ancorché di per sé siano meno evidenti, cioè mediante gli effetti.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. È vero che noi abbiamo da natura una conoscenza generale e confusa dell'esistenza di Dio, in quanto cioè Dio è la felicità dell'uomo; perché l'uomo desidera naturalmente la felicità, e quel che naturalmente desidera, anche naturalmente conosce. Ma questo non è propriamente un conoscere che Dio esiste, come non è conoscere Pietro il vedere che qualcuno viene, sebbene chi viene sia proprio Pietro: molti infatti pensano che il bene perfetto dell'uomo, la felicità, consista nelle ricchezze, altri nei piaceri, altri in qualche altra cosa.
2. Può anche darsi che colui che sente questa parola Dio non capisca che si vuol significare con essa un essere di cui non si può pensare il maggiore, dal momento che alcuni hanno creduto che Dio fosse corpo. Ma dato pure che tutti col termine Dio intendano significare quello che si dice, cioè un essere di cui non si può pensare il maggiore, da ciò non segue però la persuasione che l'essere espresso da tale nome esista nella realtà delle cose; ma soltanto nella percezione dell'intelletto. Né si può arguire che esista nella realtà se prima non si ammette che nella realtà vi è una cosa di cui non si può pensare una maggiore: ciò che non si concede da coloro che dicono che Dio non esiste.
3. Che esista la verità in generale è di per sé evidente; ma che vi sia una prima Verità non è per noi altrettanto evidente.

ARTICOLO 2

Se sia dimostrabile che Dio esiste

SEMBRA non sia dimostrabile che Dio esiste. Infatti:
1. Che Dio esista è un articolo di fede. Ora, le cose di fede non si possono dimostrare, perché la dimostrazione ingenera la scienza, mentre la fede è soltanto delle cose non evidenti, come assicura l'Apostolo. Dunque non si può dimostrare che Dio esiste.
2. Il termine medio di una dimostrazione si desume dalla natura del soggetto. Ora, di Dio noi non possiamo sapere quello che è, ma solo quello che non è, come nota il Damasceno. Dunque non possiamo dimostrare che Dio esiste.
3. Se si potesse dimostrare che Dio esiste, ciò non sarebbe che mediante i suoi effetti. Ma questi effetti non sono a lui proporzionati, essendo egli infinito, ed essi finiti; infatti tra il finito e l'infinito non vi è proporzione. Non potendosi allora dimostrare una causa mediante un effetto sproporzionato, ne segue che non si possa dimostrare l'esistenza di Dio.

IN CONTRARIO: Dice l'Apostolo: "le perfezioni invisibili di Dio comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili", Ora, questo non avverrebbe, se mediante le cose create non si potesse dimostrare l'esistenza di Dio; poiché la prima cosa che bisogna conoscere intorno ad un dato soggetto è se esso esista.

RISPONDO: Vi è una duplice dimostrazione: L'una, procede dalla (cognizione della) causa, ed è chiamata propter quid, e questa muove da ciò che di suo ha una priorità ontologica. L'altra, parte dagli effetti ed è chiamata dimostrazione quia, e muove da cose che hanno una priorità soltanto rispetto a noi: ogni volta che un effetto ci è più noto della sua causa, ci serviamo di esso per conoscere la causa. Da qualunque effetto poi si può dimostrare l'esistenza della sua causa (purché gli effetti siano per noi più noti della causa); perché dipendendo ogni effetto dalla sua causa, posto l'effetto è necessario che preesista la causa. Dunque l'esistenza di Dio, non essendo rispetto a noi evidente, si può dimostrare per mezzo degli effetti da noi conosciuti.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'esistenza di Dio ed altre verità che riguardo a Dio si possono conoscere con la ragione naturale, non sono, al dire di S. Paolo, articoli di fede, ma preliminari agli articoli di fede: difatti la fede presuppone la cognizione naturale, come la grazia presuppone la natura, come (in generale) la perfezione presuppone il perfettibile. Però nulla impedisce che una cosa, la quale è di suo oggetto di dimostrazione e di scienza, sia accettata come oggetto di fede da chi non arriva a capirne la dimostrazione.
2. Quando si vuol dimostrare una causa mediante l'effetto, è necessario servirsi dell'effetto in luogo della definizione (o natura) della causa, per dimostrare che questa esiste; e ciò vale specialmente nei riguardi di Dio. Per provare infatti che una cosa esiste, è necessario prendere per termine medio la sua definizione nominale, non già la definizione reale, poiché la questione riguardo all'essenza di una cosa viene dopo quella riguardante la sua esistenza. Ora, i nomi di Dio provengono dai suoi effetti, come vedremo in seguito: perciò nel dimostrare l'esistenza di Dio mediante gli effetti, possiamo prendere per termine medio quello che significa il nome Dio.
3. Da effetti non proporzionati alla causa non si può avere di questa una cognizione perfetta; tuttavia da qualsiasi effetto noi possiamo avere manifestamente la dimostrazione che la causa esiste, come si è detto. E così dagli effetti di Dio si può dimostrare che Dio esiste, sebbene non si possa avere per mezzo di essi una conoscenza perfetta della di lui essenza.

ARTICOLO 3

Se Dio esista

SEMBRA che Dio non esista. Infatti:
1. Se di due contrari uno è infinito, l'altro resta completamente distrutto. Ora, nel nome Dio s'intende affermato un bene infinito. Dunque, se Dio esistesse, non dovrebbe esserci più il male. Viceversa nel mondo c'è il male. Dunque Dio non esiste.
2. Ciò che può essere compiuto da un ristretto numero di cause, non si vede perché debba compiersi da cause più numerose. Ora tutti i fenomeni che avvengono nel mondo, potrebbero essere prodotti da altre cause, nella supposizione che Dio non esistesse: poiché quelli naturali si riportano, come a loro principio, alla natura, quelli volontari, alla ragione o volontà umana. Nessuna necessità, quindi, dell'esistenza di Dio.

IN CONTRARIO: Nell'Esodo si dice, in persona di Dio: "Io sono Colui che è".

RISPONDO: Che Dio esista si può provare per cinque vie. La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto. È certo infatti e consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro. Infatti, niente si trasmuta che non sia potenziale rispetto al termine del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto. Perché muovere non altro significa che trarre qualche cosa dalla potenza all'atto; e niente può essere ridotto dalla potenza all'atto se non mediante un essere che è già in atto. P. es., il fuoco che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno, che era caldo soltanto potenzialmente, e così lo muove e lo altera. Ma non è possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo stesso aspetto in atto ed in potenza: lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: così ciò che è caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza. È dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè che muova se stessa. È dunque necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da un altro. Se dunque l'essere che muove è anch'esso soggetto a movimento, bisogna che sia mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. Ora, non si può in tal modo procedere all'infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro motore, perché i motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi dal primo motore, come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla mano. Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio.
La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine tra le cause efficienti, ma non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di se medesima; ché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile. Ora, un processo all'infinito nelle cause efficienti è assurdo. Perché in tutte le cause efficienti concatenate la prima è causa dell'intermedia, e l'intermedia è causa dell'ultima, siano molte le intermedie o una sola; ora, eliminata la causa è tolto anche l'effetto: se dunque nell'ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima causa, non vi sarebbe neppure l'ultima, né l'intermedia. Ma procedere all'infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e così non avremo neppure l'effetto ultimo, né le cause intermedie: ciò che evidentemente è falso. Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio.
La terza via è presa dal possibile (o contingente) e dal necessario, ed è questa. Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere; infatti alcune cose nascono e finiscono, il che vuol dire che possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose (esistenti in natura sono tali che) possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad esistere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c'era ente alcuno, è impossibile che qualche cosa cominciasse ad esistere, e così anche ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemente falso. Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in altro essere oppure no. D'altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa della loro necessità, non si può procedere all'infinito, come neppure nelle cause efficienti secondo che si è dimostrato. Dunque bisogna concludere all'esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio.
La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. È un fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore si attribuisce alle diverse cose secondo che esse si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; così più caldo è ciò che maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi è dunque un qualche cosa che è vero al sommo, ottimo e nobilissimo, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente; perché, come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, è tale anche in quanto ente. Ora, ciò che è massimo in un dato genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice il medesimo Aristotele. Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio.
La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come appare dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione: donde appare che non a caso, ma per una predisposizione raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo d'intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, come la freccia dall'arciere. Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e quest'essere chiamiamo Dio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Come dice S. Agostino: "Dio, essendo sommamente buono, non permetterebbe in nessun modo che nelle sue opere ci fosse del male, se non fosse tanto potente e tanto buono, da saper trarre il bene anche dal male". Sicché appartiene all'infinita bontà di Dio il permettere che vi siano dei mali per trarne dei beni.
2. Certo, la natura ha le sue operazioni, ma siccome le compie per un fine determinato sotto la direzione di un agente superiore, è necessario che siano attribuite anche a Dio, come a loro prima causa. Similmente gli atti del libero arbitrio devono essere ricondotti ad una causa più alta della ragione e della volontà umana, perché queste sono mutevoli e defettibili, e tutto ciò che è mutevole e tutto ciò che può venir meno, deve essere ricondotto a una causa prima immutabile e di per sé necessaria, come si è dimostrato.

Thomas Aquinas
23-06-04, 18:56
Questione 3

La semplicità di Dio

Conosciuta l'esistenza di una cosa, resta da ricercare il suo modo di essere, per giungere a conoscerne la natura. Ma siccome di Dio non possiamo sapere che cosa è, ma piuttosto che cosa non è, non possiamo indagare come egli sia, ma piuttosto come non sia. È quindi necessario considerare per prima cosa i suoi modi di non essere; secondo, come noi lo conosciamo; terzo, come lo denominiamo.
Si può dimostrare come Dio non è, scartando le cose che a lui non convengono, come sarebbe la composizione, il movimento e simili. Studieremo dunque: primo, la sua semplicità, per la quale viene esclusa da lui ogni composizione. E siccome negli esseri corporali le cose semplici sono le meno perfette e parti incomplete, secondo, la sua perfezione; terzo, la sua infinità; quarto, la sua immutabilità; quinto, la sua unità.
Circa la divina semplicità ci poniamo otto quesiti: 1. Se Dio sia corpo; 2. Se in Dio vi sia composizione di materia e di forma; 3. Se vi sia composizione di quiddità, cioè di essenza o natura, e di soggetto; 4. Se vi sia composizione di essenza e di esistenza; 5. Se vi sia composizione di genere e di differenza; 6. Se vi sia composizione di sostanza e di accidenti; 7. Se sia in qualsiasi altro modo composto, oppure totalmente semplice; 8. Se entri in composizione con gli altri esseri.

ARTICOLO 1

Se Dio sia corpo

SEMBRA che Dio sia corpo. Infatti:
1. Corpo è ciò che ha le tre dimensioni. Ora la Sacra Scrittura attribuisce a Dio le tre dimensioni; vi si dice infatti: "Egli è più eccelso del cielo - tu che puoi fare? è più profondo degli inferi - tu come puoi conoscere? più esteso della terra, e per misura più largo è del mare!". Dunque Dio è corpo.
2. Tutto ciò che ha una figura è corpo, essendo la figura una qualità riguardante la quantità. Ora, pare che Dio abbia una figura, essendo scritto: "Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza"; ma la figura è chiamata anche immagine, secondo il detto di S. Paolo: "essendo (il Cristo) il riflesso della gloria di Dio e figura, cioè immagine, della sua sostanza". Dunque Dio è corpo.
3. Tutto ciò che ha parti è corpo. Ora, la Scrittura attribuisce a Dio delle parti corporali; infatti vi si dice: "se hai un braccio come quello di Dio"; e nei Salmi: "Gli occhi del Signore (sono rivolti) ai giusti"; e ancora: "La destra del Signore ha fatto meraviglie". Dunque Dio è corpo.
4. La positura non compete che al corpo. Ora, nelle Sacre Scritture si affermano di Dio varie positure: p. es., in Isaia si dice: "Vidi il Signore seduto", e sempre in Isaia: "il Signore sta in piedi per giudicare". Dunque Dio è corpo.
5. Niente, tranne il corpo o l'essere corporeo, può essere punto spaziale di partenza o d'arrivo. Ora, nella Sacra Scrittura Dio è considerato come termine spaziale d'arrivo, secondo l'espressione del Salmo: "Accostatevi a lui e sarete illuminati"; e come punto di partenza, secondo il detto di Geremia: "Coloro che si ritirano da te saranno scritti nella polvere". Dunque Dio è corpo.

IN CONTRARIO: In S. Giovanni è detto: "Dio è spirito".

RISPONDO: Si deve negare assolutamente che Dio sia corpo. Il che si può provare con tre ragioni. Primo, nessun corpo muove se non è mosso, come appare esaminando caso per caso. Ora, sopra si è dimostrato che Dio è il primo motore immobile. Dunque è chiaro che Dio non è corpo.
Secondo, è necessario che il primo ente sia in atto e in nessun modo in potenza. Sebbene infatti in un identico e determinato essere che passa dalla potenza all'atto, la potenza possa essere prima dell'atto in ordine di tempo, pure, assolutamente parlando, l'atto è prima della potenza, perché ciò che è in potenza non passa all'atto se non per mezzo di un essere già in atto. Ora, abbiamo già dimostrato che Dio è il primo ente. È dunque impossibile che in Dio ci sia qualche cosa di potenziale. Ma ogni corpo è in potenza, (se non altro) perché il continuo, in quanto tale, è sempre divisibile. Dunque è impossibile che Dio sia corpo.
Terzo, Dio è il più nobile fra tutti quanti gli esseri come è chiaro da quello che si è detto. Ora, è impossibile che un corpo sia il più nobile degli esseri. Difatti ogni corpo o è vivo o non è vivo. Il corpo vivo manifestamente è più nobile del non vivo. D'altra parte il corpo vivo non vive in quanto corpo, altrimenti ogni corpo sarebbe vivo: è quindi necessario che viva in forza di qualche altra cosa, come il nostro corpo che vive in forza dell'anima. Ora, ciò per cui il corpo vive, è più nobile del corpo. Dunque è impossibile che Dio sia corpo.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Come abbiamo già detto, la Sacra Scrittura ci presenta le cose spirituali e divine sotto immagini corporee. Perciò quando attribuisce a Dio le tre dimensioni, indica sotto figura di estensione corporea l'estensione della sua potenza; e cioè con la profondità il suo potere di conoscere le cose più occulte, con l'altezza la sua superiorità su tutto, con la lunghezza la durata della sua esistenza, con la larghelza l'effusione del suo amore su tutti gli esseri. Oppure, come dice Dionigi "per profondità di Dio, si intende l'incomprensibilità della sua essenza; per lunghezza, l'estensione della sua potenza che penetra in tutte le cose; per larghezza, la sua espansione verso tutti gli enti, nel senso cioè che tutti gli esseri sono contenuti sotto la sua protezione".
2. Si dice che l'uomo è a immagine di Dio, non già secondo il corpo, ma secondo quello per cui l'uomo sorpassa gli altri animali. Per questo, alle parole: "Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza", seguono le altre: "affinché egli domini sui pesci del mare, ecc.". Ora, l'uomo sorpassa tutti gli altri animali con la ragione e l'intelligenza. Quindi l'uomo è a immagine di Dio secondo l'intelletto e la ragione che sono cose incorporee.
3. Si attribuiscono a Dio nella Sacra Scrittura organi corporei a motivo delle loro operazioni che si prestano a certe analogie. L'atto dell'occhio, p. es., consiste nel vedere: quindi l'occhio attribuito a Dio indica la sua potenza a vedere in maniera intelligibile, non già sensibile. E lo stesso è per altri organi.
4. Anche le positure non si attribuiscono a Dio se non per una certa analogia: così, si dice seduto per significare la sua immobilità e la sua autorità; si dice che sta in piedi, per indicare la sua forza nel debellare tutto ciò che gli si oppone.
5. A Dio non ci si avvicina con i passi corporali, essendo egli dovunque; ma con l'affetto dell'animo, ed allo stesso modo ci si allontana da lui. E così, avvicinamento e allontanamento sotto la metafora del moto locale designano l'affetto spirituale.

ARTICOLO 2

Se in Dio vi sia composizione di materia e di forma

SEMBRA che in Dio vi sia composizione di forma e materia. Infatti:
1. Tutto ciò che ha un'anima è composto di materia e di forma, perché l'anima è forma del corpo. Ora, la Scrittura attribuisce l'anima a Dio, quando in persona di Dio dice: "Il giusto mio vivrà per la fede; ma se indietreggia, non ha gradimento in lui l'anima mia". Dunque Dio è composto di materia e di forma.
2. La collera, la gioia, ecc., sono passioni del composto, come insegna Aristotele. Ora, tali passioni sono attribuite a Dio nella Scrittura, infatti è detto nei Salmi: "S'accese d'ira il Signore contro il suo popolo". Dunque Dio è composto di materia e di forma.
3. Principio d'individuazione è la materia. Ma Dio pare che sia individuo: Dio infatti (come ogni essere individuale) non si può predicare di più soggetti. Dunque è composto di materia e di forma.

IN CONTRARIO: Ogni composto di materia e forma è corpo, perché la quantità spaziale è il primo attributo inerente alla materia. Ora, Dio non è corpo, come si è dimostrato. Dunque Dio non è composto di materia e di forma.

RISPONDO: È impossibile che in Dio ci sia materia. Primo, perché la materia è potenzialità, mentre Dio, come si è provato, è atto puro, non avente in sé potenzialità alcuna. Dunque è impossibile che Dio sia composto di materia e di forma.
Secondo, perché ogni composto di materia e forma è perfetto e buono in forza della sua forma; perciò, siccome la materia viene a partecipare la forma, ne segue che è buono per partecipazione. Ora, l'ente che nella bontà e nella perfezione è primo, cioè Dio, non può essere buono per partecipazione; perché il bene per essenza è anteriore al bene per partecipazione. È impossibile perciò che Dio sia composto di materia e di forma.
Terzo, perché ogni agente agisce in forza della sua forma; cosicché il rapporto di un ente al suo agire è determinato dal suo rapporto alla forma. L'ente perciò, che è primo come agente e che agisce in forza della sua natura, deve essere primo anche come forma, e forma per natura sua. Ora, Dio è il primo agente, essendo la prima causa efficiente, come si è già dimostrato. Egli è dunque forma in forza della sua essenza e non composto di materia e di forma.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. A Dio è attribuita l'anima per l'analogia di certe azioni. Siccome quando desideriamo a noi stessi qualche cosa, ciò proviene dall'anima nostra, così diciamo che piace all'anima di Dio quello che è gradito alla sua volontà.
2. Parimente si attribuisce a Dio la collera e le altre passioni per una certa somiglianza di effetti: siccome è proprio dell'irato il punire, così la punizione divina si chiama metaforicamente ira di Dio.
3. Le forme che la materia può ricevere sono rese individuali per mezzo della materia, che non può essere ricevuta in un altro soggetto, essendo essa stessa il primo sustrato (della realtà corporea); la forma invece, di suo, se non vi sono ostacoli, può essere ricevuta in più soggetti. Ma quella forma, che non può essere ricevuta dalla materia ed è per sé sussistente, ha la sua individuazione per il fatto stesso che non può essere ricevuta in un altro soggetto. Ora, Dio è una forma di questo genere. Quindi non segue che abbia una materia.

ARTICOLO 3

Se Dio sia la stessa cosa che la sua essenza o natura

SEMBRA che Dio non sia la stessa cosa che la sua essenza o natura. Infatti:
1. Di nessuna cosa si dice che è in essa medesima. Ora, dell'essenza o natura di Dio, che è la divinità, si afferma che è in Dio. Dunque non pare che Dio si identifichi con la sua essenza o natura.
2. L'effetto assomiglia alla sua causa; perché ogni agente produce cose simili a sé. Ora, nelle cose create il supposito non si identifica con la sua natura; difatti l'uomo non è la stessa cosa che la sua umanità. Dunque nemmeno Dio è identico alla sua divinità.

IN CONTRARIO: Di Dio si afferma che è la vita e non soltanto che è vivo, come appare dal Vangelo: "Io sono la via, la verità e la vita". Ora, tra divinità e Dio c'è lo stesso rapporto che tra vita e vivente. Dunque Dio si identifica con la stessa divinità.

RISPONDO: Dio è la stessa cosa che la sua essenza o natura. Per capire bene questa verità, bisogna sapere che nelle cose composte di materia e di forma l'essenza o natura e il supposito necessariamente differiscono tra loro. Perché l'essenza o natura comprende in sé soltanto ciò che è contenuto nella definizione della specie; così umanità comprende solo quel che è incluso nella definizione di uomo; solo per questo infatti l'uomo è uomo, e precisamente questo indica il termine umanità, quello cioè per cui l'uomo è uomo. Ora, la materia individuale con tutti gli accidenti che la individuano non entra nella definizione della specie; nella definizione dell'uomo infatti non sono incluse queste determinate carni, e queste ossa, o il colore bianco o quello nero, o qualche altra cosa di simile. Quindi queste carni, queste ossa e tutti gli accidenti che servono a determinare tale materia non sono compresi nella umanità. E tuttavia sono incluse in ciò che è l'uomo; conseguentemente la realtà uomo ha in sé qualche cosa che umanità non include. Ed è per questo che uomo e umanità non sono totalmente la stessa cosa; ma umanità ha il significato di parte formale dell'uomo; perché i principi (essenziali), da cui si desume la definizione, rispetto alla materia individuante hanno carattere di forma.
Perciò in quegli esseri che non sono composti di materia e di forma, e in cui l'individuazione non deriva dalla materia individuale, cioè da questa determinata materia, ma le forme s'individuano da sé, bisogna che le forme stesse siano suppositi sussistenti. Quindi in essi supposito e natura non differiscono. E così, non essendo Dio composto di materia e di forma come si è dimostrato, è necessario che sia la sua divinità, la sua vita e ogni altra cosa che di lui in tal modo enunciata.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Non possiamo parlare delle cose semplici se non al modo delle composte, dalle quali traiamo le nostre conoscenze. E perciò, parlando di Dio, ci serviamo di termini concreti (Dio, Sapiente, Buono...) per significare la sua sussistenza, perché per noi soltanto i composti sono sussistenti; e per indicare la sua semplicità adoperiamo termini astratti (Divinità, Sapienza, Bontà...). Se quindi si dice che vi sono in Dio la deità, la vita, ecc., deve ciò riferirsi a diversità esistenti nel nostro modo di concepire, e non a distinzioni esistenti nella realtà.
2. Gli effetti di Dio somigliano a lui non perfettamente ma per quanto è possibile. E tale imitazione è imperfetta, proprio perché non si può rappresentare ciò che è semplice ed uno se non per mezzo di molte cose; e per lo stesso motivo si ha nelle creature quella composizione dalla quale proviene che in esse non s'identificano supposito e natura.

ARTICOLO 4

Se in Dio essenza ed esistenza siano la stessa cosa

SEMBRA che in Dio non siano la stessa cosa essenza ed esistenza. Infatti:
1. Se così fosse, niente si aggiungerebbe (come determinante) all'essere di Dio. Ma l'essere senza determinazioni successive è l'essere generico che si attribuisce a tutte le cose. Ciò posto ne segue che Dio è l'essere astratto predicabile di tutte le cose. Il che è falso, secondo il detto della Sapienza: "imposero alle pietre e al legno l'incomunicabile nome (di Dio)". Dunque l'essere di Dio non è la sua essenza.
2. Di Dio, come si è detto, possiamo sapere se sia, non che cosa sia. Dunque non è la stessa cosa l'esistenza di Dio e la sua essenza, quiddità o natura.

IN CONTRARIO: Scrive S. Ilario: "In Dio l'esistenza non è accidentalità, ma verità sussistente". Dunque quello che sussiste in Dio è la sua esistenza.

RISPONDO: Dio non è soltanto la sua essenza, come è già stato provato, ma anche il suo essere (o esistenza). Il che si può dimostrare in molte maniere. Primo, tutto ciò che si riscontra in un essere oltre la sua essenza, bisogna che vi sia causato o dai principi dell'essenza stessa, quale proprietà della specie, come l'avere la facoltà di ridere proviene dalla natura stessa dell'uomo ed è causato dai principi essenziali della specie; o che venga da cause estrinseche, come il calore nell'acqua è causato dal fuoco. Se dunque l'esistenza di una cosa è distinta dalla sua essenza, è necessario che l'esistenza di tale cosa sia causata o da un agente esteriore, o dai principi essenziali della cosa stessa. Ora, è impossibile che l'esistere sia causato unicamente dai principi essenziali della cosa, perché nessuna cosa può essere a se stessa causa dell'esistere, se ha un'esistenza causata. È dunque necessario che le cose le quali hanno l'essenza distinta dalla loro esistenza, abbiano l'esistenza causata da altri. Ora, questo non può dirsi di Dio; perché diciamo che Dio è la prima causa efficiente. È dunque impossibile che in Dio l'esistere sia qualche cosa di diverso dalla sua essenza.
Secondo, perché l'esistere è l'attualità di ogni forma o natura; difatti la bontà o l'umanità non è espressa come cosa attuale se non in quanto dichiariamo che esiste. Dunque l'esistenza sta all'essenza, quando ne sia distinta, come l'atto alla potenza. E siccome in Dio non v'è niente di potenziale come abbiamo dimostrato sopra, ne segue che in lui l'essenza non è altro che il suo esistere. Perciò la sua essenza è la sua esistenza.
Terzo, allo stesso modo che quanto è infocato e non è fuoco, è infocato per partecipazione, così ciò che ha l'essere e non è l'essere, è ente per partecipazione. Ora, Dio, come si è provato, è la sua essenza. Se dunque non fosse il suo (atto di) essere, sarebbe ente per partecipazione e non per essenza. Non sarebbe più dunque il primo ente; ciò che è assurdo affermare. Dunque Dio è il suo essere e non soltanto la sua essenza.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'espressione "qualche cosa cui non si può aggiungere niente" si può intendere in due maniere. Prima maniera: qualche cosa che (positivamente) di sua natura importi l'esclusione di aggiunte (o determinazioni); così è proprio dell'animale non ragionevole di essere senza ragione. Seconda maniera: qualche cosa che non riceva aggiunte (o determinazioni); perché di suo non le include; così l'animale preso come genere non include la ragione, perché non è del genere animale come tale avere la ragione; ma il concetto di animale neppure lo esclude. Dunque essere senza aggiunte nella prima maniera è l'essere divino; nella seconda maniera è l'essere generico o comune.
2. Del verbo essere si fa un doppio uso: qualche volta significa l'atto dell'esistere, altre volte indica la copula della proposizione formata dalla mente che congiunge il predicato col soggetto. Se essere si prende nel primo senso noi (uomini) non possiamo dire di conoscere l'essere di Dio come non conosciamo la sua essenza; ma lo conosciamo soltanto nel secondo significato. Sappiamo infatti che la proposizione che formuliamo intorno a Dio, quando diciamo "Dio è" è vera. E ciò sappiamo dai suoi effetti, come già abbiamo detto.

ARTICOLO 5

Se Dio sia contenuto in qualche genere

SEMBRA che Dio sia contenuto in qualche genere. Infatti:
1. La sostanza è di per sé sussistente. Ora, sussistere così conviene soprattutto a Dio. Dunque Dio è nel genere sostanza.
2. Ogni cosa si misura per mezzo di qualche dato del suo medesimo genere, come le lunghezze con la lunghezza, e i numeri col numero. Ora, Dio è misura di tutte le sostanze, come dice il Commentatore. Dunque Dio è compreso nel genere sostanza.

IN CONTRARIO: Il genere logicamente si concepisce come anteriore a ciò che è contenuto sotto di esso. Ora, niente è anteriore a Dio, né realmente, né idealmente. Dunque Dio non è in alcun genere.

RISPONDO: Una cosa può esser contenuta in un genere in due maniere. In primo luogo in senso proprio e assoluto, come le specie che sono comprese nel genere. In secondo luogo per riduzione, come avviene per i principi e le privazioni: così il punto e l'unità si riducono al genere di quantità, quali principi di essa; la cecità ed ogni altra privazione si riportano al genere positivo corrispondente. Ebbene, Dio in nessuno dei due modi è incluso in un genere.
E innanzi tutto, che Dio non possa essere specie di un genere qualsiasi si può dimostrare in tre modi. Primo, la specie è costituita dal genere e dalla differenza; ora l'elemento da cui si desume la differenza costitutiva della specie sta sempre in rapporto all'elemento da cui si desume il genere, come l'atto alla potenza. Così animale (nella classica definizione dell'uomo: animale ragionevole) si prende dalla natura sensitiva senza determinazione alcuna; difatti si chiama animale l'essere che ha la natura sensitiva; ragionevole si prende dalla natura intellettiva, perché ragionevole è (l'animale) che ha la natura intellettiva: ora, intellettivo sta a sensitivo come l'atto alla potenza. Ugualmente avviene negli altri casi. Quindi, siccome in Dio l'atto è senza potenzialità, ne segue che Dio non può essere in un genere come una delle specie.
Secondo, siccome l'essere di Dio è la sua stessa essenza, come si è dimostrato, ne viene che se Dio fosse in qualche genere, bisognerebbe dire che il suo genere è l'ente: infatti il genere designa l'essenza, poiché è attributo essenziale (per la cosa di cui si dice). Ora, Aristotele dimostra che l'ente non può essere genere di cosa alcuna; perché ogni genere ha (come determinanti) differenze specifiche che sono estranee all'essenza di tale genere, mentre non si può trovare nessuna differenza estranea all'ente dal momento che il non ente non può essere una differenza. Resta dunque che Dio è fuori di ogni genere.
Terzo, tutte le cose appartenenti a un dato genere partecipano della quiddità o essenza di quel genere, che è un loro attributo essenziale. Ora, esse differiscono quanto all'essere (esistenziale); infatti non è identico l'essere (esistenziale), p. es., dell'uomo e del cavallo, e neppure di quest'uomo o di quell'altro. E così ne viene per necessità che in tutte le cose appartenenti a un dato genere differiscono l'esistere e la quiddità, o essenza. Ora, in Dio, come s'è dimostrato, non c'è questa differenza. È chiaro, dunque, che Dio non è in qualche genere come una delle specie.
Da ciò appare che Dio non ha né genere, né differenze: e non è definibile; e non è dimostrabile, se non (a posteriori) dagli effetti; perché ogni definizione è data dal genere e dalla differenza, ed il termine medio della dimostrazione (deduttiva e a priori) è la definizione.
È chiaro poi che Dio in quanto principio (o causa) non è contenuto in un dato genere per riduzione, perché il principio che si riduce a un qualche genere, non oltrepassa tale genere: così il punto non è principio che della quantità continua, e l'unità della quantità discreta (aritmetica), Dio invece è causa di tutto l'essere, come si dimostrerà più innanzi. Dunque Dio non è contenuto da nessun genere quale principio (esclusivo) di esso.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il nome di sostanza non significa soltanto essere di per sé, perché l'essere, come abbiamo visto, di suo non è genere; sostanza indica piuttosto l'essenza a cui compete essere in tal modo, cioè esistere di per sé; tuttavia questo (suo modo di) essere non è la sua essenza medesima. È chiaro perciò che Dio non è nel genere di sostanza.
2. La seconda difficoltà è giusta per ciò che riguarda misure proporzionate; esse certo devono essere omogenee col misurato. Ma Dio non è misura proporzionata per nessuna cosa: si dice però misura di tutto, perché ogni cosa tanto partecipa dell'essere quanto si avvicina a lui.

ARTICOLO 6

Se in Dio vi siano accidenti

SEMBRA che in Dio vi siano accidenti. Infatti:
1. Una sostanza non può essere accidente di nessuna cosa, come dice Aristotele. Dunque ciò che in uno è accidente, non può essere sostanza in un altro: così si prova che il calore non è forma sostanziale del fuoco, perché nelle altre cose è accidente. Ora, la sapienza, la virtù e simili, che in noi sono accidenti, si attribuiscono a Dio. Dunque anche in Dio esse sono accidenti.
2. In ogni genere di cose vi è un primo. Ora, vi sono molti generi di accidenti. Se dunque i primi di quei generi non sono in Dio vi saranno molti primi fuori di Dio. E ciò non è ammissibile.

IN CONTRARIO: Ogni accidente è in un soggetto: ora, Dio non può essere un soggetto; perché una forma semplice non può essere soggetto, come dimostra Boezio. Dunque in Dio non può esservi accidente.

RISPONDO: Da ciò che precede risulta chiaro che in Dio non può esservi accidente. Primo, perché il soggetto sta all'accidente come potenza all'atto; infatti il soggetto riceve dall'accidente una certa attualità (p. es., è reso bianco, sapiente, ecc.). Ora, ogni potenzialità in Dio è assolutamente da escludersi, come appare da ciò che è stato già detto.
Secondo, perché Dio è il suo stesso essere; ora, "sebbene ciò che è, come dice Boezio, possa avere qualche altra cosa di aggiunto, l'essere stesso non comporta aggiunta alcuna": allo stesso modo una cosa calda potrà avere un'altra qualità diversa dal caldo, p. es., la bianchezza; ma il calore stesso non potrà avere nient'altro che calore.
Terzo, perché tutto ciò che ha l'essere di per sé (cioè essenzialmente) è prima di ciò che esiste solo accidentalmente (cioè in forza di altri o per partecipazione). Quindi, essendo Dio assolutamente il primo ente, non può esservi in lui alcunché di accidentale. Non solo, ma in lui non possono esserci accidenti propri, come la risibilità che è accidente proprio dell'uomo, perché sono causati dai principi essenziali del soggetto; mentre in Dio, causa prima, non vi può essere niente di causato. Perciò rimane che in Dio non può esservi nessun accidente.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Potenza, sapienza e così via, non si attribuiscono a Dio e a noi univocamente, come si chiarirà in seguito. Quindi non segue che in Dio ci siano degli accidenti come in noi.
2. Siccome la sostanza è anteriore agli accidenti, i principi degli accidenti si riducono ai principi della sostanza come a qualche cosa di antecedente. E del resto Dio non è primo nell'ambito del genere sostanza, ma primo fuori di ogni genere, rispetto a tutto l'essere.

ARTICOLO 7

Se Dio sia del tutto semplice

SEMBRA che Dio non sia del tutto semplice. Infatti:
1. Le opere di Dio sono imitazione di Dio: tutte le cose sono enti perché derivano da lui primo ente, sono buone perché derivano da lui primo bene. Ora, tra le cose provenienti da Dio nessuna è del tutto semplice. Dunque Dio non è del tutto semplice.
2. Tutto quanto vi è di meglio deve essere attribuito a Dio. Ora, presso di noi, i composti sono migliori delle cose semplici; come i corpi misti sono migliori degli elementi e gli elementi delle loro parti. Non bisogna dire, quindi, che Dio sia del tutto semplice.

IN CONTRARIO: S. Agostino dice che Dio è veramente e sommamente semplice.

RISPONDO: Si prova in più modi che Dio è del tutto semplice: Primo, da quel che si è detto sopra. Siccome in Dio non vi è composizione alcuna, non quella di parti quantitative, perché non è corpo; né quella di forma e materia; non distinzione tra natura e supposito; né tra essenza ed esistenza; né vi è composizione di genere e di differenza; né di soggetto e di accidente; è chiaro che Dio non è composto in nessun modo, ma è del tutto semplice.
Secondo, perché ogni composto è posteriore ai suoi componenti e da essi dipende. Ora, Dio, come abbiamo dimostrato sopra, è il primo ente.
Terzo, perché ogni composto è causato; infatti, cose per sé diverse non vengono a costituire una qualche unità se non in forza di una causa unificatrice. Ora, Dio non è causato, come si è già dimostrato, essendo la prima causa efficiente.
Quarto, perché in ogni composto è necessario che vi sia la potenza e l'atto, ciò che non può verificarsi in Dio. Infatti, o una delle parti è atto rispetto all'altra, o per lo meno tutte le parti sono in potenza relativamente al tutto.
Quinto, perché ogni composto è un qualche cosa che non conviene ad alcuna delle sue parti. Ciò è evidentissimo nei composti di parti eterogenee; infatti nessuna parte dell'uomo è uomo, e nessuna parte del piede è piede. Nei composti invece di parti omogenee, qualche cosa che si dice del tutto, si dice anche della parte, come una parte dell'aria è aria, ed una parte dell'acqua è acqua; tuttavia, qualche cosa si dice del tutto, che non conviene alla parte: come se tutta la massa dell'acqua è di due cubiti, altrettanto non può dirsi delle sue parti. E così abbiamo che in ogni composto vi è sempre qualche cosa che non gli è identico. Ora, se ciò può dirsi di un essere il quale ha la forma (ma non è la sua forma), che cioè abbia qualche cosa che non è esso stesso (p. es., in un essere bianco vi è qualche cosa che non appartiene alla natura del bianco); tuttavia nella forma stessa non vi è niente di eterogeneo. E perciò essendo Dio la sua stessa forma, o meglio, il suo stesso essere, in nessun modo può dirsi composto. Accenna a questa ragione S. Ilario quando dice: "Dio, che è potenza, non è costituito di debolezze; lui, che è luce, non è composto di oscurità".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quel che deriva da Dio è imitazione di Dio, come le cose causate possono imitare la causa prima. Ora, è proprio della natura dell'ente causato essere in qualche modo composto, perché per lo meno il suo essere è distinto dalla sua essenza, come vedremo più innanzi.
2. Quaggiù tra noi, i composti sono più perfetti degli esseri semplici, perché la bontà perfetta della creatura non può trovarsi nell'uno ma richiede la molteplicità; mentre la perfezione della bontà divina si ritrova tutta nell'unità e nella semplicità. Ciò vedremo in seguito.

ARTICOLO 8

Se Dio entri in composizione con gli altri esseri

SEMBRA che Dio entri in composizione con gli altri esseri. Infatti:
1. Dice Dionigi: "La deità, che è sopra l'essere, è l'essere di tutte le cose". Ora, l'essere di tutte le cose entra nella composizione di ciascuna. Dunque Dio viene in composizione con altri esseri.
2. Dio è forma, asserendo S. Agostino che "il Verbo di Dio (che è Dio) è una certa forma non formata". Ora, la forma è parte del composto. Dunque Dio è parte di qualche composto.
3. Le cose che esistono e in nulla differiscono, sono un'identica realtà. Ora, Dio e la materia prima esistono e non differiscono in nessun modo. Dunque si identificano totalmente. Ma la materia prima entra nella composizione delle cose. Quindi anche Dio. Prova della minore: tutte le cose che differiscono, differiscono per qualche differenza, e perciò è necessario che siano composte; ma Dio e la materia prima sono del tutto semplici; dunque non differiscono in nessun modo.

IN CONTRARIO: Dice Dionigi che "non vi è né contatto di lui, (cioè di Dio), né qualsiasi altra comunanza con parti da mescolare insieme". Inoltre nel libro De Causis si dice: "La causa prima governa tutte le cose, ma non si mischia con esse".

RISPONDO: Su questo punto son corsi tre errori. Alcuni, come riferisce S. Agostino, hanno detto che Dio è l'anima del mondo; e a questo si riduce l'errore di altri i quali dissero che Dio è l'anima del primo cielo. Altri hanno affermato che Dio è il principio formale di tutte le cose. Tale, si dice, fu l'opinione dei discepoli di Almarico. Ma il terzo errore è quello di David di Dinant, il quale stoltissimamente affermò che Dio è la materia prima. Tutto ciò contiene una falsità manifesta; e non è possibile che Dio entri in qualche modo nella composizione di cosa alcuna né come principio formale, né come principio materiale.
Innanzi tutto, perché già dicemmo che Dio è la prima causa efficiente. Ora, la causa efficiente non (può mai) coincidere numericamente con la forma dell'effetto, ma solo secondo la specie; difatti un uomo genera (non se stesso ma) un altro uomo. La materia poi non coincide con la causa efficiente né numericamente, né specificamente, giacché quella è in potenza, questa invece è in atto.
In secondo luogo, perché essendo Dio la prima causa efficiente, l'agire gli appartiene primieramente e di per sé. Ora, ciò che viene in composizione con qualche cosa, non è agente di per sé e come causa principale; ché tale è piuttosto il composto: non è la mano che opera, ma l'uomo mediante la mano, e chi riscalda è il fuoco mediante il calore. Perciò Dio non può essere parte di un composto.
In terzo luogo, perché nessuna parte di un composto può in modo assoluto essere prima realtà tra gli esseri: neanche la materia e la forma, che pure sono le prime parti del composto. Infatti la materia è in potenza; e la potenza, assolutamente parlando, è posteriore all'atto, come è chiaro da quello che si è già detto. E la forma, quando è parte del composto, è forma partecipata; ora, la cosa che viene partecipata, e l'essere che la partecipa, è posteriore a ciò che è per essenza; così il fuoco (che troviamo) nelle cose infocate è posteriore al fuoco per essenza. Invece si è già dimostrato che Dio è l'essere assolutamente primo.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Si dice che la divinità è l'essere di tutte le cose come causa efficiente ed esemplare; non già per la sua essenza (come se fosse causa materiale o formale delle cose).
2. Il Verbo è forma esemplare, non già forma che fa parte del composto.
3. Le cose semplici non differiscono tra di loro per altre differenze; perché ciò è proprio dei composti. Difatti l'uomo e il cavallo (che sono composti) differiscono per le differenze di razionale e di irrazionale; ma queste differenze non differiscono alla loro volta per altre differenze. Perciò a rigore di termini, più che differenti debbono dirsi diverse; infatti secondo Aristotele diverso dice (disuguaglianza) assoluta; ma ciò che è differente, differisce soltanto per qualche cosa. Se, quindi, si vuole far forza sulla parola, la materia prima e Dio non differiscono, ma sono cose del tutto diverse. Perciò non segue che siano una stessa cosa.

Thomas Aquinas
23-06-04, 18:57
Questione 4

La perfezione di Dio

Dopo aver considerato la semplicità di Dio, dobbiamo parlare della sua perfezione. E siccome ogni essere, in quanto perfetto, si dice buono, dobbiamo trattare: primo, della perfezione di Dio; secondo, della sua bontà.
Sul primo punto ci sono tre quesiti: 1. Se Dio sia perfetto; 2. Se sia universalmente perfetto, cioè se abbia in sé le perfezioni di tutte le cose; 3. Se le creature si possano dire simili a Dio.

ARTICOLO 1

Se Dio sia perfetto

SEMBRA che essere perfetto non convenga a Dio. Infatti:
1. Dire perfetto è come dire totalmente fatto. Ora, non conviene a Dio di esser fatto. Dunque neppure di esser perfetto.
2. Dio è il principio delle cose. Ora, i principi delle cose pare che siano imperfetti: difatti il seme è principio degli animali e delle piante. Dunque Dio è imperfetto.
3. Sopra abbiamo dimostrato che la natura di Dio è l'essere stesso. Ma l'essere pare che sia cosa imperfettissima, essendo ciò che vi è di più generico e passibile delle determinazioni di tutte le cose. Dunque Dio è imperfetto.

IN CONTRARIO: È detto nel Vangelo: "Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste".

RISPONDO: Come narra Aristotele alcuni antichi filosofi, cioè i Pitagorici e Speusippo, non attribuirono al primo principio la bontà e la perfezione assoluta. E la ragione si è che gli antichi filosofi considerarono soltanto la causa materiale; e la causa materiale è la più imperfetta. La materia infatti, in quanto tale, è in potenza, perciò la prima causa materiale è per necessità massimamente in potenza, e quindi sommamente imperfetta.
Ora, si afferma che Dio è la prima causa, non materiale, ma nell'ordine delle cause efficienti, e una tale causa è necessariamente perfettissima; perché come la materia, in quanto tale, è in potenza, così l'agente, in quanto tale, è in atto. E quindi il primo principio attivo deve essere attuale al massimo grado e per conseguenza sommamente perfetto, perché un essere è detto perfetto in proporzione della sua attualità; perfetta infatti è detta quella cosa alla quale non manca niente avuto riguardo al grado della sua perfezione.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Come dice S. Gregorio "noi parliamo delle grandezze di Dio, balbettando come possiamo: a rigore, quel che non è stato fatto, non può dirsi perfetto". Ma, siccome tra le cose che si fanno si dice perfetta quella cosa che è passata dalla potenza all'atto, si usa lo stesso termine perfetto per indicare qualsiasi cosa alla quale niente manchi della pienezza del suo essere, sia che abbia ciò dall'essere stata fatta, o no.
2. Il principio materiale, riscontrato sempre imperfetto, non può essere il primo in modo assoluto, ma è preceduto da qualche cosa di perfetto. Infatti, il seme, sebbene sia il principio dell'animale generato dal seme, tuttavia presuppone un animale o una pianta da cui si è distaccato. Difatti bisogna che prima dell'essere in potenza ci sia l'essere in atto; giacché l'ente in potenza non passa all'atto se non per mezzo di un ente in atto.
3. Tra le cose, l'essere è la più perfetta, perché verso tutte sta in rapporto di atto. Niente infatti ha l'attualità se non in quanto è: perciò l'essere stesso è l'attualità di tutte le cose, anche delle stesse forme. Quindi esso non sta in rapporto alle altre cose come il ricevente al ricevuto, ma piuttosto come il ricevuto al ricevente. Infatti, se di un uomo, di un cavallo o di qualsiasi altra cosa dico che è, l'essere stesso è considerato come principio formale e come elemento ricevuto, non come ciò cui convenga l'esistenza.

ARTICOLO 2

Se si trovino in Dio le perfezioni di tutte le cose

SEMBRA che non si trovino in Dio le perfezioni di tutte le cose. Infatti:
1. Dio, come si è dimostrato, è semplice; le perfezioni delle cose invece sono numerose e diverse: perciò in Dio non possono trovarsi tutte le perfezioni delle cose.
2. Gli opposti non possono coesistere nel medesimo soggetto. Ora, le perfezioni delle cose sono tra loro opposte, perché ogni specie di cose ha la sua perfezione in forza della differenza specifica; e le differenze per le quali si divide il genere e si costituiscono le specie, procedono per via di opposizione. Non potendosi dunque trovare gli opposti nel medesimo soggetto, non sembra che in Dio possano trovarsi tutte le perfezioni delle cose.
3. Il vivente è più perfetto dell'ente, il conoscente più perfetto del vivente. Quindi anche il vivere è più perfetto dell'essere, e il conoscere più del vivere. Ora, l'essenza di Dio non è che l'essere stesso. Dunque Dio non ha in sé la perfezione della vita, della sapienza e altre perfezioni di questo genere.

IN CONTRARIO: Dionigi dice che Dio "nella sua unità precontiene tutti gli esistenti".

RISPONDO: In Dio si trovano le perfezioni di tutte le cose. Perciò è anche detto universalmente perfetto; perché non gli manca neppure una sola delle perfezioni che si possono trovare in qualsiasi genere di cose, come dice il Commentatore. E questo si può arguire da due considerazioni.
In primo luogo, per il fatto che quanto vi è di perfezione nell'effetto deve ritrovarsi nella sua causa efficiente: o secondo la stessa natura, se si tratta di agente univoco, com'è per l'uomo che genera l'uomo, oppure in grado più eminente, quando si tratta di agente analogico; così nel sole si ritrova l'equivalente di ciò che è generato per la virtù del sole. È evidente, infatti, che l'effetto preesiste virtualmente nella causa agente: ora, preesistere nella virtualità della causa agente non è un preesistere in modo meno perfetto, ma in modo più perfetto; per quanto preesistere virtualmente nella causa materiale sia un preesistere in maniera più imperfetta; e questo perché la materia, in quanto tale, è imperfetta; mentre l'agente, in quanto tale, è perfetto. Essendo, dunque, Dio la causa efficiente prima delle cose, bisogna che in lui le perfezioni di tutte le cose preesistano in un grado più eminente. Accenna a questa ragione anche Dionigi, quando dice di Dio che "non è questo sì e quello no, ma è tutto, essendo causa di tutto".
In secondo luogo, da quanto abbiamo già dimostrato, che cioè Dio è l'essere stesso per sé sussistente: di qui la necessità che egli contenga in sé tutta la perfezione dell'essere. È chiaro, infatti, che se un corpo caldo non ha tutta la perfezione del caldo, ciò avviene perché il calore non è partecipato in tutta la sua perfezione; ma se il calore fosse per sé sussistente, non gli potrebbe mancare niente di ciò che forma la perfezione del calore. Ora, Dio è lo stesso essere per sé sussistente; quindi niente gli può mancare della perfezione dell'essere. Ma le perfezioni di tutte le cose fanno parte della perfezione dell'essere, essendo perfette le cose a seconda che partecipano dell'essere in una data maniera. Di qui ne segue che a Dio non può mancare la perfezione di nessuna cosa. E anche a questa ragione accenna Dionigi quando dice che Dio "non è esistente in una qualche maniera; ma in modo assoluto ed illimitato precontiene in sé uniformemente tutto l'essere". E poco dopo aggiunge che "Egli è l'essere di quanto sussiste".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Bisogna dire con Dionigi che, come il sole "pur essendo uno e splendendo ugualmente su tutto, precontiene nella sua unità le sostanze tutte delle cose sensibili e le loro qualità molteplici e diverse; così, a più forte ragione, è necessario che, nella causa di tutte le cose, tutte preesistano unificate nella natura di essa". E in tal modo, esseri, che considerati in se stessi sono diversi e opposti, preesistono in Dio come una cosa sola, senza menomare la semplicità divina.
2. E con ciò è sciolta anche la seconda difficoltà.
3. Come dice lo stesso Dionigi nel capitolo citato, sebbene l'essere stesso sia più perfetto della vita, e la vita più perfetta della sapienza, se si considerano in astratto le loro distinzioni; tuttavia quello che vive è (in concreto) più perfetto di quello che ha soltanto l'essere, perché il vivente è anche ente; e il sapiente è anche ente e vivente. Quindi, sebbene la nozione di ente non includa in se stessa la nozione di vivente e di sapiente, perché non è necessario che chi partecipa l'essere lo partecipi secondo tutti i modi dell'essere, tuttavia l'essere stesso di Dio include in sé anche la vita e la sapienza, perché nessuna delle perfezioni dell'essere può mancare a Colui che è l'essere stesso per sé sussistente.

ARTICOLO 3

Se una creatura possa essere simile a Dio

SEMBRA che nessuna creatura possa essere simile a Dio. Infatti:
1. È detto nei Salmi: "Non v'è simile a te tra gli dei, o Signore". Ora, tra tutte le creature, le più nobili sono quelle che sono chiamate dei per partecipazione. Dunque molto meno possono dirsi simili a Dio le altre creature.
2. La somiglianza è una specie di confronto. Ma non si dà confronto tra cose di diverso genere; quindi neppure somiglianza: nessuno infatti dice che il dolce somiglia al bianco. Ora, nessuna creatura è dello stesso genere di Dio che, come si è provato, è al di sopra di ogni genere. Perciò nessuna creatura è simile a Dio.
3. Simili si dicono quelle cose che hanno comunanza di forma. Ora, niente combina con Dio nella forma, perché in nessuna cosa, tranne che in Dio, l'essenza si identifica con l'essere. Perciò nessuna creatura può essere simile a Dio.
4. Tra cose simili la somiglianza è reciproca, perché il simile è simile al simile. Se dunque qualche creatura è simile a Dio, Dio sarà simile a qualche creatura. Ciò contrasta apertamente col detto di Isaia: "A chi rassomigliereste Dio?".

IN CONTRARIO: Nella Genesi si dice: "Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza" e in S. Giovanni: "Quando si sarà manifestato, saremo simili a lui".

RISPONDO: Siccome la somiglianza si prende dal convenire o comunicare nella forma, vi sono tante maniere di somiglianza a seconda dei vari modi di comunicare nella forma. Si dicono simili alcune cose le quali hanno in comune la stessa forma secondo la stessa natura (o attributo essenziale), e secondo lo stesso grado: in questo caso non solo sono simili, ma uguali nella loro somiglianza: come due cose ugualmente bianche si dicono simili nella bianchezza. E questa è la somiglianza più perfetta. - In secondo luogo si dicono simili quelle cose che hanno un'uguale forma, secondo la stessa natura non però secondo lo stesso grado, ma secondo un più e un meno; come una cosa meno bianca si dice simile a un'altra più bianca. E questa è somiglianza imperfetta. - In terzo luogo, si dicono simili alcune cose che hanno la stessa forma, ma non secondo la stessa natura (specifica), come è il caso degli agenti non univoci. Siccome ogni agente, in quanto tale, tende ad imprimere la sua somiglianza, ed ogni cosa agisce secondo la sua forma, è necessario che nell'effetto ci sia una somiglianza della forma dell'agente. Se dunque l'agente è contenuto nella stessa specie del suo effetto, la somiglianza tra la causa e l'effetto sarà nella forma secondo la stessa natura specifica; come avviene dell'uomo che genera un altro uomo. Se poi l'agente non è contenuto nella stessa specie, vi sarà somiglianza, ma non secondo la stessa natura specifica: così le cose che si generano per la virtù del sole, si accostano sì a una certa somiglianza col sole, ma non sino a partecipare alla forma del sole secondo la somiglianza specifica, ma solo secondo una somiglianza generica.
Se dunque vi è un agente che non è contenuto in alcun genere, i suoi effetti avranno una somiglianza anche più lontana dalla di lui forma; cioè non arriveranno mai a somigliare la forma dell'agente secondo la stessa natura specifica o generica, ma solo secondo una certa analogia, come nel caso dell'essere, il quale è comune a tutte le cose. E solo in questo modo le cose prodotte da Dio possono a lui somigliare come enti al primo ed universale principio di tutto l'essere.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Come dice Dionigi, quando la Scrittura nega che qualche cosa sia simile a Dio, "non contesta la somiglianza con lui. E infatti le medesime cose possono essere simili a Dio e dissimili: simili, in quanto lo imitano nella misura in cui è consentito imitare colui, che non è perfettamente imitabile; dissimili, in quanto si discostano dalla loro causa"; e non solo secondo una minore o maggiore intensità, come il meno bianco si discosta dà ciò che è più bianco, ma anche perché non vi è comunanza di specie né di genere.
2. Dio non sta in rapporto alle creature come cosa di genere diverso; ma come ciò che è fuori d'ogni genere e principio di tutti i generi.
3. Non si dice che vi è somiglianza della creatura con Dio per comunanza di forma secondo la stessa natura specifica o generica; ma solo secondo analogia, in quanto cioè Dio è ente per essenza, e le altre cose per partecipazione.
4. Se in qualche modo si concede che la creatura è simile a Dio, in nessuna maniera si deve ammettere che Dio è simile alla creatura, perché, come dice Dionigi, "la mutua somiglianza si dà tra esseri appartenenti ad uno stesso ordine, non tra causa e causato": così si usa dire che il ritratto somiglia a una data persona, e non viceversa. Parimente, in qualche modo si può dire che la creatura è simile a Dio, non già che Dio è simile alla creatura.

Thomas Aquinas
23-06-04, 18:58
Questione 5

Il bene in generale

Continuando passiamo alla questione del bene. Tratteremo: primo, del bene in generale; secondo, della bontà di Dio.
Sul primo punto poniamo sei quesiti: 1. Se il bene e l'ente si identifichino nella realtà; 2. Supposto che differiscano soltanto concettualmente, si domanda: se sia prima logicamente il bene o l'ente; 3. Supposto che l'ente sia prima, si chiede se ogni ente sia buono; 4. A quale causa si riduca la nozione di bene; 5. Se la nozione di bene consista nel modo, nella specie e nell'ordine; 6. Come il bene si divida in onesto, utile e dilettevole.

ARTICOLO 1

Se il bene differisca realmente dall'ente

SEMBRA che il bene differisca realmente dall'ente. Infatti:
1. Dice Boezio: "nelle cose io scorgo che altra cosa è esser buono, ed altra cosa essere". Dunque il bene e l'ente differiscono realmente.
2. Niente è forma di se stesso. Ma il bene, come si ha nel libro De Causis, è determinazione formale dell'ente. Dunque il bene differisce realmente dall'ente.
3. Il bene può essere maggiore o minore; l'ente no. Dunque il bene è realmente distinto dall'ente.

IN CONTRARIO: S. Agostino dice: "In quanto siamo, siamo buoni".

RISPONDO: Il bene e l'ente si identificano secondo la realtà, ma differiscono solo secondo il concetto. Eccone la dimostrazione. La ragione di bene consiste in questo, che una cosa è desiderabile: infatti Aristotele dice che il bene è "ciò che tutte le cose desiderano". Ora è chiaro che una cosa è desiderabile nella misura che è perfetta, perché ogni cosa tende appunto a perfezionare se stessa. Ma in tanto una cosa è perfetta in quanto è in atto: e così è evidente che una cosa in tanto è buona in quanto è ente; l'essere infatti è l'attualità di ogni cosa, come appare da quanto si è detto in antecedenza. E così si dimostra che il bene e l'ente si identificano realmente; ma il bene esprime il concetto di appetibile, non espresso dall'ente.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Nonostante che il bene e l'ente siano in realtà l'identica cosa, pure siccome differiscono nel loro concetto, una cosa è detta ente in senso assoluto (simpliciter), ed è detta bene in senso assoluto non alla stessa maniera. Siccome infatti ente indica che qualche cosa è propriamente in atto, e atto dice ordine alla potenza, diremo che una cosa è ente in senso pieno ed assoluto in forza di quell'elemento per cui originariamente viene a distinguersi da ciò che è solo in potenza. E questo è l'essere sostanziale di ogni realtà; quindi una cosa è detta ente in senso pieno e assoluto in forza del suo essere sostanziale. In forza degli atti sopraggiunti invece, si dice che una cosa è ente (secundum quid cioè) in qualche modo; così esser bianco significa essere in quella maniera: in realtà il fatto d'esser bianca non toglie una cosa dalla pura potenza ad esistere, dal momento che l'esser bianca viene ad aggiungersi a una realtà che preesiste già in atto. Il bene invece esprime l'idea di cosa perfetta, vale a dire desiderabile: e per conseguenza include il concetto di cosa ultimata. Perciò si chiama bene in senso pieno e assoluto ciò che si trova in possesso della sua ultima perfezione. Quello invece che non ha l'ultima perfezione che dovrebbe avere, sebbene abbia una certa perfezione in quanto è in atto, non si dice per questo perfetto in senso pieno ed assoluto, e neppure buono in senso pieno ed assoluto, ma solo buono in qualche modo. Così dunque in base all'essere primo e fondamentale, che è l'essere della sua sostanza, una cosa è detta ente in senso pieno ed assoluto e bene in qualche modo, cioè in quanto è una entità; al contrario, secondo la sua ultima attualità una cosa si dice ente in qualche modo, e buona in senso pieno ed assoluto. Quindi allorché Boezio afferma che "nelle cose altro è l'esser buone, altra cosa l'essere", si deve intendere dell'essere e del bene presi entrambi in senso pieno e assoluto: perché in forza dell'atto primo e fondamentale una cosa è ente in senso pieno e assoluto, ed è invece bene in tal senso in forza del suo atto ultimo. Al contrario, in forza della sua prima attualità è bene solo in qualche maniera, e in forza della sua ultima e perfetta attualità è solo in qualche modo ente.
2. Si può dire che il bene è come una forma nuova, in quanto si considera il bene in senso pieno e assoluto il quale consiste nell'ultima attualità.
3. Ugualmente si risponde alla terza difficoltà; che cioè il bene può dirsi maggiore o minore in base alle attualità (o perfezioni) aggiunte, come potrebbero essere la scienza o la virtù.

ARTICOLO 2

Se il bene concettualmente sia prima dell'ente

SEMBRA che il bene concettualmente sia anteriore all'ente. Infatti:
1. L'ordine dei nomi segue l'ordine delle cose espresse dai nomi. Ora Dionigi tra i nomi di Dio, pone il bene prima dell'ente. Dunque il bene concettualmente è anteriore all'ente.
2. È prima secondo l'ordine di ragione ciò che si estende ad un numero maggiore di oggetti. Ora, il bene ha un'estensione maggiore dell'ente; perché, al dire di Dionigi, "il bene si estende alle cose esistenti e a quelle non esistenti, mentre l'ente si estende alle sole esistenti". Dunque il bene razionalmente è prima dell'ente.
3. Ciò che è più universale ha una priorità di ragione. Ora, il bene pare che sia più universale dell'ente, perché il bene si presenta come appetibile, e per alcuni è desiderabile perfino il non esistere, come si afferma di Giuda: "sarebbe stato meglio per quest'uomo che non fosse mai nato". Dunque il bene razionalmente è prima dell'ente.
4. Non l'essere soltanto è desiderabile, ma anche la vita e la sapienza e tante altre cose del genere: di qui appare che l'essere è un desiderabile particolare, mentre il bene è il desiderabile nella sua universalità. Dunque il bene nel suo concetto è assolutamente anteriore all'essere.

IN CONTRARIO: È detto nel libro De Causis che "l'essere è la prima delle cose create".

RISPONDO: L'ente concettualmente è prima del bene. Infatti il significato letterale del nome (che noi diamo a una cosa) è ciò che l'intelletto concepisce della medesima, e che esprime mediante la parola: perciò è primo, come concetto, ciò che per primo cade sotto la concezione della nostra intelligenza. Ora, nel concepire che fa la nostra intelligenza in primo luogo viene l'ente; perché, come dice Aristotele, una cosa è conoscibile in quanto è in atto. Cosicché l'ente è l'oggetto proprio dell'intelligenza: e quindi è il primo intelligibile, come il suono è il primo oggetto dell'udito. Così dunque l'essere precede concettualmente il bene.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Dionigi tratta dei nomi di Dio in quanto implicano un rapporto di causalità riguardo a Dio: noi, infatti, come egli osserva, nominiamo Dio (partendo) dalle creature, come si parte dagli effetti (per denominare) la causa. Ora, il bene, presentandosi come desiderabile, richiama l'idea di causa finale; il cui influsso ha un primato, perché l'agente non opera se non in vista del fine, e dall'agente la materia viene disposta alla forma; perciò si dice che il fine è la causa delle cause. E così, nel causare, il bene è prima dell'ente, come il fine è prima della forma; ed è per questo motivo che tra i nomi esprimenti la divina causalità, si mette il bene prima dell'essere. - Bisogna anche osservare che secondo i Platonici (e tale era Dionigi) - i quali, identificando la materia con la privazione, dicevano la materia essere un non-ente - la partecipazione del bene sarebbe più estesa della partecipazione dell'essere. E infatti la materia prima partecipa il bene, perché lo appetisce (e nessuna cosa appetisce se non ciò che le somiglia), ma non partecipa l'essere, perché, a detta dei Platonici, è un non-ente. Ed è per questo che Dionigi dice che "il bene si estende ai non esistenti".
2. Così abbiamo dato anche la soluzione della seconda difficoltà. - Oppure si può anche dire che il bene si estende alle cose esistenti ed alle non esistenti, non quale attributo intrinseco, ma per relazioni di causalità; in maniera che per non esistenti non si devono intendere delle cose che non esistono affatto, ma cose che sono in potenza e non in atto; poiché il bene importa l'idea di fine, il quale fine non solo è raggiunto dalle cose in atto, ma attrae verso di sé anche le cose che non sono in atto ma solo in potenza. L'ente, viceversa, non dice relazione che di causa formale, intrinseca o esemplare; e tale causalità non si estende se non alle cose esistenti in atto.
3. Il non essere non è appetibile di per sé, ma solo indirettamente, cioè in quanto è desiderabile la distruzione di un male, il quale male è eliminato dal non-essere. La distruzione del male poi non è desiderabile se non in quanto il male ci priva di un certo essere. Quindi ciò che è di per sé appetibile è l'essere: il non-essere è appetibile solo indirettamente, in quanto si desidera un certo essere, di cui l'uomo non sa sopportare la privazione. E così, anche il non essere si può dire bene in modo indiretto.
4. La vita, il sapere e gli altri beni, si desiderano in quanto sono in atto: perciò in tutte le cose si desidera un certo essere. E così niente è desiderabile all'infuori di ciò che è: conseguentemente all'infuori dell'ente, niente è buono.

ARTICOLO 3

Se ogni ente sia buono

SEMBRA che non ogni ente sia buono. Infatti:
1. Il bene aggiunge qualche cosa all'ente, come risulta dal già detto. Ora, ciò che aggiunge qualche cosa all'ente, lo coarta, ne restringe il significato: come fanno la sostanza, la quantità, la qualità e simili. Quindi il bene restringe l'ente, e perciò non ogni ente è buono.
2. Nessun male è buono; sta scritto infatti in Isaia: "Guai a voi che dite male il bene e bene il male". Ora, alcuni enti si dicono cattivi. Dunque non ogni ente è buono.
3. Il bene nel suo concetto dice appetibilità. Ora, la materia prima non dice appetibilità, ma appetito o tendenza (poiché tende all'atto o alla forma come ogni potenzialità). Perciò non presenta la natura di bene. Quindi non ogni ente è buono.
4. Dice Aristotele che nelle entità matematiche non esiste il bene. Ma anche le entità matematiche sono enti, altrimenti di esse non avremmo una scienza. Dunque non ogni ente è buono.

IN CONTRARIO: Ogni essere che non è Dio, è creatura di Dio. Ma "ogni cosa creata da Dio è buona" come si legge nella Scrittura. Dio poi è sommamente buono. Dunque ogni ente è buono.

RISPONDO: Ogni ente, in quanto ente, è buono. Infatti ogni ente, in quanto ente, è in atto, e in qualche modo perfetto; perché ogni atto è una perfezione. Ora, il perfetto ha ragione di appetibile e di bene, come si è dimostrato sopra. Conseguentemente ogni ente, in quanto tale, è buono.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La sostanza, la quantità e la qualità e tutto ciò che si trova contenuto sotto questi generi, restringono l'ente applicandolo a qualche quiddità o natura. Non così fa il bene rispetto all'ente; ma gli aggiunge soltanto l'idea di appetibile e di perfezione, e ciò compete allo stesso essere in qualsiasi natura si trovi. Dunque il bene non restringe l'ente.
2. Nessun ente si dice cattivo in quanto ente, ma in quanto mancante di un certo essere: così l'uomo si dice cattivo perché gli manca l'entità virtù: e l'occhio si dice cattivo quando è mancante dell'acume della vista.
3. La materia prima come non è ente se non in potenza, così non è bene se non potenzialmente. Dal punto di vista dei Platonici si potrebbe anche dire che la materia prima è un non-ente a motivo della privazione che include; ma anche così intesa partecipa qualche cosa del bene, cioè l'orientamento e l'attitudine al bene. E proprio per questo non le compete d'essere appetibile, ma piuttosto di appetire essa stessa.
4. Le entità matematiche (numeri, punti, linee, triangoli, ecc.) non sussistono separate nella realtà, ché se sussistessero, ci sarebbe in esse il bene, cioè il loro stesso essere reale. Le entità matematiche poi non esistono separate dalle cose se non per un atto della ragione, in quanto cioè sono (concepite come) astratte dal moto e dalla materia; e in tal modo sono sottratte alla ragione di fine, il quale di sua natura è principio movente. E non c'è niente di strano che in qualche essere, idealmente, manchi il bene o l'aspetto caratteristico di bene, quando sappiamo che l'idea di ente è anteriore all'idea di bene, come già si disse.

ARTICOLO 4

Se il bene abbia il carattere di causa finale

SEMBRA che il bene più che di causa finale rivesta il carattere di altre cause. Infatti:
1. Dice Dionigi: "Il bene è lodato come bellezza". Ora, il bello appartiene alla causa formale. Dunque anche il bene.
2. Il bene è diffusivo del suo essere, come abbiamo dalle parole di Dionigi, dove dice che "il bene è ciò da cui deriva che le cose sussistono e sono". Ora, essere diffusivo è proprio della causa efficiente. Dunque il bene ha il carattere di causa efficiente.
3. S. Agostino afferma che "noi esistiamo perché Dio è buono". Ora, noi siamo da Dio come da causa efficiente. Dunque il bene ha il carattere di causa efficiente.

IN CONTRARIO: Aristotele dice che "lo scopo per cui una cosa esiste è come il fine ed il bene di tutto il resto". Quindi il bene ha carattere di causa finale.

RISPONDO: Bene si dice quanto è comunque desiderato, e ciò implica l'idea di fine; è evidente quindi che il bene presenta il carattere di causa finale. Nondimeno l'idea di bene presuppone l'idea di causa efficiente e quella di causa formale. Noi infatti vediamo che le cose riscontrate come prime nel causare sono le ultime nel causato: p. es., il fuoco, prima di comunicare la sua natura di fuoco, riscalda, sebbene il calore nel fuoco sia dovuto alla sua forma sostanziale. Ora, nell'ordine delle cause, prima si riscontra il bene - il fine - che mette in movimento la causa efficiente; poi, viene l'azione della causa efficiente, che muove alla (nuova) forma; finalmente si ha (nel soggetto) la forma. Nell'effetto causato invece si ha un ordine inverso; cioè, prima si ha la forma, che costituisce l'essere; poi, in questa forma si riscontra una virtù attiva, che appartiene all'essere perfetto (perché, come insegna Aristotele, una cosa è perfetta quando può produrre il suo simile): finalmente segue la ragione di bene, su cui si fonda la perfezione dell'ente.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ. 1. Veramente il bello ed il buono nel soggetto in cui esistono si identificano, perché fondati tutti e due sulla medesima cosa, cioè sulla forma; e per questo il bene viene lodato come bellezza. Ma nel loro concetto proprio differiscono. Il bene riguarda la facoltà appetitiva, essendo il bene ciò che ogni ente appetisce, e quindi ha il carattere di fine, poiché l'appetire è come un muoversi verso una cosa. Il bello, invece, riguarda la facoltà conoscitiva; belle infatti sono dette quelle cose che viste destano piacere. Per cui il bello consiste nella debita proporzione; poiché i nostri sensi si dilettano nelle cose ben proporzionate, come in qualche cosa di simile a loro; il senso infatti come ogni altra facoltà conoscitiva, è una specie di proporzione. E poiché la conoscenza si fa per assimilazione, e la somiglianza d'altra parte riguarda la forma, il bello propriamente si ricollega all'idea di causa formale.
2. Si dice che il bene tende a diffondere il proprio essere (non come causa agente ma) nel senso stesso in cui si dice che il fine muove.
3. L'agente volontario (p. es., l'uomo) si dice buono in quanto ha la volontà buona, perché noi facciamo uso di tutto quello che è in noi mediante la volontà. Quindi non si dice buono un uomo che ha buona intelligenza, ma un uomo che ha buona la volontà. Ora, la volontà ha per proprio oggetto il fine; e quindi la frase (di S. Agostino) "noi esistiamo perché Dio è buono" si riferisce alla causa finale.

ARTICOLO 5

Se la natura del bene consista nel modo, nella specie e nell'ordine

SEMBRA che la natura propria del bene non consista nel modo, nella specie e nell'ordine. Infatti:
1. Il bene e l'ente concettualmente differiscono, come è già stato detto. Ora, modo, specie e ordine sembrano piuttosto appartenere al concetto di ente, poiché si dice nella Scrittura: "tutte le cose (o enti) hai disposto in misura, numero e peso"; e a questi tre elementi si riducono il modo, la specie e l'ordine, come spiega lo stesso S. Agostino, il quale appunto scrive: "La misura determina a ciascuna cosa il suo modo; il numero offre a ogni cosa la sua specie; e il peso trae ogni cosa al suo riposo e alla sua stabilità". Dunque non l'essenza del bene consiste nel modo, nella specie e nell'ordine.
2. Modo, specie ed ordine sono anch'essi dei beni. Se dunque il bene consiste nel modo, nella specie e nell'ordine, bisogna che ognuna di queste cose abbia e modo e specie e ordine. Si andrebbe così all'infinito.
3. Il male consiste nella privazione del modo, della specie e dell'ordine. Ora, il male non toglie totalmente il bene. Dunque il bene non consiste nel modo, nella specie e nell'ordine.
4. Non può dirsi cattivo ciò che forma l'essenza del bene. Ora, si dice: malo modo, cattiva specie, ordine difettoso. In essi dunque non può consistere l'essenza del bene.
5. Modo, specie e ordine, derivano dal peso, dal numero e dalla misura com'è evidente dal brano citato di S. Agostino. Ora, non tutte le cose buone hanno numero, peso e misura; S. Ambrogio infatti dice che "la natura della luce consiste nel non essere stata creata in numero, peso e misura". Dunque il bene non consiste nel modo, nella specie e nell'ordine.

IN CONTRARIO: Scrive S. Agostino: "Queste tre cose: il modo, la specie e l'ordine sono come dei beni generali nelle cose fatte da Dio: per cui, dove queste tre cose sono grandi, vi sono grandi beni; dove piccole, piccoli beni; dove non ci sono, non c'è alcun bene". Ciò non sarebbe se in esse non consistesse l'essenza del bene. Dunque il bene consiste nel modo, nella specie e nell'ordine.

RISPONDO: Una cosa è detta buona nella misura che è perfetta, perché per questo è desiderabile, come si è dimostrato sopra. Perfetto infatti è ciò cui niente manca stando al modo della sua perfezione. Siccome poi ogni essere è quello che è in forza della sua forma, e siccome ogni forma ha i suoi presupposti e le sue conseguenze necessarie; affinché una cosa sia perfetta e buona è necessario che abbia la sua forma, i prerequisiti di essa e ciò che ne deriva. Ora, ogni forma preesige l'esatta determinazione o commensurazione dei suoi principi tanto materiali che efficienti; e ciò viene espresso dal modo: per cui si dice che la misura predetermina il modo. La forma stessa è indicata dalla specie, perché mediante la forma ogni cosa è costituita nella sua specie. E per questo si dice che il numero fornisce la specie; perché, al dire di Aristotele, le definizioni che esprimono la specie sono come i numeri: come infatti un'unità aggiunta o sottratta cambia la specie del numero, così nelle definizioni una differenza aggiunta o sottratta (cambia la specie della cosa definita). Dalla forma poi deriva la tendenza al fine, o all'azione o ad altre cose di questo genere; perché ogni essere agisce in quanto è in atto, e tende verso ciò che gli si confà secondo la sua forma. Tutto ciò è indicato dal peso e dall'ordine. Cosicché la nozione di bene, come consiste nella perfezione, consiste pure nel modo, nella specie e nell'ordine.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ. 1. Queste tre cose (numero, peso e misura) non accompagnano l'ente se non in quanto è perfetto: e sotto quest'aspetto l'ente è buono o bene.
2. Modo, specie e ordine si dicono beni nella stessa maniera che si dicono enti: non perché essi siano realtà sussistenti, ma perché per mezzo di essi altre cose sono enti e beni. Quindi non è necessario che essi abbiano altri principi per esser buoni. Infatti non son detti buoni come se formalmente fossero buoni per mezzo di altri principi; ma perché per mezzo di essi certe cose sono formalmente buone; come la bianchezza, p. es., non si dice che è un'entità perché è costituita da qualche cosa, ma perché per mezzo di essa una cosa ha un certo modo di essere, vale a dire è bianca.
3. Ogni essere è costituito secondo una certa forma, e perciò a seconda del vario modo di essere di ciascuna cosa, vi sarà un modo, una specie, un ordine: così, un uomo, in quanto uomo, ha un modo, una specie, un ordine; ugualmente in quanto bianco ha una specie, un modo e un ordine; così pure in quanto è virtuoso e sapiente, e così per ogni altro suo attributo. Ora, il male priva di un certo essere, p. es., la cecità priva dell'entità della vista: perciò non toglie ogni modo, specie e ordine, ma soltanto il modo, la specie e l'ordine propri dell'entità della vista.
4. Come spiega S. Agostino: "Ogni modo, in quanto modo, è buono" (e altrettanto può dirsi della specie e dell'ordine); (perciò quando si dice:) "malo modo, cattiva specie, ordine difettoso, si vuole soltanto dire o che in un dato soggetto non ci sono in quel grado in cui ci dovrebbero essere, o che non sono adattati a quelle cose alle quali devono essere adattati; cosicché (modo, specie e ordine) si dicono cattivi perché sono fuori di posto e sconvenienti".
5. La luce è detta da S. Ambrogio senza numero, senza peso e misura, non in senso assoluto, ma in confronto ad altri corpi, perché essa si estende a tutti i corpi; essendo una qualità attiva del primo corpo alterante, cioè del cielo.

ARTICOLO 6

Se il bene sia diviso convenientemente in bene onesto, utile e dilettevole

SEMBRA che il bene non sia diviso convenientemente in bene onesto, utile e dilettevole. Infatti:
1. Dice Aristotele che "il bene si divide secondo i dieci predicamenti". Ora, l'onesto, l'utile e il dilettevole si possono riscontrare in un solo predicamento. Quindi non è esatta una tale divisione.
2. Ogni divisione si fa per mezzo di contrapposizioni. Ora, queste tre cose non sembrano opposte tra loro; perché, come dice pure Cicerone, i beni onesti sono anche dilettevoli e nessuna cosa disonesta è (veramente) utile (ciò che, tuttavia, dovrebbe essere, se la divisione si facesse per contrapposizione in modo da opporre onesto e utile). Non è dunque conveniente la suddetta divisione.
3. Se una cosa esiste per un'altra (non si devono queste due cose contrapporre perché in certo modo) non ne formano che una sola. Ora, l'utile, non è buono se non perché fa raggiungere il dilettevole e l'onesto. Dunque l'utile non si deve dividere in contrapposizione all'onesto e al dilettevole.

IN CONTRARIO: S. Ambrogio usa tale divisione del bene.

RISPONDO: Questa divisione sembrerebbe propria del bene umano. Tuttavia, considerando l'idea di bene da un punto più alto e più generale, troviamo che tale divisione conviene propriamente al bene in quanto bene. Infatti, una cosa è buona in quanto è desiderabile e termine del moto della facoltà appetitiva. Il termine di questo moto si può giudicare alla stregua del movimento di un corpo fisico. Pertanto, il movimento di un corpo fisico termina, assolutamente parlando, all'ultima tappa; ma in qualche modo anche alle tappe intermedie, attraverso le quali si arriva all'ultima, che pone termine al moto; e queste si dicono impropriamente termini del moto in quanto ne terminano una parte. Inoltre, per ultimo termine del movimento si può intendere o la cosa stessa verso la quale tende il movimento, come una nuova località o una nuova forma d'essere, oppure il riposo nel punto d'arrivo. Orbene, nel moto della facoltà appetitiva, l'appetibile che termina solo relativamente il moto dell'appetito, come mezzo per tendere ad altro, si chiama utile. Quanto poi vien desiderato come scopo ultimo e che termina totalmente il moto dell'appetito, come cosa verso la quale il desiderio tende direttamente, si chiama onesto, perché onesto è ciò che si desidera direttamente. Quello poi che termina il moto dell'appetito, come riposo nell'oggetto desiderato, è il dilettevole.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il bene, in quanto in concreto si identifica con l'ente, si divide nei dieci predicamenti; ma preso nel suo concetto proprio gli si addice la divisione sopraindicata.
2. La presente divisione non si fa per opposizione di cose, ma di formalità o di concetti. Tuttavia, in senso più ristretto si chiamano dilettevoli quelle cose che in sé non hanno altra ragione di desiderabilità che il piacere, essendo talora nocive e disoneste. Utili poi si dicono quelle che in sé non hanno di che esser desiderabili, ma che si appetiscono solo in quanto conducono ad altro bene, come prendere una medicina amara. Oneste finalmente si dicono quelle cose che in sé medesime presentano un'attrattiva.
3. Il bene non si divide nei tre modi suddetti come un concetto univoco che si applica a ciascuno di essi ugualmente; ma come un concetto analogo, che si applica secondo una certa gradazione (cioè in ragione di dipendenza). La nozione di bene primieramente si applica all'onesto, in secondo luogo al dilettevole, in terzo luogo all'utile.

Thomas Aquinas
23-06-04, 18:58
Questione 6

La bontà di Dio

Passiamo ora a trattare della bontà di Dio. Su questo argomento poniamo quattro quesiti: 1. Se a Dio convenga la bontà; 2. Se Dio sia il sommo bene; 3. Se egli solo sia buono per essenza; 4. Se tutte le cose siano buone della bontà di Dio.

ARTICOLO 1

Se la bontà convenga a Dio

SEMBRA che la bontà non convenga a Dio. Infatti:
1. La bontà consiste nel modo, nella specie e nell'ordine. Ora, tali attributi non pare che convengano a Dio, perché Dio (è senza modo e misura) è l'immenso e non dice ordine a nessuna cosa. Dunque a lui non si addice di esser buono.
2. Il bene è ciò che tutte le cose appetiscono. Ora, non tutte le cose desiderano Dio, perché non tutte le cose lo conoscono, e non si dà desiderio di ciò che s'ignora. Dunque a Dio non si addice la bontà.

IN CONTRARIO: È detto nelle Lamentazioni di Geremia: "Il Signore è buono con quelli che sperano in lui, con l'anima che lo ricerca".

RISPONDO: L'esser buono conviene principalmente a Dio. Infatti, una cosa è buona nella misura che è desiderabile. Ora, ogni ente desidera la propria perfezione. Ma la perfezione e la forma di un effetto non è altro che una somiglianza partecipata della causa agente, poiché ogni agente produce qualche cosa di simile a sé. Di qui segue che lo stesso agente è desiderabile (da parte dell'effetto) e ha natura di bene: infatti quello che si desidera è di parteciparne la somiglianza. Siccome dunque Dio è la prima causa produttiva di tutte le cose, è evidente che a lui compete la natura di bene e di appetibile. Perciò Dionigi attribuisce il bene a Dio, come alla prima causa efficiente, affermando che si dice buono "come colui in forza del quale tutte le cose sussistono".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Avere modo, specie e ordine è proprio del bene causato. In Dio invece il bene è come nella (sua propria) causa; quindi a lui spetta imprimere nelle cose il modo, la specie e l'ordine. Perciò queste tre cose sono in Dio come nella loro causa.
2. Tutte le cose tendendo alla propria perfezione tendono a Dio stesso, in quanto che le perfezioni di tutte le cose altro non sono che delle somiglianze dell'Essere divino, come è chiaro da ciò che si è detto. E così tra gli esseri che tendono a Dio, alcuni lo conoscono in se stesso, e questo è proprio della creatura razionale; altri conoscono certe partecipazioni della sua bontà, e questo va esteso fino alla conoscenza sensitiva. Altri, finalmente, hanno tendenze naturali senza consapevolezza, inclinati come sono verso i loro fini da un essere superiore dotato di conoscenza.

ARTICOLO 2

Se Dio sia il sommo bene

SEMBRA che Dio non sia il sommo bene. Infatti:
1. Sommo bene aggiunge qualche cosa a bene, ché altrimenti converrebbe ad ogni bene. Ora, tutto ciò che è così costituito come per addizione, è composto. Il sommo bene sarebbe perciò composto. Ma Dio è sommamente semplice, come s'è già visto. Dunque Dio non è il sommo bene.
2. Il bene è ciò che è desiderato da tutti gli esseri, come dice Aristotele. Ora, non c'è nient'altro che sia da tutti gli esseri desiderato, all'infuori di Dio, il quale è il fine di tutte le cose. Dunque non c'è altro bene che Dio. Come sembra anche da ciò che è detto nel Vangelo: "Nessuno è buono, se non il solo Dio". Ora, sommo si dice in confronto di altri: p. es., sommo caldo in confronto di tutti gli altri corpi caldi. Dunque Dio non può dirsi sommo bene.
3. Sommo importa comparazione. Ora, cose che non sono di uno stesso genere non sono tra loro paragonabili; così sarebbe strano dire che la dolcezza è più grande o più piccola della linea. Non essendo dunque Dio nel medesimo genere degli altri beni, come si è visto sopra, non pare che Dio possa dirsi sommo bene in confronto di essi.

IN CONTRARIO: S. Agostino dice che la Trinità delle divine persone "è il sommo bene, che solo le menti del tutto pure possono conoscere".

RISPONDO: Dio è il sommo bene in modo assoluto, e non soltanto in qualche genere od ordine di cose. Infatti, il bene si attribuisce a Dio, come abbiamo visto, in quanto che tutte le perfezioni desiderate emanano da lui come da prima causa. Ora, tali perfezioni non scaturiscono da Dio come da causa univoca, come si è già detto; ma come da agente che non ha in comune con i suoi effetti né la specie, né il genere. Ora, nella causa univoca la somiglianza dell'effetto si trova in modo uniforme; ma in una causa equivoca (analoga) vi si trova in grado più eminente, come (p. es.) il calore si trova a un grado più alto nel sole che nel fuoco. Così dunque è necessario che in Dio il bene si trovi in grado eccellentissimo, essendo in lui come nella causa non univoca di tutti gli esseri. E per questo motivo si chiama il sommo bene.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Sommo bene non aggiunge al bene un qualche cosa di reale, ma soltanto una relazione. Ora, la relazione che passa tra Dio e le creature è reale nella creatura, non già in Dio; in Dio è soltanto di ragione; così un oggetto si dice scibile in ordine alla scienza, non perché abbia (una reale inclinazione o) rapporto alla scienza, ma perché la scienza (è ordinata e) ha un rapporto ad esso. E così non è necessario (concludere) che nel sommo bene ci sia una qualche composizione, ma solo che tutte le altre cose (in bontà) sono al di sotto di lui.
2. La definizione "il bene è ciò che tutti desiderano" non s'intende nel senso che qualunque bene sia da tutti desiderato; ma nel senso che tutto ciò che è desiderato ha ragione di bene. - L'espressione evangelica "nessuno è buono, se non il solo Dio" va spiegata così: buono per essenza, come si dirà appresso.
3. Cose che non appartengono al medesimo genere, e che tuttavia sono contenute ciascuna in generi diversi, non si possono tra loro confrontare. Ma di Dio si nega che sia nel medesimo genere delle altre cose, non perché egli sia in qualche altro genere; ma perché è fuori di ogni genere ed è principio di tutti i generi. E così può esser messo a confronto con le creature in quanto le trascende. E tale è la relazione che importa il sommo bene.

ARTICOLO 3

Se esser buono per essenza sia proprio di Dio

SEMBRA che esser buono per essenza non sia proprio di Dio. Infatti:
1. Come l'uno si identifica con l'ente, così, e si è visto, anche il bene. Ora, secondo Aristotele, ogni ente è uno per essenza. Dunque ogni ente è buono per essenza.
2. Se il bene è ciò che tutte le cose desiderano, siccome proprio l'essere è da tutti desiderato, ne viene che l'essere stesso di ciascuna cosa è il suo bene. Ora, ciascuna cosa è ente in forza della propria essenza. Dunque ciascuna cosa è buona per la sua essenza.
3. Ogni cosa è buona per la sua bontà. Se dunque vi è qualche cosa che non sia buona per essenza, bisognerà che la sua bontà non sia la sua essenza. Ma siccome questa bontà è un ente, bisogna che anch'essa sia buona; e se lo è per un'altra bontà, la stessa questione si farà di quest'altra bontà. E quindi o bisognerà andare all'indefinito o giungere a qualche bontà che è buona (in se stessa, per essenza e) non per un'altra bontà. Ma allora per la stessa ragione dobbiamo arrestarci al primo caso. Perciò ogni cosa è buona per essenza.

IN CONTRARIO: Dice Boezio che ogni altra cosa distinta da Dio è buona per partecipazione. Dunque non per essenza.

RISPONDO: Soltanto Dio è buono per essenza. Infatti, ogni cosa si dice buona secondo che è perfetta. Ora, ogni cosa ha una triplice perfezione. La prima consiste nella costituzione del suo essere (sostanziale). La seconda consiste nell'aggiunta di alcuni accidenti richiesti per la sua perfetta operazione. La terza nel raggiungimento di qualche cosa come proprio fine. P. es., la prima perfezione del fuoco consiste nell'essere medesimo che ha in virtù della sua forma sostanziale; la seconda consiste nel suo calore, nella sua levità e secchezza, ecc.; la terza nel cessare dal suo moto di ascesa raggiunto che abbia il luogo.
Ora, questa triplice perfezione a nessun essere creato compete per essenza, ma soltanto a Dio: perché in lui soltanto l'essenza si identifica col suo essere, e in lui non sopraggiungono accidenti; ma le stesse cose che degli altri esseri si dicono accidentalmente, a lui convengono essenzialmente, come essere potente, sapiente e così via, ed è chiaro da quel che si è detto. Egli inoltre non è ordinato ad alcun fine; ma è egli stesso il fine di tutte le cose. Perciò è chiaro che soltanto Dio ha l'assoluta perfezione nella sua essenza, e perciò egli solo è buono per essenza.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'uno non importa l'idea di perfezione, ma solo di indivisione, la quale conviene ad ogni cosa per la sua essenza. Le essenze delle cose semplici, poi, sono indivise tanto attualmente che potenzialmente; quelle dei composti invece sono indivise soltanto attualmente. E perciò è necessario che ogni cosa per la sua essenza sia una, non già buona, come si è dimostrato.
2. Sebbene ogni cosa sia buona in quanto ha l'essere, tuttavia l'essenza della creatura non è (come Dio) lo stesso suo essere; perciò non segue che la creatura sia buona per la sua essenza.
3. La bontà di una cosa creata non è la sua stessa essenza, ma un qualche cosa di aggiunto; cioè la sua propria esistenza, o qualche perfezione accidentale, o il suo ordinamento ad un fine. Tuttavia questa stessa bontà così aggiunta si dice buona nel senso stesso che si dice ente: ora, si dice ente perché per mezzo di essa qualche cosa viene ad essere, ma non perché essa sia in forza di altra cosa. Quindi alla stessa guisa si dirà buona, perché per mezzo di essa qualche cosa è buona, non già che essa abbia (bisogno di) qualche altra bontà per esser buona.

ARTICOLO 4

Se tutte le cose siano buone della bontà di Dio

SEMBRA che tutte le cose siano buone della bontà di Dio. Infatti:
1. Dice S. Agostino: "Considera questo e quel bene, togli questo e quello, e, se puoi, guarda il bene stesso: così vedrai Dio, non buono per altro bene, ma bene di ogni bene". Ora, ogni essere è buono della propria bontà. Dunque ogni essere è buono di quella stessa bontà, che è Dio.
2. Al dire di Boezio tutte le cose si dicono buone in quanto ordinate a Dio, e ciò a motivo della divina bontà. Dunque tutti gli esseri sono buoni della bontà divina.

IN CONTRARIO: Tutte le cose sono buone in quanto esistono. Ora, le cose tutte non si dicono esistenti per l'essere divino, ma per il proprio essere. Dunque non sono buone della bontà divina, ma della propria bontà.

RISPONDO: Niente impedisce, se si tratta di attributi che importano relazione, che un ente si denomini da qualche cosa di estrinseco, come un oggetto dal luogo si dice collocato, e dalla misura misurato. Ma riguardo agli attributi assoluti delle cose ci fu diversità di opinioni. Infatti Platone affermò l'esistenza di specie separate di tutte le cose: e disse che da esse si denominano gli individui, come se partecipassero delle specie separate; così, p. es., Socrate si dice uomo precisamente perché partecipa dell'idea separata di uomo. E come poneva l'idea separata di uomo e di cavallo, ch'egli chiamava uomo per sé, cavallo per sé, così poneva l'idea separata di ente e di uno, chiamandola ente per sé, uno per sé; e dalla partecipazione di queste idee ogni cosa diceva chiamarsi ente o una. E questo ente per sé e uno per sé affermava essere il sommo bene. E siccome il bene, ed anche l'uno, si identifica con l'ente, lo stesso bene per sé lo chiamava Dio, dal quale tutte le cose si dicono buone per partecipazione. - Sebbene quest'opinione, come ripetutamente dimostra Aristotele, sia irragionevole nell'ammettere le specie degli esseri fisici in stato di separazione e per sé sussistenti, tuttavia è assolutamente vero che vi è una prima realtà che per sua essenza è ente e bene, e che noi chiamiamo Dio, come si è dimostrato sopra. E su questo punto anche Aristotele è d'accordo.
Dalla prima realtà dunque, che è ente e bene per essenza, ogni cosa può dirsi buona e ente in quanto partecipa di essa secondo una certa somiglianza, sia pure alla lontana e in misura limitata, come si è detto. Così, per conseguenza, ogni cosa si dice buona dalla bontà divina, come da prima causa esemplare, efficiente e finale di ogni bontà. Tuttavia ogni cosa si dice buona per una somiglianza sua propria della divina bontà ad essa inerente, che è formalmente la sua bontà, e dalla quale si denomina. E così abbiamo una bontà sola di tutte le cose, e anche molte bontà.
E con ciò è evidente la risposta da darsi agli argomenti presentati.

Thomas Aquinas
23-06-04, 18:59
Questione 7

L'infinità di Dio

Dopo aver esaminato la perfezione di Dio, dobbiamo considerare la sua infinità e la sua presenza nelle cose, giacché si attribuisce a Dio di essere dovunque ed in tutte le cose, in quanto che è illimitato ed infinito.
Sul primo argomento poniamo quattro quesiti: 1. Se Dio sia infinito; 2. Se oltre Dio qualche cosa sia infinita secondo l'essenza; 3. Se può esserci qualche cosa d'infinito in estensione; 4. Se ci possa essere nella realtà una moltitudine infinita di cose.

ARTICOLO 1

Se Dio sia infinito

SEMBRA che Dio non sia infinito. Infatti:
1. Ogni infinito è imperfetto, perché racchiude l'idea di parte e di materia, come dice Aristotele. Ma Dio è perfettissimo. Dunque non è infinito.
2. Secondo Aristotele, finito ed infinito si dicono della quantità. Ma in Dio non c'è quantità, perché non è corpo, come si è visto sopra. Dunque non gli compete l'infinità.
3. Una cosa che è talmente qui da non essere altrove, è limitata quanto al luogo: perciò anche ciò che è talmente questo da non essere altro, è limitato quanto a natura. Ora, Dio è questa cosa e non è un'altra cosa: infatti, non è pietra, né legno. Dunque Dio non è infinito nella sua essenza.

IN CONTRARIO: Scrive il Damasceno che "Dio è infinito, eterno e incircoscrittibile".

RISPONDO: Tutti i filosofi più antichi, come dice Aristotele, attribuiscono l'infinità al primo principio, osservando, e con ragione, che le cose emanano senza fine da questo principio. Ma siccome alcuni errarono intorno alla natura del primo principio, conseguentemente errarono anche intorno alla sua infinità. Ritenendo infatti che il primo principio fosse materia, logicamente gli attribuirono un'infinità materiale, affermando che il primo principio delle cose era un corpo infinito.
Bisogna dunque riflettere che infinita si dice una cosa perché non è finita (limitata). Ora, in certa maniera la materia viene ad esser limitata dalla forma, e la forma dalla materia. La materia è limitata dalla forma in quanto che la materia, prima di ricevere la forma, è in potenza a molte forme; ma dal momento che ne riceve una, da quella viene delimitata. La forma poi è limitata dalla materia per questo che la forma, in sé considerata, è comune a molte cose; ma dacché è ricevuta nella materia, diventa forma soltanto di una data cosa. - Se non che, la materia riceve la sua perfezione dalla forma che la determina: e perciò l'infinito attribuito alla materia racchiude l'idea di imperfezione; perché è come una materia senza forma. La forma invece non viene perfezionata dalla materia, ma ne riceve piuttosto la restrizione della sua ampiezza illimitata; quindi l'infinito che si attribuisce alla forma non delimitata dalla materia importa essenzialmente perfezione.
Ora, come abbiamo già visto, l'essere stesso tra tutte le cose è quanto di più formale si possa trovare. Quindi, siccome l'essere divino non è ricevuto in un soggetto, ma Dio stesso è il suo proprio essere sussistente, come si è sopra dimostrato, resta provato chiaramente che Dio è infinito e perfetto.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Ciò vale anche come risposta alla prima difficoltà.
2. La delimitazione è per la quantità una specie di forma; e se ne ha un segno in questo, che la figura, la quale consiste nella delimitazione della quantità, è una certa determinazione specifica nell'ordine della quantità. Quindi, l'infinito che compete alla quantità, è un infinito di ordine materiale, e tale infinito non si attribuisce a Dio, come si è detto.
3. Per il fatto stesso che l'essere di Dio è per sé sussistente senza altro soggetto, ottenendo così l'attributo di infinito, si distingue da tutte le altre cose, e tutte le altre cose da lui si escludono; come se esistesse la bianchezza sussistente, per il solo fatto di non essere in un altro, differirebbe da ogni altra bianchezza che abbia un soggetto.

ARTICOLO 2

Se qualche altra cosa oltre Dio possa essere infinita per essenza

SEMBRA che qualche altra cosa oltre Dio possa essere infinita per essenza. Infatti:
1. La potenza attiva di un essere è proporzionata alla sua essenza. Se dunque l'essenza di Dio è infinita, necessariamente anche la sua potenza è infinita. Può dunque produrre un effetto infinito, giacché la grandezza della potenza si conosce dall'effetto.
2. Tutto ciò che ha una capacità infinita ha un'essenza infinita. Ma l'intelletto creato ha una capacità infinita; perché apprende l'universale, il quale può estendersi a un numero infinito di singolari. Dunque ogni sostanza intellettuale creata è infinita.
3. La materia prima è cosa distinta da Dio, come sopra abbiamo dimostrato. Ma la materia prima è infinita. Dunque oltre Dio vi può essere un altro infinito.

IN CONTRARIO: Secondo Aristotele l'infinito non può derivare da causa alcuna. Ora, tutto ciò che esiste, eccetto Dio, viene da Dio come da causa prima. Dunque niente oltre Dio può essere infinito.

RISPONDO: Oltre Dio ci può essere qualche cosa d'infinito in senso relativo, ma non in senso pieno e assoluto. Difatti, se parliamo dell'infinità che compete alla materia, è chiaro che ogni esistente in atto ha la sua forma; e così la sua materia è determinata dalla forma. Ma siccome la materia, pur determinata da una forma sostanziale, rimane in potenza a molte altre forme accidentali; una cosa che è sostanzialmente finita, può esser infinita in senso relativo: p. es., un tronco di legno per la sua forma sostanziale è indubbiamente finito, ma tuttavia, è relativamente infinito in quanto è in potenza a (prendere, sotto le mani dell'artista) innumerevoli figure.
Se poi parliamo dell'infinità che appartiene alla forma, allora è chiaro che quelle cose, le cui forme sono unite alla materia, sono sostanzialmente finite, e in nessun modo infinite. Se poi vi sono delle forme create non unite alla materia, ma per sé sussistenti, come alcuni opinano degli angeli, saranno sì infinite in un senso relativo, in quanto che tali forme non sono limitate né coartate da materia alcuna; ma siccome una forma creata così sussistente possiede l'essere, ma non è il suo essere, è necessario che il suo essere venga ricevuto e sia ristretto entro i limiti di una determinata natura. Perciò non può essere infinito in senso assoluto.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. È contrario al concetto di cosa creata che la sua essenza sia il suo stesso essere, perché l'essere sussistente non è un essere creato: perciò è contro l'idea stessa di cosa creata l'essere infinita in modo assoluto. Quindi, come Dio, nonostante abbia una potenza infinita, tuttavia non può creare qualche cosa d'increato (il che sarebbe far coesistere cose contraddittorie), così non può creare cosa alcuna che sia assolutamente infinita.
2. Il fatto stesso che la capacità dell'intelletto si estende in qualche modo all'infinito deriva da questo, che l'intelletto è una forma non immersa nella materia, ma o totalmente separata, come sono le nature angeliche; o per lo meno è una facoltà intellettiva, che non è atto d'un organo materiale, come nel caso dell'anima intellettiva congiunta al corpo.
3. La materia prima, propriamente, non esiste nella realtà per se stessa, non essendo ente in atto, ma solo in potenza: quindi è qualche cosa di concreato piuttosto che di creato. Pur nondimeno la materia prima, anche secondo la potenza, non è infinita in senso assoluto, ma in un senso relativo, perché la sua potenzialità non si estende che alle sole forme corporee.

ARTICOLO 3

Se si possa dare un infinito attuale in estensione

SEMBRA che si possa dare un infinito attuale in estensione. Infatti:
1. Nelle matematiche non c'è falsità, perché "l'astrazione non è un mendacio", come dice Aristotele. Ora, le matematiche usano dell'infinito in estensione; dice infatti il geometra nelle sue dimostrazioni: sia tale linea infinita. Dunque non è impossibile che si dia un infinito in estensione.
2. Ciò che non è contro la natura di un oggetto, non è impossibile che gli convenga. Ora, l'infinito non è contro la natura dell'estensione: ché anzi finito ed infinito sembrano essere denominazioni proprie della quantità. Dunque non ripugna un'estensione infinita.
3. L'estensione è divisibile all'infinito: così, infatti, si definisce il continuo: "Ciò che è divisibile all'infinito", come dice Aristotele. Ora, i contrari son fatti per prodursi a riguardo di un identico oggetto (o qualità). Siccome dunque, alla divisione si oppone l'addizione ed alla diminuzione l'aumento, pare che l'estensione (come è divisibile all'infinito) possa crescere all'infinito. Dunque è possibile un'estensione infinita.
4. Moto e tempo misurano la loro quantità e la loro continuità dall'estensione percorsa dal moto, come dice Aristotele. Ma non è contro la natura del tempo e del moto di essere infiniti: dal momento che ogni (punto e ogni istante) indivisibile segnato nel tempo e nel moto circolare è insieme inizio e termine. Non è perciò contro la natura dell'estensione di essere infinita.

IN CONTRARIO: Ogni corpo ha una superficie. Ma ogni corpo avente una superficie è limitato; perché la superficie è la terminazione di un corpo finito. Dunque ogni corpo è limitato. E lo stesso può dirsi della superficie e della linea. Niente è quindi infinito in estensione.

RISPONDO: Altra cosa è l'infinito secondo l'essenza, altra l'infinito secondo l'estensione. Infatti, dato che ci fosse un corpo infinito per estensione, come il fuoco o l'aria, non sarebbe tuttavia infinito secondo l'essenza; perché la sua essenza sarebbe limitata ad una specie dalla sua forma e a un determinato individuo dalla sua materia. Perciò, accertato ormai dai precedenti, che nessuna creatura è infinita secondo l'essenza, resta ancora da indagare se qualche cosa di creato possa essere infinito per estensione.
Bisogna dunque sapere che corpo, il quale è un'estensione completa (cioè a tre dimensioni), può prendersi in due significati; e cioè in senso matematico, se si considera in esso soltanto la quantità; e in senso fisico, se si considera in esso la materia e la forma. Ora, che il corpo fisico non possa essere infinito in atto, è chiaro. Infatti ogni corpo naturale ha una sua forma sostanziale determinata; e siccome ad ogni forma sostanziale conseguono degli accidenti, ne viene per necessità che ad una forma determinata conseguano degli accidenti parimenti determinati, tra i quali c'è la quantità. Donde segue che ogni corpo fisico ha una determinata quantità, estesa più o meno (entro certi limiti). E perciò è impossibile che un corpo fisico sia infinito. - Ciò appare anche dal movimento. Infatti, ogni corpo naturale ha un suo moto naturale; ma un corpo che fosse infinito non potrebbe avere nessun moto naturale; non il moto rettilineo, perché niente si muove per natura in tal modo, se non quando è fuori del suo luogo, e ciò non potrebbe avvenire per un corpo che fosse infinito, perché occuperebbe tutto lo spazio, e così ogni luogo sarebbe indifferentemente il suo luogo proprio. E così pure non potrebbe avere neanche il moto circolare, perché nel moto circolare è necessario che una parte del corpo si trasferisca nel luogo in cui era prima un'altra parte; e questo non potrebbe avvenire in un corpo circolare se lo immaginiamo infinito; perché due linee partenti dal centro, più si allontanano dal centro più si distanziano tra di loro; e perciò se un corpo fosse infinito, le due linee verrebbero ad essere tra loro distanti all'infinito, e così mai l'una potrebbe pervenire al luogo dell'altra.
La stessa ragione vale se parliamo di un corpo matematico. Perché se immaginiamo un corpo matematico esistente in atto, bisogna che lo immaginiamo sotto una forma determinata, poiché niente è in atto se non in forza della sua forma. Quindi, siccome la forma dell'essere quantitativo come tale, è la figura geometrica, esso avrà necessariamente una qualche figura. E così sarà limitato; perché la figura non è altro che ciò che è compreso in uno o più limiti.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il geometra non ha bisogno di supporre che una linea sia infinita in atto; ha bisogno invece di prendere una linea attualmente limitata, dalla quale si possa sottrarre quanto è necessario: e questa linea la chiama infinita.
2. È vero che l'idea d'infinito non ripugna all'idea d'estensione in genere, ma tuttavia è in contraddizione col concetto di qualsiasi specie di estensione, cioè con la quantità di due cubiti, di tre cubiti, con quella circolare o triangolare e simili. Ora, non è possibile che sia in un genere quello che non è in alcuna delle sue specie. È quindi impossibile che si dia un'estensione infinita, dal momento che nessuna specie di estensione è infinita.
3. L'infinito che compete alla quantità, come si è detto, è quello che si riferisce alla materia. Ora, con la divisione di un tutto ci si accosta alla materia, perché le parti hanno carattere di materia; mentre con l'addizione si va verso il tutto, il quale ha carattere di forma. E perciò non si ha infinito nell'addizionare la quantità, ma solo nel dividerla.
4. Il movimento e il tempo non sono in atto nella loro totalità, ma successivamente, e quindi sono un misto di potenza e di atto, mentre l'estensione è tutta in atto. E perciò, l'infinito, che conviene alla quantità e che risulta da parte della materia, ripugna alla totalità dell'estensione, non ripugna invece alla totalità del tempo e del moto, perché la potenzialità è propria della materia.

ARTICOLO 4

Se nella realtà si possa dare un infinito numerico

SEMBRA che sia possibile un numero infinito in atto. Infatti:
1. Ciò che è in potenza a essere ridotto in atto non è cosa impossibile. Ora il numero è moltiplicabile all'infinito. Dunque non è impossibile che si dia un numero infinito in atto.
2. È possibile che di ogni specie vi sia qualche individuo in atto. Ma le specie delle figure geometriche sono infinite. Dunque è possibile che vi siano infinite figure.
3. Cose che tra loro non sono opposte, neppure si ostacolano a vicenda. Ora, dato un certo numero di cose, se ne possono fare ancora molte altre non opposte alle prime; dunque non è impossibile che ce ne possano essere insieme con esse anche delle altre, e così via all'infinito. È dunque possibile che ve ne siano infinite in atto.

IN CONTRARIO: È detto nel libro della Sapienza: "Tutto tu disponesti in misura, numero e peso".

RISPONDO: Su questo punto ci furono due opinioni. Alcuni, come Avicenna e Algazel, hanno sostenuto che una moltitudine numerica attualmente infinita per se è impossibile; ma che esista un numero infinito per accidens non è impossibile. Si dice che una moltitudine numerica è infinita per se, quando si richiede all'esistenza stessa di qualche cosa un numero di enti infinito. E questo è impossibile, perché in tal modo una cosa dovrebbe dipendere da infinite cause e quindi non si produrrebbe mai, non potendosi percorrere e attraversare l'infinito.
Una moltitudine numerica si chiama invece infinita per accidens, quando non è richiesta all'esistenza di una qualche realtà un'infinità numerica, ma capita di fatto così. Si può chiarire la cosa in questa maniera, prendendo come esempio l'opera di un fabbro, per la quale si richiede una certa molteplicità numerica necessariamente (per se), cioè l'arte, la mano che muove e il martello. Se questi elementi si moltiplicassero all'infinito, il lavoro del fabbro mai verrebbe a compimento, perché dipenderebbe da cause infinite. Ma la molteplicità dei martelli che si verifica perché se ne rompe uno e se ne piglia un altro, è molteplicità contingente (per accidens): poiché capita di fatto, che il fabbro lavori con molti martelli, ma è del tutto indifferente che lavori con uno, o con due o con più o anche con infiniti martelli, dato che lavori per un tempo infinito. Così quei filosofi ammisero come possibile una moltitudine attualmente infinita per accidens, intesa in questo senso.
Ma ciò è insostenibile. Infatti, ogni molteplicità appartiene necessariamente a una qualche specie di molteplicità: ora, le specie della molteplicità corrispondono alle specie dei numeri: d'altra parte nessuna specie del numero è infinita, perché ogni numero non è altro che una moltitudine misurata dall'unità. Perciò è impossibile che si dia una molteplicità infinita in atto, sia per se, che per accidens. - Ancora: la molteplicità esistente nella natura delle cose è creata; tutto ciò che è creato è compreso sotto una certa intenzione del Creatore, altrimenti l'agente opererebbe invano: quindi è necessario che tutti gli esseri creati siano compresi sotto un numero determinato. È dunque impossibile una moltitudine attualmente infinita, anche solo per accidens.
È però possibile una molteplicità numerica infinita in potenza; perché l'aumento del numero consegue alla divisione dell'estensione quantitativa. Infatti, quanto più una cosa si divide, tanto più numerose sono le parti che ne risultano. Per cui, come si ha l'infinito in potenza dividendo la quantità continua, perché si procede verso la materia, secondo la dimostrazione già fatta; per la stessa ragione si ha l'infinito in potenza anche aumentando il numero.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Tutto ciò che è in potenza si riduce all'atto, ma in conformità al proprio modo di essere: il giorno infatti non si riduce all'atto in modo da esistere tutto insieme, ma successivamente. Del pari: un infinito numerico non si riduce all'atto in maniera da essere tutto simultaneamente, ma successivamente, perché dopo un numero qualsiasi, se ne può prendere sempre un altro e così all'infinito.
2. Le specie delle figure partecipano dell'infinità del numero: difatti le specie delle figure sono il triangolo, il quadrato, ecc. Quindi, come una moltitudine numerica infinita non si riduce in atto in modo da esistere tutta insieme, così nemmeno la moltitudine delle figure.
3. Sebbene sia vero che poste alcune cose, se ne possono ammettere delle altre, senza creare delle opposizioni; tuttavia ammetterne infinite si oppone a qualsiasi specie di molteplicità. Perciò non è possibile che ci sia una molteplicità infinita in atto.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:00
Questione 8

La presenza di Dio nelle cose

L'infinito, a quanto pare, deve esistere dappertutto ed in tutte le cose, bisogna quindi considerare se ciò convenga a Dio. E a questo proposito si pongono quattro quesiti: 1. Se Dio sia in tutte le cose; 2. Se Dio sia dappertutto; 3. Se Dio sia dappertutto per essenza, per potenza e per presenza; 4. Se essere dappertutto sia proprio di Dio.

ARTICOLO 1

Se Dio sia in tutte le cose

SEMBRA che Dio non sia in tutte le cose. Infatti:
1. Ciò che è al di sopra di tutte le cose non può essere in esse. Ora, Dio è al di sopra di tutte le cose, secondo il detto della Scrittura: "elevato sopra tutte le genti è il Signore". Dunque Dio non è in tutte le cose.
2. Ciò che è in un altro è contenuto da esso. Ora, Dio non è contenuto dalle cose, ma piuttosto Dio contiene le cose. Dunque Dio non è nelle cose, ma piuttosto le cose sono in Dio. Di qui il detto di S. Agostino: "Tutte le cose sono in lui, piuttosto che egli in qualche luogo".
3. Quanto più potente è un agente, a tanto maggior distanza arriva la sua azione. Ora, Dio è un agente onnipotente. Dunque la sua azione può giungere anche alle cose che distano da lui; e non è necessario che sia in tutte le cose.
4. I demoni sono delle cose, e tuttavia Dio non è in essi, perché come dice l'Apostolo, "non vi è niente di comune tra la luce e le tenebre". Dunque Dio non è in tutte le cose.

IN CONTRARIO: Una cosa è dove opera. Ora, Dio opera in tutte le cose, secondo il detto della Scrittura: "O Signore, tutte le opere nostre hai operato in noi". Dunque Dio è in tutte le cose.

RISPONDO: Dio è in tutte le cose, non già come parte di loro essenza, o come una loro qualità accidentale, ma come l'agente è presente alla cosa in cui opera. È necessario infatti che ogni agente sia congiunto alla cosa su cui agisce immediatamente, e che la tocchi con la sua virtù; perciò Aristotele prova che il motore e ciò che è mosso devono essere insieme. Ora, essendo Dio l'essere stesso per essenza, bisogna che l'essere creato sia effetto proprio di lui, come bruciare è effetto proprio del fuoco. E questo effetto Dio lo causa nelle cose non soltanto quando cominciano ad esistere, ma fin tanto che perdurano nell'essere; come la luce è causata nell'aria dal sole finché l'aria rimane illuminata. Fino a che dunque una cosa ha l'essere, è necessario che Dio le sia presente in proporzione di come essa possiede l'essere. L'essere poi è ciò che nelle cose vi è di più intimo e di più profondamente radicato, poiché, come si è già detto l'essere è elemento formale rispetto a tutti i principi e i componenti che si trovano in una data realtà. Necessariamente, dunque, Dio è in tutte le cose ed in maniera intima.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Dio è sopra tutte le cose per l'eccellenza della sua natura; ma è, di necessità, anche dentro di esse, in quanto causa l'essere di tutto, come si è detto sopra.
2. Sebbene le cose corporali (soltanto) si dicano essere in altre come il contenuto nel contenente, quelle spirituali però contengono le cose in cui si trovano: così l'anima contiene il corpo. Quindi anche Dio è nelle cose come contenente le cose. Tuttavia, per una certa analogia con le cose corporali, si dice che tutte le cose sono in Dio, in quanto che Dio le contiene.
3. Nessun agente, per quanto efficace, può agire su un oggetto distante se non in quanto agisce in esso mediante il mezzo. Ma appartiene alla somma potenza di Dio agire in tutti gli esseri immediatamente: quindi nulla è distante da Dio, come se non avesse Dio in sé. Tuttavia, si dice che alcune cose distano da Dio per una dissomiglianza di natura o di grazia; come anche (si dice che) egli stesso è al di sopra di tutte le cose a motivo dell'eccellenza della sua natura.
4. Nei demoni c'è da distinguere la natura, che è da Dio, e la deformità della colpa, che non è da Dio. Quindi, non si deve concedere in modo assoluto che Dio sia nei demoni, ma con questa restrizione: in quanto sono delle realtà. Dobbiamo invece asserire che Dio si trova in senso assoluto in quelle cose che indicano nature non deformate.

ARTICOLO 2

Se Dio sia dappertutto

SEMBRA che Dio non sia dappertutto. Infatti:
1. Essere dappertutto significa essere in ogni luogo. Ora, essere in ogni luogo non conviene a Dio, al quale non conviene essere in alcun luogo, perché, come dice Boezio, le cose incorporee non sono localizzate. Dio, dunque, non è dappertutto.
2. Il tempo sta alle cose successive, come il luogo alle cose permanenti. Ora, un'unità indivisibile di azione o di movimento (un istante) non può essere in più tempi. Dunque neppure un'unità indivisibile nel genere delle cose permanenti (un punto) può essere in tutti i luoghi. Ora, l'essere divino non è successivo, ma permanente. Dunque Dio non è in più luoghi e così non è dappertutto.
3. Ciò che è tutto in un posto, non ha niente fuori di lì. Ora, se Dio è in qualche luogo, vi è tutto, perché non ha parti. Dunque niente di lui è fuori di quel posto, e perciò non è dappertutto.

IN CONTRARIO: È detto nella Scrittura: "Io riempio il cielo e la terra".

RISPONDO: Il luogo non è che una delle tante cose; perciò che un essere è in un luogo si può intendere in due maniere: o nel modo generico in cui potrebbe trovarsi comunque in qualsiasi altra cosa, come quando, p. es., diciamo che le qualità del luogo sono nel luogo; oppure (s'intende che vi è contenuto) nel modo proprio del luogo, come gli esseri localizzati sono in un luogo. Ebbene, in tutti e due i modi, in certo senso, Dio è in ogni luogo, ossia dappertutto. Primieramente, come è in tutte le cose in quanto dà loro l'essere, la potenza attiva e l'operazione, così è in ogni luogo in quanto dà ad esso l'essere e la capacità locativa. Secondo, gli enti localizzati sono nel luogo in quanto lo riempiono: e Dio riempie ogni luogo. Non però come lo riempie un corpo, perché di un corpo si dice che riempie un luogo in quanto non comporta con sé (la presenza di) un altro corpo; mentre per il fatto che Dio è in un posto, non si esclude che vi si trovino pure altri esseri: anzi, egli riempie tutti i luoghi perché dà l'essere a tutte le cose localizzabili, che li riempiono.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Gli esseri incorporei non sono nel luogo per un contatto di dimensioni, come i corpi: ma per un contatto dinamico (o applicazione della loro attività).
2. Vi sono due sorta d'indivisibili. Un indivisibile è il termine del continuo, come il punto nelle cose permanenti e l'istante nelle successive. E siccome nelle cose permanenti l'indivisibile (il punto) ha una posizione determinata, non può trovarsi in più parti del luogo o in più luoghi: così l'indivisibile d'azione o di movimento, poiché ha un determinato ordine nella successione del moto o dell'azione, non può trovarsi in più parti del tempo. Ma c'è un altro indivisibile, che è fuori di ogni genere di continuità (temporale o spaziale): e solo in tal modo le sostanze incorporee, come Dio, l'angelo e l'anima, si dicono indivisibili. Tale indivisibile, dunque, non si applica al continuo come qualcosa che gli appartenga, ma in quanto lo tocca con la sua potenza. Quindi, a seconda che la sua potenza attiva si può estendere a una cosa o a molte, a una piccola o a una grande, si dice che è in uno o più luoghi, in un luogo piccolo o grande.
3. Il tutto dicesi rispetto alle parti. Ora, vi sono due specie di parti, cioè: parti essenziali, come la materia e la forma che sono parti del composto e il genere e la differenza, parti della specie; e parti quantitative, che son quelle nelle quali si divide una data quantità. Ora, ciò che quantitativamente si trova per intero in un luogo non può certo essere fuori di tale luogo, perché la quantità dell'oggetto localizzato corrisponde appuntino all'estensione del luogo occupato, e quindi non si dà totalità della quantità se non si ha la totalità del luogo. La totalità di essenza, invece, non è commisurata alla totalità del luogo. Quindi non è per nulla necessario che quanto è interamente in un dato luogo per totalità di essenza, non sia in alcun modo fuori di esso. Ne abbiamo una riprova nelle forme accidentali che indirettamente (in ragione del soggetto in cui sono) hanno quantità: la bianchezza infatti, se si considera la totalità della sua essenza, è tutta in ciascuna parte della superficie, perché in ciascuna parte vi è secondo la sua perfetta natura specifica; ma se si considera la sua totalità quantitativa, che essa ha indirettamente (cioè a motivo del soggetto), allora non è tutta in ciascuna parte della superficie. Ora, nelle sostanze incorporee non si trova né direttamente né indirettamente altra totalità che secondo il preciso aspetto di essenza. Perciò, come l'anima è tutta in ciascuna parte del corpo; così Dio è tutto in tutti e singoli gli enti.

ARTICOLO 3

Se Dio è dappertutto per essenza, per presenza e per potenza

SEMBRA che siano male assegnati i modi di esistere di Dio nelle cose, quando si dice che Dio è in tutte le cose per essenza, per presenza e per potenza. Infatti:
1. Una cosa è in un'altra per essenza, quando vi è essenzialmente. Ora, Dio nelle cose non vi è essenzialmente, perché non appartiene all'essenza di cosa alcuna. Dunque non si deve dire che Dio è nelle cose per essenza, per presenza e per potenza.
2. Essere presente ad una cosa significa non mancare ad essa. Ora, dire che Dio è in tutte le cose per essenza, è lo stesso che dire che Dio non manca a cosa alcuna. È dunque lo stesso il dire che Dio è nelle cose per essenza e dire che vi è per presenza. Vi è dunque del superfluo in questa divisione: per essenza, per presenza e per potenza.
3. Come Dio è principio di tutte le cose per la sua potenza, così lo è anche per la sua scienza e per la sua volontà. Ora, non si dice che Dio è nelle cose per scienza e per volontà. Dunque nemmeno deve dirsi che vi è per potenza.
4. Oltre la grazia, perfezione aggiunta alla sostanza di una cosa, vi sono altre perfezioni aggiunte. Se dunque si dice che Dio è in un modo speciale in alcuni per grazia, parrebbe che per ogni altra perfezione si dovesse assegnare un modo speciale della presenza di Dio nelle cose.

IN CONTRARIO: Dice S. Gregorio che "Dio in una maniera generale è in tutte le cose per presenza, potenza ed essenza; però si dice che è familiarmente in alcuni con la grazia".

RISPONDO: In due maniere si dice che Dio è in qualche cosa. Primo, come causa efficiente: e in tal modo è in tutte le cose da lui create. Secondo, come l'oggetto d'operazione si trova nell'operante: e questo propriamente avviene nelle operazioni dell'anima, come l'oggetto conosciuto è nel conoscente e quello desiderato nel desiderante. Perciò, in questa seconda maniera Dio si trova particolarmente nella creatura ragionevole, che lo conosce e lo ama attualmente per una disposizione abituale. E siccome la creatura ragionevole deve questo alla grazia, come si vedrà più innanzi, si dice che Dio, in tal modo è nei santi per grazia.
In qual modo poi Dio sia in tutte le altre cose da lui create, bisogna argomentarlo da ciò che si dice circa i modi di presenza nelle cose umane. Così, di un re a motivo del suo potere si dice che è in tutto il suo regno, sebbene non sia presente dovunque. Ma, si dice che in certe cose uno si trova di presenza quando le ha sotto il proprio sguardo; così tutte le cose che sono in una casa, si dicono presenti a qualcuno (che vi si trova), che pure materialmente non è in ogni parte della casa. Finalmente una cosa si dice che è secondo la sua sostanza o essenza in un luogo, dove si trova la sua sostanza.
Ora, ci sono stati alcuni, cioè i Manichei, i quali hanno sostenuto che alla divina potestà sono soggette le cose spirituali ed incorporee; le visibili poi e le corporali le dicevano soggette al potere del principio contrario (cioè al principio del male). Contro costoro dunque bisogna dire che Dio è in tutte le cose per la sua potenza. - Altri, pur credendo che tutte le cose sono soggette alla divina potenza, non estendevano, però, la divina provvidenza sino ai corpi inferiori di quaggiù: in persona di costoro è detto nel libro di Giobbe: "Attorno ai cardini del cielo egli passeggia, e non si occupa delle cose nostre". E contro costoro bisognò dire che Dio è in tutte le cose per la sua presenza. - Finalmente vi furono altri, i quali, sebbene ammettessero che le cose non sono estranee alla provvidenza di Dio, dissero tuttavia che non tutte sono state create immediatamente da Dio; ma che immediatamente egli creò le prime creature, e queste hanno creato le altre. E contro costoro bisogna dire che Dio è in tutte le cose per essenza.
Per concludere, Dio è in tutte le cose con la sua potenza, perché tutte sono soggette alla sua potestà; vi è con la sua presenza, perché tutto è discoperto e come nudo davanti ai suoi occhi; vi è con la sua essenza, perché è presente a tutte le cose quale causa universale dell'essere, come si è dimostrato.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Si dice che Dio è in tutte le cose per essenza, non già per l'essenza delle cose, come se facesse parte dell'essenza di esse; ma per la sua essenza, perché la sua sostanza è presente a tutto quale causa dell'essere, come si è detto.
2. Una cosa può dirsi presente ad alcuno quando sta dinanzi al suo sguardo, pur rimanendo distante da lui per la sua sostanza. E perciò fu necessario porre questi due modi, cioè per essenza e per presenza.
3. È proprio della natura della scienza e della volontà che il conosciuto sia nel conoscente e l'oggetto voluto nel volente: quindi secondo la scienza e la volontà piuttosto le cose sono in Dio, che Dio nelle cose. È proprio della potenza invece comportarsi come principio di un'operazione (transitiva) che passa su un soggetto diverso: perciò secondo la potenza l'agente dice ordine ed applicazione a qualche cosa di estraneo. E così può dirsi che un agente per la sua potenza è in un'altra cosa.
4. Nessun'altra perfezione aggiunta alla sostanza, all'infuori della grazia, fa sì che Dio sia in qualche creatura come oggetto conosciuto ed amato: perciò soltanto la grazia costituisce un modo singolare della presenza di Dio nelle cose. Vi è poi un altro modo singolare della presenza di Dio nell'uomo: cioè per l'unione ipostatica; del qual modo tratteremo a suo luogo.

ARTICOLO 4

Se sia proprio di Dio essere dappertutto

SEMBRA che essere dappertutto non sia proprio di Dio. Infatti:
1. L'universale, secondo Aristotele, è dovunque e sempre: parimente, la materia prima è dovunque, perché è in tutti i corpi. Ora, Dio non è nessuna delle due cose, come appare da ciò che abbiamo detto. Dunque essere dovunque non è proprio di Dio.
2. Nelle cose numerate c'è il numero. Ma tutto l'universo è stato costituito in numero (cioè è numerato), come appare dalla Scrittura. Vi è dunque un numero in tutto l'universo, e così (il numero) è dappertutto.
3. L'universo intero al dire di Aristotele è come tutto un corpo perfetto. Ora, l'universo è dappertutto, perché fuori di esso non vi è luogo alcuno. Dunque non il solo Dio è dappertutto.
4. Se qualche corpo fosse infinito, non vi sarebbe nessun luogo fuori di esso. Dunque sarebbe dovunque. E, così, pare che l'essere dovunque non sia proprio di Dio.
5. L'anima, dice S. Agostino, "è tutta in tutto il corpo e tutta in ciascuna delle sue parti". Se dunque nel mondo non esistesse che un solo animale, l'anima di esso sarebbe dappertutto. E così, essere dovunque non è proprio di Dio.
6. Dice S. Agostino: "L'anima dove vede, sente; dove sente, vive; dove vive, è". Ora, l'anima vede quasi dappertutto, perché successivamente vede tutto il cielo. Dunque l'anima è dappertutto.

IN CONTRARIO: Dice S. Ambrogio: "Chi oserà dire creatura lo Spirito Santo, il quale è sempre in tutte le cose e dovunque, il che certamente è proprio della divinità?".

RISPONDO: Essere dappertutto primo et per se è proprio di Dio. Ora, io dico che è dappertutto primo ciò che è dappertutto nella sua totalità. Infatti se qualche cosa fosse ovunque col trovarsi in diversi luoghi secondo le sue varie parti, non sarebbe dappertutto in questo modo (primo); perché ciò che conviene ad una cosa in ragione d'una sua parte, non le conviene primo: come se un uomo è bianco a motivo dei denti, la bianchezza non appartiene primo all'uomo, ma ai denti. Dico poi che è dappertutto per se quello a cui non conviene essere dovunque accidentalmente, a motivo di una data supposizione; ché altrimenti un granello di miglio, supposto che non esistesse nessun altro corpo, sarebbe dappertutto. Essere dunque dappertutto per se conviene a quel tale essere che, in qualunque ipotesi, debba necessariamente essere dappertutto.
Ed in questo senso è proprio di Dio, perché, per quanti altri luoghi si ammettano, oltre quelli esistenti, anche in numero infinito, bisognerebbe che Dio fosse in tutti, poiché niente può esistere se non per opera di lui. Così, dunque, essere dappertutto primo et per se appartiene a Dio in modo esclusivo, perché, per quanti luoghi si ammettano, è necessario che Dio sia in ciascuno di essi, non parzialmente, ma secondo tutto se stesso.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'universale e la materia prima sono dappertutto, ma non secondo un identico essere reale.
2. Il numero, essendo un accidente, non è di suo in un luogo, ma indirettamente; e non è tutto in ciascuno dei numerati, ma in distinte unità. E così non segue che sia dappertutto primo et per se.
3. L'universo intero è sì dappertutto, non però primo, perché non è tutto in ciascun luogo, ma secondo le sue varie parti; e neppure vi è per se, perché, ove si supponessero altri luoghi, non sarebbe in essi.
4. Se esistesse un corpo infinito sarebbe certo dovunque, però (soltanto) secondo le sue parti.
5. Se ci fosse un solo animale al mondo, l'anima sua sarebbe dovunque primo, ma accidentalmente (cioè soltanto a motivo della supposiziorne fatta).
6. L'espressione "l'anima vede in qualche luogo", si può intendere in due modi. Primo modo, l'espressione in qualche luogo può determinare l'atto del vedere dal lato dell'oggetto, e allora è vero che se l'anima vede il cielo, vede nel cielo, e per la stessa ragione sente in cielo; ma non ne segue che essa viva o sta in cielo, perché vivere e essere non importano un atto che passi nell'oggetto esterno. Secondo modo, quell'espressione può determinare l'atto del vedere, dal lato del soggetto che vede. E così, secondo questo modo di parlare, è vero che l'anima dove sente e vede, ivi è e vive. Non ne segue però che sia dappertutto.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:00
Questione 9

L'immutabilità di Dio

Logicamente dobbiamo ora trattare dell'immutabilità divina e dell'eternità che ne consegue.
Sull'immutabilità si pongono due quesiti: 1. Se Dio sia del tutto immutabile; 2. Se l'immutahilità sia una proprietà esclusiva di Dio.

ARTICOLO 1

Se Dio sia del tutto immutabile

SEMBRA che Dio non sia del tutto immutabile. Infatti:
1. Tutto ciò che muove se stesso è in qualche modo mutabile. Ora come dice S. Agostino: "Lo Spirito creatore muove se stesso, ma non nel tempo o nello spazio". Dunque Dio è in qualche modo mutabile.
2. Della sapienza è detto che "è più mobile di ogni cosa mobile". Ma Dio è la stessa sapienza. Dunque Dio è soggetto al moto.
3. I due termini avvicinarsi e allontanarsi indicano movimento e sono nella Scrittura attribuiti a Dio: "Accostatevi a Dio, ed egli si avvicinerà a voi". Dunque Dio è mutabile.

IN CONTRARIO: È detto in Malachia: "Io sono Dio e non mi muto".

RISPONDO: Da quanto è stato precedentemente esposto si dimostra che Dio è assolutamente immutabile. Primo, infatti sopra si è provato che esiste un primo ente da noi chiamato Dio e che è necessariamente atto puro, senza mescolanza di potenza (passiva), giacché questa in linea assoluta è posteriore all'atto. Ora tutto ciò che in una maniera qualunque si muta, in qualche modo è in potenza. È quindi evidente l'impossibilità di una qualsiasi mutazione in Dio.
Secondo, in tutto ciò che si muove vi è qualche cosa che permane e qualche cosa che cessa: p. es., quando un oggetto passa dal colore bianco al nero, perdura sempre quanto alla sua sostanza. E così in tutto ciò che si cambia si nota qualche composizione. Ma, come sopra si è dimostrato, in Dio non vi è composizione alcuna, essendo egli assolutamente semplice; è chiaro quindi che Dio non può mutarsi.
Terzo, tutto ciò che si muove, acquista qualche cosa in forza del suo movimento e arriva a ciò cui prima non arrivava. Ora Dio, essendo infinito e racchiudendo in se stesso in modo perfetto e universale la pienezza di tutto l'essere, niente può acquisire, né estendersi a cosa a cui prima non arrivava; in nessun modo quindi a lui conviene il movimento. - Ecco perché, anche tra gli antichi, alcuni, quasi costretti dalla stessa verità, affermarono l'immutabilità del primo principio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. S. Agostino qui parla alla maniera di Platone, il quale asseriva che il primo motore muove se stesso, denominando moto qualsiasi operazione: e in tal senso lo stesso intendere, volere ed amare sono detti moto. Siccome dunque Dio intende ed ama se stesso, in questo senso dissero che Dio muove se stesso, non già nel senso che qui si dà al moto e alla mutazione in quanto propri dell'essere in potenza.
2. La sapienza è detta mobile metaforicamente, in quanto diffonde la sua somiglianza sino nelle minime cose. Niente infatti può esservi che non proceda dalla divina sapienza per via di imitazione, come da causa efficiente e formale, come i prodotti artificiali procedono dalla perizia dell'artefice. Così dunque, in quanto la somiglianza della divina sapienza gradatamente si estende dalle creature superiori, che ne partecipano maggiormente, sino alle infime, che meno ne partecipano, si può dire che vi è una specie di processo e di movimento della sapienza verso le cose, come se noi dicessimo che il sole s'avanza fino alla terra perché il raggio della sua luce giunge fino alla terra. Questo è anche il pensiero di Dionigi nell'affermare che "ogni efflusso della divina manifestazione viene a noi da un movimento del Padre dei lumi".
3. Simili espressioni bibliche dette di Dio sono metaforiche. Come si dice che il sole entra nella stanza e ne esce, se vi giunge o si diparte il suo raggio; così si dice che Dio si avvicina a noi o se ne allontana in quanto noi percepiamo l'influsso della sua bontà o ne siamo privati.

ARTICOLO 2

Se essere immutabile sia proprietà esclusiva di Dio

SEMBRA che essere immutabile non sia proprietà esclusiva di Dio. Infatti:
1. Dice Aristotele che in tutto ciò che si muove c'è la materia. Ora, vi sono delle sostanze create, come gli angeli e le anime, che non hanno affatto la materia, come opinano alcuni. Dunque essere immutabile non è esclusivo di Dio.
2. Tutto ciò che si muove, si muove per un fine: quindi ciò che è arrivato al possesso del suo ultimo fine, non si muove più. Ora, vi sono delle creature, come i beati, che hanno già raggiunto il proprio ultimo fine. Vi sono dunque delle creature immobili.
3. Tutto ciò che è mutabile è variabile. Ora, le forme sono invariabili: è detto infatti nel Liber Sex Principiorum che "la forma consiste in una semplice e invariabile essenza". Dunque non è proprietà esclusiva di Dio essere immutabile.

IN CONTRARIO: Dice S. Agostino: "Soltanto Dio è immutabile; tutte le cose che ha creato, essendo dal nulla, sono mutevoli".

RISPONDO: Soltanto Dio è del tutto immutabile: ogni creatura, invece, è in qualche modo mutevole. Bisogna notare, infatti, che una cosa può dirsi mutevole in due modi: o per una potenza (passiva) ad essa inerente, o per un potere (potenza attiva) esistente in un altro essere. Invero tutte le creature, prima che fossero, non avevano la possibilità di esistere in virtù di una potenza creata, poiché niente di creato può essere eterno; ma solo in virtù della potenza divina, in quanto Dio poteva porle nell'esistenza. E come dipende dalla volontà di Dio che le cose vengano all'esistenza, così dalla sua volontà dipende la loro conservazione nell'essere; poiché Dio in altro modo non le conserva nell'esistenza che dando loro continuamente l'essere, di maniera che, se Dio sottraesse loro la sua azione, ritornerebbero tutte nel nulla, come spiega S. Agostino. Come dunque, prima che esistessero in se medesime, era in potere del Creatore che esse venissero all'esistenza, così è in potere del Creatore, dopo che son diventate esistenti, che cessino di essere. Perciò tutte le creature per un potere esistente in un altro essere, cioè in Dio, sono soggette a mutamento, in quanto poterono da Dio essere tratte dal nulla all'esistenza, e possono da lui essere ridotte dall'esistenza al nulla.
Considerando poi la mutabilità dovuta a una potenza immanente alla cosa stessa, anche così ogni creatura è in qualche modo mutevole. Nella creatura, infatti, vi è una doppia potenza, cioè attiva e passiva. Chiamo potenza passiva quella, secondo la quale una data cosa può raggiungere la sua perfezione, o nell'essere o nel conseguimento del fine. Se dunque si considera la mutabililà di una cosa in base a una potenzialità nell'ordine dell'essere, allora la mutabilità non si trova in tutte le creature, ma soltanto in quelle nelle quali ciò che in esse è potenziale può stare insieme col non essere (in atto). Perciò nei corpi inferiori vi è mutabilità e secondo l'essere sostanziale, perché la loro materia può esistere senza la loro presente forma sostanziale; e secondo l'essere accidentale, se il soggetto comporti seco la privazione dell'accidente: così questo soggetto uomo comporta seco di non esser bianco, e quindi può cangiarsi da bianco in non bianco. Ma se l'accidente è tale da risultare necessariamente dai principi essenziali del soggetto, la privazione di tale accidente non può coesistere col soggetto, e quindi il soggetto non può mutare secondo questo accidente, p. es., la neve non può diventare nera. - Nei corpi celesti, invece, la materia non comporta seco la privazione della forma, perché la loro forma esaurisce, conducendola a perfezione, tutta la potenzialità della materia; e quindi i corpi celesti non sono mutevoli quanto all'essere sostanziale; ma (sono mutevoli) quanto a trovarsi in un luogo, perché il soggetto (cioè il corpo celeste) comporta seco la privazione di questo o di quel luogo. - Finalmente le sostanze incorporee, perché sono forme sussistenti, le quali tuttavia stanno al loro essere come la potenza all'atto, non comportano la privazione di questo atto, perché l'essere consegue alla forma, e niente perisce se non per il fatto che perde la forma. Quindi nella forma stessa non vi è potenza al non-essere; e perciò tali sostanze sono immutabili ed invariabili quanto al loro essere. E questo vuol dire Dionigi quando scrive che "le sostanze intellettuali create sono pure di ogni generazione e di ogni variazione, in quanto sono spirituali e immateriali". Tuttavia rimane in esse una duplice mutabilità. Una, in quanto sono in potenza rispetto al fine: e possono così, per libera scelta, mutare dal bene al male, come dice il Damasceno. L'altra secondo il luogo, in quanto con la loro potenza limitata possono influire là dove prima non influivano: il che non può dirsi di Dio, il quale con la sua infinità riempie ogni luogo, come sopra si è detto.
In conclusione, in ogni creatura si trova la potenza (o la possibilità) del mutamento: o quanto all'essere sostanziale, come nei corpi corruttibili; o quanto al luogo soltanto, come nei corpi celesti; o quanto all'ordinamento al fine ed all'applicazione della potenza operativa a diversi oggetti, come negli angeli. Universalmente poi tutte le creature senza eccezione sono mutevoli rispetto alla potenza del Creatore, dal cui potere dipende il loro esistere e il loro non esistere. Quindi, non essendo Dio mutabile in nessuno dei sopraddetti modi, è proprietà esclusiva di lui essere del tutto immutabile.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il primo argomento vale, a proposito della mutabilità secondo l'essere sostanziale o accidentale: di tali mutamenti infatti trattano i naturalisti.
2. Gli angeli buoni oltre l'immutabilità dell'essere, la quale compete loro naturalmente, hanno l'immutabilità dell'elezione (assicurata loro) dalla divina potenza: tuttavia resta in essi la mutabllità rispetto al luogo.
3. Le forme son dette invariabili perché esse stesse non possono venir sottoposte a variazioni: sono però soggette a variare in quanto il soggetto (acquistandole o perdendole) varia in base ad esse. Perciò è evidente che esse cambiano nella maniera stessa che hanno la loro esistenza; infatti non si dicono enti come se fossero esse il soggetto dell'essere, ma perché per mezzo di esse qualche cosa è.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:01
Questione 10

L'eternità di Dio

Passiamo ora a trattare dell'eternità. E in proposito si pongono sei quesiti: 1. Che cosa sia l'eternità; 2. Se Dio sia eterno; 3. Se essere eterno sia proprietà esclusiva di Dio; 4. Se l'eternità differisca dal tempo; 5. Sulla differenza tra evo e tempo; 6. Se vi sia un solo evo, come vi è un solo tempo e una sola eternità.

ARTICOLO 1

Se l'eternità sia ben definita così: "Il possesso intero, perfetto e simultaneo di una vita interminabile"

SEMBRA che non sia esatta la definizione che dell'eternità dà Boezio dicendo che "l'eternità è il possesso intero, perfetto e simultaneo di una vita interminabile". Infatti:
1. Interminabile dice negazione: ora la negazione rientra soltanto nel concetto di quelle cose che sono defettibili: il che non conviene all'eternità. Dunque nella definizione dell'eternità non si deve mettere quell'interminabile.
2. L'eternità significa una certa durata. Ora, la durata riguarda più l'esistenza che la vita. Nella definizione dunque dell'eternità più che la vita dovrebbe porsi l'esistenza.
3. Intero o tutto si dice ciò che ha parti. Ora, l'eternità non ha parti, perché è semplice. Dunque quell'intero non sta bene.
4. Più giorni o più tempi non possono esistere simultaneamente. Ora, nell'eternità si nominano al plurale giorni e tempi, poiché è detto in Michea: "La sua origine è dal principio dei giorni dell'eternità"; e in S. Paolo: "Conforme alla rivelazione di un mistero taciuto per tempi eterni". Dunque l'eternità non è simultanea.
5. Intero e perfetto sono la stessa cosa. Posto dunque che l'eternità sia un possesso intero è superfluo aggiungervi perfetto.
6. Il termine possesso non include l'idea di durata, mentre l'eternità è una certa durata. Dunque l'eternità non è un possesso.

RISPONDO: Come per arrivare alla conoscenza delle cose semplici dobbiamo servirci delle cose composte, così alla cognizione dell'eternità è necessario arrivarci mediante la cognizione del tempo; il quale è la "misura numerica del moto secondo il prima ed il poi". Infatti, siccome in ogni moto vi è una successione ed una parte viene dopo l'altra, dal fatto che noi enumeriamo un prima ed un poi nel movimento, percepiamo il tempo; il quale non è altro che l'enumerazione di ciò che è prima e di quel che è dopo nel movimento. Ora, dove non c'è movimento, dove l'essere è sempre il medesimo, non si può parlare di prima e di poi. Come dunque l'essenza del tempo consiste nell'enumerazione del prima e del poi nel movimento, così nella percezione dell'uniformità di quel che è completamente fuori del moto, consiste l'essenza dell'eternità.
Ancora: si dicono misurate dal tempo le cose che hanno un cominciamento ed una fine nel tempo, come osserva Aristotele; per il motivo che a tutto quel che si muove si può sempre assegnare un inizio e un termine. Al contrario ciò che è del tutto immutabile, come non può avere una successione, così non può avere neppure un inizio ed un termine.
Concludendo, il concetto di eternità è dato da queste due cose: primo, dal fatto che ciò che è nell'eternità, è interminabile (senza termine) cioè senza principio e senza fine (riferendosi la parola termine all'uno e all'altra). In secondo luogo: per il fatto che la stessa eternità esclude ogni successione, "esistendo tutta insieme".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Siamo soliti definire in forma negativa le cose semplici, così il punto "è ciò che è senza parti". Non già perché la negazione appartenga alla loro essenza; ma perché il nostro intelletto, il quale apprende prima le cose composte, non può venire alla conoscenza del semplice che escludendo la composizione.
2. Ciò che è veramente eterno, non solo è ente (ha l'essere), ma è anche vivente; ed è proprio il vivere che si estende in certa guisa all'operazione, non già l'essere. Ora, l'estendersi della durata pare che si debba considerare secondo l'operazione, piuttosto che secondo l'essere: tanto è vero che anche il tempo è misura del movimento.
3. L'eternità si dice intera, non quasi che abbia delle parti, ma perché non le manca niente.
4. Come Dio, pur essendo incorporeo, nelle Scritture è chiamato metaforicamente con nomi di cose corporali, così anche l'eternità, pur esistendo "tutta insieme", è indicata con nomi che esprimono successione temporale.
5. Nel tempo ci sono da considerare due cose: cioè il tempo stesso, che esiste successivamente, e l'istante, che è qualche cosa di incompleto. Ora, l'eternità si dice simultanea per escludere il tempo; si dice perfetta per escludere l'istante.
6. Ciò che si possiede, si ha con stabilità e quiete. Quindi, (Boezio) adoperò il termine possesso per indicare che l'eternità è immutabile e indefettibile.

ARTICOLO 2

Se Dio sia eterno

SEMBRA che Dio non sia eterno. Infatti:
1. Niente di ciò che è causato può attribuirsi a Dio. Ora, l'eternità è qualche cosa di causato; dice infatti Boezio che "l'istante fluente fa il tempo, l'istante permanente fa l'eternità"; e S. Agostino dice che "Dio è autore dell'eternità". Dunque Dio non è eterno.
2. Ciò che è prima e dopo l'eternità non è misurato dall'eternità. Ora, Dio è prima dell'eternità, come dice il Liber De Causis, e dopo l'eternità, come appare dalla Scrittura che dice: "Il Signore regnerà in eterno, e al di là". Dunque a Dio non compete di essere eterno.
3. L'eternità è una misura. Ora, Dio non può essere misurato. Dunque l'eternità non gli appartiene.
4. Nell'eternità, perché simultanea, come si è detto, non esiste presente, passato e futuro. Ma nelle Scritture si adoperano, parlando di Dio, verbi al tempo presente, passato e futuro. Dunque Dio non è eterno.

IN CONTRARIO: Dice S. Atanasio: "Eterno è il Padre, eterno il Figlio, eterno lo Spirito Santo".

RISPONDO: La nozione di eternità nasce dall'immutabilità, come quella di tempo deriva dal movimento, come risulta da ciò che si è detto. Quindi, essendo Dio sommamente immutabile, a lui in modo assoluto compete di essere eterno. E non è soltanto eterno, ma è anche la sua stessa eternità, mentre nessun'altra cosa è la propria durata, perché non è il proprio essere. Dio invece è il suo stesso essere uniforme, e perciò come è la sua essenza, così è la sua eternità.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quando si dice che l'istante permanente fa l'eternità, ci si riferisce al nostro modo d'intendere. Infatti, come in noi viene causata l'idea di tempo in quanto concepiamo il fluire dell'istante, così in noi vien prodotta l'idea di eternità con l'apprendere l'immobilità dell'istante. - Riguardo poi a quel che dice S. Agostino che "Dio è l'autore dell'eternità", s'intende dell'eternità partecipata, perché Dio partecipa ad alcuni esseri la sua eternità al modo stesso che partecipa loro la sua immutabilità.
2. Con ciò resta risolta anche la seconda difficoltà. Si dice infatti che Dio è avanti l'eternità, intendendosi qui l'eternità partecipata dalle sostanze spirituali. E così nel medesimo libro si dice anche che "l'intelligenza è equiparata all'eternità". - Quanto alla frase della Scrittura: "Il Signore regnerà in eterno, e al di là", bisogna sapere che in quel punto la parola eterno sta per secolo, come si ha in altra versione. Così dunque si dice che Dio regnerà al di là dell'eternità, perché perdura oltre qualunque secolo, cioè oltre qualsiasi durata stabilita: per secolo infatti non s'intende altro che una durata periodica di una cosa qualsiasi, come dice Aristotele. - Oppure si dice che regna oltre l'eternità per indicare che se anche ci fosse qualche altra cosa che esistesse sempre (come, p. es., il movimento del cielo, secondo alcuni naturalisti), tuttavia Dio regnerebhe anche più in là (cioè in maniera più perfetta), in quanto il suo regno è tutto insieme (senza successione).
3. L'eternità non è altro che Dio medesimo. Quindi Dio si dice eterno non come se fosse in qualche modo misurato; ma l'idea di misura qui si prende solo secondo il nostro modo d'intendere.
4. Si applicano a Dio verbi di tempi diversi, perché la sua eternità include tutti i tempi; non già perché egli sia soggetto alla variabilità del presente, del passato e del futuro.

ARTICOLO 3

Se essere eterno sia proprietà esclusiva di Dio

SEMBRA che essere eterno non sia esclusiva proprietà di Dio. Infatti:1. È detto nella Scrittura: "Quelli che istruiranno molti alla giustizia, saranno come astri nelle eternità senza fine". Ora, non ci sarebbero molte eternità se soltanto Dio fosse eterno. Non è dunque eterno soltanto Dio.
2. Nel Vangelo è scritto: "Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno". Dunque non il solo Dio è eterno.
3. Tutto ciò che è necessario è eterno. Ora, molte cose sono necessarie, p. es., tutti i principi della dimostrazione e tutte le proposizioni dimostrative. Dunque eterno non è solo Dio.

IN CONTRARIO: S. Girolamo scrive: "Soltanto Dio è senza inizio". Ora, tutto ciò che ha un inizio non è eterno. Quindi soltanto Dio è eterno.

RISPONDO: L'eternità veramente e propriamente è soltanto in Dio. Perché l'eternità deriva dall'immutabilità, come si è già provato; e d'altra parte solo Dio è del tutto immutabile, come abbiamo visto sopra. Tuttavia nella misura in cui alcune cose partecipano da Dio l'immutabilità da lui partecipano anche l'eternità.
Certe cose dunque partecipano da Dio l'immutabilità in questo senso che mai cessano di esistere, come nella Scrittura è detto della terra che "eternamente sussiste". Certe altre sono dette eterne nella Sacra Scrittura per la diuturnità della durata, sebbene siano corruttibili, come nei Salmi son chiamate "eterne le montagne", ed anche nel Deuteronomio si parla "dei frutti dei colli eterni". Altre cose anche più ampiamente partecipano la natura dell'eternità in quanto sono immutabili o nell'essere, o anche perfino nell'operare, com'è degli angeli e dei beati, ammnessi alla fruizione del Verbo; perché relativamente a quella visione del Verbo nei santi non ci sono "pensieri variabili", come dice S. Agostino. Cosicché di coloro che vedono Dio si dice che possiedono la vita eterna, secondo il detto della Scrittura: "la vita eterna consiste nel conoscere (Te, solo Dio vero)...".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Si dicono molte le eternità per indicare che sono molti coloro che partecipano dell'eternità per la contemplazione di Dio.
2. Il fuoco dell'inferno è detto eterno unicamente perché non finirà mai. Però nelle pene dei dannati vi saranno delle trasmutazionl, secondo il detto della Scrittura: "Ad eccessivo calore passi egli dalle acque delle nevi". Quindi nell'inferno non vi è vera eternità, ma piuttosto il tempo, secondo la frase del Salmo: "Il loro tempo si estenderà per tutti i secoli".
3. Necessario indica una modalità del vero. E il vero, a detta del Filosofo, è nell'intelletto. Per conseguenza le cose vere e necessarie sono eterne in quanto esistono in un intelletto eterno, che è soltanto l'intelletto divino. Non ne viene perciò che oltre Dio vi sia qualche cosa di eterno.

ARTICOLO 4

Se l'eternità differisca dal tempo

SEMBRA che l'eternità non si distingua dal tempo. Infatti:
1. È impossibile che due misure di durata coesistano, tranne il caso che una sia parte dell'altra: infatti due giorni o due ore non esistono simultaneamente; ma un giorno ed un'ora possono essere simultanei perché l'ora è una parte del giorno. Ma l'eternità ed il tempo sono insieme, e tutti e due importano una certa misura di durata. Quindi non essendo l'eternità una parte del tempo, perché l'eternità lo sopravanza e lo include, pare che il tempo sia una parte dell'eternità e non cosa diversa da essa.
2. Secondo Aristotele l'istante resta identico a se stesso in tutto il corso del tempo. Ma sembra costituire l'essenza stessa dell'eternità, il restare indivisibilmente la stessa in tutto il decorso del tempo. Dunque l'eternità è l'istante del tempo; ma l'istante non si distingue realmente dal tempo. Perciò l'eternità realmente non differisce dal tempo.
3. Come la misura del primo moto è la misura di tutti i movimenti, come dice Aristotele, così parrebbe che la misura del primo ente debba essere la misura di ogni ente. Ma la misura del primo essere, che è l'essere divino, è l'eternità. Dunque l'eternità è la misura di ogni ente. Ma l'essere delle cose corruttibili è misurato dal tempo. Quindi il tempo o è l'eternità, o qualche cosa di essa.

IN CONTRARIO: L'eternità è tutta simultaneamente; nel tempo invece vi è un prima ed un poi. Dunque tempo ed eternità non sono la stessa cosa.

RISPONDO: È manifesto che tempo ed eternità non sono la medesima cosa. Ma di tale diversità alcuni hanno assegnato questa ragione, che l'eternità non ha né inizio né termine, il tempo invece ha inizio e termine. Ma questa differenza è accidentale e non essenziale. Perché, supposto che il tempo sia sempre stato e che sempre abbia ad essere, come ammettono coloro che attribuiscono al cielo un movimento sempiterno, resterà pur sempre una differenza, al dire di Boezio, tra eternità e tempo per il motivo che l'eternità è tutta insieme, il che non compete al tempo; poiché l'eternità è la misura dell'essere permanente, il tempo invece è misura del movimento.
Tuttavia, se tale differenza si consideri rispetto alle cose misurate e non alle stesse misure, ha un certo valore: perché col tempo si misura soltanto ciò che ha inizio e termine nel tempo, come dice Aristotele. Cosicché se il movimento del cielo durasse sempre, il tempo non lo misurerebbe secondo tutta la sua durata, essendo l'infinito immensurabile, ma ne misurerebbe ogni ciclo, che nel tempo ha inizio e termine.
Però tale differenza potrebbe avere un valore anche rispetto a queste misure (della durata: tempo, evo, eternità), se inizio e termine si prendessero in potenza. Perché, anche supponendo che il tempo durasse sempre, sarebbe possibile, prendendone delle parti, determinare nel tempo un inizio e un termine, come quando parliamo d'inizio e di fine del giorno o dell'anno; ciò che non si verifica per l'eternità.
Tuttavia queste differenze sono conseguenze di quella che è la prima ed essenziale, cioè che l'eternità, diversamente dal tempo, è tutta simultaneamente.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Questa ragione sarebbe buona, se tempo ed eternità fossero misure dello stesso genere: il che appare esser falso se si considera di quali cose tempo ed eternità sono misura.
2. L'istante quanto alla sua realtà è identico a se stesso in tutto il corso del tempo, ma cambiano i suoi rapporti; perché come il tempo corrisponde al movimento, così l'istante del tempo corrisponde al soggetto mobile; ora, il soggetto che si muove è in se stesso identico per tutto il corso del tempo, ma cambia nei suoi rapporti, in quanto che adesso è qui e poi è là. E questa variazione (di rapporti) costituisce il movimento. Allo stesso modo, lo scorrere di un medesimo istante, in quanto subisce l'alternarsi dei rapporti, costituisce il tempo. L'eternità invece rimane identica e in se stessa e quanto a riferimenti o rapporti. Perciò l'eternità non s'identifica con l'istante del tempo.
3. Come l'eternità è la misura propria dell'essere, così il tempo è la misura propria del movimento. Quindi, quanto più un ente si allontana dalla fissità dell'essere e si trova soggetto al mutamento, tanto più si allontana dall'eternità e si assoggetta al tempo. Dunque l'essere delle cose corruttibili, perché trasmutabile, non è misurato dall'eternità, ma dal tempo. Il tempo infatti non solo misura le cose che attualmente si mutano, ma anche quelle che sono mutabili. Per cui non soltanto misura il movimento, ma anche la quiete, propria di ciò che è nato per muoversi, e che attualmente non si muove.

ARTICOLO 5

Sulla differenza tra evo e tempo

SEMBRA che l'evo non si distingua dal tempo. Infatti:
1. Dice S. Agostino che "Dio muove la creatura spirituale nel tempo". Ora l'evo si dice che è misura delle sostanze spirituali. Dunque il tempo non differisce dall'evo.
2. È essenziale al tempo avere il prima e il poi; essenziale dell'eternità è di essere tutta insieme, come si è detto. Ora, l'evo non è l'eternità, perché nella Scrittura si dice che la sapienza eterna esiste "avanti l'evo". Dunque non è tutto simultaneamente, ma ha un prima e un poi: e così non è altro che il tempo.
3. Se nell'evo non c'è prima e poi, ne viene di conseguenza che negli esseri eviterni (cioè misurati dall'evo) non vi è differenza tra l'essere presentemente, l'essere stati in passato, e l'essere nel futuro. Ma siccome non è più concepibile che gli eviterni non siano stati in passato, ne segue che sia cosa assurda che essi possano non esistere in futuro. Ciò che è falso, potendoli Dio annientare.
4. Siccome la durata degli esseri eviterni è infinita a parte post (cioè ha dinanzi a sé l'infinito), se l'evo è tutto intero simultaneamente, ne segue che qualche cosa di creato è un infinito attuale: il che è impossibile. Dunque l'evo non differisce dal tempo.

IN CONTRARIO: Boezio canta così: "Sei tu (o Signore) che comandi al tempo di scaturire dall'evo".

RISPONDO: L'evo differisce dal tempo e dall'eternità come qualche cosa di mezzo tra l'uno e l'altro. Ma alcuni autori assegnano così la loro differenza, dicendo che l'eternità è senza inizio e senza termine; l'evo ha inizio ma non termine; il tempo poi ha inizio e termine. - Ma questa differenza è puramente accidentale, come si è già notato, perché anche se gli esseri eviterni fossero sempre stati e sempre fossero per essere, come alcuni ammettono, o anche se venissero annientati, ciò che è possibile a Dio, l'evo si distinguerebbe ancora dall'eternità e dal tempo.
Altri invece assegnano come differenza tra queste cose il fatto che l'eternità non ha un prima e un poi; il tempo ha un prima ed un poi con innovazioni e invecchiamenti; l'evo ha un prima ed un poi senza innovazione ed invecchiamento. - Ma questa opinione è contraddittoria. Il che appare in modo evidente se innovazione e invecchiamento si riferiscono alla misura stessa (cioè all'evo e non agli eviterni), perché il prima e il poi della durata, non potendo essere simultaneamente, se l'evo ha un prima e un poi è inevitabile che, partendosene la prima parte dell'evo, quella che vien dopo giunga come qualche cosa di nuovo: e così ci sarà innovazione nello stesso evo, come nel tempo. E tale inconveniente rimane anche se (innovazione e invecchiamento) si riferiscono alle entità misurate. Infatti una cosa temporanea invecchia col tempo in quanto è trasmutabile: e dipende da questa trasmutabilità del misurato che nella misura (cioè nel tempo) ci sia un prima e un poi, come insegna Aristotele. Se dunque la stessa realtà eviterna non è soggetta a invecchiare e a rinnovarsi, è perché il suo essere è immutabile. Dunque la sua misura (di durata, ossia l'evo) non avrà né prima né poi.
Dobbiamo dunque dire che, essendo l'eternità misura dell'essere immutabile, un ente si allontana dall'eternità a seconda che si allontana dall'immutabilità nell'essere. Ora, alcune creature si discostano dall'immutabilità nell'essere in questo, che il loro essere è soggetto di trasmutazione, o consiste in una trasmutazione; e questi enti son misurati dal tempo, come è di ogni moto, nonché della sostanza delle cose corruttibili. Altre cose poi si scostano meno dall'immutabilità nell'essere, perché il loro essere né consiste nella trasmutazione, né è soggetto di trasmutazione: tuttavia hanno congiunta una certa trasmutabilità o attuale o potenziale. È quel che avviene nei corpi celesti, il cui essere sostanziale è immutabile; ma hanno un tale essere congiunto al cambiamento di luogo. Ciò è evidente anche negli angeli, perché per quanto riguarda la loro natura hanno l'essere immutabile, congiunto a una mutabilità negli atti liberi; e hanno anche mutabilità di intuizioni e di affetti, e, a loro modo, di luoghi. Per tale motivo essi sono misurati dall'evo, che sta tra l'eternità e il tempo. L'essere invece che è misurato dall'eternità non è mutabile in se stesso, né associabile a variazioni. - Così dunque il tempo implica un prima e un poi; l'evo non ha in sé né prima né poi, ma possono essergli annessi; l'eternità non ha un prima e un poi, né li comporta in alcun modo.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Le creature spirituali, quanto ai loro desideri e pensieri nei quali vi è successione, han per misura il tempo. Tanto è vero che S. Agostino nel passo citato spiega che muoversi nel tempo vuol dire avere una successione di sentimenti. Quanto al loro essere naturale, son misurate dall'evo. Quanto poi alla visione della gloria, partecipano dell'eternità.
2. L'evo è tutto insieme; ma non è eternità, perché è compatibile con un prima e un dopo.
3. Nell'angelo la differenza tra passato e futuro non è nel suo essere, ma solo rispetto alle mutazioni annesse. Ma quando noi diciamo che l'angelo è, o che è stato, o che sarà, si tratta di differenze dovute al modo di concepire della nostra intelligenza, la quale apprende l'essere dell'angelo in confronto alle varie parti del tempo. E quando (la nostra mente) dice che l'angelo è o che è stato, afferma una verità (talmente necessaria) che la stessa potenza divina non potrebbe conciliarla col suo contrario; quando invece dice che sarà afferma una cosa inesistente. Quindi, siccome l'essere e il non essere dell'angelo è soggetto alla divina potenza, Dio, assolutamente parlando, può far sì che non sia nel futuro; non può però far sì che non sia mentre è, o che non sia stato dopo che è stato.
4. La durata dell'evo è infinita nel senso che non è limitata dal tempo. Ora, ad ammettere qualche cosa di creato come infinito, nel senso di non limitato da qualche altra cosa, non c'è nessun inconveniente.

ARTICOLO 6

Se vi sia un evo soltanto

SEMBRA che non vi sia soltanto un evo. Infatti:
1. Nei libri apocrifl di Esdra è scritto: "La maestà e la potestà degli evi è presso di Te, o Signore!".
2. Diversità di generi richiede diversità di misure. Ora, alcuni eviterni sono d'ordine corporale, cioè i corpi celesti; altri sono sostanze spirituali, cioè gli angeli. Non vi è dunque un evo soltanto.
3. Siccome evo è nome di durata, cose che hanno un solo evo, hanno anche una sola durata. Ora, tutti gli esseri eviterni non hanno una sola durata; perché alcuni principiano ad essere dopo gli altri, come è chiaro massime delle anime umane. Non vi è dunque un evo solo.
4. Enti tra loro indipendenti non pare che abbiano una sola misura di durata: la ragione infatti per cui tutte le cose temporanee sembrano soggette a un unico tempo, è che di tutti i movimenti è causa, in qualche maniera, il primo moto, il quale per primo è misurato dal tempo. Ora, gli esseri eviterni non dipendono l'uno dall'altro; perché un angelo non è causa d'un altro angelo. Dunque non vi è un evo solo.

IN CONTRARIO: L'evo è più semplice del tempo e si accosta di più all'eternità. Ora, il tempo è uno solo. Dunque con più ragione l'evo.

RISPONDO: Su questo punto vi sono due opinioni: c'è chi dice che vi è un solo evo, e c'è chi dice che ve ne sono molti. Per sapere quale delle due sia la più vera, bisogna considerare donde deriva l'unità del tempo: perché alla conoscenza delle cose spirituali noi arriviamo mediante le corporali.
Dunque, dicono alcuni che per tutte le cose temporali vi è un solo tempo perché una sola è la serie dei numeri per tutte le cose numerate: infatti, secondo Aristotele, il tempo non è che numero. - Ma la ragione è insufficiente, perché il tempo non è un numero preso come astratto e separato dalle cose numerate, ma come ad esse inerente, ché altrimenti non sarebbe continuo: così dieci braccia di panno non sono continue a causa del numero (10), ma del numerato (cioè del panno stesso). Ora, il numero come si trova in concreto nelle cose numerate non è identico per tutte, ma diverso per ogni cosa diversa.
Quindi altri assegnano come causa dell'unità del tempo l'unità dell'eternità, la quale è il principio di ogni durata. E così, tutte le durate sono una cosa sola, se si considera il loro principio; ma sono molte, se si considera la diversità degli esseri che ricevono la loro durata dall'influsso della prima causa. Altri invece assegnano come causa dell'unità del tempo la materia prima, la quale è il primo soggetto del movimento, la cui misura è il tempo. - Ma nessuna di queste due spiegazioni è sufficiente, perché le cose che hanno in comune la causa o il soggetto, specie se remoto, non sono una cosa unica in senso pieno e assoluto, ma in senso relativo.
La vera ragione dell'unità del tempo è dunque l'unità del primo moto, il quale, essendo semplicissimo, regola tutti gli altri, come insegna Aristotele. Così dunque il tempo non sta in relazione con quel moto soltanto come la misura col misurato, ma anche come l'accidente col soggetto, e così riceve da esso la sua unità. Rispetto agli altri moti invece dice un rapporto solo come una misura al misurato. Per cui non si moltiplica col moltiplicarsi di essi, perché un'unica misura separata è buona per misurare innumerevoli oggetti.
Posto ciò, bisogna sapere che riguardo alle sostanze spirituali vi fu doppia opinione. Alcuni, come Origene, hanno sostenuto che tutte quante son derivate da Dio uguali tra loro; o, per lo meno, come altri han detto, molte di esse. Invece altri hanno detto che tutte le sostanze spirituali sono provenute da Dio secondo una certa gerarchia e con un certo ordine. Tale sembra essere il sentire di Dionigi, il quale asserisce che tra le sostanze spirituali vi sono le prime, le intermedie e le ultime, anche in un medesimo ordine di angeli. Secondo la prima opinione, dunque, è necessario dire che vi sono più evi, in quanto che vi sono più eviterni primi ed eguali. Invece secondo l'altra opinione bisogna dire che vi è un solo evo; perché, essendo ogni cosa misurata con ciò che vi è di più semplice nel suo genere, come dice Aristotele, è necessario ammettere che l'essere di tutti gli eviterni abbia per misura l'essere del primo eviterno, il quale è tanto più semplice quanto più eccelso. E poiché questa seconda opinione è la più vera come dimostreremo in seguito, ammettiamo fin da ora che vi è un solo evo.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Evo, qualche volta, si prende per secolo, il quale è un periodo di durata di qualche cosa: ed in questo senso si dice che ci sono molti evi, come molti secoli.
2. Sebbene i corpi celesti e le creature spirituali differiscano nella loro natura generica; tuttavia convengono in questo, che tutti hanno l'essere intrasmutabile, e per questo hanno per misura l'evo.
3. Neanche le cose temporali nascono tutte insieme, e tuttavia hanno un unico tempo, perché la prima (di esse) è misurata dal tempo. Così tutti gli eviterni hanno un unico evo a motivo del primo tra essi, anche se non cominciano tutti insieme.
4. Perché più cose abbiano una stessa misura non si richiede che una sia causa di tutte le altre; basta che sia la più semplice.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:01
Questione 11

L'unità di Dio

Dopo quanto si è detto rimane da trattare dell'unità di Dio. Su questo argomento poniamo quattro quesiti: 1. Se l'unità aggiunga qualche cosa all'essere; 2. Se ci sia opposizione tra l'uno e i molti; 3. Se Dio sia uno; 4. Se sia sommanlente uno.

ARTICOLO 1

Se l'unità aggiunga qualche cosa all'essere

SEMBRA che l'unità aggiunga qualche cosa all'essere. Infatti:
1. Tutto ciò che è posto in un genere determinato (di realtà), vi è posto perché si aggiunge (come determinazione) all'ente, il quale abbraccia tutti i generi. Ora l'uno appartiene ad un genere determinato, perché principio del numero, il quale è una specie del genere quantità. Dunque l'uno aggiunge qualche cosa all'ente.
2. Ciò che divide o distingue qualche cosa di generico, risulta da un'aggiunta al dato generico. Ora, l'ente si divide in uno e molti. Dunque l'uno aggiunge qualche cosa all'ente.
3. Se l'uno non aggiunge nulla all'ente, dire uno e dire ente sarebbe la stessa cosa. Ora, è un gioco di parole dire ente ente. Dunque sarebbe un gioco anche il dire ente uno: il che è falso. Dunque l'unità aggiunge qualche cosa all'ente.

IN CONTRARIO: Dionigi dice: "Niente vi è tra gli esistenti che non partecipi dell'uno". E ciò non sarebbe se l'uno aggiungesse all'ente qualche cosa che lo coartasse. Dunque l'unità nulla aggiunge all'essere.

RISPONDO: L'unità non aggiunge all'essere nessuna realtà, ma solo la negazione della divisione; poiché uno non altro significa che ente indiviso. E da ciò appare chiaro che l'uno si identifica con l'ente. Infatti, ogni ente o è semplice o composto. Quello semplice non è attualmente diviso e neppure è divisibile. Quello composto non esiste finché le sue parti sono divise, ma solo dopo che l'hanno costituito e composto. Quindi è manifesto che l'essere di qualsiasi cosa consiste nell'indivisione. Di qui deriva che ogni cosa come conserva il proprio essere, così conserva la propria unità.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Alcuni, pensando che fosse una stessa cosa l'uno che coincide con l'essere, e l'uno che è principio del numero, si divisero in sentenze opposte. Pitagora e Platone, vedendo che l'uno, il quale si identifica con l'ente, non aggiunge alcunché di reale sopra l'ente, ma significa la sostanza dell'ente in quanto è indivisa, stimarono che fosse altrettanto dell'uno che è principio del numero. E poiché il numero si compone di unità, credettero che i numeri fossero le essenze di tutte le cose. - Al contrario Avicenna, considerando che l'uno, principio del numero, aggiunge alcunché di reale alla sostanza dell'ente (ché altrimenti il numero composto di unità non sarebbe una specie della quantità) credette che l'uno, il quale coincide con l'ente, aggiungesse qualche cosa di reale alla sostanza dell'ente, come bianco a uomo. - Ma questo è manifestamente falso; perché ciascuna cosa è una in forza della propria sostanza. Se, infatti, ciascuna cosa fosse una per qualche cos'altro, essendo quest'altra entità a sua volta una, se fosse una anch'essa per qualche altra cosa, si andrebbe all'infinito. Quindi bisogna fermarsi al primo. - In conclusione, deve asserirsi che l'uno il quale si identifica con l'essere non aggiunge realtà alcuna all'ente; ma l'uno che è principio del numero aggiunge all'ente qualche cosa, che appartiene al genere di quantità.
2. Niente impedisce che quanto sotto un aspetto è diviso, sotto un altro sia indiviso, come ciò che è diviso numericamente, è indiviso secondo la specie: e così accade che una cosa sia una in un modo, e molteplice in un altro. Ma tuttavia, se tale cosa è indivisa assolutamente parlando; o perché è indivisa secondo ciò che appartiene alla sua essenza, sebbene sia divisa quanto alle parti non essenziali, come ciò che è uno in ragione del soggetto e molteplice secondo gli accidenti; o perché è indivisa in atto e divisibile in potenza, come ciò che è una cosa sola in rapporto al tutto e molteplice in rapporto alle parti: tale essere sarà uno assolutamente parlando, e molteplice sotto un certo aspetto. Se poi, viceversa, una cosa è indivisa sotto un certo aspetto e divisa assolutamente parlando - perché è divisa secondo l'essenza e indivisa secondo ragione, oppure secondo il principio o la causa -: allora sarà molteplice assolutamente parlando e una sotto un certo aspetto; come è il caso di ciò che è molteplice numericamente e uno specificamente o secondo la causa. Così dunque l'ente si divide in uno e molti, ma in questo senso: uno in modo assoluto, e molteplice sotto un certo aspetto. Infatti una molteplicità di cose non sarebbe contenuta sotto l'ente se non fosse contenuta in qualche modo sotto l'uno. Dice infatti Dionigi che "non vi è moltitudine che non partecipi all'unità; ma quel che è molteplice a motivo delle parti, è uno in quanto tutto; e cose, che sono molteplici a motivo degli accidenti, sono una cosa sola quanto al soggetto; e cose molteplici quanto al numero sono una cosa sola quanto alla specie; e cose molteplici quanto alla specie sono una quanto al genere; e cose molteplici quanto alle derivazioni sono una sola cosa quanto al principio".
3. Non è quindi un giochetto dire ente uno, perché uno aggiunge a ente qualche cosa di concettualmente diverso.

ARTICOLO 2

Se ci sia opposizione tra l'uno e i molti

SEMBRA che l'uno e i molti non si oppongano. Infatti:
1. Nessun contrario si afferma del suo contrario. Ora, secondo il già detto, ogni molteplice è in qualche modo uno. Dunque l'uno non si oppone ai molti.
2. Nessuna cosa è costituita dal suo opposto. Ora, l'unità costituisce la moltitudine. Dunque non si oppone ad essa.
3. Ad una cosa se ne oppone un'altra sola. Ora, al molto si oppone il poco. Dunque non gli si oppone l'uno.
4. Se l'uno si oppone alla moltitudine, le si oppone come l'indiviso al diviso: e così le si oppone come la privazione alla qualità corrispondente. Ora, ciò sembra che ripugni, perché ne verrebbe che l'unità sia posteriore alla moltitudine e che si definisca per mezzo di essa, mentre invece la moltitudine si definisce per mezzo dell'unità. Vi sarebbe quindi un circolo vizioso nella definizione: il che non si può ammettere. Dunque l'uno e i molti non sono tra loro opposti.

IN CONTRARIO: Opposte tra loro sono quelle cose le cui nozioni sono contrastanti. Ora, la nozione dell'uno consiste nella indivisibilità, mentre quella della moltitudine contiene in sé la divisione. Dunque l'uno e i molti sono tra loro opposti.

RISPONDO: L'uno si oppone ai molti, ma in maniere diverse. L'uno, infatti, che è principio del numero, si oppone alla pluralità numerica, come la misura al misurato; poiché uno include il concetto di prima misura, e il numero è la moltitudine misurata dall'uno, come dimostra Aristotele. L'uno, invece, che si identifica con l'ente, si oppone alla molteplicità a modo di privazione, cioè come l'indiviso si oppone a ciò che è diviso.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Nessuna privazione toglie completamente l'essere, perché la privazione è negazione ma in un soggetto, come dice Aristotele. Tuttavia ogni privazione toglie una qualche entità. Perciò, se si tratta dell'ente stesso, avviene, a causa dell'universalità del termine, che la privazione di entità si determini sull'ente medesimo: il che non accade invece nelle privazioni di forme particolari: della vista, della bianchezza e simili. E come per l'ente, così è per l'uno e per il bene, che si identificano con l'ente: infatti la privazione del bene si fonda su qualche bene, e parimente la privazione dell'unità si fonda su qualche unità. Di qui può capitare che la moltitudine sia una certa unità, e il male un certo bene, e che il non-ente sia un certo ente. Tuttavia un contrario non si può predicare del suo contrario; perché l'uno si prende in senso assoluto, l'altro in senso relativo. Ciò infatti che è ente in un certo qual modo, perché in potenza, è non-ente in senso assoluto, cioè in atto: così ciò che è ente in senso assoluto, come sostanza, sotto un certo aspetto può essere non-ente, rispetto cioè a qualche entità accidentale. Parimente dunque, ciò che è bene (soltanto) sotto un certo aspetto può essere male assolutamente parlando; o viceversa. Così anche ciò che in senso pieno e assoluto è uno può essere molteplice sotto un certo aspetto; e viceversa.
2. Il tutto è di due specie: c'è il tutto omogeneo, il quale si compone di parti simili, e c'è il tutto eterogeneo, che si compone di parti dissimili. In un tutto omogeneo, le parti che lo costituiscono hanno la forma (e la natura) del tutto, come ciascuna parte di acqua è acqua: e in tal modo è costituito il continuo dalle sue parti. In ogni tutto eterogeneo invece, qualsiasi parte manca della forma del tutto: nessuna parte della casa infatti è casa, e nessuna parte dell'uomo, è uomo. E un tale tutto è la moltitudine. Ora dunque, proprio in quanto la parte della moltitudine non ha la forma di essa, la moltitudine si compone di unità, come la casa è formata di non-case; non già che le unità costituiscano la moltitudine per la loro indivisibilità, per cui le si contrappongono, ma per la loro entità: come le parti della casa costituiscono la casa in quanto sono dei corpi, non già perché sono non-case.
3. Il termine "molto" si può prendere in due sensi. Per primo, in modo assoluto: e così si oppone all'uno. In secondo luogo in quanto implica un certo eccesso; e così si oppone al poco. Quindi nel primo senso, due son già molti; ma non nel secondo.
4. L'uno si oppone ai molti come privazione, in quanto nel loro concetto i molti implicano l'idea di divisione. Quindi che la divisione sia prima dell'unità è necessario non assolutamente, ma secondo il nostro modo di conoscere. Perché noi conosciamo le cose semplici mediante le composte, tanto che definiamo il punto: "ciò che non ha parti", oppure: "il principio della linea". Ma la moltitudine, anche logicamente, è posteriore all'unità; perché noi non possiamo intendere come due cose tra loro divise costituiscano una moltitudine se non perché attribuiamo all'una e all'altra l'unità. Ed è per questo che l'uno si mette nella definizione della moltitudine, e non già la moltitudine nella definizione dell'unità. Ma appena negato l'ente l'intelletto concepisce la divisione. Cosicché prima di tutto si presenta alla nostra intelligenza l'ente; in secondo luogo, (riflettendo) che questo ente non è quell'altro ente, si apprende la divisione; in terzo luogo, l'uno; in quarto luogo, la moltitudine.

ARTICOLO 3

Se Dio sia uno

SEMBRA che Dio non sia uno. Infatti:
1. S. Paolo dice: "Ci sono molti dei e molti signori".
2. L'uno che è principio del numero non si può attribuire a Dio, perché a Dio non si può attribuire nessuna quantità. Parimente non gli si può attribuire l'uno che si identifica con l'ente, perché esso importa privazione, e ogni privazione è un'imperfezione, che disdice a Dio. Non deve dirsi, dunque, che Dio sia uno.

IN CONTRARIO: Nel Deuteronomio sta scritto: "Ascolta, Israele: Il Signore Dio tuo è uno solo".

RISPONDO: Che Dio sia uno si dimostra in tre modi. Primo, dalla sua semplicità. È evidente che ciò, per cui un essere singolo viene costituito soggetto individuale, in nessuna maniera è comunicabile a più d'uno. P. es., ciò per cui Socrate è uomo, è comunicabile a molti; ma ciò per cui Socrate è quest'uomo qui, non può convenire che a uno solo. Se dunque Socrate fosse costituito uomo da ciò per cui è quest'uomo, come non vi possono essere più Socrati, così non vi potrebbero essere più uomini. Ora, questo avviene di Dio: perché Dio è la sua stessa natura, come si è già dimostrato. Per l'identico motivo, dunque, egli è Dio e questo Dio. Impossibile, quindi, che vi siano più dei.
Secondo, dall'infinità della sua perfezione. Si è dimostrato sopra che Dio comprende in se stesso tutta la perfezione dell'essere. Se dunque ci fossero più dei, bisognerebbe che in qualche cosa differissero: quindi qualche cosa converrebbe all'uno che non converrebbe all'altro. E se questo qualche cosa fosse una privazione, l'uno non sarebbe pienamente perfetto; se poi fosse una perfezione, l'altro ne sarebbe mancante. È dunque impossibile che vi siano più dei. Ond'è che gli stessi filosofi dell'antichità, come costretti dalla verità stessa, riconoscendo l'esistenza di un principio infinito, riconobbero che questo principio è uno soltanto.
Terzo, dall'unità del mondo. Le cose tutte che esistono si mostrano vicendevolmente ordinate dal momento che le une servono alle altre. Ora, cose diverse non concordebbero in un medesimo ordinamento, se non vi fossero indirizzate da un agente unico. Infatti, più cose sono riunite meglio in un ordine da un solo agente che da molti; perché l'uno è causa per se dell'unità, mentre i molti non sono causa dell'unità se non accidentalmente, in quanto cioè anch'essi in qualche modo formano un'unità. Siccome, dunque, quello che è primo è perfettissimo e per se (cioè in forza di se stesso), e non per accidens (in forza di altro), è necessario che il primo agente che riunisce tutte le cose in un solo ordine, sia uno solamente. E questi è Dio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Si parla di molti dei secondo l'errore di certuni che adoravano molti dei, pensando che i pianeti e le altre stelle, oppure le singole parti del mondo fossero dei. Cosicché (l'Apostolo) soggiunge: "Ma per noi c'è un unico Dio".
2. L'uno che è principio del numero non si attribuisce a Dio; ma solo alle cose (corporee) che hanno l'essere nella materia. L'uno, infatti, che è principio del numero, è del genere delle entità matematiche, le quali esistono (di fatto) nella materia, ma dalla ragione vengono astratte e separate da essa. L'uno invece, che si identifica con l'ente, è un'entità metafisica, che essenzialmente non dipende dalla materia. E sebbene in Dio non vi sia privazione di sorta, tuttavia, dato il nostro modo di intendere, da noi non è conosciuto se non per via di negazioni e di eliminazioni. E così niente vieta che si enuncino di Dio termini negativi; p. es., che è incorporeo, infinito. E in tal modo si dice che Dio è uno.

ARTICOLO 4

Se Dio sia sommamente uno

SEMBRA che Dio non sia sommamente uno. Infatti:
1. Uno dice assenza di divisione. Ora, una privazione non ammette il più e il meno. Dunque Dio non è uno più di ogni altro ente che è uno.
2. Niente è più indivisibile di ciò che è indivisibile in atto ed in potenza, come il punto e l'unità. Ora, una cosa intanto si dice maggiormente una in quanto è indivisibile. Dunque Dio non è più uno dell'unità e del punto.
3. Ciò che è buono per essenza, è buono al sommo: dunque ciò che è uno per la sua essenza, è uno al massimo grado. Ora, ogni ente è uno per la sua essenza, come dimostra il Filosofo. Dunque ogni ente è uno al massimo grado e quindi, Dio non è uno più che gli altri esseri.

IN CONTRARIO: S. Bernardo dice "che fra tutti gli esseri, che si dicono uno, sta al vertice l'unità della Trinità divina".

RISPONDO: Siccome l'uno è l'ente indiviso, perché una cosa sia massimamente una, bisogna che sia e massimamente ente e massimamente indivisa. Ora, l'una e l'altra condizione si verifica in Dio. Egli infatti è massimamente ente, perché è ente non dall'avere un certo essere determinato da una qualche natura (o essenza) alla quale sia stato unito; ma (perché) è lo stesso essere sussistente, illimitato in tutti i sensi. È poi massimamente indiviso, in quanto non è divisibile per nessun genere di divisione né in atto, né in potenza, essendo semplice sotto tutti gli aspetti, come abbiamo già dimostrato. È dunque evidente che Dio è sommamente uno.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Sebbene la privazione di suo non ammetta il più e il meno, tuttavia, in base ai loro contrari che comportano un più e un meno, anche i termini che indicano privazione si predicano secondo un più e un meno. A seconda, quindi, che una cosa è divisa o divisibile di più o di meno o in nessun modo, è detta o meno o più o sommamente una.
2. Il punto e l'unità, che è principio del numero, non sono enti al massimo grado, non avendo l'essere se non in un soggetto (cioè perché sono accidenti). Perciò nessuno dei due è uno al massimo grado. Infatti come il (loro) soggetto non è massimamente uno, per la diversità (palese) di accidente e sostanza, così neppure gli accidenti.
3. Sebbene ogni ente sia uno per la sua essenza, l'essenza di ciascuno non causa però ugualmente l'unità: perché l'essenza di alcuni è composta di più elementi, non così quella di altri.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:02
Questione 12

La nostra conoscenza di Dio

Dopo avere considerato nelle questioni antecedenti come è Dio in se stesso, resta da esaminare quale egli è nella nostra conoscenza, cioè come da noi è conosciuto.
Intorno a ciò si fanno tredici quesiti: 1. Se un qualche intelletto creato possa vedere l'essenza. di Dio; 2. Se l'essenza di Dio sia vista dall'intelletto mediante una specie creata; 3. Se l'essenza di Dio possa esser vista dagli occhi corporei; 4. Se una sostanza intellettuale creata sia capace con le sue forze naturali di vedere l'essenza di Dio; 5. Se l'intelletto creato abbisogni, per vedere l'essenza di Dio, di un lume creato; 6. Se tra coloro che vedono l'essenza di Dio uno veda più perfettamente di un altro; 7. Se qualche intelletto creato possa comprendere l'essenza di Dio; 8. Se l'intelletto creato vedendo l'essenza di Dio conosca in essa tutte le cose ; 9. Se ciò che ivi conosce, lo conosca mediante delle immagini; 10. Se le cose che vede in Dio le conosca tutte insieme; 11. Se qualche uomo nello stato di viatore possa vedere l'essenza di Dio; 12. Se in questa vita con la ragione naturale possiamo conoscere Dio; 13. Se al di sopra della cognizione della ragione naturale, si dia nella vita presente una conoscenza di Dio mediante la grazia.

ARTICOLO 1

Se un intelletto creato possa vedere Dio nella sua essenza

SEMBRA che nessun intelletto creato possa vedere Dio nella sua essenza. Infatti:
1. Il Crisostomo, commentando il detto di S. Giovanni: "Nessuno ha visto mai Dio", dice: "Ciò che Dio è, non soltanto i profeti, ma non l'hanno conosciuto neanche gli angeli e gli arcangeli: come, infatti, ciò che è di natura creata, potrebbe vedere l'Increato?". Anche Dionigi parlando di Dio, dice: "Non se ne ha la sensazione, né l'immaginazione, né l'opinione, né l'idea, né la scienza".
2. Ogni infinito, in quanto tale, è sconosciuto. Ma Dio, come si è già dimostrato, è infinito. Dunque Dio è per sua natura sconosciuto.
3. L'intelletto creato non conosce che gli esistenti, perché ciò che per primo cade sotto l'apprensione intellettuale è l'ente (= l'esistente). Ora, Dio non è un esistente, ma è sopra gli esistenti, come afferma Dionigi. Quindi Dio non è intelligibile, ma oltrepassa ogni intelletto.
4. Tra il conoscente e il conosciuto ci deve essere una certa proporzione, essendo il conosciuto una perfezione del conoscente. Ora, tra l'intelletto creato e Dio non vi è proporzione alcuna, essendovi tra l'uno e l'altro una distanza infinita. Dunque l'intelletto creato non può conoscere l'essenza di Dio.

IN CONTRARIO: C'è il detto di S. Giovanni: "Lo vedremo come egli è".

RISPONDO: Ogni essere è conoscibile nella misura che è in atto; e Dio, che è atto puro senza mescolanza alcuna di potenza, di per se stesso è sommamente conoscibile. Ma ciò che in se stesso è sommamente conoscibile, per un qualche intelletto può non essere conoscibile a motivo della sproporzione tra l'intelligibile e questo intelletto; come il sole, che è visibile al massimo grado, non può esser visto dal pipistrello, per eccesso di luce. In base a questa riflessione alcuni hanno sostenuto che nessun intelletto creato può vedere l'essenza di Dio.
Ma ciò è inammissibile. Infatti: siccome l'ultima beatitudine dell'uomo consiste nella sua più alta operazione, che è l'operazione intellettuale, se l'intelletto creato non può in nessun modo conoscere l'essenza di Dio, una delle due: o mai raggiungerà la beatitudine, o essa consisterà in altra cosa diversa da Dio. E questo è contro la fede. Ed invero, l'ultima perfezione della creatura ragionevole si trova in Colui che è il principio del suo essere, giacché ogni cosa in tanto è perfetta in quanto raggiunge il suo principio. - Parimente, (tale sentenza) sconfina anche dalla ragione, perché nell'uomo è naturale il desiderio, quando vede un effetto, di conoscerne la causa: di qui il sorgere dell'ammirazione negli uomini. Se dunque l'intelligenza della creatura ragionevole non potesse giungere alla Causa suprema delle cose, in essa rimarrebbe vano il desiderio naturale. Quindi bisogna assolutamente ammettere che i beati vedono l'essenza di Dio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'uno e l'altro testo parlano della cognizione comprensiva. Infatti, Dionigi alle parole riportate premette queste altre: "Per tutti, universalmente, Egli è incomprensibile, e non se ne ha la sensazione", ecc. Ed il Crisostomo, poco dopo le parole riferite, soggiunge: "Visione, qui, dice perfetta contemplazione e comprensione del Padre, tanta quanta il Padre ne ha del Figlio".
2. L'infinito derivante dalla materia non attuata dalla forma è di per sé inconoscibile; perché ogni conoscenza si ha in forza della forma. Ma l'infinito proprio della forma non coartata dalla materia, è, di per sé, conoscibile al sommo. Ora, Dio è infinito così e non nel primo modo, come è chiaro da quel che precede.
3. Si dice di Dio che non è un esistente, non quasi non esista in alcun modo, ma perché è al di sopra di ogni esistente, in quanto è la sua stessa esistenza. Quindi da ciò non segue che sia del tutto inconoscibile, ma che supera ogni conoscimento; il che equivale a dire che è incomprensihile.
4. Si deve parlare di due generi di proporzioni. In un primo caso si tratta del rapporto determinato di una quantità rispetto a un'altra: così il doppio, il triplo, l'uguale sono specie di proporzioni. In un secondo modo si chiama proporzione qualsiasi rapporto di una cosa con un'altra. Ed in questo senso vi può essere una proporzione della creatura rispetto a Dio, in quanto essa sta a lui come l'effetto sta alla causa, e come la potenza sta all'atto. E in questo senso l'intelletto creato può essere proporzionato a conoscere Dio.

ARTICOLO 2

Se l'essenza di Dio sia vista dall'intelletto creato per mezzo di una qualche immagine

SEMBRA che l'essenza di Dio sia vista dall'intelletto creato per mezzo di una qualche immagine. Infatti:
1. Sta scritto: "Sappiamo che quando si manifesterà, saremo simili a lui (cioè ne avremo la somiglianza o l'immagine), e lo vedremo così come egli è".
2. Scrive S. Agostino: "Quando conosciamo Dio, si forma in noi una certa immagine di Dio".
3. L'intelletto in atto è l'(oggetto) intelligibile in atto, come il senso in atto è il sensibile in atto. Ora, ciò non accade se non perché il senso è informato dalla rappresentazione della cosa sensibile e l'intelletto dall'immagine della cosa intelligibile. Dunque, se Dio è visto in atto dall'intelletto creato, è necessario che sia visto mediante una qualche immagine.

IN CONTRARIO: S. Agostino osserva che quando l'Apostolo dice: "in questo momento noi vediamo attraverso uno specchio in enigma", "col nome di specchio e di enigma si possono intendere designate dal medesimo Apostolo tutte le immagini capaci di farci conoscere Dio". Ma vedere Dio per essenza non è visione enigmatica o speculare, ma ad essa si contrappone. Dunque la divina essenza non è vista per mezzo di immagini.

RISPONDO: Per ogni visione, sia sensibile che intellettuale, si richiedono due cose, cioè la facoltà visiva e l'unione della cosa vista con la vista; infatti non si dà visione in atto se non per questo, che la cosa vista è in qualche modo in chi vede. Quanto alle cose corporali è chiaro che la cosa vista non può essere con la sua essenza in chi vede, ma soltanto con la sua immagine: così nell'occhio c'è la rappresentazione della pietra, per mezzo della quale si ha la visione in atto, ma non la sostanza stessa della pietra. Se però si desse una cosa che nello stesso tempo fosse e causa della potenza visiva e oggetto visibile, colui che vede riceverebbe da essa necessariamente e la potenza visiva e la forma per la quale vedrebbe.
Ora è chiaro che Dio è autore dell'acume della nostra mente e può essere insieme oggetto della nostra intelligenza. E poiché l'acume intellettuale della creatura non è l'essenza di Dio, resta che sia una somiglianza e una partecipazione di lui che è la prima intelligenza. Perciò la capacità intellettiva della creatura è detta luce intellettuale, come derivazione dalla Prima Luce; sia che si tratti della capacità naturale, sia che si tratti d'una perfezione sopraggiunta nell'ordine della grazia o della gloria. Dunque nella facoltà conoscitiva si richiede per vedere Dio una certa somiglianza (o immagine) di Dio, che renda l'intelletto capace di vedere Dio.
Ma come oggetto visibile, il quale necessariamente deve in qualche maniera unirsi al soggetto conoscente, è impossibile che l'essenza di Dio sia vista mediante una qualche immagine creata. Prima di tutto, perché in nessuna maniera, come dice Dionigi, si possono conoscere cose superiori con immagini di cose d'ordine inferiore: con l'immagine, p. es., di un corpo non si può conoscere l'essenza di una cosa incorporea. Molto meno, quindi, può essere vista l'essenza di Dio mediante una qualsiasi specie creata. - In secondo luogo, perché l'essenza di Dio è il suo stesso essere, come si è dimostrato sopra; la quale cosa non può competere a nessuna forma creata. Nessuna forma creata può dunque essere immagine capace di rappresentare l'essenza di Dio al soggetto che vede. - Finalmente, perché la divina essenza è qualche cosa d'illimitato che contiene in se stessa in modo sovraeminente tutto ciò che può essere significato o inteso da un intelletto creato. E questo in nessuna maniera può essere rappresentato da una qualsiasi specie creata; perché ogni forma creata è sempre determinata secondo un certo grado o di sapienza, o di potenza, o dell'essere stesso, o di cose simili. Quindi il dire che Dio è visto mediante qualche immagine, equivale a dire che l'essenza di Dio non è vista affatto: il che è falso.
Bisogna dunque concludere che per vedere l'essenza di Dio si richiede da parte della potenza visiva una certa (partecipazione o) somiglianza (di lui), cioè la luce della gloria, che corrobori l'intelletto alla visione di Dio; della quale luce è detto nel Salmo: "nella tua luce noi vedremo la luce". Non però si può vedere l'essenza di Dio mediante qualche immagine creata, che rappresenti questa divina essenza, così come è in se stessa.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quel testo si riferisce alla somiglianza che si ha con la partecipazione della luce della gloria.
2. S. Agostino ivi parla della conoscenza che si ha di Dio nella vita presente.
3. L'essenza divina è lo stesso esistere. Quindi, come le altre forme intelligibili, che non sono la loro esistenza, si uniscono all'intelletto mediante un determinato atto di esistenza, col quale informano l'intelletto e l'attuano; così l'essenza divina si unisce all'intelletto creato come oggetto già attualmente intelligibile, ponendo così in atto l'intelletto per mezzo di se medesima.

ARTICOLO 3

Se l'essenza di Dio possa essere vista con gli occhi corporei

SEMBRA che l'essenza di Dio possa vedersi con gli occhi corporei. Infatti:
1. Si dice nella Scrittura: "nella mia carne vedrò Dio"; e ancora: "per ascoltazione d'orecchi avevo udito di te; ora l'occhio mio ti vede".
2. S. Agostino scrive: "La potenza dei loro occhi", cioè dei glorificati, "sarà più gagliarda, non perché vedranno più acutamente degli stessi serpenti o delle aquile, come alcuni pensano (per quanto acuta infatti sia la vista di questi animali, essi non possono vedere altro che corpi); ma perché vedranno anche le cose incorporee". Ora, chi può vedere le cose incorporee, può essere elevato alla visione di Dio. Dunque (almeno) l'occhio glorificato può vedere Dio.
3. Dio può essere visto dall'immaginazione dell'uomo: dice infatti Isaia: "Vidi il Signore assiso sopra un trono". Ora, questa visione che si deve all'immaginazione trae origine dal senso: infatti come dice Aristotele, la fantasia è "un movimento causato dal senso in atto". Dunque Dio si può percepire con visione sensibile.

IN CONTRARIO: S. Agostino scrive: "Nessuno ha mai visto Dio in questa vita così come egli è; e neppure nella vita degli angeli nessuno lo ha mai visto come con visione corporale si vedono le cose sensibili".

RISPONDO: È impossibile che si possa percepire Dio con il senso della vista, o con qualche altro senso o potenza della parte sensitiva. Ed invero, ogni facoltà di tal genere è atto di un organo corporeo, come si dirà in seguito. L'atto poi è proporzionato al soggetto che deve attuare. Perciò nessuna potenza di tal genere può sorpassare la sfera delle cose corporee. Ora, Dio è incorporeo, come si è già dimostrato. Quindi non può essere visto né dal senso, né dall'immaginazione, ma dal solo intelletto.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quando (Giobbe) dice "nella mia carne vedrò Dio mio Salvatore", non deve intendersi che lo vedrà con il suo occhio di carne, ma che rivivendo nella sua carne, dopo la risurrezione, egli vedrà Dio. - Parimente quando afferma, "ora il mio occhio vede te", intende parlare dell'occhio mentale: come quando l'Apostolo dice: "affinché vi dia (il Signore) spirito di sapienza nella piena conoscenza di lui, e siano illuminati gli occhi del vostro cuore".
2. S. Agostino qui parla come uno che indaga e fa delle ipotesi. Cosa che appare chiaramente da ciò che dice prima: "Saranno pertanto di ben altra potenza (gli occhi glorificati) se con essi si vedrà quella (divina) natura incorporea"; e subito dopo espone il suo pensiero dicendo: "È assai credibile che noi allora vedremo i corpi del nuovo cielo e della nuova terra in modo da percepire chiarissimamente Dio dovunque presente e governante tutte le cose, anche quelle corporee; non già come al presente si arriva a percepire, mediante l'intelligenza delle cose create, le cose invisibili di Dio; ma come, appena li guardiamo, vediamo e non solo crediamo che son vivi gli uomini tra cui si vive e che esercitano funzioni vitali". Da ciò è chiaro che egli intende dire che gli occhi glorificati vedranno Dio al modo stesso che ora i nostri occhi vedono la vita di un uomo. Ora, la vita non si percepisce con l'occhio corporeo come oggetto visibile per se stesso, ma come un sensibile per accidens; un tale oggetto non è conosciuto dal senso, ma da un'altra facoltà conoscitiva nell'istante che avviene la sensazione. Che poi non appena visti oggetti corporali subito da essi si conosca mediante l'intelletto la divina presenza, dipende da due motivi: cioè dalla perspicacia dell'intelletto, e dal riverbero della divina chiarezza nei corpi rinnovellati.
3. Nella visione immaginaria non si vede l'essenza di Dio; ma si forma nell'immaginazione una certa immagine rappresentativa di Dio secondo uno dei tanti modi figurati, come nelle sante Scritture sono rappresentate metaforicamente le cose divine attraverso le cose sensibili.

ARTICOLO 4

Se un intelletto creato possa con le sue forze naturali vedere l'essenza divina

SEMBRA che un intelletto creato possa, con le sue forze naturali, vedere l'essenza divina. Infatti:
1. Dionigi dice che l'angelo è "uno specchio puro, nitidissimo, che accoglie in sé, se è lecito dir così, tutta la bellezza di Dio". Ora, un oggetto (riflesso nello specchio) è visto appena visto lo specchio. Ma siccome l'angelo conosce naturalmente se stesso, sembra evidente che con le sue forze naturali intenda anche l'essenza divina.
2. Un oggetto di per sé visibilissimo può diventare per noi meno visibile a causa della debolezza della nostra vista sia corporale che intellettuale. Ma l'intelletto dell'angelo non soffre di alcuna debolezza. Siccome dunque Dio in se stesso è quanto mai intelligibile, sembra evidente che lo sia anche per l'angelo. Conseguentemente se gli altri intelligibili li conosce con le sue forze naturali, con più ragione dovrà conoscere Dio.
3. Il senso corporeo non può assurgere alla conoscenza della sostanza incorporea, perché oltrepassa la sua natura. Quindi, se vedere Dio nella sua essenza eccedesse la natura di ogni intelligenza creata, ne verrebbe che nessun intelletto creato potrebbe giungere alla visione di Dio: il che è erroneo, come appare da quanto è stato già detto. Sembra chiaro dunque che per l'intelletto creato sia cosa naturale vedere l'essenza divina.

IN CONTRARIO: S. Paolo dice: "Il grazioso dono di Dio è la vita eterna". Ora, la vita eterna consiste nella visione della divina essenza, secondo il detto del Signore: "la vita eterna consiste nel conoscere te solo vero Dio", ecc. Dunque vedere l'essenza di Dio appartiene all'intelletto creato per grazia, e non per natura.

RISPONDO: È impossibile per un intelletto creato vedere con le sue forze naturali l'essenza di Dio. Infatti la conoscenza avviene per il fatto che il conosciuto viene ad essere nel conoscente. Il conosciuto poi è nel soggetto conoscente secondo il modo di esso conoscente. Quindi la conoscenza in ogni soggetto conoscitivo è conforme al modo della sua propria natura. Se dunque il modo di essere di una cosa conosciuta eccede il modo di essere della natura del conoscente, è necessario che la cognizione di tale cosa trascenda la natura di tale conoscente.
Ora, molti sono i modi di essere delle cose. Alcune sono tali che la loro natura non ha l'essere che in questa o quella materia individuale: e tali sono tutti gli enti corporei. Ve ne sono poi di quelle le cui nature (o essenze) sono per sé sussistenti, fuori d'ogni materia, le quali tuttavia non sono il loro essere, ma sono nature che hanno l'essere; e tali sono le sostanze incorporee, chiamate angeli. Soltanto a Dio invece appartiene di essere in maniera tale che egli sia il suo stesso essere sussistente.
A noi dunque è connaturale conoscere quelle cose che non hanno l'essere se non nella materia individuale; perché l'anima nostra, con la quale intendiamo, è anch'essa forma di una materia. Quest'anima, tuttavia, ha una duplice potenza conoscitiva. Una è atto d'un organo corporeo. E ad essa è connaturale conoscere le cose secondo che sono nella materia individuale: cosicché il senso non conosce che i singolari. L'altra potenza conoscitiva dell'anima è l'intelletto, il quale non è atto (o funzione) di alcun organo corporeo. Perciò mediante l'intelletto ci è connaturale conoscere nature (o essenze) le quali, veramente, non hanno l'essere che nella materia individuale; tuttavia non (sono percepite da noi) in quanto esistenti nella materia, ma in quanto ne sono astratte dall'intelletto che le considera. Cosicché noi possiamo conoscere intellettualmente tali cose con una conoscenza universale: il che supera la capacità del senso. - All'intelletto angelico poi è connaturale conoscere le nature esistenti fuori della materia. Ciò supera la naturale capacità dell'intelletto dell'anima umana nello stato della vita presente, durante il quale è unita al corpo.
Resta dunque che il conoscere l'essere sussistente sia connaturale al solo intelletto divino e che per ciò supera il potere naturale di ogni intelletto creato, perché nessuna creatura è il suo proprio essere, ma ha un essere partecipato. Non può dunque l'intelletto creato vedere Dio per essenza se non in quanto Dio si unisce con la sua grazia all'intelletto creato come oggetto di conoscenza.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. All'angelo è connaturale questo modo di conoscere Dio, cioè conoscerlo attraverso la somiglianza di lui che risplende nello stesso angelo. Ma conoscere Dio attraverso una immagine creata, non è conoscere l'essenza di Dio, come abbiamo dimostrato sopra. Quindi non segue che l'angelo possa con le sue forze naturali conoscere l'essenza di Dio.
2. L'intelletto dell'angelo è senza difetto, se si prende "difetto" in senso privativo, quasi che l'angelo manchi di quel che deve avere. Ma se si prende negativamente, allora ogni creatura, di fronte a Dio, è difettosa non avendo quella eccellenza che si trova in Dio.
3. Il senso della vista, perché del tutto materiale, in nessuna maniera può essere elevato alla realtà immateriale; ma il nostro intelletto, o quello dell'angelo, essendo per sua natura elevato di un certo grado al di sopra della materia, può dalla grazia essere innalzato a qualche cosa di più alto oltre la sua natura. Un segno di ciò è che la vista in nessun modo può conoscere in astratto quel che conosce in concreto; ed invero non può in alcun modo conoscere una natura se non come questa qui (in concreto). Il nostro intelletto invece può considerare in astratto ciò che conosce in concreto. Sebbene infatti conosca cose aventi forma nella materia, pure risolve tali composti nei loro due elementi e considera direttamente la forma. Parimente, l'intelletto dell'angelo, sebbene abbia a sé connaturale la conoscenza di (se stesso) essere concretato in una natura particolare, pure può separare l'essere stesso con l'intelligenza, conoscendo che altra cosa è il suo io e altra il suo proprio essere. E perciò, siccome l'intelletto creato ha per sua natura la capacità di apprendere le forme concrete e l'essere concreto in maniera astratta, per una specie di sdoppiamento, può essere elevato dalla grazia, sino alla conoscenza della sostanza separata sussistente e dell'essere separato sussistente.

ARTICOLO 5

Se l'intelletto creato per vedere l'essenza di Dio abbisogni di un qualche lume creato

SEMBRA che l'intelletto creato per vedere l'essenza di Dio non abbisogni di un qualche lume creato. Infatti:
1. Nelle cose sensibili ciò che di suo è luminoso non abbisogna di altro lume per essere visto: quindi neppure in quelle intellettuali. Ora, Dio è luce intellettuale. Dunque non è visto per mezzo di una luce creata.
2. Vedere Dio attraverso un mezzo, non è vederlo per essenza. Ma se lo vediamo con un lume creato lo vediamo attraverso un mezzo. Quindi non lo si vede per essenza.
3. Niente impedisce che ciò che è creato sia naturale ad una qualche creatura. Se dunque l'essenza di Dio è vista mediante un lume creato, un tal lume potrà essere naturale a qualche creatura. E così quella creatura per vedere Dio non abbisognerà di alcun altro lume: ciò che è impossibile. Non è dunque necessario che ogni creatura per vedere l'essenza di Dio abbia una luce supplementare.

IN CONTRARIO: Nei Salmi sta scritto: "nella tua luce noi vedremo la luce".

RISPONDO: Tutto ciò che viene elevato a qualche cosa che supera la sua natura, ha bisogno d'esservi disposto con una disposizione superiore a questa natura: come l'aria, per prendere la forma del fuoco, deve esservi disposta con una disposizione connaturale a tale forma. Ora, quando un intelletto creato vede Dio per essenza, la stessa essenza di Dio diventa la forma intelligibile dell'intelletto. Quindi bisogna che gli si aggiunga una disposizione soprannaturale perché possa elevarsi a tanta sublimità. Siccome dunque la potenza naturale dell'intelletto creato è insufficiente a vedere l'essenza di Dio, come si è dimostrato, è necessario che per grazia divina gli venga accresciuta la capacità d'intendere. E questo accrescimento di potenza intellettiva la chiamiamo illuminazione dell'intelletto; come lo stesso intelligibile si chiama lume o luce. E questa è la luce della quale si dice: "la gloria di Dio l'ha illuminata", cioè la società dei beati contemplatori di Dio. In forza di questa luce i beati diventano deiformi, cioè simili a Dio, secondo il detto della Sacra Scrittura: "quando (Dio) si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il lume creato è necessario per vedere l'essenza di Dio, non nel senso che per questa luce diventi intelligibile l'essenza di Dio, la quale è intelligibile di per sé; ma perché l'intelletto diventa capace d'intendere al modo stesso che ogni altra facoltà per una disposizione abituale diventa più valida a compiere il suo atto. Così anche la luce corporale è necessaria per vedere gli oggetti, in quanto rende il mezzo trasparente in atto, per poter essere mosso dal colore.
2. Un tal lume non si richiede per vedere l'essenza di Dio come una immagine nella quale si debba vedere Dio; ma quale perfezionamento dell'intelletto, per corroborarlo a tale visione. E perciò si può dire che non è un mezzo nel quale si veda Dio; ma un mezzo in forza del quale è visto. E ciò non toglie l'immediatezza della visione di Dio.
3. Una disposizione alla forma del fuoco non può essere naturale se non a ciò che ha effettivamente la forma del fuoco. Quindi il lume di gloria non può essere naturale alla creatura se non nel caso che tale creatura fosse di natura divina, il che è assurdo. Infatti solo per tale lume la creatura razionale diventa deiforme, come si è detto.

ARTICOLO 6

Se tra coloro che vedono l'essenza di Dio uno veda più perfettamente di un altro

SEMBRA che tra coloro che vedono l'essenza di Dio uno non veda più perfettamente di un altro. Infatti:
1. Sta scritto: "vedremo Dio così come egli è". Ora, Dio ha un solo modo di essere e quindi sarà visto da tutti alla stessa maniera. Perciò non più o meno perfettamente.
2. S. Agostino dice che uno non può intellettualmente intendere una cosa più di un altro. Ora, tutti coloro che vedono Dio per essenza, intendono intellettualmente l'essenza divina perché si è dimostrato che Dio si vede con l'intelligenza e non col senso. Dunque tra quelli che vedono l'essenza divina uno non vede più chiaramente dell'altro.
3. Che una cosa sia vista più perfettamente da uno che da un altro può accadere per due versi: o per parte dell'oggetto visibile, o per parte della capacità conoscitiva di chi vede. (Può accadere) per parte dell'oggetto se esso è più perfettamente in colui che vede, in quanto cioè vi imprime una immagine più perfetta. Ma qui non è il caso: perché Dio è presente all'intelligenza che vede la sua essenza non con una immagine, ma con la sua stessa essenza. Resta, dunque, che se uno vede più perfettamente di un altro, si deve a differenze di capacità intellettiva. E così la conseguenza sarebbe che chi possiede una potenza intellettiva naturalmente più elevata, vedrebbe (Dio) più chiaramente. Il che è falso essendo promessa agli uomini, riguardo alla beatitudine, l'uguaglianza con gli angeli.

IN CONTRARlO: La vita eterna consiste nella visione di Dio, secondo l'espressione evangelica: "la vita eterna consiste nel conoscere te solo vero Dio". Dunque, se tutti vedono ugualmente l'essenza di Dio, nella vita eterna tutti saranno uguali. Mentre invece l'Apostolo asserisce tutto il contrario: "un astro è differente da un altro nello splendore".

RISPONDO: Tra coloro che vedranno Dio per essenza, uno lo vedrà più perfettamente dell'altro. Ciò però non sarà a motivo di una immagine di Dio più perfetta in uno che nell'altro, perché tale visione non si compirà mediante una qualche immagine, come si è già detto. Ma avverrà perché l'intelletto dell'uno avrà una capacità o potenza maggiore dell'altro a vedere Dio. La facoltà poi di vedere Dio non appartiene all'intelletto creato in forza della sua natura, bensì per il lume di gloria, il quale, come abbiamo detto sopra, pone l'intelletto in uno stato di deiformità. Cosicché l'intelletto, il quale partecipi maggiormente di questo lume di gloria, vedrà più perfettamente Dio. Parteciperà poi più largamente di questo lume di gloria, colui che ha un grado superiore di carità, perché dove si ha maggiore carità, ivi si trova maggiore desiderio; e il desiderio rende, in certo modo, colui che desidera più atto e più pronto a ricevere l'oggetto desiderato. E perciò colui che avrà maggiore carità, vedrà più perfettamente Dio e sarà più felice.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quando si dice: "vedremo Dio come egli è", quell'avverbio come determina il modo della visione da parte dell'oggetto visto; cosicché questo è il senso: "vedremo che egli è così come è", perché noi vedremo che il suo stesso essere è la sua essenza. Ma non determina il modo della visione da parte del soggetto che vede, nel senso che il nostro modo di vedere sarà così perfetto, come in Dio è perfetto il modo di essere.
2. E con ciò resta sciolta anche la seconda difficoltà. Quando infatti si dice che uno non intende meglio di un altro una medesima cosa, siamo nella verità se ci si riferisce al modo di essere della cosa intesa; perché chiunque apprende una cosa diversamente da quello che è, non la conosce secondo verità. Non però se ci si riferisce al modo dell'intendere, perché l'intendere dell'uno è più perfetto dell'intendere dell'altro.
3. La diversità del vedere non dipenderà dall'oggetto, perché a tutti sarà offerto il medesimo oggetto, cioè l'essenza di Dio: e neppure dalla diversa partecipazione dell'oggetto a motivo di differenti rappresentazioni, ma dalla diversa capacità non già naturale bensì (soprannaturale o) gloriosa dell'intelligenza, come si è detto.

ARTICOLO 7

Se coloro che vedono Dio nella sua essenza lo comprendano

SEMBRA che coloro che vedono Dio per essenza lo comprendano. Infatti:
1. S. Paolo dice: "Continuo a correre per arrivare a comprendere". Ora, non correva invano giacché egli stesso dice: "dunque io corro, ma non come alla ventura". Dunque egli è arrivato a comprendere: e per la stessa ragione tutti gli altri che a ciò invita dicendo: "Correte anche voi così da comprendere".
2. S. Agostino dice: "Una cosa si comprende quando è talmente vista nella sua totalità, che niente di essa sfugge a chi vede". Ora, se Dio si vede nella sua essenza, si vede tutto, e niente di lui si cela a chi lo vede, essendo Dio semplice. Dunque chi lo vede per essenza, lo comprende.
3. Se uno dicesse: "si vede tutto, ma non totalmente", si ribatte: totalmente o si riferisce al conoscente o al conosciuto. Ora, ammesso che si riferisca all'oggetto conosciuto, colui che vede Dio per essenza, lo vede totalmente, perché, si è già visto, lo vede così com'è. E anche se (il termine) viene riferito al soggetto conoscente (si deve dire) che vede Dio totalmente, perché l'intelligenza vedrà l'essenza di Dio con tutto il suo vigore. Perciò chiunque vedrà Dio per essenza lo vedrà totalmente. Quindi lo comprenderà.

IN CONTRARIO: Sta scritto: "O fortissimo, o grande, o potente, il cui nome è il Signore degli eserciti; grande nel consiglio, incomprensibile nel pensiero". Dunque (Dio) non si può comprendere.

RISPONDO: È impossibile per qualsiasi intelletto creato comprendere Dio; "ma raggiungere con la mente Dio in qualunque maniera è una grande felicità", come dice S. Agostino.
Per capire bene ciò, bisogna sapere che comprendere una cosa vuol dire conoscerla alla perfezione. Si conosce poi alla perfezione ciò che si conosce tanto quanto è conoscibile. Quindi, se una cosa che è conoscibile per dimostrazione scientifica, fosse ritenuta soltanto come opinione fondata su ragioni probabili, non si comprenderebbe. P. es.: se uno sa per dimostrazione che il triangolo ha i tre angoli uguali a due retti, comprende tale verità; uno invece che l'accetti come opinione probabile, perché così è affermato dai dotti o dai più, non la comprende; perché non ha raggiunto il perfetto grado di cognizione, secondo il quale la cosa è conoscibile.
Ora, nessun intelletto creato può arrivare a quel perfetto grado di cognizione della divina essenza secondo il quale è conoscibile. Il che si chiarisce così. Ogni cosa è conoscibile nella misura che è ente in atto. Dio, dunque, il cui essere, come abbiamo già dimostrato, è infinito, è infinitamente conoscibile. D'altra parte, nessun intelletto creato può conoscere Dio infinitamente. Infatti un intelletto creato conosce più o meno perfettamente la divina essenza a seconda che è perfuso di un maggiore o minore lume di gloria. Conseguentemente, non potendo essere infinito il lume di gloria ricevuto in qualsiasi intelletto creato, è impossibile che un'intelligenza creata conosca Dio infinitamente. Quindi è impossibile che comprenda Dio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La parola comprensione s'intende in due modi. Primo modo: in senso stretto e proprio, indica che qualche cosa è racchiuso nel comprendente. E in questo senso Dio non è compreso in nessun modo né da un'intelligenza, né da qualsiasi altra cosa; perché, essendo infinito, non può essere racchiuso da un essere finito, in modo che l'essere finito lo contenga nella sua illimitata infinità. E di tale comprensione ora si tratta. Secondo modo: il termine comprensione si prende anche in un senso più largo, quando indica l'opposto di tendenza o conato. Chi infatti ha raggiunto qualcuno, quando lo tiene stretto, si dice che lo ha (com)preso. In tal senso si dice che Dio è preso o compreso (raggiunto) dai beati, secondo il detto del Cantico dei Cantici: "l'ho afferrato, e non lo lascio". In tal senso vanno intese le citazioni dell'Apostolo. E intesa così, la comprensione è una delle tre doti dell'anima (beata), quella che corrisponde alla speranza, come la visione corrisponde alla fede e la fruizione alla carità. Tra noi infatti non tutto quello che si vede, già si tiene o si possiede, perché talora si vedono anche cose distanti, o che non sono in nostro potere. E neppure godiamo di tutte le cose che possediamo, o perché non ci dilettano, o perché non costituiscono il termine ultimo del nostro desiderio, in modo da saziarlo e da quietarlo. Ma i beati hanno queste tre cose in Dio; perché lo vedono: e vedendolo, lo tengono a sé presente, avendo sempre la possibilità di vederlo; tenendolo lo godono, quale ultimo fine che appaga il loro desiderio.
2. Dio si dice incomprensibile non perché qualche cosa di lui resti invisibile; ma perché non è visto tanto perfettamente quanto è visibile. Così, quando una proposizione rigorosamente dimostrabile si conosce per qualche ragione probabile, non è che qualche cosa di essa, o soggetto, o predicato o copula resti sconosciuta; ma tutta quanta non è conosciuta così perfettamente quanto è conoscibile. Perciò S. Agostino, definendo la comprensione, dice che "un tutto conoscitivamente si comprende quando lo si vede in maniera che niente di esso sfugga a colui che lo vede; o quando i suoi limiti possono essere abbracciati dallo sguardo", e allora si abbracciano con lo sguardo i limiti di una cosa quando nel modo di conoscerla si arriva all'estremo limite della sua conoscibilità.
3. L'avverbio totalmente si riferisce all'oggetto conosciuto; non già nel senso che la totalità dell'oggetto non cada sotto la conoscenza, ma perché il modo dell'oggetto non è il modo di colui che conosce. Chi dunque vede Dio nella sua essenza, vede in lui che esiste infinitamente e che è infinitamente conoscibile. Ma questo modo infinito non gli compete in modo che lo conosca infinitamente: come uno può sapere per argomenti di probabilità che una proposizione è dimostrabile, sebbene lui non ne conosca la dimostrazione.

ARTICOLO 8

Se coloro che vedono Dio per essenza vedano in lui tutte le cose

SEMBRA che coloro che vedono Dio per essenza vedano in lui tutte le cose. Infatti:
1. Dice S. Gregorio: "Che cosa non vedono coloro che vedono Colui che tutto vede?". Ora, Dio è Colui che tutto vede. Dunque quelli che vedono Dio, vedono tutte le cose.
2. Chi vede uno specchio, vede tutto ciò che in esso si riflette. Ora, tutto ciò che è o che può essere si riflette in Dio come in uno specchio: egli infatti conosce tutte le cose in se stesso. Chiunque perciò vede Dio, vede tutte le cose che sono o che possono essere.
3. Chi conosce il più, può conoscere anche il meno, come dice Aristotele. Ora, tutte le cose che Dio fa o che può fare, sono inferiori alla sua essenza. Quindi chiunque intende Dio, può intendere tutte le cose che Dio fa o che può fare.
4. La creatura razionale naturalmente desidera conoscere tutto. Se dunque nella visione di Dio non conosce tutte le cose, resta insoddisfatto il suo naturale desiderio: e così anche vedendo Dio, non sarà beata. E questo ripugna. Dunque nella visione di Dio conosce tutte le cose.

IN CONTRARIO: Gli angeli vedono Dio e tuttavia non conoscono tutte le cose. Infatti, al dire di Dionigi, gli angeli inferiori sono purificati di loro nescienza dagli angeli superiori. Essi ignorano anche i futuri contingenti ed i pensieri dei cuori, essendo ciò prerogativa esclusiva di Dio. Non è dunque vero che chi vede l'essenza di Dio, vede tutte le cose.

RISPONDO: L'intelletto creato, vedendo la divina essenza, non vede in essa tutto quello che Dio fa o che può fare. È evidente infatti che una cosa si vede in Dio, come vi si trova. Ora, tutte le cose si trovano in Dio, come gli effetti si trovano virtualmente nella propria causa. Dunque tutte le cose si vedono in Dio come effetti nella loro causa. Ma è chiaro che quanto più perfettamente una causa si conosce tanto maggiore è il numero degli effetti che si possono conoscere in essa. Chi infatti ha intelletto elevato, proposto un solo principio dimostrativo, subito ne ricava la conoscenza di molte conclusioni: il che non accade a chi è d'intelletto più debole, al quale invece è necessario spiegare tutto, cosa per cosa. Sicché può conoscere nella causa tutti gli effetti e tutte le ragioni degli effetti solo quella intelligenza che comprende totalmente la causa. Ora, nessuna intelligenza creata, come abbiamo già visto, può comprendere totalmente Dio. Dunque nessuna mente creata vedendo Dio può conoscere tutto quello che Dio fa o che può fare: poiché ciò equivarrebbe a comprendere tutta la di lui potenza. È vero però che delle cose che Dio fa o può fare, ogni intelletto ne vede tante di più, quanto più perfettamente vede Dio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. S. Gregorio si riferisce alla ricchezza intrinseca dell'oggetto, cioè di Dio, il quale, per quanto dipende da lui, contiene e fa conoscere in modo adeguato tutte le cose. Non ne viene però che chiunque vede Dio, conosca tutte le cose; perché non lo comprende perfettamente.
2. Non è necessario che chi vede uno specchio, vi scorga tutto quel che vi si riflette, a meno che non abbracci lo specchio completamente col suo sguardo.
3. Senza dubbio è cosa più grande vedere Dio che tutte le altre cose; ma è anche cosa più grande vedere Dio in maniera che in lui si vedano tutte le cose, che non sia il vederlo in modo da scorgervi non tutte, ma un minore o maggior numero di cose. Ora, abbiamo già dimostrato che il numero degli oggetti che si possono conoscere in Dio dipende dal modo più o meno perfetto di vederlo.
4. Il desiderio naturale di conoscere insito in ogni creatura razionale ha per oggetto tutte quelle cose che sono necessarie alla sua perfezione intellettuale; e sono precisamente le specie ed i generi delle cose e le loro cause, e tutte queste cose vedrà chiunque contempli la divina essenza. Ma conoscere tutti i soggetti singolari, con i loro pensieri e con le loro opere, non si richiede alla perfezione dell'intelletto creato, né a ciò tende il suo desiderio naturale; come neanche il conoscere tutte quelle cose che ancor non esistono, ma che da Dio possono esser fatte. Del resto se uno conoscesse soltanto Dio, fonte e principio di tutto l'essere e di ogni verità, appagherebbe talmente l'innato desiderio di sapere, che nient'altro più cercherebbe e sarebbe beato. Perciò S. Agostino dice: "Infelice l'uomo che conosce tutte quelle cose (cioè le creature), e te (o Dio) non conosce; beato, invece, chi conosce te, anche se quelle ignora. Chi poi conosce te e conosce anche quelle, non per quelle è più beato, ma per te solo è beato".

ARTICOLO 9

Se le cose viste in Dio da coloro che contemplano la divina essenza siano viste mediante alcune immagini (o specie intelligibili)

SEMBRA che le cose viste in Dio da coloro che contemplano la divina essenza siano viste mediante alcune immagini. Infatti:
1. Ogni cognizione avviene perché il conoscente diventa ad immagine dell'oggetto conosciuto: e infatti l'intelletto in atto d'intendere diventa la cosa attualmente pensata, e il senso in atto di sentire diventa l'oggetto sensibile in atto (ossia l'oggetto sentito), in quanto sono informati dall'immagine dell'oggetto, come la pupilla dall'immagine del colore. Se dunque l'intelletto di chi vede Dio per essenza conosce in Dio qualche creatura, è necessario che sia informato dall'immagine di essa.
2. Noi conserviamo nella memoria le cose che abbiamo prima viste. Ora, S. Paolo, rapito in estasi, avendo contemplata l'essenza divina, come dice S. Agostino, cessato che ebbe di vedere l'essenza di Dio, si ricordò di molte cose viste in quell'estasi: tanto che egli stesso dice che "udì parole ineffabili, che non è lecito a un uomo proferire". È quindi necessario asserire che alcune immagini delle cose da lui ricordate, gli erano rimaste nella mente. E per la stessa ragione, al momento della visione dell'essenza di Dio, doveva avere alcune immagini o specie delle cose che in essa vedeva.

IN CONTRARIO: Con una stessa immagine visiva si vede lo specchio e le cose che vi si riflettono. Ora, tutte le cose si vedono in Dio precisamente come in uno specchio intellettuale. Dunque se lo stesso Dio non è visto per mezzo di un'immagine ma per la sua essenza, neppure le cose che sono viste in lui si vedono a mezzo di immagini o di specie (intelligibili).

RISPONDO: Coloro che vedono Dio per essenza, vedono quel che contemplano nell'essenza di Dio, non mediante alcune immagini, ma mediante la stessa essenza divina unita al loro intelletto. Ed invero, ogni cosa è conosciuta in quanto una sua (immagine o) somiglianza è nel conoscente. Ma ciò avviene in due maniere differenti. Poiché, siccome due cose simili ad una terza, sono simili tra loro, in due modi la potenza conoscitiva può divenire ad immagine di un oggetto conoscibile. In un primo modo, per se stessa, quando direttamente è informata dall'immagine e allora l'oggetto è conosciuto in se stesso. In un secondo modo, quando è informata dall'immagine di un'altra cosa che assomiglia a tale oggetto: e allora non si dice che l'oggetto è conosciuto in se medesimo, ma in qualcos'altro che gli somiglia. Altra infatti è la cognizione di un uomo visto in se stesso, e altra quella che se ne ha vedendolo in un ritratto. Così, dunque, conoscere le cose per le loro immagini (dirette) presenti nel soggetto conoscente, è conoscere le cose in se stesse, cioè nella propria natura; ma conoscerle in quanto le loro immagini eidetiche preesistono in Dio, è un vederle in Dio. E questi due modi di conoscere sono differenti. Perciò per quanto riguarda quel modo di conoscere che permette a coloro che vedono Dio per essenza di vedere tutto in Dio stesso, le cose non vengono viste mediante immagini estranee, ma mediante la sola essenza divina presente all'intelletto, e per la quale si vede Dio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'intelligenza di chi vede Dio diviene ad immagine delle cose viste in Dio, in quanto si unisce alla divina essenza, nella quale preesistono le immagini rappresentative di tutte le cose.
2. Vi sono alcune potenze conoscitive, le quali, mediante immagini anteriormente concepite, possono formarne delle altre. Così la fantasia dalle due immagini che ha già, del monte e dell'oro, si forma l'immagine di un monte d'oro; e l'intelletto dalle due idee di genere e di differenza si forma l'idea di specie. E parimente dalla rappresentazione di un'immagine noi possiamo formarci la rappresentazione della cosa di cui è immagine. E così Paolo o chiunque altro che veda Dio, dalla stessa visione della divina essenza può formare in se stesso le rappresentazioni (o immagini) delle cose che sono viste nella divina essenza; e queste rimasero in Paolo anche dopo che cessò di vedere l'essenza di Dio. Per altro questa visione in cui si vedono le cose mediante tali specie così formate, è ben diversa dalla visione mediante la quale le cose son viste in Dio.

ARTICOLO 10

Se quelli che vedono Dio per essenza vedano simultaneamente tutto quello che vedono in lui

SEMBRA che quelli che vedono Dio per essenza non vedano simultaneamente tutto quello che vedono in lui. Infatti:
1. Secondo Aristotele, può capitare che si abbia la scienza di molte cose, ma non capita che se ne intenda attualmente (intelligere) più di una. Ora, le cose che si vedono in Dio, si intendono intellettualmente così, infatti Dio si vede con l'intelletto. Dunque non si verifica che quelli che vedono Dio, vedano in lui molte cose simultaneamente.
2. S. Agostino dice che "Dio muove la creatura spirituale nel tempo" cioè nei pensieri e negli affetti. Ora, la creatura spirituale è precisamente l'angelo, il quale vede Dio. Dunque coloro che vedono Dio passano successivamente di pensiero in pensiero, di affetto in affetto: il tempo infatti importa successione.

IN CONTRARIO: Dice S. Agostino: "Non saranno volubili i nostri pensamenti, andando e tornando da un oggetto all'altro, ma tutta la scienza nostra la contempleremo simultaneamente con un solo sguardo".

RISPONDO: Le cose che si vedono nel Verbo, si vedono non successivamente, ma simultaneamente. A chiarimento di ciò, bisogna considerare che noi non possiamo intendere molte cose insieme precisamente per questo, perché le intendiamo per mezzo di specie diverse; e non può un solo intelletto essere simultaneamente informato in atto da specie diverse in modo da intendere per mezzo di esse; come non può un medesimo corpo esser modellato contemporaneamente con figure diverse. Quindi avviene che quando più cose possono essere percepite con una sola specie, si intendono simultaneamente: così le diverse parti di un tutto se s'intendono ciascuna per mezzo della propria specie, si intendono successivamente e non tutte insieme; se invece le intendiamo tutte per mezzo della sola specie del tutto, si intendono simultaneamente. Ora si è dimostrato sopra che le cose che si vedono in Dio, non si vedono ciascuna nella sua propria specie, ma tutte nell'unica essenza divina. Quindi si vedono tutte insieme e non successivamente.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Noi intendiamo (in modo attuale) una sola cosa, in questo senso, che intendiamo con una sola specie. Ma nell'atto di concepire una sola specie si intendono simultaneamente molte cose, p. es.: nel concetto di uomo si intende animale e ragionevole, e nell'idea di casa s'intendono le pareti e il tetto.
2. Gli angeli, in forza della cognizione naturale, con la quale conoscono le cose mediante specie diverse loro infuse, non conoscono tutto simultaneamente: e così si mutano nel tempo secondo la loro attività intellettuale. Ma in quanto vedono le cose in Dio (per cognizione soprannaturale), le vedono tutte con un solo sguardo.

ARTICOLO 11

Se qualcuno in questa vita possa vedere Dio per essenza

SEMBRA che qualcuno, in questa vita, possa vedere Dio per essenza. Infatti:
1. (Il Patriarca) Giacobbe disse: "Ho visto Dio a faccia a faccia". Ma vedere a faccia a faccia è precisamente vedere per essenza, come appare chiaramente da quello che dice S. Paolo: "in questo momento noi vediamo traverso uno specchio in enigma, allora vedremo a faccia a faccia". Dunque Dio in questa vita si può vedere per essenza.
2. Il Signore dice di Mosè: "a lui io parlo a faccia a faccia, ed egli vede il Signore manifestamente, non per mezzo di emblemi e figure". Ma ciò equivale a vedere Dio per essenza. Dunque qualcuno può, anche nello stato della presente vita, vedere l'essenza divina.
3. L'oggetto nel quale conosciamo tutte le altre cose e per mezzo del quale giudichiamo tutto il resto, ci è noto di per se stesso. Ora, tutte le cose anche adesso le conosciamo in Dio. Dice, infatti, S. Agostino: "Se tutti e due vediamo che è vero quello che dici tu ed entrambi vediamo che è vero quel che dico io, di grazia: dov'è che noi lo vediamo? Né io in te, né tu in me, ma tutti e due in quella stessa immutabile verità, la quale sta al di sopra delle nostre menti". Altrettanto dice altrove affermando che noi giudichiamo di tutte le cose secondo la verità divina. E nel De Trinitate asserisce che "alla ragione spetta giudicare di queste cose corporali secondo le essenze (o nature) incorporee e sempiterne, le quali, sicuramente, non sarebbero immutabili se non fossero al di sopra della nostra mente". Dunque anche in questa vita noi vediamo Dio.
4. Secondo S. Agostino noi vediamo con visione intellettuale tutte le cose che sono nell'anima con la loro essenza. Ora, la visione intellettuale, secondo la sua asserzione, raggiunge le cose intelligibili non per mezzo di immagini, ma per mezzo delle loro stesse essenze. Dunque, siccome Dio è nell'anima nostra con la sua essenza, è visto da noi per essenza.

IN CONTRARIO: È scritto nell'Esodo: "Nessun uomo mi vedrà e poi rimarrà vivo". E la Glossa commenta: "Finché si vive quaggiù questa vita mortale, Dio si può vedere mediante alcune immagini, ma non nella stessa realtà della sua natura".

RISPONDO: Un puro uomo non può vedere Dio per essenza, se non viene tolto da questa vita mortale. La ragione di ciò è riposta nel fatto che, come abbiamo detto più sopra, la conoscenza si modella sulla natura del soggetto conoscente. Ora, l'anima nostra, finché siamo in questa vita, ha la sua esistenza nella materia corporale: quindi non conosce, naturalmente, se non le cose che hanno la loro forma nella materia, o quelle che possono essere conosciute per mezzo di esse. Ora, è chiaro che la divina essenza non può conoscersi mediante le essenze delle cose materiali, ché, come abbiamo detto sopra, la conoscenza di Dio, avuta per qualsiasi similitudine creata, non è la visione dell'essenza stessa. Perciò è impossibile all'anima dell'uomo, ancor vivente della vita di quaggiù, vedere l'essenza di Dio. - Un segno di ciò è che l'anima nostra quanto più si astrae dalle cose corporali, tanto più diviene capace di quelle intelligibili astratte dalla materia. Ed è per questo che nei sogni e nelle alienazioni dai sensi corporei si percepiscono meglio le rivelazioni divine e le previsioni del futuro. Non può dunque avvenire che l'anima sia sollevata al supremo intelligibile, che è l'essenza divina, finché è legata a questa vita mortale.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Dionigi spiega che quando la Scrittura afferma che alcuno ha veduto Dio, vuole indicare che sono state prodotte delle figure, sensibili o immaginarie, atte a rappresentare simbolicamente qualche cosa di divino. Perciò, quando Giacobbe dice: "Ho visto Dio a faccia a faccia", si riferisce non proprio alla divina essenza, ma a una figura nella quale Dio era rappresentato. Ma questo stesso vedere la persona di Dio che parla, sia pure in visione immaginaria, è già un grado eminente della luce profetica. Come vedremo quando parleremo dei vari gradi della profezia. - Oppure Giacobbe ha detto così per indicare una certa eminenza di contemplazione intellettuale superiore alla comune.
2. Come Dio talora opera per miracolo qualche cosa di soprannaturale nelle cose corporali, così anche ha elevato soprannaturalmente e fuori dell'ordine comune la mente di alcuni, che ancora vivevano in questa carne, sino alla visione della sua essenza, ma senza servirsi dei sensi della carne, come afferma S. Agostino di Mosè, che fu maestro dei Giudei, e di Paolo, che fu maestro dei Gentili. Ma di ciò più ampiamente, quando tratteremo del Rapimento.
3. Quando si dice che noi conosciamo tutte le cose in Dio e per mezzo di lui di tutte giudichiamo, si vuol dire che noi conosciamo e giudichiamo tutto per una certa partecipazione della sua luce: infatti anche lo stesso lume naturale della ragione è una certa partecipazione della luce di Dio; allo stesso modo diciamo, delle cose percepite dai sensi, che le vediamo e le giudichiamo nel (o al) sole, cioè mediante la luce del sole. Perciò S. Agostino dice: "Gli oggetti delle varie discipline non possono esser visti se non sono illuminati, diciamo così, dal loro sole" cioè da Dio. Come, dunque, per vedere qualche cosa sensibilmente non è necessario vedere la sostanza del sole, così per vedere qualche cosa intellettualmente, non è necessario vedere l'essenza di Dio.
4. La visione intellettuale ha per oggetto le cose che sono nell'anima con la loro essenza (non in qualunque modo, ma) come gli intelligibili sono nell'intelletto. Ora, Dio si trova come oggetto intelligibile nell'anima dei beati, non già nell'anima nostra, dove si trova (solo) per essenza, per presenza e per potenza.

ARTICOLO 12

Se in questa vita possiamo conoscere Dio con la ragione naturale

SEMBRA che con la ragione naturale non possiamo, in questa vita, conoscere Dio. Infatti:
1. Dice Boezio che "la ragione non afferra le forme semplici". Ora, Dio è forma supremamente semplice, come abbiamo già dimostrato. Dunque la ragione naturale è impotente a raggiungerne il conoscimento.
2. Come insegna Aristotele l'anima con la ragione naturale nulla intende senza una rappresentazione della fantasia. Ma noi non possiamo avere di Dio un'immagine fantastica, essendo egli incorporeo. Dunque con la ragione naturale noi non possiamo conoscere Dio.
3. La cognizione che si ha mediante la ragione naturale deve essere comune ai buoni e ai cattivi, come è comune anche la natura. Ma la cognizione di Dio appartiene solo ai buoni; infatti dice S. Agostino: "l'acume della mente umana non può affissarsi in sì eccellente luce, se non è purificata dalla giustizia della fede". Dunque Dio è inconoscibile alla ragione naturale.

IN CONTRARIO: S. Paolo (parlando dei Gentili) afferma che "quel che si può conoscere di Dio è in essi manifesto", cioè quello che di Dio è conoscibile mediante il lume di ragione.

RISPONDO: La nostra conoscenza naturale trae origine dal senso; e quindi si estende fin dove può esser condotta come per mano dalle cose sensibili. Ora, mediante le cose sensibili il nostro intelletto non può giungere sino al punto di vedere l'essenza divina: perché le creature sensibili sono effetti di Dio che non adeguano la potenza della loro causa. Perciò mediante la cognizione delle cose sensibili non si può avere il pieno conoscimento della potenza di Dio, e perciò stesso neppure quello della sua essenza. Ma siccome esse sono effetti dipendenti dalla loro causa: ne segue che per mezzo di esse possiamo essere condotti sino a conoscere di Dio se esista; a conoscere altresì quello che a lui conviene necessariamente come a causa prima di tutte le cose, eccedente tutti i suoi effetti. Quindi noi conosciamo di Dio la sua relazione con le creature, che cioè è la causa di tutte; e la differenza esistente tra esse e lui, che cioè egli non è (formalmente) niente di quanto è causato da lui; e che tali cose vanno escluse da lui non già perché egli sia mancante di qualche cosa, ma perché tutte le supera.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La ragione non può raggiungere una forma semplice (angelo o Dio), sino a conoscere che cosa essa sia; può tuttavia conoscerla, da sapere che esiste.
2. Con la ragione naturale si conosce Dio mediante le immagini fantastiche forniteci dai suoi effetti.
3. Conoscere Dio per essenza appartiene esclusivamente ai buoni, perché si deve alla grazia; ma la conoscenza, che di lui si può avere con la ragione naturale, può competere ai buoni e ai cattivi. Perciò S. Agostino nel libro delle Ritrattazioni scrive: "Non approvo quello che dissi in una mia preghiera: "O Dio, che hai voluto che solo i puri conoscessero la verità"; perché mi si può rispondere che molti che non son puri, conoscono molte verità", le conoscono cioè col lume di ragione.

ARTICOLO 13

Se mediante la grazia si abbia una conoscenza di Dio più alta di quella che si ha con la ragione naturale

SEMBRA che mediante la grazia non si abbia una conoscenza di Dio più alta di quella che si ha con la ragione naturale. Infatti:
1. Dice Dionigi che colui il quale in questa vita si unisce più intimamente a Dio, si unisce a lui come ad un essere del tutto sconosciuto: e lo afferma anche Mosè, che pure nell'ordine della conoscenza per grazia ha raggiunto un grado sublime. Ora, congiungersi a Dio ignorandone però l'essenza, è cosa che avviene anche mediante la ragione naturale. Dunque per mezzo della grazia Dio non è da noi conosciuto più perfettamente che per ragione naturale.
2. Con la ragione naturale non possiamo pervenire al conoscimento delle cose divine se non mediante le immagini sensibili della fantasia: né diversamente avviene in forza della cognizione per grazia. Dice infatti Dionigi: "è impossibile che a noi risplenda il raggio divino altrimenti che circondato e velato dalla varietà dei sacri veli". Dunque non conosciamo Dio mediante la grazia più perfettamente che per ragione naturale.
3. Il nostro intelletto aderisce a Dio per la grazia della fede. Ora, non pare che la fede sia una cognizione; perché, come dice S. Gregorio "sono oggetto di fede, non di scienza" le cose che non si vedono. Dunque per la grazia non si aggiunge in noi una nuova e più eccellente conoscenza di Dio.

IN CONTRARIO: L'Apostolo dice: "A noi lo rivelò Dio per mezzo dello Spirito suo", cioè quello "che nessuno dei principi di questo secolo ha conosciuto"; vale a dire nessuno dei filosofi, come spiega la Glossa.

RISPONDO: Noi mediante la grazia possediamo una conoscenza di Dio più perfetta che per ragione naturale. Eccone la prova. La conoscenza che abbiamo per ragione naturale richiede due cose: cioè dei fantasmi (o immagini), che ci vengono dalle cose sensibili, e il lume naturale dell'intelligenza, in forza del quale astraiamo dai fantasmi concezioni intelligibili. Ora, quanto all'una e all'altra cosa, la nostra conoscenza umana è aiutata dalla rivelazione della grazia. Infatti: il lume naturale dell'intelletto viene rinvigorito dall'infusione del lume di grazia. E talora si formano per virtù divina nell'immaginazione dell'uomo anche immagini sensibili, assai più espressive delle cose divine, di quel che non siano quelle che ricaviamo naturalmente dalle cose esterne; come appare chiaro nelle visioni profetiche. E qualche volta Dio forma miracolosamente anche delle cose sensibili, come pure delle voci, per esprimere qualcosa di divino; così nel battesimo di Gesù, lo Spirito Santo apparve sotto forma di colomba, e fu udita la voce del Padre: "Questi è il mio Figlio diletto".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Sebbene per la rivelazione della grazia non conosciamo in questa vita l'essenza di Dio, e in questo senso ci uniamo a lui come a uno sconosciuto, tuttavia lo conosciamo in modo più completo, perché ci si manifestano opere di lui più numerose e più eccellenti; e perché in forza della rivelazione divina gli attribuiamo delle perfezioni che la ragione naturale non può raggiungere, come, p. es., che Dio è uno e trino.
2. Dai fantasmi fornitici dai sensi secondo l'ordine naturale, o formati per virtù divina nella nostra immaginativa, si genera una conoscenza intellettuale tanto più perfetta, quanto più forte è in un uomo il lume intellettuale. E così in forza della rivelazione si trae dai fantasmi, per l'infusione del lume divino, una più ricca cognizione.
3. La fede è una cognizione, perché l'intelletto è determinato dalla fede ad aderire a un oggetto conoscibile. Ma questa adesione a una (verità) determinata non è causata dalla visione (o dall'evidenza) di colui che crede, ma dalla visione di colui al quale si crede. E così, in quanto manca l'evidenza, la fede resta al di sotto della cognizione scientifica: infatti la scienza determina l'intelletto a una data verità per l'evidenza e l'intelligenza dei primi principi.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:04
Questione 13

I nomi di Dio

Dopo avere studiato ciò che concerne la conoscenza di Dio, bisogna procedere allo studio dei nomi di Dio, poiché noi nominiamo tutte le cose nel modo in cui le conosciamo.
In proposito si fanno dodici quesiti: 1. Se noi possiamo dare un nome a Dio; 2. Se alcuni nomi detti di Dio designino la sua sostanza; 3. Se alcuni nomi si dicano di Dio in senso proprio, ovvero se tutti gli si attribuiscano in senso metaforico; 4. Se i vari nomi che si dicono di Dio siano sinonimi; 5. Se alcuni nomi si attribuiscano a Dio e alle creature univocamente o equivocamente; 6. Se tali nomi, supposto che si dicano analogicamente, si attribuiscano primieramente a Dio o alle creature; 7. Se alcuni nomi sian detti di Dio dall'inizio del tempo; 8. Se il nome Dio sia un nome indicante natura o operazione; 9. Se il nome Dio sia un nome comunicabile; 10. Se venga preso univocamente o equivocamente sia per designare il Dio per natura che (per designare un dio) per partecipazione o per opinione; 11. Se il nome "Colui che è" sia per eccellenza il nome proprio di Dio; 12. Se si possano su Dio formulare delle proposizioni affermative.

ARTICOLO 1

Se a Dio convenga un nome

SEMBRA che nessun nome convenga a Dio. Infatti:
1. Dionigi dice che "Di lui non c'è né nome né opinione". E nella Sacra Scrittura è detto: "Qual è il suo nome e quale nome ha il suo figliolo, se lo sai?".
2. Ogni nome o si dice in astratto o in concreto. Ora, i nomi concreti (importando composizione) non convengono a Dio, perché egli è semplice; neppure gli convengono i nomi astratti, perché non indicano qualcosa di perfetto e di sussistente. Dunque di Dio non può dirsi alcun nome.
3. I nomi (sostantivi) indicano una sostanza determinata da una qualità; i verbi e i participi includono l'idea di tempo; i pronomi importano un'indicazione (di ordine spaziale e sensibile) oppure una relazione. Ora, niente di tutto questo può convenire a Dio: perché egli è senza qualità e senza accidente alcuno, e fuori del tempo; non cade sotto i sensi in modo che si possa mostrare; né può essere indicato con i relativi, perché i (pronomi) relativi si richiamano a nomi, participi e pronomi dimostrativi detti in antecedenza. Dunque Dio non può in nessun modo essere da noi nominato.

IN CONTRARIO: Si legge nella Scrittura: "Il Signore è come un guerriero: il suo nome è l'Onnipotente".

RISPONDO: Come dice Aristotele le parole sono segni dei concetti, e i concetti sono immagini delle cose. Di qui appare chiaro che le parole si riferiscono alle cose indicate, mediante (però) il concetto della mente. Sicché noi possiamo nominare una cosa a seconda della conoscenza intellettuale che ne abbiamo. Ora, si è già dimostrato che Dio non può essere visto da noi in questa vita nella sua essenza, ma che è da noi conosciuto mediante le creature per via di causalità, di eminenza e di rimozione. Conseguentemente può essere nominato da noi (con termini desunti) dalle creature; non però in maniera tale che il nome, da cui è indicato, esprima l'essenza di Dio quale essa è, così come il termine uomo esprime nel suo significato proprio la natura dell'uomo (quale essa è); poiché questo termine ci dà dell'uomo la definizione, la quale ne esprime l'essenza; infatti l'idea espressa dal nome non è che la definizione.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Si dice che Dio non ha nome o che è al di sopra di ogni denominazione, perché la sua essenza è al di sopra di tutto ciò che noi possiamo concepire o esprimere a parole.
2. Siccome noi arriviamo alla conoscenza di Dio mediante le creature e da esse ne derivano le denominazioni, i nomi che attribuiamo a Dio lo esprimono in un modo che (propriamente) conviene alle creature materiali, la cui cognizione ci è connaturale, come abbiamo già detto. E poiché tra queste creature gli enti perfetti e sussistenti sono composti, mentre la forma loro non è qualcosa di completo e di sussistente, ma piuttosto il costitutivo di un essere qualsiasi; ne segue che tutti i nomi, che noi imponiamo per esprimere un essere completo e sussistente, sono termini concreti, come conviene ai composti; i nomi, invece, che si danno per indicare forme semplici, non esprimono un essere sussistente, ma ciò per cui una cosa è; così bianchezza significa ciò per cui un oggetto è bianco. Siccome dunque Dio è insieme semplice e sussistente, gli attribuiamo dei nomi astratti per indicare la sua semplicità, e dei nomi concreti per designarne la sussistenza e la perfezione: né gli uni né gli altri però esprimono il suo proprio modo di essere, come neppure il nostro intelletto, in questa vita, lo conosce così come egli è.
3. Indicare una sostanza specificata da una qualità equivale a indicare il supposito con la natura o la forma determinata, nella quale sussiste. Quindi come si danno a Dio dei nomi concreti per indicarne la sussistenza e la perfezione come si è detto, così gli si attribuiscono nomi che ne indicano l'essenza qualificata. Quanto ai verbi ed ai participi significanti il tempo, si dicono di Dio per la ragione che l'eternità include tutti i tempi: come infatti non possiamo né concepire né esprimere le realtà semplici e sussistenti se non alla maniera dei composti, così non possiamo intendere ed esprimere a parole la semplice eternità che nella maniera delle cose temporali: e ciò per la connaturalità del nostro intelletto con le cose composte e temporali. I pronomi dimostrativi poi si applicano a Dio per additarlo quale oggetto d'intelligenza, non già come oggetto dei sensi; dal momento infatti che cade sotto la nostra intelligenza, cade anche sotto la nostra designazione. E così, al modo stesso che applichiamo a Dio nomi, participi e pronomi dimostrativi, lo possiamo anche indicare con pronomi relativi.

ARTICOLO 2

Se qualche nome detto di Dio ne significhi l'essenza

SEMBRA che nessun nome detto di Dio ne indichi l'essenza. Infatti:
1. Dice il Damasceno: "Ognuno dei nomi che si dicono di Dio non sta a significare quel che egli è secondo l'essenza, ma a dimostrare quel che non è, o una qualche relazione, oppure qualcuna di quelle cose che accompagnano la natura o l'operazione".
2. Dionigi afferma: "Troverai che tutti gli inni dei sacri dottori che dividono in lodi e manifestazioni gli appellativi di Dio, sono diretti alle libere produzioni della potenza divina". E ciò significa che i nomi, usati dai sacri dottori per la divina lode, si distinguono in rapporto agli effetti che procedono dallo stesso Dio. Ora, ciò che indica la produzione (o l'effetto) di una cosa, non indica niente di essenziale della cosa stessa. Dunque i nomi detti di Dio, non esprimono la sua essenza.
3. Una cosa viene da noi nominata nel modo che la si conosce. Ora in questa vita noi non conosciamo Dio secondo la sua sostanza. Dunque neppure i nomi da noi imposti vogliono esprimere la natura di Dio.

IN CONTRARIO: Dice S. Agostino: "In Dio è tutt'uno, essere ed essere forte, o essere sapiente, e qualsiasi altra cosa che vorrai affermare di quella semplicità, e dalla quale è significata la sua sostanza". Dunque tutti questi nomi stanno a significare la sostanza (o la natura) di Dio.

RISPONDO: I nomi che si attribuiscono a Dio in senso negativo o che significano un suo rapporto con le creature, evidentemente non esprimono in alcun modo la sua essenza, ma indicano eliminazione di un qualche cosa da lui, o relazione di lui verso altre cose, o meglio di altre cose verso di lui. Ma se si tratta di nomi che si applicano a Dio in modo assoluto e affermativo, come: buono, sapiente e così via, allora c'è diversità di opinione.
Alcuni han detto che tutti questi nomi, sebbene si dicano di Dio affermativamente, sono stati trovati piuttosto per eliminare da Dio qualche cosa, anziché per porre alcunché in lui. Perciò affermano che quando noi diciamo che Dio è vivente, intendiamo dire che non è al modo delle cose inanimate; e così andrebbero presi gli altri (nomi). Così pensava Rabbi Mosè. - Altri poi dicono che tali nomi sono stati dati per indicare dei rapporti esistenti tra Dio e le sue creature, in maniera che, quando, p. es., diciamo che Dio è buono, il senso sarebbe questo: Dio è causa della bontà nelle cose. E così per tutti gli altri.
Ma né l'una né l'altra di queste opinioni soddisfa, per tre motivi. Prima di tutto, perché nessuna di esse sarebbe sufficiente ad assegnare la ragione per cui si dicono di Dio alcuni nomi a preferenza di altri. Dio infatti come è causa dei beni, così è anche causa dei corpi: quindi, se col dire "Dio è buono", nient'altro si vuol significare se non che "Dio è causa del bene", si dovrebbe poter dire ugualmente che Dio è corpo, perché è causa dei corpi. Inoltre: dicendolo corpo, si esclude che sia un ente soltanto in potenza, come la materia prima. - Secondo, perché ne seguirebbe che tutti i nomi applicati a Dio, si direbbero di lui per derivazione, come sano si dice della medicina per derivazione perché significa soltanto che essa è causa della sanità nell'animale, il quale è detto sano in senso pieno e inderivato. - Terzo, perché è in contrasto col pensiero di chi parla di Dio. Difatti chi dice che Dio è vivente, non intende affermare che semplicemente sia causa della nostra vita, o che differisca dai corpi inanimati.
Perciò bisogna dire diversamente, che cioè tali nomi significano, sì, la divina sostanza e si attribuiscono all'essenza di Dio, ma che lo rappresentano in modo insufficiente. Ed ecco la prova. I vocaboli significano Dio in base alla conoscenza che di lui ha il nostro intelletto. Ora, siccome il nostro intelletto conosce Dio attraverso le creature, lo conoscerà nella misura che le creature glielo rappresentano. D'altra parte, sopra si è dimostrato che Dio precontiene in se medesimo tutte le perfezioni delle creature, perché assolutamente e universalmente perfetto. Cosicché ogni creatura in tanto lo rappresenta e gli assomiglia, in quanto possiede una qualche perfezione; non così però da rappresentarlo come un qualcosa della stessa specie o dello stesso genere, ma come un principio trascendente, dalla cui forma gli effetti sono ben lontani, ma col quale tuttavia hanno una certa somiglianza; come (p. es.) le forme dei corpi inferiori rappresentano la virtù del sole. Tutto ciò fu esposto sopra, quando si trattò della divina perfezione. Così, dunque, i predetti nomi significano la divina sostanza, però imperfettamente, come anche le creature la rappresentano in modo imperfetto.
Sicché, quando si dice "Dio è buono", non si vuol già dire che Dio è causa del bene, o che Dio non è cattivo; ma il senso è questo: "quello che noi chiamiamo bontà nelle creature, preesiste in Dio", e in modo ben più alto. Quindi a Dio conviene la bontà non perché è causa del bene; ma piuttosto è tutto il contrario: per il fatto che è buono effonde la bontà nelle cose; secondo il detto di S. Agostino: "perché Dio è buono, noi esistiamo".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il Damasceno dice che tali nomi non significano quello che Dio è, perché nessuno di essi lo esprime perfettamente; ma ognuno lo indica imperfettamente, come anche imperfettamente lo rappresentano le creature.
2. Nella significazione delle parole talora non corrispondono la cosa da cui si desume un termine e quella per cui si adopera: p. es.: il latino lapis (pietra) deriva da: laedere pedem, offendere il piede; però non si adopera per indicare ciò che offende il piede, ma per significare, una specie di corpi; altrimenti tutto ciò che offende il piede sarebbe lapis (pietra). Così dunque si deve dire che quei nomi divini si desumono dagli effetti che derivano dalla divinità; infatti, come le creature rappresentano Dio, per quanto imperfettamente secondo partecipazioni diverse di perfezioni, così il nostro intelletto conosce e nomina Dio secondo ciascuna di queste derivazioni. Tuttavia non applica (a Dio) questi nomi per indicare le varie derivazioni quasi che nel dire "Dio è un vivente" volesse intendere "da Dio deriva la vita"; ma per indicare lo stesso principio delle cose, in quanto in esso preesiste la vita, sebbene in modo più elevato di quello che noi possiamo capire ed esprimere.
3. In questa vita noi non possiamo conoscere l'essenza di Dio come è in se stessa; ma la conosciamo nel modo che si trova rappresentata nelle perfezioni delle creature. Proprio così la designano i nomi da noi imposti.

ARTICOLO 3

Se qualche nome si dica di Dio in senso proprio

SEMBRA che nessun nome debba dirsi di Dio in senso proprio. Infatti:
1. Tutti i nomi che diamo a Dio sono presi dalle creature, come si è detto. Ora, i nomi delle creature si dicono di Dio in senso metaforico, come quando si dice che Dio è pietra, leone e così via. Dunque tutti i nomi che si dicono di Dio sono usati in senso metaforico.
2. Nessun nome è detto in senso proprio di colui del quale con più verità è negato anziché affermato. Ora, tutti questi nomi: buono, sapiente e simili, con più verità vanno negati piuttosto che affermati di Dio, come dimostra Dionigi. Dunque nessuno di tali nomi è detto di Dio in senso proprio.
3. I nomi dei corpi non si predicano di Dio se non metaforicamente, essendo egli incorporeo. Ora, tutti questi nomi implicano delle condizioni materiali: includono infatti nel loro significato l'idea di tempo, di composizione e di altre simili cose, che sono condizioni proprie dei corpi. Dunque tutti questi nomi si predicano di Dio metaforicamente.

IN CONTRARIO: Scrive S. Ambrogio: "Ci sono dei nomi che ci mostrano all'evidenza le proprietà della divinità; altri che esprimono la chiara verità della maestà divina; altri poi che si dicono di Dio in senso traslato per similitudine". Non tutti i nomi, dunque, si dicono di Dio metaforicamente; ma alcuni si dicono in senso proprio.

RISPONDO: Come abbiamo già detto, noi conosciamo Dio dalle perfezioni che egli comunica alle creature; le quali perfezioni si ritrovano in Dio in grado ben più eminente che nelle creature. Ma il nostro intelletto le apprende nel modo che si trovano nelle creature; e come le apprende, così le esprime a parole. Nei nomi dunque che attribuiamo a Dio, ci son da considerare due cose: cioè, le perfezioni stesse significate, come la bontà, la vita, ecc., e il modo di significarle. Riguardo dunque a ciò che tali nomi significano, convengono a Dio in senso proprio, e anzi più proprio che alle stesse creature, e si dicono di lui primariamente. Quanto invece al modo di significarle, non si dicono di Dio in senso proprio, perché hanno un modo di significarle che conviene alle creature.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Certi nomi esprimono le perfezioni comunicate da Dio alle cose create in maniera che lo stesso modo imperfetto, col quale la perfezione divina è partecipata dalla creatura, è incluso nello stesso significato del termine, come, p. es., la parola pietra significa un essere che esiste (solo) nella materia: e tali nomi non si possono attribuire a Dio se non metaforicamente. Altri nomi invece significano le stesse perfezioni in modo assoluto, senza che alcun limite di partecipazione sia incluso nel loro significato, come ente, buono, vivente e simili: e questi si dicono di Dio in senso proprio.
2. Dionigi dice che tali nomi si debbono negare a Dio precisamente per questo, perché ciò che è espresso nel nome non compete a Dio nel modo col quale il nome lo significa, ma in una maniera più sublime. Perciò Dionigi nel medesimo punto dice che Dio è al di sopra di ogni sostanza e di ogni vita.
3. Questi nomi che si dicono di Dio in senso proprio, importano condizioni corporali, non nello stesso significato del nome, ma quanto al modo di significare. Quelli invece che si applicano a Dio in senso metaforico, implicano (materialità o) condizione corporale nello stesso loro significato.

ARTICOLO 4

Se i nomi che si danno a Dio siano sinonimi

SEMBRA che i diversi nomi che si danno a Dio siano dei sinonimi. Infatti:
1. Si chiamano sinonimi quei termini che significano in tutto la medesima cosa. Ora, i nomi che si dicono di Dio indicano, in tutto, la medesima cosa in Dio, perché la bontà di Dio è la sua essenza, come anche la sapienza. Dunque tutti questi termini sono sinonimi.
2. A chi dicesse che questi nomi significano in realtà la stessa cosa, però con una diversità di concetti, si ribatte: un concetto, a cui non corrisponde qualcosa di reale, è vano: se dunque questi concetti sono molti e la realtà è una, pare che tali concetti siano vani.
3. Ciò che è uno realmente e concettualmente, è più uno di ciò che è uno realmente e molteplice concettualmente. Ora, Dio è uno al massimo grado. Dunque pare che non sia uno realmente e molteplice concettualmente. E così i nomi detti di Dio non indicano concetti diversi, e perciò sono sinonimi.

IN CONTRARIO: Termini sinonimi, uniti insieme, non sono che un gioco di parole, come se si dicesse: La veste è un indumento. Se dunque tutti i nomi detti di Dio sono sinonimi, non si potrà più dire convenientemente Dio buono ed espressioni consimili; eppure sta scritto in Geremia: "O fortissimo, o grande, o potente, il cui nome è il Signore degli eserciti".

RISPONDO: I nomi che si danno a Dio non sono sinonimi. Asserzione, questa, facile a provarsi se dicessimo che questi nomi sono stati introdotti per escludere qualche cosa da Dio, o per designare il suo rapporto di causa verso le creature: ché allora sotto questi nomi vi sarebbero diverse nozioni secondo le varie cose negate, o secondo i diversi effetti che si hanno di mira. Ma anche stando a quel che abbiamo detto, che cioè tali nomi significhino, per quanto imperfettamente, la sostanza divina, si dimostra facilmente, da quanto precede, che contengono idee diverse. E invero, l'idea espressa dal nome è la concezione che l'intelletto si fa della cosa indicata dal nome. Ora, il nostro intelletto, siccome conosce Dio per mezzo delle creature, per conoscere Dio forma dei concetti proporzionali alle perfezioni derivanti da Dio nelle creature; le quali perfezioni in Dio preesistono allo stato di unità e semplicità; ma nelle creature son ricevute divise e molteplici. Come dunque alle diverse perfezioni delle creature corrisponde un unico principio semplice, rappresentato in maniera varia e multipla dalle diverse perfezioni delle creature; così alle concezioni molteplici e varie del nostro intelletto corrisponde un unico oggetto assolutamente semplice, conosciuto imperfettamente secondo tali concezioni. E perciò i nomi attribuiti a Dio, sebbene significhino realmente una sola cosa, tuttavia, siccome la significano in concetti molteplici e diversi, non sono sinonimi.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. E così è sciolta la prima difficoltà. Infatti si chiamano sinonimi i nomi che significano una sola cosa secondo un unico concetto. Ma quelli che esprimono nozioni diverse di una identica realtà non significano primariamente e direttamente una medesima cosa; perché il nome non indica la realtà se non mediante la concezione dell'intelletto, come si è dimostrato.
2. I molteplici sensi di questi termini non sono falsi e vani, perché a tutti corrisponde una realtà semplice rappresentata da essi in modo vario ed imperfetto.
3. Dipende dalla perfetta unità di Dio che si trovi in lui in maniera semplice e unitaria ciò che è molteplice e diviso nelle cose. Ed è per questo che egli è uno realmente, e molteplice secondo i concetti (che ne abbiamo); perché il nostro intelletto lo apprende in molteplici modi, come in molteplici modi le cose lo rappresentano.

ARTICOLO 5

Se i nomi attribuiti a Dio e alle creature siano loro attribuiti in senso univoco

SEMBRA che i nomi attribuiti a Dio e alle creature siano loro attribuiti in senso univoco. Infatti:
1. Ogni equivoco si riduce all'univoco, come il multiplo all'uno. Difatti, se è vero che la parola cane è applicata equivocamente all'animale che abbaia e all'animale marino, bisogna pure che di alcuni animali sia detto in senso univoco, cioè di tutti i latranti, altrimenti bisognerebbe procedere all'infinito (per trovare il significato originale). Ora, esistono degli agenti univoci, i quali concordano con i loro effetti nel nome e nella definizione, come l'uomo (il quale) genera l'uomo; ed esistono altri agenti equivoci, come il sole (il quale) causa il caldo, pur non essendo esso stesso caldo se non in senso equivoco. Sembra dunque che il primo agente, al quale si riducono tutti gli altri agenti, sia un agente univoco. E così quello che si dice di Dio e delle creature è detto in senso univoco.
2. Tra i termini equivoci non si dà somiglianza alcuna. Siccome dunque qualche somiglianza c'è tra la creatura e Dio, secondo il detto della Genesi: "Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza"; sembra che qualcosa si possa affermare di Dio e delle creature univocamente.
3. La misura, al dire di Aristotele, è omogenea al misurato. Ora, Dio, come il medesimo afferma, è la prima misura di tutti gli esseri. Dunque Dio è omogeneo alle creature, e quindi qualche cosa si può dire di Dio e delle creature in senso univoco.

IN CONTRARIO: 1. Tutto ciò che si predica di più cose sotto il medesimo nome, ma non secondo lo stesso concetto, si predica di esse in senso equivoco. Ma nessun nome si applica a Dio secondo il medesimo concetto con cui si applica alle creature; infatti la sapienza nelle creature è qualità, ma non in Dio (nel quale è sostanza); ora, mutato il genere di una cosa, ne resta mutato anche il concetto, dal momento che il genere fa parte della definizione. E la stessa ragione vale per tutte le altre cose. Dunque qualsiasi cosa si dica di Dio e delle creature, si dice in senso equivoco.
2. Dista più Dio dalle creature che non le creature tra loro scambievolmente. Ora, a motivo della distanza di alcune creature, avviene che niente si possa dire di esse in senso univoco, come è di quelle che non convengono in nessun genere. Dunque molto meno si può affermare cosa alcuna in senso univoco di Dio e delle creature: ma tutto di essi si predica in senso equivoco.

RISPONDO: È impossibile che alcuna cosa si predichi di Dio e delle creature univocamente. Poiché ogni effetto, che non è proporzionato alla potenza della causa agente, ritrae una somiglianza dell'agente non secondo la stessa natura, ma imperfettamente; in maniera che quanto negli effetti si trova diviso e molteplice, nella causa è semplice e uniforme; così il sole mediante un'unica energia produce nelle cose di quaggiù forme molteplici e svariate. Allo stesso modo, come si è detto, tutte le perfezioni delle cose, che nelle creature sono frammentarie e molteplici, in Dio preesistono in semplice unità. Così, dunque, quando un nome che indica perfezione si applica a una creatura, significa quella perfezione come distinta da altre, secondo la nozione espressa dalla definizione: p. es., quando il termine sapiente lo attribuiamo all'uomo, indichiamo una perfezione distinta dall'essenza dell'uomo e dalla sua potenza e dalla sua esistenza e da altre cose del genere. Quando, invece, attribuiamo questo nome a Dio, non intendiamo indicare qualche cosa di distinto dalla sua essenza, dalla sua potenza o dal suo essere. Per conseguenza, applicato all'uomo, il termine sapiente circoscrive, in qualche modo, e racchiude la qualità che esprime; non così se applicato a Dio, ma lascia (in tal caso) la perfezione indicata senza delimitazione e nell'atto di oltrepassare il significato del nome. Quindi è chiaro che il termine sapiente si dice di Dio e dell'uomo non secondo l'identico concetto (formale). E così è di tutti gli altri nomi. Perciò nessun nome si attribuisce in senso univoco a Dio e alle creature.
Ma neanche in senso del tutto equivoco, come alcuni hanno affermato. Perché in tal modo niente si potrebbe conoscere o dimostrare intorno a Dio partendo dalle creaulre; ma si cadrebbe continuamente nel sofisma chiamato "equivocazione". E ciò sarebbe in contrasto sia con i filosofi, i quali dimostrano molte cose su Dio, sia con l'Apostolo, il quale dice: "le perfezioni invisibili di Dio, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili".
Si deve dunque concludere che tali termini si affermano di Dio e delle creature secondo analogia, cioè proporzione. E ciò avviene in due maniere: o perché più termini dicono ordine a un termine unico (originario e inderivato) - come sano si dice della medicina e dell'orina, in quanto che l'una e l'altra dicono un certo ordine e un rapporto alla sanità dell'animale, questa come indice, quella come causa - oppure perché un termine presenta (rispondenza o) proporzione con un altro, come sano si dice della medicina e dell'animale, in quanto la medicina è causa della sanità che è nell'animale. E in tal modo alcuni nomi si dicono di Dio e delle creature analogicamente, e non in senso puramente equivoco, e neppure univoco. Infatti noi non possiamo parlare di Dio se non partendo dalle creature, come più sopra abbiamo dimostrato. E così qualunque termine si dica di Dio e delle creature, si dice per il rapporto che le creature hanno con Dio, come a principio o causa, nella quale preesistono in modo eccellente tutte le perfezioni delle cose.
E questo modo di comunanza sta in mezzo tra la pura equivocità e la semplice univocità, perché nei nomi detti per analogia non vi è una nozione unica come negli univoci, né totalmente diversa, come negli equivoci; ma il nome che analogicamente si applica a più soggetti significa diverse proporzioni riguardo a una medesima cosa; così sano detto dell'orina, indica il segno della sanità; detto della medicina invece significa la causa della stessa sanità.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Sebbene logicamente sia necessario ridurre i termini equivoci a quelli univoci, tuttavia nell'ordine delle cause l'agente non univoco precede necessariamente l'agente univoco. Infatti l'agente non univoco è causa universale di tutta la specie, come il sole è causa della generazione di tutti gli uomini. L'agente univoco invece non è causa agente universale di tutta la specie (ché altrimenti sarebbe causa di se stesso, essendo contenuto sotto la specie): ma è causa particolare rispetto a tale individuo in cui assicura la partecipazione della specie. La causa dunque universale di tutta una specie non è un agente univoco. Ora, la causa universale è anteriore a quella particolare. - Tale agente universale poi, sebbene non sia univoco, non è tuttavia del tutto equivoco, perché così non causerebbe un qualche cosa di simile a sé; ma si può chiamare agente analogico: così in logica i vari attributi univoci si riducono a un termine primo, non univoco, ma analogico, che è l'ente.
2. La somiglianza della creatura con Dio è imperfetta: non lo rappresenta neppure secondo un medesimo genere, come si è provato altrove.
3. Dio (come causa) è misura (degli enti), ma è una misura eccedente ogni loro proporzione. Per cui non è necessario che Dio e le creature siano contenute sotto un medesimo genere.
Gli argomenti in contrario provano che i predetti nomi non si dicono di Dio e delle creature univocamente; ma non provano che si dicano equivocamente.

ARTICOLO 6

Se i nomi si dicano delle creature prima che di Dio

SEMBRA che i nomi si dicano delle creature prima che di Dio. Infatti:
1. Noi nominiamo le cose secondo che le conosciamo, essendo le parole, a detta di Aristotele, "segni dei concetti". Ora, noi conosciamo prima la creatura che Dio: quindi i nomi da noi imposti prima convengono alle creature e poi a Dio.
2. Secondo Dionigi "noi nominiamo Dio dalle creature". Ma i nomi che noi dalle creature trasferiamo in Dio, si dicono prima delle creature che di Dio, come le parole leone, pietra e simili. Dunque tutti i nomi che si attribuiscono a Dio e alle creature, si dicono prima delle creature che di Dio.
3. Al dire di Dionigi, tutti i nomi che sono comuni a Dio e alle creature, si riferiscono a Dio come alla causa di tutti gli esseri. Ora, un termine dato, per ragione di causalità, si attribuisce alla causa in seconda linea; p. es., sano prima si dice dell'animale, e poi della medicina, la quale è causa della sanità. Dunque tutti questi nomi si dicono delle creature prima che di Dio.

IN CONTRARIO: Dice S. Paolo: "Io piego le ginocchia davanti al Padre del Signore nostro Gesù Cristo, da cui ogni paternità e nei cieli e sulla terra prende nome". E la stessa ragione vale per tutti gli altri nomi che si dicono di Dio e delle creature. Dunque tali nomi si dicono di Dio prima che delle creature.

RISPONDO: Relativamente ai termini che si dicono di più cose per analogia, è necessario che tutti si dicano in ordine ad una sola cosa; e quindi tale cosa deve esser posta nella definizione di tutte le altre. E poiché la nozione espressa dal nome è la definizione, come dice Aristotele, bisogna che tal nome si dica primariamente di quella prima cosa che è posta nella definizione delle altre, e secondariamente delle altre a seconda che si avvicinano più o meno alla prima: come il termine sano, che si dice dell'animale, entra nella definizione del sano detto della medicina, la quale è detta sana in quanto causa la sanità nell'animale; come anche (entra) nella definizione di sano detto dell'orina, la quale si dice sana in quanto è un indice della sanità dell'animale.
Così dunque tutti i nomi che si dicono di Dio metaforicamente, si dicono delle creature prima che di Dio; perché applicati a Dio non altro significano che delle somiglianze con tali creature. Così ridere, detto del prato, non significa altro che questo: che il prato quando si ricopre di fiori offre un aspetto di bellezza somigliante a quello dell'uomo quando sorride, secondo una somiglianza di proporzione; parimente, il termine leone applicato a Dio, questo solo vuol significare: che Dio nelle sue opere si comporta fortemente come il leone si comporta nelle sue. E così si capisce che il significato di tali nomi non si può definire, nella loro applicazione a Dio, se non dipendentemente dall'applicazione che se ne fa alle creature.
Trattandosi poi degli altri nomi, che non si applicano a Dio metaforicamente, varrebbe la stessa ragione se si dicessero di Dio soltanto secondo la sua causalità, come alcuni hanno sostenuto. Ché allora col dire Dio è buono si vorrebbe signiflcare soltanto che Dio è causa della bontà della creatura. Quindi questo nome buono detto di Dio conterrebbe nel suo significato la bontà della creatura, e perciò buono si direbbe della creatura prima che di Dio. Ma sopra abbiamo dimostrato che tali nomi non si dicono di Dio soltanto in ragione della sua causalità, ma anche della sua essenza, perché quando si dice che Dio è buono, oppure è sapiente, non solo si vuol dire che egli è causa della sapienza o della bontà, ma che e bontà e sapienza preesistono in lui in modo più eminente. Quindi, bisogna dire che se si considera il significato intrinseco dei termini, essi si applicano a Dio prima che alle creature: perché quelle perfezioni (indicate dai nomi) provengono alle creature da Dio. Però, se si considera la loro origine, tutti i nomi si attribuiscono primieramente alle creature, che si conoscono per prime. Perciò anche il modo di significare (dei nomi) è quello caratteristico delle creature, come si è detto sopra.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ. 1. Questa prima difficoltà vale relativamente alla derivazione del nome.
2. È ben differente il caso dei nomi attribuiti a Dio metaforicamente da quello dei nomi attribuiti propriamente, come si è detto.
3. Questa obiezione andrebbe bene, se tali nomi si attribuissero a Dio soltanto a motivo della sua causalità e non essenzialmente, cioè come sano si dice della medicina.

ARTICOLO 7

Se i nomi che importano relazione alle creature si attribuiscano a Dio dall'inizio del tempo

SEMBRA che i nomi che importano relazione alle creature, non si attribuiscano a Dio dall'inizio del tempo. Infatti:
1. Si dice comunemente che tali nomi significano la sostanza divina. Per questo anche S. Ambrogio scrive che il nome Signore designa la potenza, la quale è sostanza divina; e la parola Creatore indica l'azione di Dio, la quale è la sua stessa essenza. Ora, la sostanza divina non è temporale, ma eterna. Dunque questi nomi non si dicono di Dio dall'inizio del tempo, ma dall'eternità.
2. Tutto ciò cui conviene qualche cosa a cominciare da un certo tempo, può dirsi fatto: così un essere che è bianco da un certo tempo, si è fatto bianco. Ma a Dio ripugna di esser fatto. Dunque niente si dice di Dio a cominciare dal tempo.
3. Se alcuni nomi si dicono di Dio dall'inizio del tempo per la ragione che importano relazione alle creature, la stessa ragione dovrebbe valere per tutti i nomi che implicano relazione alle creature. Invece alcuni nomi che importano relazione alle creature si dicono di Dio da tutta l'eternità: infatti, Dio dall'eternità conosce ed ama la creatura, secondo il detto della Scrittura: "d'un amore eterno ti ho amato". Dunque anche gli altri nomi, che importano relazione alle creature, come Signore e Creatore, sono da attribuirsi a Dio dall'eternità.
4. Questi nomi importano relazione. Bisogna quindi che tale relazione sia qualche cosa o in Dio o nella creatura soltanto. Ma non può essere che sia soltanto nella creatura, perché così Dio si denominerebbe Signore a motivo della relazione opposta che è nelle creature: ora niente si denomina dal suo contrario. Resta dunque che tale relazione è qualche cosa anche in Dio. Ma in Dio nulla vi è di temporale, essendo egli al di sopra del tempo. Dunque pare che tali nomi non siano da attribuirsi a Dio a cominciare dal tempo.
5. Un attributo relativo si ha in base a una relazione; così avremo Dominus (Signore) da dominio, come bianco da bianchezza. Se dunque la relazione di dominio non è in Dio realmente, ma solo idealmente, ne viene che Dio non è realmente Signore (Dominus). Il che è falso.
6. Quando si tratta di entità relative che per natura non son chiamate a stare insieme, l'una può esistere senza che esista l'altra: così lo scibile esiste anche se non esiste la scienza, come osserva Aristotele. Ora, i relativi che si affermano di Dio e delle creature non sono fatti per stare insieme. Dunque qualche cosa può attribuirsi a Dio in relazione alle creature ancorché la creatura non esista. E così questi nomi, Signore e Creatore, si dicono di Dio dall'eternità e non dall'inizio del tempo.

IN CONTRARIO: S. Agostino dice che questa denominazione relativa di Signore conviene a Dio dall'inizio del tempo.

RISPONDO: Certi nomi che importano relazione alla creatura, sono detti di Dio (a cominciare) dal tempo e non dall'eternità.
Per chiarire la cosa ricordiamo che alcuni sostennero che la relazione non ha un'esistenza nella realtà, ma solo nella mente. Però la falsità di questa opinione appare chiaramente dal fatto stesso che le cose hanno tra loro un certo ordine e un certo rapporto in forza della loro stessa natura. Dobbiamo invece osservare che, richiedendo la relazione due estremi, vi sono tre modi in cui essa può essere un ente reale o di ragione. Talora infatti per parte di tutti e due gli estremi è solo ente di ragione, quando cioè non vi può essere ordine o rapporto tra diverse cose che secondo la sola apprensione della mente, come quando si dice che una cosa è identica a se stessa. E invero, la ragione nel concepire due volte una cosa, la può considerare come due cose; e così scorge un certo rapporto di essa con se medesima. Lo stesso avviene di tutte le relazioni che sono tra l'ente ed il non-ente: relazioni che la mente forma in quanto concepisce il niente come un estremo della relazione. L'identica cosa si verifica di tutte le relazioni che dipendono dall'atto della ragione, come il genere e la specie e simili.
Alcune relazioni invece sono vere entità reali quanto all'uno e all'altro estremo: quando cioè la relazione nasce tra due cose per una realtà comune all'una e all'altra. La cosa appare chiaramente in tutte le relazioni basate sulla quantità, come il grande e il piccolo, il doppio e la metà e simili: infatti la quantità si trova realmente nei due estremi. Lo stesso vale per le relazioni che risultano dall'azione e dalla passione, come la relazione del motore e del mobile, del padre e del figlio, e simili.
Talora infine la relazione in un estremo è entità reale, e nell'altro entità di ragione soltanto. E ciò accade ogni qual volta i due estremi non sono del medesimo ordine. Così la sensazione e la scienza si riferiscono all'oggetto sensibile e a quello conoscibile, i quali oggetti in quanto sono cose esistenti nella realtà concreta sono estranei all'ordine intenzionale del sentire e del conoscere: e quindi nell'intelletto che conosce e nel senso che percepisce c'è una relazione reale, in quanto che sono ordinati a conoscere e sentire le cose; ma le cose, considerate in se stesse, sono estranee a tale ordine. Perciò in esse non c'è relazione reale al conoscere e al sentire, ma soltanto di ragione, in quanto l'intelletto le apprende come termini correlativi della scienza e della sensazione. Perciò Aristotele dice che queste non si chiamano termini di relazione nel senso che si riferiscano ad altre cose, ma perché altre cose si riferiscono ad esse. È come della colonna la quale si dice che è destra unicamente perché si trova alla destra dell'animale: quindi la relazione di posizione non è realmente nella colonna, ma nell'animale.
Siccome dunque Dio è al di fuori di tutto l'ordine creato, e tutte le creature dicono ordine a lui e non inversamente, è evidente che le creature dicono rapporto reale a Dio; ma in Dio non vi è una sua relazione reale verso le creature; vi è solo una relazione di ragione, in quanto che le cose dicono ordine a lui. E così niente impedisce che tali nomi implicanti relazione con le creature si attribuiscano a Dio dall'inizio del tempo: non per un qualche cambiamento avvenuto in lui, ma per una mutazione della creatura; come la colonna diviene destra rispetto all'animale, senza che in essa si sia verificato un cambiamento, ma per lo spostarsi dell'animale.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Tra i nomi che importano relazione alcuni sono imposti per significare (espressamente) le stesse relazioni, come padrone e servo, padre e figlio, e simili: e tali nomi si dicono relativi secondo l'essere. Altri invece stanno a significare delle cose, alle quali sono connesse delle relazioni, come motore e mobile, capo e capeggiato, e simili: e questi si dicono relativi secondo la denominazione. Ebbene, una tale distinzione bisogna applicarla ai nomi di Dio. Difatti alcuni di essi non esprimono che il rapporto stesso (di Dio) alle creature, come Dominus (Signore). E tali nomi non indicano direttamente, ma solo indirettamente l'essenza divina in quanto la presuppongono: come il dominio presuppone la potenza, che è la (stessa) essenza di Dio. Altri nomi invece esprimono direttamente l'essenza divina, e solo di conseguenza importano relazione; come Salvatore, Creatore e simili, i quali esprimono (direttamente) l'azione di Dio, che è la sua essenza. Gli uni e gli altri tuttavia si possono dire di Dio dall'inizio del tempo se si considera la relazione esplicita o implicita che importano, non già in quanto direttamente o indirettamente indicano l'essenza divina.
2. Come le relazioni, che si dicono di Dio (a cominciare) dal tempo, non sono in Dio se non secondo il nostro modo di concepire; così anche il farsi e l'esser fatto non si dice di Dio che secondo la nostra ragione, senza che nessun mutamento sia avvenuto in lui, come quando si dice: "Signore, ti sei fatto rifugio per noi!".
3. L'atto dell'intelletto e della volontà rimane in colui che lo compie, perciò i nomi che esprimono le relazioni derivanti dall'azione dell'intelletto o della volontà si dicono di Dio dall'eternità. Quelli invece che derivano da azioni terminanti, secondo il nostro modo di intendere, ad effetti esteriori, si applicano a Dio (a cominciare) dal tempo, come Salvatore, Creatore, e simili.
4. Le relazioni espresse da quei nomi che si applicano a Dio (a cominciare) dal tempo, sono in lui soltanto secondo il nostro modo di pensare: invece le relazioni opposte si trovano nelle creature realmente. Né vi è ripugnanza alcuna nel fatto che Dio si denomini da relazioni che realmente esistono solo nelle creature; in questo senso per altro, che la nostra mente concepisce il loro correlativo in Dio. In maniera che Dio si potrà dire relativo alle creature nel senso che le creature dicono relazione a lui: così, come dice il Filosofo, lo scibile è detto relativo (all'intelligenza che conosce), perché la scienza (di chi conosce) si riferisce ad esso.
5. Siccome Dio dice relazione alla creatura sotto il medesimo rapporto per cui la creatura dice relazione a Dio, dal momento che la relazione di soggezione si trova realmente nella creatura, ne segue che Dio è il Signore (Dominus) non solo secondo la nostra ragione ma realmente. E infatti egli è il Signore nel modo stesso in cui la creatura gli è soggetta.
6. Per sapere se dei relativi siano o non siano coesistenti per natura, non bisogna considerare l'ordine delle cose denominate da quei relativi, ma il significato degli stessi relativi. Se, infatti, uno dei termini nel suo concetto include l'altro, e viceversa, allora i due termini sono coesistenti, come il doppio e la metà, il padre e il figlio, e così via. Se invece l'uno nel suo concetto include l'altro, ma non viceversa, allora non sono coesistenti per natura. Così è dei termini conoscenza e conoscibile. Ed infatti, conoscibile significa qualche cosa di potenziale: conoscenza invece dice qualche cosa di abituale o di attuale: quindi il conoscibile, stando con rigore al significato del termine, preesiste alla conoscenza. Ma se il conoscibile si considera (conosciuto) in atto, allora coesiste con la scienza parimente in atto: perché nessuna cosa è conosciuta, se di essa non si ha conoscenza. Sebbene dunque Dio sia anteriore alle creature, tuttavia, poiché nel concetto di Dominus (Signore o Padrone) è incluso l'avere un servo, e viceversa, questi due relativi, Dominus e servo, sono per natura simultanei. Quindi Dio non fu Signore (Dominus) prima che avesse la creatura a sé soggetta.

ARTICOLO 8

Se il nome Dio sia nome che indica natura

SEMBRA che il nome Dio non sia nome che indica natura. Infatti:
1. Dice il Damasceno che "Dio viene da θεειν, cioè da correre, e dal soccorrere tutte le cose; o da αιθειν ossia da ardere (perché il nostro Dio è un fuoco che consuma ogni ingiustizia); oppure da θεασθαι, cioè dal vedere, tutte le cose". Ora, tutto ciò appartiene all'operazione. Quindi il nome Dio esprime l'operazione (di Dio) non la natura.
2. Una cosa da noi viene nominata secondo che da noi è conosciuta. Ora, la divina natura è da noi ignorata. Dunque questo nome Dio non significa la divina natura.

IN CONTRARIO: S. Ambrogio afferma che Dio è nome che esprime la natura.

RISPONDO: Non sempre s'identifica la cosa che ha dato origine a una parola con quella che la parola viene destinata a significare. Infatti, come conosciamo la sostanza di una cosa dalle sue proprietà o dalle sue operazioni, così talora la nominiamo da una sua operazione o proprietà; p. es., noi nominiamo l'essenza della pietra (lapide) da una sua azione, perché lede il piede; tuttavia questo nome non è imposto per significare tale azione, ma per designare l'essenza della pietra. Trattandosi invece di cose che ci sono note in se stesse, come il calore, il freddo, la bianchezza e simili, per denominarle non ci serviamo di altre cose: in tali casi s'identifica l'oggetto indicato dalla parola con la sua origine etimologica.
Siccome, dunque, Dio non ci è noto nella sua natura, ma si viene a conoscere attraverso le sue operazioni o effetti, da questi noi lo possiamo denominare, come si è già detto. Quindi questo nome Dio designa una certa operazione, se si bada alla sua origine. Infatti esso è desunto dall'universale provvidenza delle cose: poiché tutti coloro che parlano di Dio, intendono chiamare Dio colui che ha l'universale provvidenza delle cose. Per cui Dionigi dice che "la deità è quella che guarda tutto con provvidenza e bontà perfetta". Il nome Dio da tale operazione deriva, ma è destinato ad esprimere la divina natura.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Tutto quel che dice il Damasceno si riferisce alla provvidenza dalla quale il nome Dio deriva il suo significato.
2. Allo stesso modo che noi possiamo conoscere la natura di una cosa dalle sue proprietà e dai suoi effetti, così la possiamo indicare con un nome. Perciò, siccome noi possiamo conoscere in se stessa la natura della pietra per mezzo di una sua proprietà, sapendo che cosa è la pietra; questo nome pietra indica la natura della pietra, quale è in se stessa: esprime infatti la definizione della pietra, e la definizione ci dice quello che la pietra è. Il concetto infatti che viene espresso dal nome è la definizione, come dice Aristotele. Ora, dagli effetti divini non possiamo conoscere la natura di Dio come è in se stessa, fino al punto di saperne la definizione; ma la conosciamo per via di eminenza, di causalità e di negazione, come abbiamo già detto. Solo in tal modo il termine Dio significa la natura divina. Questo nome infatti serve a indicare un essere che è al di sopra di tutto, che è il principio di tutto e che è diverso (essenzialmente) da tutto. Questo è l'essere che intendono designare coloro che pronunziano il nome di Dio.

ARTICOLO 9

Se il nome Dio sia comunicabile

SEMBRA che il nome Dio sia comunicabile. Infatti:
1. A chiunque è comunicata la cosa espressa dal nome, viene comunicato anche il nome. Ora, il nome Dio, come abbiamo visto, indica la divina natura, la quale è comunicabile ad altri, secondo il detto dell'Apostolo Pietro: "Egli ha donato a noi grandissime e preziose promesse, affinché per mezzo di queste diventiamo partecipi della natura divina". Il nome Dio è dunque comunicabile.
2. Solo i nomi propri non sono comunicabili. Ora, il nome Dio non è un nome proprio, ma è un appellativo comune, come appare chiaro dal fatto che si adopera al plurale, secondo il detto dei Salmi: "Io ho detto: Voi siete dei". Dunque il termine Dio è un nome comunicabile.
3. Questo nome trae la sua origine da un'operazione divina, come abbiamo detto. Ora, tutti gli altri nomi, che si attribuiscono a Dio e derivano dalle sue operazioni o dai suoi effetti, sono comunicabili, come buono, sapiente e simili. Dunque anche il nome Dio è comunicabile.

IN CONTRARIO: È detto nella Sapienza: "Imposero alle pietre e al legno l'incomunicabile nome": e ivi si parla del nome della divinità. Dunque il termine Dio è un nome incomunicabile.

RISPONDO: Un nome in due modi può essere comunicabile: in senso proprio o per (accostamento o) somiglianza. Nome comunicabile in senso proprio è quello che si attribuisce a più cose secondo tutta l'estensione del suo significato; comunicabile per un accostamento è quello che si attribuisce ad altri esseri per qualcuno dei vari elementi inclusi nel suo significato. P. es., il termine leone in senso proprio è detto di tutti quegli animali nei quali si riscontra la natura espressa da tale nome: per somiglianza (o analogia) si attribuisce a tutti gli individui i quali partecipano alcunché di leonino, come l'audacia o la fortezza, per cui si dicono metaforicamente leoni.
Per sapere poi quali nomi siano comunicabili in senso proprio, bisogna notare che ogni forma esistente in un soggetto singolare, da cui riceve la sua individuazione, è comune a più individui o realmente o almeno secondo la considerazione della nostra mente: p. es., la natura umana è comune a più individui realmente e secondo il nostro modo di concepire, mentre la natura del sole non è comune a più individui in realtà, ma solo secondo il nostro modo di concepire, poiché la natura del sole possiamo supporla attuata in più soggetti. E ciò perché la nostra mente concepisce la natura di ciascuna specie astraendo dal singolare: quindi esistere in un solo individuo, o in più, non rientra nel concetto che noi ci formiamo di una natura specifica: perciò, salvo restandone il concetto, ogni natura specifica si può pensare attuata in più soggetti. Il singolare, invece, per il fatto che è singolare, è distinto da ogni altra realtà. Quindi ogni nome imposto a significare il singolare è incomunicabile e secondo la realtà e secondo il nostro modo di concepire: non può infatti neppur venire in mente la molteplicità di questo determinato individuo. Sicché nessuno dei nomi che designano l'individuo è comunicabile a più soggetti in senso proprio, ma solo in senso figurato; così, p. es., uno può esser detto un Achille, in senso metaforico, in quanto possiede qualcuna delle proprietà di Achille, cioè il coraggio.
Ora, le forme che non vengono individuate da un qualche soggetto, ma da se medesime (perché cioè sono forme sussistenti), se venissero concepite (da noi) quali sono in se stesse, non si potrebbero dire comunicabili né realmente, né secondo il nostro modo di intendere; tutt'al più (sarebbero comunicabili) per analogia, come si è detto degli individui. Però siccome noi non possiamo conoscere le forme semplici per sé sussistenti come esse sono, ma le conosciamo al modo degli esseri composti aventi forma nella materia, allora, come abbiamo detto, diamo loro dei nomi concreti che esprimono la natura (come fosse attuata) in qualche soggetto. Quindi, per quanto concerne la questione dei nomi, vale la stessa ragione per i nomi che noi usiamo per indicare la natura delle cose composte e per quelli che adoperiamo per significare le nature semplici sussistenti.
Allora, siccome il termine Dio è preso a significare la natura divina, come abbiamo già detto; e siccome, d'altra parte, la natura divina non è moltiplicabile, come abbiamo dimostrato; ne viene che questo nome Dio è realmente incomunicabile, ma è comunicabile secondo una (falsa) opinione, come sarebbe comunicabile il nome sole secondo l'opinione di coloro che ammettessero più soli. In questo senso dice S. Paolo: "Voi servivate a quelli che per natura non sono dei"; e la Glossa soggiunge: "non sono dei per natura, ma secondo l'opinione degli uomini". - Nondimeno il nome Dio è comunicabile, se non secondo tutta l'estensione del suo significato, almeno in parte, per un certo (accostamento o) somiglianza: talché si potranno chiamare dei coloro che partecipano un qualche cosa di divino a modo di somiglianza, secondo le parole dei Salmi: "Io ho detto: Voi siete dei".
Ma se ci fosse un nome posto a significare Dio non sotto l'aspetto di natura, ma sotto quello di supposito (individuale), allora un tal nome sarebbe del tutto incomunicabile: tale è forse presso gli Ebrei il Tetragramma. Sarebbe lo stesso che uno desse al sole il suo nome per indicare (non la natura dell'astro ma) questo (corpo celeste) in particolare.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La natura divina non è comunicabile se non secondo la partecipazione di una somiglianza.
2. Il nome Dio è un appellativo e non un nome proprio, perché significa la natura divina come se si trovasse in un soggetto che la possiede; sebbene Dio, in realtà, non sia né un essere universale, né un essere particolare. Difatti i nomi non seguono il modo di essere che si trova nelle cose, ma il modo di essere che hanno nella nostra cognizione. E nondimeno in realtà è incomunicabile, come si è detto riguardo al nome sole.
3. I termini buono, sapiente e simili, son derivati, è vero, da perfezioni causate da Dio nelle creature; ma essi non sono usati per significare l'essenza divina, bensì le perfezioni prese in se stesse e in modo assoluto. E perciò anche secondo la realtà delle cose sono comunicabili. Invece il termine Dio deriva da un'operazione esclusiva di Dio, che noi continuamente sperimentiamo, ed è assunto a significare la divina natura.

ARTICOLO 10

Se il nome Dio si dica con lo stesso significato univoco, applicato a (colui che è) Dio per natura, (a chi lo è) per partecipazione e (a chi lo è) nell'opinione (degli uomini)

SEMBRA che il nome Dio si dica con lo stesso significato univoco, applicato a (colui che è) Dio per natura, (a chi lo è) per partecipazione e (a chi lo è) nell'opinione (degli uomini). Infatti:
1. Dove ci sia diversità di senso, non si dà contraddizione tra chi afferma e chi nega; poiché l'equivoco impedisce la contraddizione. Ora, il cattolico che dice: "l'idolo non è Dio", contraddice il pagano che afferma: "l'idolo è Dio". Dunque la parola Dio è presa nell'uno e nell'altro caso univocamente.
2. L'idolo è Dio secondo l'opinione e non secondo la verità, allo stesso modo che il godimento dei piaceri carnali si dice felicità secondo l'opinione e non secondo verità. Ora, il termine felicità si dice univocamente tanto della presunta felicità quanto di quella vera. Dunque anche il nome Dio si dice univocamente del Dio vero e del dio creduto tale.
3. Univoci si dicono quei termini che hanno un medesimo senso. Ora, il cattolico quando dice che vi è un solo Dio, col nome di Dio intende un essere onnipotente, degno di venerazione sopra tutte le cose: l'identica cosa intende il pagano quando afferma che l'idolo è Dio. Dunque in tutti e due i casi questo nome è detto univocamente.

IN CONTRARIO: 1. Ciò che è nell'intelletto non è altro che l'immagine di ciò che è nella realtà. Ora, il termine animale, attribuito al vero animale e a quello dipinto, è detto con significato equivoco (nei due casi). Perciò il nome Dio, asserito del Dio vero e del dio creduto tale, è detto equivocamente.
2. Nessuno può esprimere ciò che ignora. Ora, il pagano non conosce la natura divina. Dunque quando dice: "l'idolo è Dio", non esprime la vera divinità. La esprime invece il cattolico che dice esservi un solo Dio. Dunque il termine Dio non si dice univocamente, ma equivocamente del Dio vero e del dio creduto tale.

RISPONDO: Il termine Dio nei tre casi indicati non è preso né in senso univoco, né in senso equivoco, ma in senso analogico. Eccone la chiara dimostrazione. Sono univoche quelle cose che hanno una definizione del tutto identica; equivoche, quelle che ne hanno una del tutto diversa; mentre le cose analogiche richiedono che il termine, preso secondo un unico significato originale, compaia nella definizione del termine stesso preso in altri significati. Così l'ente, detto della sostanza, rientra nella definizione dell'ente, quando si applica all'accidente; e sano detto dell'animale entra nella definizione di sano detto dell'orina e della medicina: ed invero della sanità dell'animale l'orina è un segno, e la medicina la causa.
Accade così nel caso nostro. Difatti si usa il termine Dio, nel medesimo significato che si adopera per il vero Dio, nel formare il concetto di un dio (presunto o) secondo l'opinione o di un dio per partecipazione. Quando infatti noi chiamiamo uno dio per partecipazione, col nome Dio intendiamo indicare qualche cosa che ha una somiglianza col vero Dio. Parimente, quando chiamiamo dio un idolo, col termine Dio intendiamo di significare un qualche cosa che da alcuni uomini viene ritenuta come Dio. E così è evidente che le accezioni di questo nome sono diverse; ma una di esse si ritrova nelle altre. È quindi chiaro che si dice in senso analogico.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La molteplicità dei nomi non si argomenta dalla diversità degli oggetti a cui si attribuiscono, ma da quella dei loro significati: p. es., il termine uomo, usato come predicato di qualsiasi entità, secondo verità o falsamente, è sempre usato con uno stesso significato. Avrebbe, invece, molteplici accezioni, se col termine uomo volessimo esprimere entità diverse; come se uno lo usasse per indicare quello che veramente l'uomo è; un altro per significare una pietra, o qualsiasi altra cosa. È evidente, quindi, che il cattolico, dicendo che l'idolo non è Dio, è in perfetto contrasto col pagano, il quale ciò asserisce: perché l'uno e l'altro si servono di questo termine per indicare il vero Dio. E infatti, quando il pagano dice che l'idolo è Dio, non prende tale parola nel senso di un presunto dio: ché altrimenti direbbe la verità, poiché gli stessi cattolici talora prendono il nome di Dio in questo senso, come quando si dice: "tutti gli dei dei pagani sono demoni".
2 e 3. Lo stesso deve dirsi per la seconda e terza difficoltà. Poiché le ragioni addotte partono dalla diversità delle attribuzioni del nome (Dio), non dalla diversità dei suoi significati.
4. Il termine animale, adoperato per l'animale vero e per quello dipinto, non è preso in senso puramente equivoco; ma Aristotele prende il termine equivoco un po' largamente, includendovi anche l'analogo. Poiché talora si afferma che persino la parola ente, la quale indubbiamente è termine analogico, è attribuita equivocamente ai diversi predicamenti.
5. La natura stessa di Dio, come è in sé, non la conosce né il cattolico, né il pagano; ma l'uno e l'altro la conoscono secondo una certa ragione di causalità, o di eminenza, o di negazione, come si è detto sopra. E sotto questo rispetto possono prendere il nome Dio nello stesso significato e il pagano quando dice: "l'idolo è Dio", e il cattolico quando ribatte: "l'idolo non è Dio". Se poi vi fosse qualcuno che non conoscesse Dio in nessun modo, allora neppure potrebbe nominarlo, o al massimo potrebbe nominarlo come quando noi proferiamo delle parole delle quali ignoriamo il significato.

ARTICOLO 11

Se il nome "Colui che è" sia il nome più proprio di Dio

SEMBRA che il nome "Colui che è" non sia il nome più proprio di Dio. Infatti:
1. Il termine Dio è un nome incomunicabile, come si è già detto. Ora, il nome "Colui che è" non è un nome incomunicabile. Dunque non è il nome più proprio di Dio.
2. Dionigi dice che "la parola bene è manifestativa per eccellenza di tutte le emanazioni di Dio". Ora, a Dio conviene necessariamente d'essere il principio universale di tutte le cose. Dunque il nome proprio per eccellenza di Dio è "il bene", e non "Colui che è".
3. Ogni nome divino deve importare relazione con le creature, poiché Dio non è conosciuto da noi che per mezzo delle creature. Ora, questo nome "Colui che è" non ha nessuna attinenza con le creature. Dunque esso non è il nome più proprio di Dio.

IN CONTRARIO: È detto nella Sacra Scrittura che alla domanda di Mosè: "Se mi chiederanno: Qual è il suo nome? che dirò loro?" il Signore rispose: "Dirai loro così: "Colui che è" mi ha mandato a voi". Dunque "Colui che è", è per eccellenza il nome proprio di Dio.

RISPONDO: L'espressione "Colui che è" per tre motivi è il nome più appropriato di Dio. Prima di tutto, per il suo significato. Ed infatti, non esprime già una qualche forma (o modo particolare di essere), ma lo stesso essere. Quindi, siccome l'essere di Dio è la sua stessa essenza, e siccome ciò, come abbiamo dimostrato, non conviene a nessun altro, è evidente che fra tutti gli altri nomi questo compete a Dio in modo massimamente proprio: ogni cosa infatti si denomina dalla propria forma (o essenza).
Secondo, per la sua universalità. Tutti gli altri nomi o sono meno vasti ed universali o, se combinano con esso, vi aggiungono, secondo la nostra maniera di concepire, qualche cosa, che in certo modo lo qualifica e lo restringe. Ora, il nostro intelletto nella vita presente non può conoscere l'essenza di Dio così come è in se stessa: ma facendo qualsiasi restrizione intorno a quel che conosce di Dio, si allontana dal modo nel quale Dio è in se stesso. E perciò quanto meno i nomi sono ristretti e quanto più sono estesi e assoluti, tanto più propriamente noi li applicheremo a Dio. Perciò dice anche il Damasceno che "di tutti i nomi che si dicono di Dio quello che meglio lo esprime è "Colui che è": poiché comprendendo tutto in se stesso, possiede l'essere medesimo come una specie d'oceano di sostanza infinito e senza rive". Con ogni altro nome si viene infatti a determinare un qualche modo della sostanza della cosa: invece questo nome "Colui che è" non determina nessun modo di essere, ma conserva la sua indeterminatezza rispetto a tutti i modi di essere; perciò esprime lo stesso "oceano infinito di sostanza".
Terzo, per la modalità inclusa nel suo significato. Indica infatti l'essere al presente: e ciò si dice in modo proprissimo di Dio, il cui essere, come afferma S. Agostino, non conosce passato o futuro.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. "Colui che è" è nome più appropriato di Dio che l'altro nome Dio, sia per la derivazione del termine, che è l'essere, sia per l'universalità del suo significato e per la voce del verbo che viene usata, come abbiamo visto. Ma se si considera l'oggetto stesso che si ha l'intenzione di esprimere, è più proprio il nome Dio il quale è posto a indicare la natura divina. Nome poi anche più proprio è il Tetragramma (Jahvé), il quale è destinato a significare la stessa natura divina incomunicabile e, se così è lecito esprimersi, singolare.
2. Il termine Bene è il nome principale di Dio, considerato però come causa, non assolutamente; perché l'essere è logicamente anteriore alla causalità.
3. Non è necessario che tutti i nomi divini implichino relazioni alle creature; basta che si desumano da alcune perfezioni causate da Dio nelle creature: tra queste la principale è l'essere da cui deriva il nome "Colui che è".

ARTICOLO 12

Se rispetto a Dio si possano formare delle proposizioni affermative

SEMBRA che rispetto a Dio non si possano formare delle proposizioni affermative. Infatti:
1. Dionigi dice che "relativamente a Dio le negazioni sono vere, le affermazioni sono inadeguate".
2. Boezio scrive: "nessuna forma semplice può essere soggetto". Ora, Dio è forma semplice al massimo grado, come si è già dimostrato. Dunque non può essere soggetto. Ma siccome tutto ciò di cui si forma una proposizione affermativa si prende come soggetto, ne segue che di Dio non si possano formare proposizioni affermative.
3. L'intelletto che concepisce le cose diversamente da come sono è falso. Ora, Dio ha l'essere immune da ogni composizione, come fu già provato. Poiché dunque la mente, quando afferma, concepisce l'oggetto facendo una composizione, sembra che proposizioni affermative vere intorno a Dio non si possano formulare.

IN CONTRARIO: La fede non contiene niente di falso. Ora nella fede vi sono alcune proposizioni affermative, p. es., che Dio è uno e trino, e che è onnipotente. Dunque su Dio si possono formulare delle proposizioni affermative vere.

RISPONDO: Si possono con verità formulare intorno a Dio proposizioni affermative. Per dimostrarlo si consideri che in ogni proposizione affermativa vera il soggetto ed il predicato devono significare realmente, sotto un certo aspetto, l'identica cosa e concettualmente cose diverse. Ciò è evidente tanto nelle proposizioni nelle quali il predicato è una qualità accidentale, quanto in quelle nelle quali il predicato è sostanziale. (Nella proposizione, p. es.: l'uomo è bianco) evidentemente uomo e bianco sono una sola e identica realtà in concreto, ma concettualmente differiscono, perché altra è l'idea di uomo e altra quella di bianco. Parimente quando dico l'uomo è un animale; poiché quella realtà medesima che è uomo, è in verità animale; e infatti, nello stesso soggetto (concreto) c'è e la natura sensibile, per la quale si chiama animale, e quella ragionevole, per la quale è detto uomo. Quindi anche qui abbiamo che predicato e soggetto sono in concreto l'identica cosa, ma differiscono nozionalmente. Ma ciò, in qualche modo, si ritrova persino nelle proposizioni nelle quali un'identica cosa si afferma di se medesima; perché l'intelletto a ciò che prende come soggetto fa fare la parte del supposito, e a ciò che prende come predicato fa fare la parte della forma esistente nel supposito, verificandosi in tal modo quanto si dice (in logica) che "i predicati si presentano sotto l'aspetto di forma, ed i soggetti sotto quello di materia". A questa diversità concettuale corrisponde la pluralità del predicato e del soggetto: mentre l'identità reale è espressa dall'intelligenza per mezzo del loro stesso congiungimento.
Ora, Dio, considerato in se medesimo, è assolntamente uno e semplice; ma tuttavia il nostro intelletto lo conosce attraverso diversi concetti, non potendolo vedere come è in se stesso. Ma, sebbene lo conosca sotto diversi concetti, sa tuttavia che a tutti i suoi concetti corrisponde semplicemente una sola e identica sostanza. Ebbene, questa pluralità di concetti la nostra mente la rappresenta mediante la pluralità del predicato e del soggetto; ne rappresenta invece l'unità per mezzo del loro congiungimento.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Dionigi dice che le proposizioni affermative intorno a Dio sono inadeguate, o, come porta un'altra versione sconvenienti, in quanto che nessun nome compete a Dio secondo il modo di significare, come è stato detto sopra.
2. La mente nostra non può apprendere le forme semplici sussistenti come sono in se stesse, ma le apprende alla maniera dei composti, nei quali v'è qualcosa che fa da sustrato e qualche cosa che vi si appoggia sopra. Perciò apprende la forma semplice sotto l'aspetto di soggetto e le attribuisce qualche cosa.
3. La proposizione "l'intelletto che intende una cosa diversamente da come è, è falso", ha un doppio senso; perché l'avverbio diversamente può determinare il verbo intende rispetto all'oggetto inteso, ovvero relativamente allo stesso intelletto che percepisce. Nel primo caso, la proposizione è vera, e questo ne è il senso: quell'intelletto che intende una cosa altrimenti da quello che la cosa è, è falso. Ma questo non si verifica nel caso nostro: perché la nostra mente formulando su Dio proposizioni affermative non dice che egli è composto, ma che è semplice. Ma se (il diversamente) si riferisce all'intelletto che intende, allora la proposizione è falsa. Difatti il modo dell'intelletto nell'apprendere è diverso dal modo di essere della cosa. È evidente, infatti, che il nostro intelletto concepisce immaterialmente le cose materiali che sono al di sotto di esso, non perché le consideri immateriali, ma perché nell'intendere ha un modo che è immateriale. Parimente, quando (la nostra intelligenza) concepisce cose semplici che sono al di sopra di essa, le intende alla sua maniera, cioè sotto forma di cose composte; non già che le consideri composte. E così il nostro intelletto non è falso quando forma nei riguardi di Dio complesse formulazioni concettuali.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:06
Questione 19

La volontà di Dio

Dopo lo studio di ciò che si riferisce alla scienza divina, bisogna investigare ciò che riguarda la divina volontà, e considerare: primo, la volontà di Dio in se stessa; secondo, gli attributi che direttamente le appartengono; terzo, quel che spetta all'intelligenza in rapporto alla volontà.
Relativamente alla volontà in se medesima si fanno dodici quesiti: 1. Se in Dio vi sia volontà; 2. Se Dio voglia cose distinte da sé; 3. Se tutto quello che Dio vuole lo voglia necessariamente; 4. Se la volontà di Dio sia causa delle cose; 5. Se alla volontà divina si possa assegnare una causa; 6. Se la volontà divina si compia sempre; 7. Se la volontà di Dio sia mutevole; 8. Se la volontà di Dio renda necessarie le cose volute; 9. Se Dio voglia il male; 10. Se Dio abbia il libero arbitrio; 11. Se in Dio si debba distinguere una volontà significata; 12. Se sia giusto determinare cinque segni della volontà divina.

ARTICOLO 1

Se in Dio vi sia volontà

SEMBRA che in Dio non vi sia volontà. Infatti:
1. L'oggetto della volontà è il fine ed il bene. Ora, a Dio non si può assegnare alcun fine. Dunque in Dio non c'è volontà.
2. La volontà è un appetito. Ora, l'appetito, essendo tendenza verso una cosa non posseduta, è indice di imperfezione, la quale non può attribuirsi a Dio. Dunque in Dio non c'è volontà.
3. Secondo il Filosofo, la volontà è un motore mosso. Ora, Dio è il primo motore immobile, come prova lo stesso Aristotele. Dunque in Dio non c'è volontà.

IN CONTRARIO: L'Apostolo dice: "Affinché possiate ravvisare qual è la volontà di Dio".

RISPONDO: In Dio c'è volontà come c'è intelligenza, essendo la volontà intimamente connessa con l'intelletto. Infatti come ogni cosa esistente in natura ha l'essere in atto in forza della sua forma, così ogni intelligenza ha l'intendere in atto mediante la sua forma intelligibile. Ogni cosa, poi, ha verso la propria forma questo rapporto, che quando non la possiede, vi tende, e quando la possiede, vi si riposa. Lo stesso vale per ogni perfezione naturale, che costituisce un bene di natura. E questa tendenza al bene negli esseri privi di conoscimento si chiama appetito naturale. E così anche gli esseri intelligenti hanno una simile inclinazione al bene appreso mediante una specie intelligibile, in maniera che quando hanno questo bene, vi si riposano; quando non l'hanno, lo ricercano. Questa duplice operazione appartiene alla volontà. Quindi in ogni essere che ha l'intelletto, c'è la volontà, come in ogni essere dotato di senso c'è l'appetito sensitivo. Perciò è necessario ammettere che in Dio vi è la volontà, essendovi l'intelletto. E come la sua intellezione è il suo essere, così lo è il suo volere.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Nessuna cosa diversa da Dio è il fine di Dio; pure egli stesso è il fine di tutto quello che fa. E lo è per essenza, perché è buono per essenza, come sopra si è dimostrato: difatti il fine ha ragione di bene.
2. La volontà, in noi, appartiene alla parte appetitiva, la quale, sebbene derivi il suo nome dall'appetizione, tuttavia non comporta solo l'atto di desiderare quello che non ha; ma anche quello di amare ciò che ha e di dilettarsi in esso. E sotto tale aspetto si ammette in Dio la volontà; la quale possiede sempre quel bene che ne è l'oggetto, non essendo questo essenzialmente distinto da Dio, come si è spiegato.
3. Una volontà, il cui oggetto principale è fuori di essa, deve esser mossa da un altro. Ma l'oggetto della volontà divina è la sua stessa bontà, che si immedesima con la sua essenza. Quindi, siccome la volontà di Dio è la sua essenza, non è mossa da altra cosa, ma solo da se stessa, secondo quel modo di parlare, per cui intendere e volere son detti movimento. Ed in questo senso Platone ha detto che il primo motore muove se stesso.

ARTICOLO 2

Se Dio, oltre se stesso, voglia altre cose

SEMBRA che Dio, oltre se stesso, non voglia altre cose. Infatti:
1. La volizione divina è l'essere stesso di Dio. Ora, Dio non è altra cosa che se stesso. Dunque non vuole altro all'infuori di sé.
2. L'oggetto voluto muove la volontà come, al dire di Aristotele, l'appetibile muove l'appetito. Se dunque Dio volesse qualche altra cosa oltre se stesso, la sua volontà sarebbe mossa da un oggetto distinto da lui stesso: il che è impossilbile.
3. Una volontà, alla quale basta l'oggetto che vuole, non va in cerca di altro. Ma a Dio basta la sua bontà, in cui la sua volontà si riposa. Dunque Dio non vuole altro fuori di sé.
4. Tanti sono gli atti della volontà quanti sono gli oggetti voluti. Se dunque Dio, oltre ad avere se stesso come oggetto del suo volere, avesse anche altre cose, l'atto della sua volontà sarebbe molteplice, e per conseguenza anche il suo essere, che si identifica con il suo volere. Ora, ciò è impossibile. Dunque Dio non vuole cose distinte da sé.

IN CONTRARIO: L'Apostolo dice: "Questa è la volontà di Dio, la santificazione vostra".

RISPONDO: Dio ha come oggetto della sua volontà non soltanto se stesso, ma anche altre cose. Ciò si può chiarire con il paragone già adoperato nel precedente articolo. Le cose esistenti in natura non solo hanno verso il loro bene l'inclinazione naturale a cercarlo, quando non l'hanno, e a riposarvisi quando lo possiedono; ma anche ad effonderlo sulle altre, per quanto è loro possibile. Per questo vediamo che ogni agente, nella misura in cui ha attualità e perfezione, tende a produrre cose a sé somiglianti. E quindi rientra nella natura della volontà il comunicare agli altri, nella misura del possibile, il bene posseduto. E ciò appartiene principalmente alla volontà divina, dalla quale deriva, secondo una certa somiglianza, ogni perfezione. Quindi, se le cose in quanto sono perfette, comunicano ad altre la propria bontà, a maggior ragione conviene alla volontà divina di partecipare ad altri analogicamente, nella misura del possibile, il proprio bene. Così, dunque, Dio vuole se stesso e le altre cose. Vuole però se stesso come fine, le altre cose come mezzo al fine, poiché si addice particolarmente alla bontà divina di venire partecipata anche ad altri esseri.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Sebbene la volizione di Dio si identifichi realmente con il suo essere, tuttavia se ne distingue concettualmente, per il diverso modo in cui la intendiamo e ne parliamo, come già dicemmo. Quando infatti io dico: "Dio è", non esprimo una relazione di Dio con un termine, come quando dico: "Dio vuole". Per conseguenza, sebbene Dio non sia qualche cosa di diverso da sé, pure vuole qualche cosa all'infuori di sé.
2. Nelle cose che vogliamo per un fine, tutta la ragione del volere è il fine: e questo muove la volontà. E ciò è evidente riguardo alle cose che vogliamo unicamente per il fine. Chi, infatti, decide di prendere una pozione amara, in essa non cerca che la sua salute, e solo la salute muove la sua volontà. Diverso è il caso di chi prende una bevanda dolce: la prende non solo per la salute, ma la può volere anche per se stessa. Perciò, siccome Dio non vuole le cose distinte da sé, se non per il fine, che è la sua bontà, come dicemmo, non ne viene che la sua volontà sia mossa da qualche cosa di estraneo, ma solo dalla sua bontà. E così, come intende altre cose da sé distinte comprendendo la sua essenza, del pari vuole le altre cose volendo la sua bontà.
3. Dal fatto che alla volontà divina basta la sua bontà, non ne segue che non voglia altro; ma che altro non voglia se non a motivo della sua bontà. Come anche l'intelletto di Dio, sebbene sia perfetto perché conosce l'essenza divina, tuttavia in essa conosce anche le altre cose.
4. Come l'atto dell'intelletto divino è uno, perché conosce cose molteplici in un solo principio, così uno e semplice è il divino volere, perché non ha per oggetto una moltitudine di cose se non per un unico motivo, che è la sua bontà.

ARTICOLO 3

Se tutto quello che Dio vuole lo voglia necessariamente

SEMBRA che tutto quello che Dio vuole lo voglia necessariamente. Infatti:
1. Tutto ciò che è eterno, è necessario. Ora, tutto ciò che Dio vuole, lo vuole dall'eternità; perché altrimenti la sua volontà sarebbe mutevole. Dunque tutto quello che Dio vuole, lo vuole per necessità.
2. Dio vuole le altre cose, in quanto vuole la propria bontà. Ora, Dio vuole la propria bontà necessariamente. Dunque necessariamente vuole anche le altre cose.
3. Tutto quel che a Dio è naturale, è necessario, perché Dio è di per se stesso necessario e principio di ogni necessità, come si è dimostrato. Ora, per lui, è naturale volere tutto quello che vuole, perché, al dire di Aristotele, in Dio non ci può essere niente fuori della sua natura. Dunque tutto quello che vuole, lo vuole necessariamente.
4. Non essere necessario e poter non essere si equivalgono. Se dunque non è necessario che Dio voglia una delle cose che vuole, è possibile che non la voglia; ed è possibile che egli voglia quello che non vuole. Dunque la volontà divina è contingente (o indifferente) verso le due alternative. E così è imperfetta: perché tutto ciò che è contingente è imperfetto e mutevole.
5. Chi è indifferente verso due alternative non si determina se non è spinto verso una di esse, come dice il Commentatore. Se dunque la volontà di Dio relativamente a certe cose fosse libera (o indifferente), la sua determinazione a causare dipenderebbe da un altro. Così avrebbe una causa anteriore.
6. Ciò che Dio sa, lo sa necessariamente. Ma come la scienza divina, così la divina volontà si identifica con la divina essenza. Dunque Dio vuole necessariamente tutto quello che vuole.

IN CONTRARIO: L'Apostolo così parla (di Dio): "Egli che tutto opera secondo il consiglio della propria volontà". Ma quello che si fa secondo il consiglio della propria volontà non lo si vuole necessariamente. Dunque Dio non vuole necessariamente tutto quello che è oggetto della sua volontà.

RISPONDO: Una cosa può dirsi necessaria in due maniere: cioè in modo assoluto e in forza di un'ipotesi. Si denomina necessario in modo assoluto quanto risulta dal nesso logico dei termini (di una proposizione): come nel caso in cui il predicato si trova nella definizione del soggetto, e in tal modo è necessario, p. es., che l'uomo sia un animale; oppure perché il soggetto rientra nella nozione del predicato, come quando affermiamo essere necessario che il numero sia pari e dispari. Ora invece, non è necessario in tal modo che Socrate stia seduto. Quindi non è necessario in modo assoluto, ma può dirsi necessario in forza di un'ipotesi: ammesso infatti che si sieda, è necessario che egli sia seduto mentre siede.
E così circa le cose volute da Dio bisogna osservare che per alcune è necessario in modo assoluto che Dio le voglia: ma questo non si verifica per tutto quello che vuole. Infatti la volontà divina ha un rapporto necessario alla sua bontà, la quale è il suo oggetto proprio. Dio vuole dunque necessariamente che esista la sua bontà, come la nostra volontà necessariamente vuole la felicità. Del resto ogni altra facoltà ha un rapporto necessario con il suo oggetto proprio e principale, p. es., la vista rispetto al colore; perché è dell'essenza (di una facoltà) tendere verso il proprio oggetto. Ma tutte le altre cose Dio le vuole in quanto sono ordinate alla sua bontà, come a loro fine. Ora, ciò che è ordinato a un fine, noi non lo vogliamo necessariamente volendo il fine, a meno che non sia tale che senza di esso il fine non possa raggiungersi: come quando vogliamo il cibo per conservare la vita, e vogliamo la nave per attraversare il mare. Non così, invece, noi vogliamo necessariamente le cose senza le quali possiamo raggiungere egualmente il fine, p. es., un cavallo per viaggiare: perché anche senza di esso possiamo fare il nostro viaggio; e la stessa ragione vale per altri casi. Perciò, siccome la bontà di Dio è perfetta, e può stare senza tutto il resto, non traendo da esso nessun accrescimento di perfezione, ne segue che volere le cose da sé distinte non è necessario per Dio di necessità assoluta. Tuttavia è necessario in forza di un'ipotesi: supposto infatti che Dio le voglia, non può non volerle, perché la sua volontà non può mutare.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Dal fatto che Dio vuole eternamente qualche cosa, non ne segue che la voglia necessariamente (in modo assoluto), ma solo in forza di un'ipotesi.
2. Sebbene Dio abbia come oggetto necessario del suo volere la propria bontà, non per questo, tuttavia, vuole come oggetto necessario le cose che vuole in ragione della sua bontà: perché la sua bontà può stare senza di esse.
3. Non è (essenziale e) naturale per Dio volere una delle cose che non vuole necessarialnente. E neppure è estraneo o contrario alla sua natura: è volontario.
4. Può capitare che una causa necessaria abbia un rapporto non necessario a qualche suo effetto: ma questo è una deficienza dell'effetto, non della causa. Così la virtù del sole ha un rapporto non necessario con alcune cose che sulla terra avvengono in maniera contingente, non per manchevolezza da parte della potenza solare, ma per deficienza dell'effetto che proviene non necessariamente da tale causa. Così è riguardo a Dio: non deriva da inefficacia della divina volontà che Dio non voglia per necessità alcune delle cose che vuole, ma dipende dall'intrinseca deficienza della cosa voluta: cioè perché questa è tale nella sua natura, che senza di essa la bontà di Dio può essere (ugualmente) perfetta. Ora, proprio tale manchevolezza è connaturale ad ogni bene creato.
5. Una causa che è intrinsecamente contingente ha bisogno di un movente esterno per essere determinata all'effetto; ma la divina volontà, che è intrinsecamente necessaria, si determina da sé a volere le cose con le quali ha un rapporto non necessario.
6. Come l'essere divino in se stesso è necessario, così altrettanto necessari sono il divin volere e il divin sapere; ma il sapere divino implica un rapporto necessario alle cose conosciute, non così invece il divin volere riguardo alle cose volute. E questo precisamente perché la scienza delle cose si ha in forza della presenza delle cose nel soggetto conoscente; la volontà, al contrario, si riferisce alle cose così come sono in se medesime. Poiché, dunque, tutte le cose in quanto si trovano in Dio hanno l'essere necessario ma non hanno una necessità assoluta secondo che sono in se medesime, così da essere di per se stesse necessarie; per questo motivo tutto quello che Dio sa, lo sa necessariamente; ma non tutto quello che vuole, lo vuole per necessità.

ARTICOLO 4

Se la volontà di Dio sia causa delle cose

SEMBRA che la volontà di Dio non sia causa delle cose. Infatti:
1. Dice Dionigi: "Come il nostro sole, non ragionando o scegliendo, ma per la sua propria natura illumina tutte le cose capaci di partecipare della sua luce, così anche il bene divino, per la sua stessa natura, comunica a tutti gli esseri esistenti i raggi della sua bontà". Ora, ogni essere che agisce per volontà agisce precisamente ragionando e scegliendo. Dunque Dio non agisce per volontà. E conseguentemente la volontà di Dio non è causa delle cose.
2. In ogni ordine di cose viene per primo ciò che è per essenza: p. es., tra le cose infocate la prima è il fuoco stesso. Ora, Dio è la causa prima. Dunque egli causa col suo essere che è la sua natura. Agisce, dunque, per natura e non per volontà. Per conseguenza la volontà divina non è causa delle cose.
3. Tutto ciò che causa in forza di una proprietà essenziale, causa per natura e non per volontà. Il fuoco infatti è causa del riscaldamento perché è caldo; l'architetto invece è causa degli edifici, perché li vuole costruire. Ora, S. Agostino afferma che "noi esistiamo perché Dio è buono". Dunque Dio è causa delle cose per natura e non per volontà.
4. Di una sola e identica cosa non c'è che una causa. Ora, abbiamo già detto che causa degli esseri creati è la scienza di Dio. Dunque non si può ammettere che causa di questi stessi esseri sia la divina volontà.

IN CONTRARIO: Nel libro della Sapienza è detto: "Come potrebbe sussistere alcunché se tu non l'avessi voluto?".

RISPONDO: È necessario asserire che la volontà di Dio è causa delle cose, e che Dio agisce per volontà e non per necessità di natura, come alcuni hanno pensato. E ciò si può provare in tre maniere. Primo, considerando l'ordine delle cause agenti. Infatti, siccome tanto l'intelletto, quanto la natura agiscono per un fine, come prova Aristotele, è necessario che alla causa naturale siano prestabiliti da una qualche intelligenza superiore il fine e i mezzi adatti al fine; come alla freccia vengono determinati dall'arciere il bersaglio e la direzione. Quindi una causa che opera per intelletto e volontà deve necessariamente precedere le cause operanti per natura. E perciò, siccome Dio è la prima delle cause agenti, è necessario ch'egli agisca per intelletto e volontà.
Secondo, (si prova) dal concetto di causa naturale, cui spetta il produrre un effetto unico: perché la natura, salvo impedimento, agisce sempre allo stesso modo. E questo perché la causa naturale opera in quanto è tale: per cui, finché è tale, non produce che quel particolare effetto. Ora, ogni agente naturale ha un essere delimitato o determinato. Quindi, siccome l'essere di Dio non è limitato, ma contiene in se stesso tutta la pienezza dell'essere, non si può ammettere che operi per necessità di natura: eccetto il caso che venisse a produrre un effetto illimitato ed infinito nell'essere; e ciò è affatto impossibile, come si è visto sopra. Non agisce dunque per necessità di natura; ma dall'infinita sua perfezione procedono effetti determinati in conformità della determinazione del suo volere e del suo intelletto.
Terzo, (si dimostra) dal rapporto degli effetti con la causa, Gli effetti derivano dalla causa agente in quanto preesistono in essa; perché ogni agente produce un qualcosa che gli somiglia. Ma gli effetti preesistono nella causa secondo il modo di essere della medesima. Perciò, siccome l'essere di Dio si identifica con la sua intelligenza, gli effetti preesistono in lui come intelligibili. Quindi, deriveranno pure da lui alla stessa maniera. Per conseguenza (deriveranno) come oggetto di volontà: perché appartiene alla volontà l'impulso a compiere quello che è stato concepito dall'intelligenza. Quindi la volontà di Dio è causa delle cose.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Con queste parole Dionigi non ha inteso negare a Dio in modo assoluto la libera scelta, ma (solo) in un certo senso: in quanto cioè la scelta importa una qualche discriminazione; (Dio invece) non comunica la sua bontà soltanto ad alcuni esseri, ma a tutti.
2. Poiché l'essenza di Dio si identifica con la sua intelligenza e la sua volontà, e proprio perché Dio opera in forza dell'essenza, ne segue che operi come intelligenza e come volontà.
3. Il bene è l'oggetto della volontà. Perciò l'espressione: "Noi esistiamo perché Dio è buono" vale in quanto è la sua bontà a fargli volere tutte le altre cose, come si è detto sopra.
4. Anche in noi un solo e identico effetto ha come causa direttiva la scienza, che concepisce il piano dell'opera, e come causa determinante la volontà: perché il piano (o l'idea), in quanto è soltanto nell'intelletto, non viene determinato ad essere o non essere nell'effetto se non dalla volontà. Tanto è vero che l'intelletto speculativo direttamente non riguarda l'operazione. La potenza invece è la causa esecutrice, perché essa indica il principio immediato dell'operazione. Ma tutte queste perfezioni, in Dio, non sono che una sola e identica cosa.

ARTICOLO 5

Se alla volontà divina si possa assegnare una causa

SEMBRA che alla volontà divina si possa assegnare una causa. Infatti:
1. S. Agostino si domanda: "Chi oserebbe affermare che Dio ha creato tutte le cose senza ragione?". Ora, per una causa volontaria quel che forma la ragione dell'operare, è anche causa del volere. Dunque la volontà di Dio ha una causa.
2. Alle cose che vengono compiute da uno che le vuole senza nessuna causa non c'è da assegnare altra causa all'infuori della volontà del volente. Ora, noi abbiamo dimostrato che la volontà di Dio è la causa di tutte le cose. Se dunque non esiste una causa del volere di Dio, non ci sarà bisogno di cercare in tutte le cose naturali altra causa che la divina volontà. E così tutte le scienze diventerebbero inutili, perché esse mirano a trovare le cause di determinati effetti: e questo è assurdo. Bisogna perciò assegnare alla volontà di Dio una qualche causa.
3. Un effetto prodotto da chi vuole senza nessuna causa, dipende unicamente dalla di lui volontà. Se dunque la volontà di Dio non ha causa alcuna, ne segue che tutto ciò che avviene, dipende dalla sua semplice volontà e non ha altre cause. Ma ciò è assurdo.

IN CONTRARIO: Dice S. Agostino: "Ogni causa efficiente è maggiore di ciò che produce; ora, niente vi è di più grande della volontà di Dio: non è dunque il caso di ricercarne la causa".

RISPONDO: La volontà di Dio in nessun modo può avere una causa. Per chiarire la cosa si osservi che, siccome la volontà è connessa intimamente con l'intelletto, c'è un parallelismo nell'assegnare una causa per il volere e per l'intendere. Ora, per l'intelletto succede così, che se intende separatamente il principio e separatamente la conclusione, allora l'intelligenza del principio causa la scienza della conclusione. Ma se l'intelletto vede la conclusione nello stesso principio, abbracciando con un solo sguardo l'una e l'altro, allora la scienza della conclusione non è causata in esso dall'intelligenza dei principi, perché una medesima cosa non può essere causa di se stessa. Nondimeno intenderebbe che i principi (logicamente) sono causa delle conclusioni. Altrettanto si può dire della volontà nella cui operazione si verifica che il fine sta ai mezzi, come i principi stanno alle conclusioni nell'attività dell'intelligenza. Quindi, se uno con un atto vuole il fine e con un altro i mezzi, per lui volere il fine sarà la causa per cui vuole i mezzi. Ma non sarà così se con un solo atto voglia e il fine e i mezzi per conseguirlo: perché una medesima cosa non può essere causa di se stessa. Nondimeno sarà vero affermare che vuole subordinati i mezzi al fine.
Ora Dio, come con un solo atto intende tutte le cose nella sua essenza, così con un solo atto vuole tutte le cose nella sua bontà. Quindi, come in Dio l'intendere una causa (o un principio) non produce l'intelligenza degli effetti, perché conosce gli effetti nella causa; così il volere il fine non causa in lui la volizione dei mezzi, pur volendo che i mezzi (secondo la loro natura) siano subordinati al fine. Vuole dunque che questa cosa sia per quest'altra: ma non (si dica che) vuole l'una a causa dell'altra.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La volontà di Dio è ragionevole, non perché qualche cosa determini Dio a volere, ma in quanto egli vuole che una cosa sia per un'altra.
2. Siccome Dio, per conservare l'ordine nel mondo, vuole che gli effetti si producano in maniera da derivare da cause determinate: non è inutile ricercare altre cause, presupposta però la volontà di Dio. Vano certamente sarebbe, se si cercassero altre cause come se fossero prime e indipendenti dalla divina volontà. E in questo senso S. Agostino dice: "Piacque alla vanità dei filosofi di attribuire ad altre cause gli effetti contingenti, incapaci com'erano assolutamente di scorgere una causa superiore a tutte le altre, cioè la volontà di Dio".
3. Poiché Dio vuole la dipendenza degli effetti dalle cause, un effetto che presuppone un altro effetto, non dipende dalla sola volontà di Dio, ma anche da un'altra causa. Dalla sola volontà da Dio dipendono solo gli effetti primari. Come se dicessimo che Dio ha voluto che l'uomo avesse le mani, perché servissero alla sua intelligenza nel compiere le diverse opere; ed ha voluto che avesse l'intelletto, perché fosse uomo, ed ha voluto che fosse uomo perché godesse di Dio medesimo o perché fosse a compimento dell'universo. Ma queste ultime finalità non possono rapportarsi ulteriormente ad altri scopi creati. Perciò esse dipendono dalla semplice volontà di Dio: tutto il resto invece dipende anche dal concatenamento delle altre cause.

ARTICOLO 6

Se la volontà di Dio si compia sempre

SEMBRA che la volontà di Dio non sempre si compia. Infatti:
1. L'Apostolo dice che "Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della verità". Ma questo non avviene. Dunque la volontà di Dio non sempre si compie.
2. La volontà sta al bene come la scienza alla verità. Ora Dio conosce ogni verità. Dunque vuole ogni bene. Ma non tutto il bene si attua; perché tante cose buone potrebbero esserci, che mai si faranno. Dunque la volontà di Dio non sempre si compie.
3. Sopra si è detto che la volontà di Dio, causa prima, non esclude le cause seconde. Ma l'effetto della causa prima può essere impedito dal difetto della causa seconda: come l'effetto della facoltà di locomozione è impedito dalla debolezza delle gambe. Dunque anche l'effetto della divina volontà può essere frustrato dalla deficienza delle cause seconde. Perciò la volontà di Dio non sempre si compie.

IN CONTRARIO: Nei Salmi si legge: "Tutto quello che Dio vuole egli fa".

RISPONDO: È necessario che la volontà di Dio si compia sempre. Per averne la dimostrazione, bisogna considerare che gli effetti assomigliano alle proprie cause secondo la forma delle medesime. E questa osservazione è valida per le cause efficienti come per le cause formali. Ora, considerando le cause formali, può succedere che una cosa non corrisponda ad una forma particolare, ma non c'è cosa che possa non corrispondere alla forma universale: può esserci qualcosa che non è un uomo, né un essere vivo, ma non può esserci una cosa che non sia ente. Altrettanto deve accadere per ciò che riguarda le cause efficienti. Qualche cosa può certo avvenire all'infuori dell'influsso di questa o quella causa particolare, ma non esiste cosa alcuna che sfugga all'influsso di una causa universale, sotto cui sono comprese tutte le cause particolari. Perché, se una causa particolare non produce il suo effetto, ciò si deve a un'altra causa particolare che lo impedisce, la quale a sua volta ricade sotto l'influsso della causa universale: dunque l'effetto in nessun modo può sfuggire all'influsso della causa universale. La cosa ha una riprova nel mondo fisico. Una stella, infatti, può essere impedita di produrre il suo effetto; ma tuttavia qualsiasi effetto, che risulti nel mondo fisico da una causa corporea impediente, deve essere attribuito, per mezzo di cause intermedie, alla virtù universale del primo cielo.
Ora, essendo la volontà di Dio la causa universale di tutte le cose, è impossibile che essa non consegua il suo effetto. Perciò, quello che sembra sottrarsi alla volontà divina in un certo ordine, vi ricade secondo un altro: il peccatore, p. es., il quale per parte sua, peccando si sottrae al divin volere, rientra sotto l'influsso della volontà di Dio, mentre vien punito dalla sua giustizia.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il detto di S. Paolo, "Dio vuole che tutti gli uomini si salvino, ecc." si può intendere in tre modi. Primo, con un'applicazione restrittiva, in modo che ne risulti questo senso: "Dio vuole che siano salvi tutti gli uomini che si salvano": "non perché", spiega S. Agostino "non vi sia uomo che Dio non voglia salvo, ma perché nessuno è salvo senza che Dio lo voglia".
Secondo, con un'applicazione che includa tutti i generi dei vari individui, ma non i singoli individui di tutti i generi, cioè con questo significato: "Dio vuole salvi uomini di ogni stato, maschi e femmine, Giudei e gentili, grandi e piccoli; ma non tutti gli individui dei singoli stati".
Terzo, stando al Damasceno, (la parola di S. Paolo) si riferisce alla volontà antecedente, non alla volontà conseguente. Questa distinzione non si desume dalla volontà divina, nella quale non vi è il prima e il dopo; ma dalle cose volute. Per comprendere ciò è necessario considerare che ogni cosa è voluta da Dio in quanto è buona. Ma una cosa che, a primo aspetto e considerata assolutamente, è buona o cattiva, se si considera legata a una speciale circostanza, che poi è una considerazione conseguente, può essere tutto l'opposto. P. es., considerando le cose in modo assoluto è bene che un uomo viva ed è male che un uomo sia ucciso: ma se vi si aggiunga questa circostanza, che un tal uomo è un omicida e se rimane in vita è pericoloso alla società, è un bene che sia ucciso ed un male che viva. Quindi si potrà dire che un giudice giusto vuole, antecedentemente (a tale considerazione), che ogni uomo viva; ma conseguentemente (a tale considerazione) vuole che l'omicida sia impiccato. Così Dio, di volontà antecedente, vuole che ogni uomo si salvi; ma di volontà conseguente vuole che alcuni siano dannati secondo che esige la sua giustizia. - È certo però che quello che noi vogliamo con volontà antecedente, non possiamo dire di volerlo senz'altro, ma solo in qualche modo. Perché la volontà si riferisce alle cose come sono in se stesse; ed in se stesse le cose esistono con le loro circostanze particolari: perciò noi vogliamo senz'altro una cosa quando la vogliamo considerata in tutte le sue circostanze particolari: e voler così è volere di volontà conseguente. Perciò si può dire che il giusto giudice vuole senz'altro che l'omicida sia impiccato; ma sotto un certo aspetto vorrebbe che esso vivesse, cioè in quanto uomo. Ma questa può dirsi piuttosto velleità, anziché volontà assoluta. - E così è evidente che tutto quello che Dio vuole si attua; sebbene non avvenga quello che vuole con volontà antecedente.
2. Per avere un atto della potenza conoscitiva basta che l'oggetto conosciuto sia nel soggetto conoscente; invece l'atto della potenza appetitiva si riferisce alle cose come sono in se stesse. Ora, tutto ciò che può avere ragione di ente e di vero, esiste virtualmente in Dio nella sua totalità; ma non esiste in tal modo nella realtà creata. Perciò Dio conosce ogni verità: tuttavia non vuole ogni bene, se non in quanto vuole se stesso, nel quale virtualmente ogni bene esiste.
3. Una causa prima può essere impedita di produrre il suo effetto dalle deficienze d'una causa seconda, quando non è la prima causa universale che comprende sotto di sé tutte le cause: ché, allora, in nessun modo l'effetto potrebbe sfuggire al suo influsso. E questo è il caso della volontà di Dio, come abbiamo spiegato.

ARTICOLO 7

Se la volontà di Dio sia mutabile

SEMBRA che la volontà di Dio sia mutabile. Infatti:
1. Nella Genesi il Signore parla così: "Mi pento di aver fatto l'uomo". Ora, chiunque si pente di quel che ha fatto, ha una volontà mutabile. Dunque Dio ha una volontà soggetta a cambiamento.
2. Nella Sacra Scrittura in persona del Signore si dice: "Io posso a un tratto dire una parola contro una nazione e contro un regno, per sradicarli, rovesciarli e disperderli; ma se quella nazione si sarà pentita del suo misfatto, anch'io mi ripentirò del male che avevo divisato di farle". Dunque Dio ha una volontà mutevole.
3. Tutto quello che Dio fa, lo fa per volontà. Ora, Dio non fa sempre le stesse cose, perché un tempo comandò di osservare le prescrizioni legali, poi le proibì. Dunque ha una volontà mutabile.
4. Dio, come abbiamo detto sopra, non è necessitato a volere quello che vuole. Dunque può volere e non volere la medesima cosa. Ora, tutto ciò che dice potenzialità a due cose opposte è mutabile; infatti quello che può essere e non essere è mutabile quanto alla sostanza; ciò che può trovarsi ora in un posto ora in un altro è mutabile quanto al luogo. Dunque Dio è mutabile quanto alla volontà.

IN CONTRARIO: La Sacra Scrittura dice: "Dio non è come l'uomo, che menta; né come il figlio dell'uomo, che muti".

RISPONDO: La volontà di Dio è assolutamente immutabile. Bisogna però osservare che altra cosa è mutare volontà ed altra volere che si mutino alcune cose. Infatti, uno, pur rimanendo ferma e immobile la sua volontà, può volere che ora avvenga una cosa, e in seguito che avvenga il contrario. Invece si avrebbe cambiamento di volontà se uno cominciasse a volere ciò che prima non voleva, o se cessasse di volere quello che voleva. E questo non può accadere se non viene presupposto un mutamento o nella conoscenza, o nelle disposizioni intrinseche del soggetto volente. Infatti, siccome la volontà ha per soggetto il bene, può avvenire in due maniere che uno cominci a volere una cosa. Primo, perché quella tale cosa comincia ad esser per lui un bene. E ciò non è senza una sua mutazione; come, p. es., quando al venire del freddo, comincia ad essere bene starsene al canto del fuoco, mentre prima non lo era. Secondo, perché uno viene a conoscere che quella data cosa è buona per lui, mentre prima lo ignorava; non per nulla ci tocca riflettere per sapere quello che per noi è bene. Ora, sopra abbiamo dimostrato che tanto la sostanza di Dio, quanto la sua scienza sono del tutto immutabili. Perciò è necessario che anche la sua volontà sia assolutamente immutabile.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quelle parole del Signore devono essere intese metaforicamente, per una certa analogia col nostro modo di fare; infatti, quando noi ci pentiamo, distruggiamo quello che abbiamo fatto. Quantunque ciò possa avvenire anche senza mutamento di volontà, perché un uomo, senza mutare volontà, può, talora, voler fare qualche cosa, e al tempo stesso aver l'intenzione di distruggerla in seguito. Così, dunque, è detto per una somiglianza col nostro modo di agire, che Dio si pentì in quanto con il diluvio distrusse dalla faccia della terra l'uomo che aveva creato.
2. La volontà di Dio, causa prima e universale, non esclude le cause intermedie, che hanno il potere di produrre effetti determinati. Ma poiché tutte le cause seconde non adeguano la virtù della causa prima, vi sono molte cose, come la resurrezione di Lazzaro, p. es., che non sono sottoposte al dominio delle cause inferiori, ma rientrano nella potenza, nella scienza e nella volontà di Dio. Quindi, uno, guardando alle cause inferiori, poteva dire: Lazzaro non risorgerà; guardando, invece, alla prima causa divina, poteva dire: Lazzaro risorgerà. Ora, Dio vuole l'una e l'altra cosa, cioè che un dato evento debba avvenire in forza delle cause inferiori, e che, tuttavia, non possa avvenire in forza di una causa superiore; oppure viceversa. Così dunque deve dirsi che Dio talora annuncia un avvenimento che dovrebbe accadere secondo che è contenuto nell'ordine delle cause inferiori, p. es., secondo le disposizioni di natura o di merito; e che tuttavia non si compie, perché è stato stabilito diversamente nella superiore causa divina. Così nella Sacra Scrittura Dio fece ad Ezechia questa predizione: "Dai le disposizioni per la tua casa, perché morrai e non guarirai più"; e tuttavia ciò non avvenne, perché fin dall'eternità era stato deciso altrimenti nella scienza e nella volontà divina, la quale è immutabile. Per tale motivo S. Gregorio dice che "Dio muta sentenza, ma non muta consiglio", cioè (il consiglio) della sua volontà. - Perciò le parole di Dio, "Io mi pentirò", vanno intese metaforicamente; infatti gli uomini, quando non attuano le loro minacce, mostrano di pentirsi.
3. Da tale argomento non si può concludere che Dio ha una volontà mutevole, ma soltanto che vuole dei mutamenti.
4. Sebbene non sia necessario in modo assoluto che Dio voglia una data cosa è però necessario in modo ipotetico (nella supposizione cioè che ne faccia l'oggetto del suo volere), per l'immutabilità della sua volontà.

ARTICOLO 8

Se la volontà di Dio renda necessarie le cose volute

SEMBRA che la volontà di Dio renda necessarie le cose volute. Infatti:
1. Dice S. Agostino: "Nessuno si salva all'infuori di colui che Dio vuole salvo. Perciò bigogna pregare che lo voglia, perché se lo vuole, è necessario che ciò avvenga".
2. Ogni causa che non può essere impedita, di necessità produce il suo effetto: difatti, anche la natura, come dice Aristotele, se niente l'ostacola, produce sempre il medesimo effetto. Ora, la volontà di Dio non può essere impedita, dicendo l'Apostolo: "Al volere di lui chi s'è opposto?". Dunque la volontà di Dio rende necessarie le cose volute.
3. Ciò che trae la propria necessità da dei presupposti è assolutamente necessario: così per l'animale è necessario morire, perché composto di elementi in contrasto. Ora, gli esseri che Dio ha creato, dicono ordine alla volontà divina come a qualche cosa di antecedente, da cui traggono la propria necessità; difatti la condizionale, "se Dio vuole qualche cosa, questa esiste", è vera; e, d'altra parte, ogni condizionale vera è necessaria. Ne segue, dunque, che tutto quello che Dio vuole, è assolutamente necessario.

IN CONTRARIO: Tutto il bene che si compie, Dio vuole che si compia. Se, dunque, la sua volontà rendesse necessarie le cose volute, ne seguirebbe che tutto il bene accadrebbe necessariamente, e così verrebbe distrutto il libero arbitrio, la deliberazione volontaria e tutte le altre cose di tal genere.

RISPONDO: La volontà divina rende necessarie alcune tra le cose che vuole, ma non tutte. Ora, alcuni hanno voluto trovare la ragione di ciò nelle cause intermedie: (e affermano) che le cose che Dio produce mediante cause necessarie, sono necessarie; quelle, invece, che produce mediante cause contingenti, sono contingenti. - Tale spiegazione, però, è insufficiente, per due motivi. Primo, perché l'effetto di una causa anteriore viene reso contingente da una causa seconda in quanto l'effetto di quella è frustrato dalla deficienza di questa; come la virtù del sole può diventare inefficace per un difetto della pianta. Ora, nessuna deficienza di una causa seconda può far sì che la volontà di Dio non produca il suo effetto. - Secondo, perché se la distinzione tra necessarie e contigenti si attribuisse soltanto alle cause seconde, ne verrebbe che questa distinzione sarebbe estranea all'intenzione ed alla volontà di Dio: il che è assurdo.
E allora con maggior ragione si deve affermare che ciò avviene per l'efficacia della volontà divina. Difatti, quando una causa è (proprio) efficace nel suo operare, l'effetto la segue non solo quanto al risultato materiale ma ne riproduce anche il modo nell'operare e nell'essere: così, p. es., dipende da un'inefficace virtù attiva del seme, se un figlio nasce non somigliante al padre nelle qualità accidentali, le quali ne costituiscono il modo di essere. Ma siccome la volontà divina è efficacissima, ne segue non solo che si compiano le cose che essa vuole, ma anche che si effettuino nel modo da lei voluto. Ora, Dio vuole che alcune cose si producano necessariamente, altre in maniera contingente, affinché vi sia nelle cose un ordine per la perfezione dell'universo. Perciò ha dato ad alcuni effetti delle cause necessarie, che non possono incontrare ostacoli, e dalle quali gli effetti provengono di necessità; ad altri invece ha dato cause contingenti defettibili, dalle quali gli effetti procedono in maniera contingente. Non è vero quindi che gli effetti voluti da Dio siano contingenti perché son contingenti le loro cause prossime; ma Dio ha predisposto loro delle cause contingenti perché voleva che avvenissero in modo contingente.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'affermazione di S. Agostino va intesa nel senso non di una necessità assoluta, bensì condizionata, delle cose volute da Dio; occorre, infatti, che sia vera questa condizionale: "Se Dio vuole la tal cosa, è necessario che la tal cosa sia".
2. Dal fatto che niente resiste alla divina volontà, segue che non solo avvengano le cose che Dio vuole: ma che avvengano in maniera contingente o necessaria, così come egli vuole.
3. Ciò che deriva, trae la propria necessità dai suoi presupposti, seguendone il modo. Quindi, le cose che derivano dalla divina volontà hanno tale necessità, quale Dio vuole che esse abbiano, cioè o assoluta, o soltanto condizionata. E così non tutte le cose sono necessarie in modo assoluto.

ARTICOLO 9

Se Dio voglia il male

SEMBRA che Dio voglia il male. Infatti:
1. Tutto il bene che avviene è voluto da Dio. Ma è un bene che ci sia il male: perché, come dice S. Agostino: "Sebbene quello che è male, in quanto è male, non sia un bene; tuttavia è cosa buona non solo che vi sia il bene, ma anche che vi sia il male". Dunque Dio vuole il male.
2. Dionigi scrive: "Il male conferisce alla perfezione del tutto" (cioè dell'universo). E S. Agostino: "Dall'insieme delle cose risulta l'ammirabile bellezza dell'universo, nel quale anche quello che si chiama male, quando è bene ordinato e messo al suo posto, fa meglio risaltare il bene: il bene così, messo in confronto col male, piace di più ed è più degno di lode". Ora, Dio vuole tutto quello che giova alla perfezione ed alla bellezza dell'universo, perché questo ha soprattutto di mira Dio nel creato. Dunque Dio vuole il male.
3. Che il male ci sia e che il male non ci sia, son due cose contraddittorie. Ora, Dio non vuole che il male non ci sia: perché, dato che il male c'è, ne verrebbe (cosa che abbiamo già escluso) che la sua volontà non sempre si adempirebbe. Dunque Dio vuole che ci sia il male.

IN CONTRARIO: Scrive S. Agostino: "L'uomo non diventa mai peggiore per l'influsso di un uomo saggio. Ma Dio è al di sopra di tutti i sapienti; molto meno, dunque, uno può diventare peggiore per influsso di Dio. E quando si dice influsso di Dio si dice volontà di Dio". Perciò non è per volontà di Dio che un uomo diventa peggiore. Ora, è chiaro che per qualsiasi male una cosa diventa peggiore. Dunque Dio non vuole il male.

RISPONDO: Siccome la nozione di bene coincide con la nozione di appetibile, come già vedemmo, e siccome il male è l'opposto del bene, è impossibile che una cosa cattiva, in quanto tale, sia oggetto di desiderio da parte dell'appetito naturale, di quello animale, o di quello intellettivo, che è la volontà. Ma una cosa cattiva può essere oggetto di desiderio indirettamente, in quanto è unita ad un bene. E ciò si riscontra in ognuno dei (tre) generi di appetiti. Così, una causa fisica non ha (direttamente) di mira la privazione o la distruzione (che di fatto produce), ma una forma, alla quale è legata la privazione di un'altra forma, o la generazione di un essere che importa la distruzione di un altro essere. Così pure il leone, nell'uccidere un cervo, mira direttamente al cibo, al quale è congiunta l'uccisione di un animale. Allo stesso modo il libertino cerca il piacere al quale è unita la deformità della colpa.
Il male però che si presenta unito ad un dato bene, è privazione di un bene d'altro genere. E quindi un male non sarebbe mai desiderato, neppure indirettamente o accidentalmente, se il bene, a cui è congiunto il male, non fosse più agognato di quel bene che il male esclude. Ora, Dio nulla desidera più della sua stessa bontà: ci sono però dei beni che egli preferisce ad altri. Perciò il male colpa (il peccato), che allontana dal bene divino, Dio non lo vuole in nessun modo. Invece egli può volere quel male che è un difetto di natura, o il male pena, quando vuole un bene a cui è unito quel male: così nel volere la giustizia, vuole la pena, e volendo la conservazione dell'ordine di natura, vuole che certi esseri naturalmente periscano.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Alcuni ritenevano che, sebbene Dio non voglia il male, pure vuole che il male ci sia o che avvenga; perché (dicevano) quantunque il male non sia bene, tuttavia è un bene che il male ci sia o che avvenga. E ragionavano così perché ciò che in se stesso è male, può essere ordinato a un bene: e credevano che tale ordine fosse sufficientemente affermato in questa espressione, "il male ci sia o che avvenga". Ma siffatta maniera di esprimersi non è esatta. Perché il male non è di suo ordinato al bene, ma solo accidentalmente. Difatti esula dall'intenzione del peccatore che dal suo peccato derivi un bene; p. es., fu estraneo all'intento dei tiranni che dalle loro persecuzioni risplendesse la costanza dei martiri. Perciò non si può dire che tale subordinazione del male al bene sia espressa dalla semplice affermazione che è un bene che il male ci sia o che avvenga; perché una cosa non si qualifica propriamente per quello che le conviene in modo accidentale, ma per quello che le compete di per sé.
2. Il male non contribuisce alla perfezione ed alla bellezza dell'universo altro che accidentalmente, come si è spiegato. Quindi anche il detto di Dionigi, "il male conferisce alla perfezione dell'universo", ha valore come dimostrazione per assurdo.
3. È vero che tra (le due proposizioni:) il male esiste, il male non esiste, c'è contraddizione; non è vero, però, che vi sia tale opposizione tra volere che il male avvenga, e volere che il male non avvenga, perché è affermativa l'una e l'altra proposizione. Dio, dunque, né vuole che il male ci sia, né vuole che il male non ci sia; ma vuole permettere che il male ci sia. E ciò è un bene.

ARTICOLO 10

Se Dio abbia il libero arbitrio

SEMBRA che Dio non abbia il libero arbitrio. Infatti:
1. S. Girolamo afferma: "Solo in Dio non si trova né si può trovare il peccato; tutti gli altri esseri, perché dotati di libero arbitrio, possono piegare verso l'una o l'altra parte".
2. Il libero arbitrio è una facoltà della ragione e della volontà, mediante cui si sceglie il bene e il male. Ora, Dio, come abbiamo visto, non vuole il male. Dunque in lui non v'è libero arbitrio.

IN CONTRARIO: S. Ambrogio scrive: "Lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno come vuole, cioè ad arbitrio del suo libero volere, non cedendo a una necessità".

RISPONDO: Noi abbiamo il libero arbitrio (ma) non rispetto a quel che vogliamo per necessità o per istinto di natura. Non spetta, infatti, al libero arbitrio, ma all'istinto naturale il voler esser felici. Perciò non si può dire che si muovono di libero arbitrio gli altri animali che per istinto naturale son portati verso un dato oggetto. Quindi, siccome Dio necessariamente vuole (solo) la sua bontà, ma non gli altri beni, come sopra si è detto, ha il libero arbitrio relativamente a ciò che vuole senza necessità.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. S. Girolamo intende escludere da Dio il libero arbitrio, non in modo assoluto; ma solo relativamente alla possibilità di peccare.
2. Siccome il male colpa (il peccato) si definisce come allontanamento dalla bontà divina, in vista della quale bontà Dio vuole tutte le cose, come sopra abbiamo dimostrato, è evidentemente impossibile che egli voglia il male colpa. Tuttavia può ancora scegliere tra cose opposte, avendo la facoltà di volere che una data cosa esista o che non esista. Del resto, anche noi, senza far peccato, possiamo (liberamente) voler sedere e non voler sedere.

ARTICOLO 11

Se si debba distinguere in Dio una volontà significata

SEMBRA che non si debba distinguere in Dio una volontà significata. Infatti:
1. La volontà di Dio è causa delle cose nella stessa misura della sua scienza. Ora, non sono stati mai proposti segni della scienza divina. Dunque non ce ne devono essere neppure per la volontà divina.
2. Ogni segno che non concorda con ciò che indica è falso. Se dunque i segni, proposti come espressione della divina volontà, non concordano con essa, sono falsi; se poi concordano, sono inutili. Non si devono, quindi, ammettere dei segni come espressione della divina volontà.

IN CONTRARIO: La volontà di Dio è una, essendo la stessa essenza di Dio. Eppure, qualche volta, è nominata al plurale, come nei Salmi: "Grandi sono le opere del Signore, scelte secondo tutte le sue volontà". Dunque, talora, bisogna prendere il segno del divin volere per la di lui volontà.

RISPONDO: Parlando di Dio, certe cose si dicono in senso proprio, altre in senso metaforico, come è chiaro da quanto fu detto in precedenza. Ora, quando alcune passioni dell'uomo si attribuiscono metaforicamente a Dio, si parte dalla somiglianza degli effetti; cosicché, rispetto a Dio, si esprime metaforicamente col nome di una data passione, quello che in noi è segno di tale passione. Gli uomini, p. es., son soliti punire quando sono irati; perciò la punizione stessa è segno di ira: e così chiamiamo ira la punizione stessa quando si attribuisce a Dio. In modo analogo, talora, si attribuisce a Dio metaforicamente come volontà quello che in noi di solito è un segno della volontà. P. es., quando uno comanda qualche cosa, è segno che vuole che tale cosa si faccia: quindi il precetto divino talvolta, metaforicamente si chiama volontà di Dio, come nel passo evangelico: "sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra". Ma tra la volontà e l'ira c'è questa differenza, che l'ira non si dice mai di Dio in senso proprio, perché nel suo significato principale include una passione; mentre la volontà può dirsi di Dio in senso proprio. Perciò si distingue in Dio una volontà propriamente detta, ed una volontà in senso metaforico. La volontà propriamente detta, si chiama volontà di beneplacito; la volontà, invece, in senso metaforico si chiama volontà signiflcata, perché il segno stesso del volere è detto volontà.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La scienza non è causa delle cose se non per mezzo della volontà; perché noi non facciamo quello di cui abbiamo cognizione se non perché lo vogliamo. E perciò non attribuiamo dei segni alla scienza, come li attribuiamo alla volontà.
2. I segni della volontà si dicono volontà divine, non perché siano delle espressioni (adeguate) del volere divino; ma perché quelli che tra gli uomini passano come segni del volere, in Dio si dicono divine volontà. Allo stesso modo, la punizione non è un segno che in Dio ci sia l'ira; ma in Dio si parla di ira, per il fatto che tra gli uomini la punizione è un segno di ira.

ARTICOLO 12

Se sia esatto stabilire che cinque sono i segni della volontà di Dio

SEMBRA che non sia esatto stabilire che cinque sono i segni della volontà di Dio e cioè: la proibizione, il precetto, il consiglio, l'operazione e la permissione. Infatti:
1. Dio, talora, opera in noi quello che ci comanda o ci consiglia, e qualche volta ci permette quello che ci proibisce. Dunque tali termini non si possono distinguere tra loro.
2. Dio niente opera senza volerlo, come dice la Scrittura. Ora, la volontà significata si distingue dalla volontà di beneplacito. Dunque l'operazione non deve classificarsi sotto la volontà significata.
3. L'operazione e la permissione riguardano tutte le creature, perché Dio opera in tutte le creature ed in tutte permette che qualcosa accada. Invece il precetto, il consiglio e la proibizione riguardano le sole creature ragionevoli. Dunque non sono ben classificati sotto un'unica divisione, non appartenendo al medesimo ordine di cose.
4. Il male accade in più modi del bene; perché il bene si attua in una sola maniera, ed il male in tutte le maniere, come notano Aristotele e Dionigi. Non è dunque esatto stabilire per il male un solo segno, cioè la proibizione, e due per il bene, cioè il consiglio ed il precetto.

RISPONDO: Si dicono segni (o espressioni) della volontà quelli, con i quali noi siamo soliti fare intendere che vogliamo qualche cosa. Ora, uno può mostrare che vuole qualche cosa o da se stesso, o mediante un altro. Da sé, quando compie direttamente, o indirettamente ovvero accidentalmente qualche cosa. Direttamente agisce quando compie di proposito qualche cosa: e in questo si ha il segno detto operazione. Agisce poi indirettamente, quando non pone ostacoli ad un dato evento: difatti chi elimina l'ostacolo, merita il nome di movente accidentale, come dice Aristotele. E con questo abbiamo il segno detto permissione. Uno poi manifesta di volere qualche cosa per mezzo di altri, in quanto dispone altri a compierla; e questo o con una disposizione obbligatoria, comandando quello che vuole e proibendo il contrario; o con la persuasione che corrisponde al consiglio.
Quindi, siccome questi cinque termini corrispondono ai modi di manifestare la propria volontà, rispetto a una cosa, talora vengono chiamati col nome di volontà divina, in quanto sono segni della medesima. Difatti dal testo del Vangelo, "si faccia la tua volontà, come in cielo così in terra", appare evidente che il precetto, il consiglio e la proibizione si dicono volontà di Dio. La permissione poi e l'operazione si dicono anch'esse volontà di Dio, come nel passo di S. Agostino: "Niente avviene, senza che l'Onnipotente voglia che avvenga, o lasciando che si effettui, od operando lui stesso".
Si potrebbe anche dire che la permissione e l'operazione si riferiscono al presente; la permissione, relativamente al male; l'operazione, riguardo al bene. Al futuro, invece, si riferiscono: rispetto al male, la proibizione; rispetto al bene necessario, il precetto; rispetto al bene supererogatorio, il consiglio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Niente impedisce che circa la medesima cosa uno mostri la propria volontà in diverse maniere: allo stesso modo che si usano molti nomi per esprimere la medesima cosa. Quindi niente vieta che una sola e identica cosa sia oggetto del precetto, del consiglio e dell'operazione, della proibizione o della permissione.
2. Se si può dire in senso metaforico che Dio voglia quello che non vuole di volontà propriamente detta; si può anche dire con una espressione metaforica che voglia ciò che vuole in senso proprio. Quindi niente impedisce che circa la medesima cosa ci possa essere volontà di beneplacito e volontà significata. Solo che mentre l'operazione si identifica sempre con la volontà di beneplacito, non così il precetto o il consiglio: sia perché la prima riguarda il presente, e questi ultimi il futuro; sia anche perché quella è effetto immediato della volontà, questi invece dipendono da altri, come si è già spiegato.
3. La creatura ragionevole è padrona dei suoi atti, perciò in rapporto ad essa si possono determinare dei segni speciali della divina volontà, in quanto Dio dispone la creatura intellettuale ad operare volontariamente e da se stessa. Ma le altre creature agiscono solo perché mosse dalla mozione divina: perciò rispetto ad esse non ha luogo che l'operazione e la permissione.
4. Il male morale, sebbene si produca in tante maniere, pure è uniforme in questo, che non si accorda con la volontà di Dio; perciò in rapporto al male è stato posto un solo segno, cioè la proibizione. Viceversa, i beni in varie maniere stanno in relazione con la divina bontà; perché ve ne sono alcuni, che sono indispensabili per conseguire il godimento della bontà di Dio, e rispetto ad essi abbiamo il precetto; ve ne sono altri, invece, che servono a conseguirlo con maggiore perfezione, ed abbiamo il consiglio. Si può anche rispondere che il consiglio riguarda non solo i beni migliori da conseguire, ma anche i minori mali da evitare.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:06
Questione 20

L'amore di Dio

Ed ora veniamo a trattare di quanto direttamente si riferisce alla volontà di Dio. Nella nostra parte appetitiva troviamo le passioni dell'anima, come il gaudio, l'amore e simili; e gli abiti delle virtù morali, come la giustizia, la fortezza e tutte le altre. Perciò, innanzi tutto, tratteremo dell'amore di Dio; in secondo luogo, della giustizia di Dio, e della sua misericordia.
Sul primo argomento si pongono quattro quesiti: 1. Se in Dio ci sia l'amore; 2. Se Dio ami tutte le cose; 3. Se Dio ami più una cosa che un'altra; 4. Se Dio ami di più le cose migliori.

ARTICOLO 1

Se in Dio ci sia l'amore

SEMBRA che in Dio non ci sia l'amore. Infatti:
1. Nessuna passione è in Dio. L'amore è una passione. Dunque in Dio non c'è amore.
2. L'amore, l'ira, la tristezza e simili (sono cose dello stesso genere che) si possono contrapporre. Ora, la tristezza e l'ira si attribuiscono a Dio soltanto metaforicamente. E quindi anche l'amore.
3. Dice Dionigi: "L'amore è una forza unitiva e aggregativa". Ora, Dio è semplice. Dunque in Dio non c'è amore.

IN CONTRARIO: S. Giovanni afferma: "Dio è amore".

RISPONDO: È necessario ammettere l'amore in Dio. Infatti l'amore è il primo moto della volontà e di qualsiasi facoltà appetitiva. L'atto della volontà, e di qualsiasi appetito, tende, come a proprio oggetto, al bene ed al male: ma siccome il bene è l'oggetto principale e diretto della volontà e dell'appetito, e il male invece ne è l'oggetto secondario e indiretto, cioè in quanto è l'opposto del bene, bisogna che gli atti appetitivi e volitivi riguardanti il bene abbiano una priorità naturale su quelli che concernono il male; cioè il gaudio precederà la tristezza, e l'amore sarà prima dell'odio. Perché ciò che vale di suo, precede sempre quanto dipende da altri.
Ancora, ciò che è più generico ed esteso ha una priorità naturale; difatti l'intelletto dice innanzi tutto ordine alla verità in generale, piuttosto che a questa o a quell'altra verità. Ora, vi sono degli atti della volontà e dell'appetito, che riguardano il bene sotto una speciale condizione: così la gioia e il piacere riguardano il bene presente e posseduto; il desiderio e la speranza un bene non ancora posseduto. L'amore, invece, riguarda il bene in generale, posseduto o non posseduto. Perciò l'amore naturalmente è il primo atto della volontà e dell'appetito.
Ed è per questo che tutti gli altri moti dell'appetito suppongono l'amore, quale prima radice. Non si desidera altro infatti se non il bene che si ama, né si gioisce che del bene amato. E anche l'odio non ha altro oggetto che quanto contrasta con la cosa amata. Così pure è evidente che la tristezza e le altre passioni si richiamano all'amore come al loro primo principio. Quindi in qualunque essere c'è volontà o appetito, necessariamente vi è l'amore: perché se si toglie il primo, tutto il resto scompare. Ora, sopra abbiamo dimostrato che in Dio c'è la volontà. Perciò in lui bisogna ammettere l'amore.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. In risposta alla prima difficoltà si osservi che la facoltà conoscitiva non muove se non mediante l'appetito. Ora (bisogna anche considerare che) nell'uomo secondo Aristotele, come la ragione (astratta) universale agisce mediante la ragione (concreta e) particolare, così l'appetito intellettivo, che si chiama volontà, agisce mediante l'appetito sensitivo. Quindi il motore prossimo del nostro corpo è l'appetito sensitivo. Ne viene che ogni atto dell'appetito sensitivo è sempre accompagnato da qualche trasmutazione corporale; massime nella regione del cuore, che è il primo principio del movimento nell'animale. Per questo gli atti dell'appetito sensitivo, in quanto hanno annessa un'alterazione corporale, si chiamano passioni: non così l'atto della volontà. Sicché amore, gioia, piacere, quando significano atti dell'appetito sensitivo, sono passioni; ma non quando stanno a indicare l'atto dell'appetito intellettivo (volontà). E in quest'ultimo senso si attribuiscono a Dio. Perciò il Filosofo dice che "Dio gode di una sola e semplice operazione". E per la stessa ragione, ama senza passione alcuna.
2. Nelle passioni dell'appetito sensitivo bisogna distinguere ciò che rappresenta come l'elemento materiale, cioè l'alterazione corporale, da ciò che costituisce l'elemento formale, cioè il moto specifico dell'appetito sensitivo. P. es., nell'ira, secondo Aristotele, l'elemento materiale è l'accensione del sangue nella regione del cuore, o qualche cosa di questo genere; l'elemento formale, invece, è la brama di vendicarsi. Di più, anche nell'elemento formale di alcune passioni è inclusa un'imperfezione; p. es., nel desiderio, che riguarda un bene non posseduto, e nella tristezza, che riguarda un male subito. Lo stesso si dice dell'ira, che presuppone la tristezza. Altre passioni, invece, non implicano nessuna imperfezione, come l'amore e la gioia. Escluso quindi che, come si è spiegato, possa convenire a Dio quanto c'è di materiale nelle passioni; si possono però attribuire a Dio soltanto in senso metaforico, quelle che anche formalmente prese implicano imperfezione; (senso metaforico fondato) sulla somiglianza di effetti, come si è detto nelle precedenti questioni. Quelle invece che non implicano imperfezione, si possono affermare di Dio in senso proprio, come l'amore e la gioia; esclusa però la passione, come si è spiegato.
3. L'atto dell'amore tende sempre verso due oggetti: verso il bene che si vuole a qualcuno, e verso colui al quale si vuole il bene, perché amare uno, vuol dire precisamente volere a lui del bene. Quindi, dal momento che uno si ama, vuole a se stesso del bene, e questo bene cerca di unirlo a se medesimo per quanto può. Per tal motivo l'amore si chiama forza unitiva anche in Dio, però senza composizione di sorta, perché quel bene che (Dio) vuole a se stesso, non è altra cosa che se medesimo, buono per essenza, come sopra si è dimostrato. - In quanto, poi, uno ama un altro, vuole del bene a quest'altro. E lo tratta come se stesso, rivolgendo a lui il bene come a se medesimo. In questo senso l'amore si dice forza aggregativa; perché uno aggrega un altro a se medesimo, e lo tratta come un altro se stesso. In tal senso anche l'amore divino è una forza aggregativa senza che per questo in Dio vi sia composizione, (ma solo) perché rivolge ad altri i suoi beni.

ARTICOLO 2

Se Dio ami tutte le cose

SEMBRA che Dio non ami tutte le cose. Infatti:
1. Al dire di Dionigi l'amore pone l'amante fuori di sé e lo trasporta nell'oggetto amato. Ma è assurdo dire che Dio, posto fuori di sé, sia trasportato in altri esseri. Dunque non è ammissibile che Dio ami altri che se stesso.
2. L'amore di Dio è eterno. Ora, le cose distinte da Dio non sono eterne se non in quanto sono in Dio. Dunque Dio non le ama se non in se stesso. Ma in quanto sono in Dio le cose non sono distinte da lui. Dunque Dio non ama altro che se stesso.
3. L'amore è di due specie: cioè l'amore di concupiscenza e l'amore di amicizia. Ora, Dio non ama le creature irragionevoli di amore di concupiscenza, perché non ha bisogno di niente; e neppure di amore di amicizia, perché un tale amore non può aversi verso le creature irragionevoli, come Aristotele dimostra. Dunque Dio non ama tutte le cose.
4. Sta scritto nei Salmi: "Tu odii tutti gli operatori di iniquità". Ma, nessuno può al tempo stesso essere odiato ed amato. Dunque Dio non ama tutti gli esseri.

IN CONTRARIO: Si legge nella Sacra Scrittura: "Ami gli esseri tutti, e nulla abomini di quanto hai fatto".

RISPONDO: Dio ama tutti gli esseri esistenti, perché tutto ciò che esiste, in quanto esiste, è buono; infatti l'essere di ciascuna cosa è un bene, come è un bene del resto ogni sua perfezione. Ora, sopra si è dimostrato che la volontà di Dio è causa di tutte le cose: e per conseguenza ogni ente ha tanto di essere e di qualsiasi bene nella misura che è oggetto della volontà di Dio. Dunque ad ogni essere esistente Dio vuole qualche bene. Perciò, siccome amare vuol dire volere a uno del bene, è evidente che Dio ama tutte le cose esistenti.
Dio però non (ama) come noi. La nostra volontà, infatti, non causa il bene, che si trova nelle cose; al contrario è mossa da esso come dal proprio oggetto; e quindi il nostro amore con il quale vogliamo del bene a qualcuno, non è causa della bontà di costui, ché anzi la di lui bontà, vera o supposta, provoca l'amore, che ci spinge a volere che gli sia mantenuto il bene che possiede e acquisti quello che non ha: e ci adoperiamo a tale scopo. L'amore di Dio invece infonde e crea la bontà nelle cose.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Chi ama esce fuori di se stesso portandosi verso l'oggetto amato in questo senso, che all'essere amato vuole del bene, e che con le sue premure cerca di procurarglielo come a se stesso. Tanto che Dionigi aggiunge: "Bisogna, poi, avere l'ardire di affermare, e questo per la verità, che Dio medesimo, causa di tutte le cose, per l'eccesso della sua bontà amante, esce fuori di sé e con la sua provvidenza va verso tutti gli esseri".
2. Sebbene le creature non siano esistite eternamente se non in Dio, tuttavia appunto perché esistenti eternamente in Dio, egli le ha conosciute dall'eternità nella loro propria essenza; e per la stessa ragione le ha amate. Anche noi del resto attraverso immagini, che sono in noi, conosciamo le cose come sono in se stesse.
3. L'amicizia può sussistere soltanto tra creature ragionevoli, perché solo tra esse vi può essere amore reciproco e comunanza di vita; ed esse sole possono sperimentare il bene e il male nell'alternarsi delle disgrazie e della fortuna; come soltanto tra esse propriamente può esistere la benevolenza. Le creature irragionevoli, invece, non possono arrivare ad amare Dio, né a partecipare alla vita intellettuale e beata che Dio vive. Perciò Dio, a parlare propriamente, non ama le creature irragionevoli di amore di amicizia; ma le ama di un amore quasi di concupiscenza, in quanto le fa servire alle creature ragionevoli ed anche a se stesso; non perché ne abbia bisogno, ma per la sua bontà e la nostra utilità. Infatti possiamo avere concupiscenza di qualche cosa per noi stessi o per altri.
4. Niente impedisce che una identica cosa sia amata sotto un aspetto, e sotto un altro odiata. Perciò Dio ama i peccatori in quanto sono delle realtà: e sotto tale aspetto infatti essi esistono e da lui ricevono il loro essere. Però in quanto peccatori, essi non sono, ma hanno una menomazione nell'essere: e ciò non viene da Dio. Quindi sotto questo aspetto Dio li odia.

ARTICOLO 3

Se Dio ami ugualmente tutte le cose

SEMBRA che Dio ami ugualmente tutte le cose. Infatti:
1. Sta scritto: "Dio ha cura ugualmente di tutti". Ma la provvidenza che Dio ha delle cose scaturisce dall'amore che porta alle medesime. Dunque Dio ama tutto d'uguale amore.
2. L'amore di Dio si identifica con la di lui essenza. Ma l'essenza di Dio non è suscettibile del più e del meno. Perciò neppure il suo amore. E per conseguenza egli non può amare alcuni esseri più di altri.
3. L'amore di Dio si estende alle creature così come la scienza e la volontà. Ora, non si può dire che Dio conosce e vuole alcune cose più di altre. Dunque neppure si deve dire che le ami di più.

IN CONTRARIO: S. Agostino scrive: "Dio ama tutte le cose che ha fatto; ma tra esse ama di più le creature ragionevoli, e tra queste maggiormente ama quelle che sono membra del suo Figlio unico; e molto più ancora il suo stesso Unigenito".

RISPONDO: Siccome amare significa volere del bene a uno, una cosa può essere amata di più o di meno per due motivi. Primo, a motivo dell'atto stesso della volontà, il quale può essere più o meno intenso. E sotto questo aspetto Dio non ama una cosa più di un'altra, perché le ama tutte con un solo e semplice atto della sua volontà, sempre invariabile. Secondo, a motivo di quel dato bene che si vuole all'essere amato. E in questo senso si dice che noi amiamo di più colui al quale vogliamo un bene maggiore, anche se (lo amiamo) con un'intensità minore. E in questa seconda maniera bisogna dire che Dio ama alcune cose più di altre. Infatti, essendo l'amore di Dio causa della bontà delle cose, come abbiamo già dimostrato, non vi sarebbe una cosa migliore di un'altra, se Dio non volesse ad una un bene maggiore che ad un'altra.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Si dice che Dio ha ugualmente cura di tutte le cose, non perché nella sua provvidenza dispensi a tutte dei beni uguali, ma perché tutte le amministra con uguale sapienza e bontà.
2. Questa difficoltà riguarda l'intensità dell'amore nell'atto della volontà, che si identifica con l'essenza divina. Ma il bene che Dio vuole alla creatura, non è l'essenza divina. Perciò niente impedisce che esso possa crescere o diminuire.
3. Cognizione e volizione indicano soltanto degli atti, ma nel loro significato non includono, come si è potuto affermare per l'amore, dei dati oggettivi dalla cui diversità si possa dire che Dio conosca o voglia di più o di meno.

ARTICOLO 4

Se Dio sempre ami di più le cose migliori

SEMBRA che Dio non sempre ami di più le cose migliori. Infatti:
1. È evidente che Cristo è superiore a tutto il genere umano, essendo Dio e uomo. Ma Dio ha amato più il genere umano che il Cristo; perché sta scritto: "Dio non risparmiò il proprio Figlio, ma lo diede per tutti noi". Dunque Dio non sempre ama di più le cose migliori.
2. L'angelo è superiore all'uomo; tanto è vero che nei Salmi così si parla dell'uomo: "Di poco l'hai fatto inferiore agli angeli". Ora, Dio ha amato più l'uomo che l'angelo: infatti l'Apostolo dice: "Non ad angeli egli viene in aiuto, ma viene in aiuto al seme di Abramo". Dunque Dio non sempre ama di più le cose migliori.
3. Pietro era superiore a Giovanni: perché amava di più il Cristo. Tanto è vero che il Signore, sapendo ciò, così interrogò Pietro: "Simone, figlio di Giona, mi ami più di questi?". E tuttavia Cristo amò più Giovanni che Pietro; infatti, come dice S. Agostino, nel commentare il passo: "Simone, figlio di Giona, mi ami tu?", "Giovanni si distingueva per questo segno (dell'amore) dagli altri discepoli; non che Gesù amasse soltanto lui, ma perché lo amava più degli altri". Non sempre dunque Dio ama di più le cose migliori.
4. Gli innocenti sono migliori dei penitenti, perché, al dire di S. Girolamo, "la penitenza è la seconda tavola dopo il naufragio". Dio invece ama più i penitenti degli innocenti; perché di essi più si rallegra. Infatti si legge nel Vangelo: "Vi dico che vi sarà più festa in cielo per un peccatore pentito, che per novantanove giusti, che non abbisognano di penitenza". Dunque non sempre Dio ama le cose migliori.
5. Un giusto prescito è migliore di un peccatore predestinato. Ora, Dio ama di più il peccatore predestinato, perché gli vuole un bene maggiore, cioè la vita eterna. Perciò non sempre Dio ama di più le cose migliori.

IN CONTRARIO: Ogni essere è portato ad amare il proprio simile, come risulta dalla Sacra Scrittura: "Ogni animale ama il suo simile". Ora, una cosa è migliore, nella misura in cui è più simile a Dio. Dunque le cose migliori sono più amate da Dio.

RISPONDO: È necessario affermare, stando a quel che si è già detto, che Dio ama di più le cose migliori. Abbiamo spiegato infatti che per Dio amare di più un essere non vuol dire altro che dare a quest'essere un bene più grande, essendo la volontà di Dio la causa della bontà nelle cose. E quindi, proprio per questo vi sono delle cose migliori, perché Dio vuole ad esse un bene maggiore. Di qui la conseguenza che le cose migliori Dio le ama di più.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Dio ama il Cristo, non solo più di tutto il genere umano, ma anche più che l'universo intero; appunto perché gli ha voluto un bene più grande, poiché "gli diede il nome che è al di sopra di ogni altro nome", cosicché fosse vero Dio. E niente toglie alla di lui eccellenza il fatto che Dio lo dette alla morte per la salvezza del genere umano; ché anzi ne è uscito vincitore glorioso, secondo le parole d'Isaia: "Il principato è stato posto sulle sue spalle".
2. La natura umana assunta dal Verbo di Dio nella Persona del Cristo è amata da Dio più di tutti gli angeli: ed è più nobile specialmente a causa dell'unione (ipostatica). Ma, parlando della natura umana in generale, e paragonandola alla natura angelica quanto all'ordine della grazia e della gloria, vi è parità, perché, come è detto nell'Apocalisse, "una stessa misura è per l'uomo e per l'angelo"; in maniera, però, che, sotto questo aspetto alcuni angeli risultano superiori a certi uomini, e alcuni uomini superiori a certi angeli. Se si parla però della loro condizione naturale, l'angelo è superiore all'uomo. E perciò se Dio ha assunto la natura umana, non è perché assolutamente parlando amasse di più l'uomo, ma perché questi era più bisognoso. Ha fatto come un buon padre di famiglia, il quale dà ad un servo malato un cibo più costoso che ad un figlio sano.
3. Questa difficoltà a proposito di Pietro e di Giovanni si scioglie in molte maniere. S. Agostino vi scorge un simbolo, dicendo che la vita attiva, figurata in Pietro, ama di più Dio della vita contemplativa rappresentata da Giovanni, in quanto essa sente di più le angustie della presente vita e con maggiore veemenza desidera di esserne liberata per andare a Dio. Dio invece ama di più la vita contemplativa, perché la fa durare più a lungo: ed infatti essa non termina con la vita del corpo, come la vita attiva. Altri dicono che Pietro ha amato di più il Cristo nelle sue membra; e per questo fu amato maggiormente da Cristo; che perciò gli affidò la sua Chiesa. Giovanni, invece, ha amato di più Cristo in persona e quindi fu prediletto da Cristo, che perciò gli affidò la Madre. Altri dicono che è incerto chi dei due abbia amato di più il Cristo con amore di carità, così pure quale dei due Dio abbia amato di più in ordine a una maggiore gloria nella vita eterna. Ma si dice che Pietro ha amato di più per una certa prontezza o fervore di spirito; e che Giovanni è stato amato maggiormente per certi segni di familiarità che Cristo gli dimostrava a causa della sua giovinezza e della sua purezza. Altri, finalmente, dicono che Cristo ha amato di più l'apostolo Pietro per un più eccellente dono di carità; Giovanni, poi, per il dono dell'intelletto. Per questa ragione Pietro fu migliore e da Cristo più amato in modo assoluto; Giovanni lo fu di più sotto un certo aspetto. - Tuttavia sa di presunzione voler giudicare di tali cose, perché, come dice la Sacra Scrittura: "Ponderatore degli spiriti è il Signore", e non altri.
4. I penitenti e gli innocenti si possono trovare (confrontati tra di loro) reciprocamente in vantaggio e in svantaggio. Penitenti o innocenti sono migliori e maggionnente amati quelli che hanno la grazia in maggiore abbondanza. Tuttavia, a parità di condizioni, l'innocenza è migliore e da Dio è maggionnente amata. Ma si dice che Dio fa più festa per un penitente che per un innocente, perché, di solito, i peccatori pentiti risorgono più cauti, più umili e più fervorosi. Per questo S. Gregorio può affermare che "il capitano preferisce nel combattimento un soldato che, dopo esser fuggito, è ritornato e incalza fortemente il nemico, ad uno che mai è fuggito, ma neppure ha compiuto atti di eroismo". - Si può anche addurre un'altra ragione, e cioè che un uguale dono di grazia è maggiore in rapporto a un penitente il quale meritò una punizione, che in rapporto a un innocente il quale non l'ha meritata. Così, cento marchi costituiscono un regalo più grande se si danno ad un povero, che se si danno ad un re.
5. Dal momento che la volontà di Dio è causa della bontà delle cose, il bene di uno che è amato da Dio dovrà giudicarsi in rapporto a quel tempo nel quale costui dovrà ricevere dalla divina bontà un tal bene. Quindi, un peccatore predestinato, rispetto al tempo in cui dalla volontà divina gli sarà dato il bene maggiore (la vita eterna), è migliore di un giusto non predestinato, sebbene in altri tempi sia stato peggiore di lui. (Né ciò è difficile a capirsi quando si pensi) che vi fu anche un tempo nel quale non era né buono né cattivo.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:07
Questione 21

Giustizia e misericordia di Dio

Dopo aver considerato l'amore divino, passiamo a trattare della giustizia e della misericordia di Dio.
In proposito si fanno quattro quesiti: 1. Se in Dio vi sia la giustizia; 2. Se la sua giustizia possa chiamarsi verità; 3. Se in Dio ci sia la misericordia; 4. Se in ogni opera di Dio vi si trovino la giustizia e la misericordia.

ARTICOLO 1

Se in Dio vi sia la giustizia

SEMBRA che in Dio non vi sia la giustizia. Infatti:
1. La giustizia fa parte (delle virtù cardinali) con la temperanza. Ora, la temperanza non si trova in Dio. Dunque neppure la giustizia.
2. Chiunque opera ogni cosa secondo l'arbitrio della sua volontà, non opera secondo giustizia. Ora, al dire dell'Apostolo, Dio "tutto opera secondo il consiglio della propria volontà". Dunque non si deve attribuire a Dio la giustizia.
3. L'atto della giustizia consiste nel dare ciò che è dovuto. Ora, Dio non è debitore di nessuno. Dunque a Dio non si addice la giustizia.
4. Tutto ciò che è in Dio è la sua stessa essenza. Ora, (tale identificazione) non conviene alla giustizia: Boezio infatti afferma che "mentre il bene dice rapporto all'essenza, il giusto riguarda l'operazione". Dunque la giustizia non conviene a Dio.

IN CONTRARIO: È detto nei Salmi: "Giusto è il Signore, e ama la giustizia".

RISPONDO: Vi sono due specie di giustizia. La prima, consiste nel mutuo dare e ricevere: quella, p. es., che si ha nella compra e vendita, e negli altri scambi o commutazioni del genere. E questa dal Filosofo è chiamata giustizia commutativa, cioè regolatrice degli scambi o commutazioni. Ed essa non si può attribuire a Dio; perché, come dice l'Apostolo: "Chi diede a lui per primo, da averne il contraccambio?".
L'altra (specie di giustizia) consiste nel distribuire (o amministrare); e si chiama giustizia distributiva, e a norma di essa chi governa o amministra dà a ciascuno secondo il merito. Ora, come il buon ordine che regna in una famiglia o in qualsiasi moltitudine organizzata dimostra che in chi governa c'è tale specie di giustizia; così l'ordine dell'universo, che appare tanto nella natura, quanto negli esseri dotati di volontà, dimostra la giustizia di Dio. Perciò Dionigi dice: "In questo bisogna scorgere la vera giustizia di Dio, che dà a tutti quel che loro conviene secondo il grado di ciascuno degli esseri esistenti, e che conserva la natura di ogni essere nel proprio ordine e nel proprio valore".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Alcune tra le virtù morali hanno per oggetto le passioni; così la temperanza ha per oggetto la concupiscenza; la fortezza il timore e l'audacia, la mansuetudine l'ira. E tali virtù non si possono attribuire a Dio altro che per metafora, perché in Dio non vi sono né passioni, come si è detto sopra, né vi è l'appetito sensitivo, nel quale risiedono tali virtù come dice il Filosofo. Vi sono invece altre virtù morali come la giustizia, la liberalità e la magnificenza: che hanno per oggetto le operazioni, e cioè le donazioni, le spese e simili: ed esse non risiedono nella parte sensitiva, ma nella volontà. Quindi niente impedisce che tali virtù si attribuiscano a Dio, non certo per delle azioni di carattere sociale, ma per azioni confacenti a Dio. Sarebbe, infatti, ridicolo, come osserva il Filosofo, lodare Dio per le sue virtù politiche.
2. Oggetto della volontà è il bene appreso dall'intelletto, perciò Dio non può volere altro che quello che è conforme alla sua sapienza. Ora, questa è per lui come una legge di giustizia, in forza della quale la sua volontà è retta e giusta. Perciò quello che fa secondo la sua volontà, lo fa con giustizia: come anche noi compiamo opere di giustizia ogni volta che osserviamo la legge. Con questa differenza però, che noi operiamo secondo la legge d'un superiore; Dio invece è legge a se stesso.
3. A ciascuno è dovuto il suo. Ora, una cosa si dice sua, cioè di qualcuno, quando è alle dipendenze di lui: così il servo è del padrone, e non viceversa, perché libero è colui che non ha altra dipendenza che da se stesso. Nella parola debito vi è, dunque, inclusa una certa relazione di esigenza o di necessità rispetto a colui da cui un essere dipende. Pertanto nelle cose va considerata una duplice relazione. Una è quella che intercorre tra un essere creato e gli altri esseri creati: p. es., le parti dicono relazione al tutto, gli accidenti alla sostanza, e ciascuna cosa al proprio fine. L'altra è quella per cui gli esseri creati sono ordinati a Dio. Così, dunque, (l'idea di) debito può trovarsi in due maniere anche nell'operazione divina: o secondo che una qualche cosa è dovuta a Dio, o in quanto è dovuta alla creatura; e nell'uno e nell'altro modo Dio rende quel che è dovuto. A Dio è dovuto che nel creato si attui quello che la sua sapienza e la sua volontà hanno determinato, e ciò che manifesta la sua bontà. E, sotto questo aspetto, la giustizia di Dio riguarda il proprio decoro per cui egli rende a se stesso quello che a lui si deve. È dovuto anche alla creatura che abbia ciò che le è destinato; all'uomo, p. es., che abbia le mani e che a lui servano gli altri animali. Ed anche in questo caso Dio compie la giustizia, quando a ciascun essere dà quello che gli è dovuto secondo le esigenze della sua natura e della sua condizione. Ma questo debito dipende dal primo, perché a ciascun essere è dovuto quello che gli è stabilito dall'ordinamento della divina sapienza. E sebbene Dio in tal maniera dia ad uno quello che gli è dovuto, non per questo egli è suo debitore, perché non lui è ordinato agli altri esseri, ma piuttosto gli altri esseri sono ordinati a lui. E perciò la giustizia in Dio talvolta si chiama ornamento della sua bontà, e tal'altra retribuzione del merito. A questi due modi accenna S. Anselmo quando scrive: "Se tu punisci i malvagi, è giustizia, perché ciò è dovuto al loro merito; se poi perdoni loro, è giustizia, perché ciò conviene alla tua bontà".
4. Sebbene la giustizia riguardi l'operazione, non per questo, tuttavia, si esclude che si identifichi con l'essenza di Dio, perché anche ciò che appartiene all'essenza di una cosa può essere principio di azione. Ma il bene non riguarda soltanto l'atto, perché una cosa si dice che è buona non solo in quanto agisce, ma anche in quanto nella sua essenza è perfetta. E per questo motivo nel luogo citato si dice che il concetto di bene sta al concetto di giusto, come il genere alla specie.

ARTICOLO 2

Se la giustizia di Dio sia verità

SEMBRA che la giustizia di Dio non sia verità. Infatti:
1. La giustizia è nella volontà; poiché, come afferma S. Anselmo, essa è la rettitudine della volontà. La verità, invece, secondo il Filosofo, risiede nell'intelligenza. Dunque la giustizia non ha a che fare con la verità.
2. La verità, secondo il Filosofo, è una virtù distinta dalla giustizia. Dunque la verità non rientra nella nozione di giustizia.

IN CONTRARIO: Nei Salmi si legge: "La misericordia e la verità si sono incontrate": e qui verità sta in luogo di giustizia.

RISPONDO: La verità, come già abbiamo detto, consiste nell'adeguazione tra l'intelletto e le cose. Ora, quell'intelletto, che è causa delle cose, è per esse regola e misura: avviene il contrario invece per l'intelletto che trae la conoscenza dalle cose. Quando, dunque, le cose sono misura e regola dell'intelletto, la verità consiste nel fatto, che l'intelletto si adegua alle cose, come accade in noi: perché a seconda che la cosa è o non è, le nostre opinioni e le nostre parole sono vere o false. Ma quando l'intelletto è regola e misura delle cose, allora la verità consiste nel fatto, che le cose si adeguano all'intelletto; come di un artista si dice che fa un'opera vera, quando essa concorda con l'arte. Ora, come le opere artistiche stanno all'arte, così le opere giuste stanno alla legge alla quale si uniformano. Dunque la giustizia di Dio, la quale costituisce nelle cose un ordine conforme al piano della sua sapienza, che è la sua legge, a ragione si chiama verità. Così, anche per gli uomini si usa parlare di verità della giustizia.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La giustizia è nella ragione o nell'intelletto, se si guarda alla legge che la regola; mentre, se si guarda alla risoluzione che regola le opere in conformità alla legge, è nella volontà.
2. La verità, della quale parla il Filosofo, è quella virtù particolare per cui un uomo si mostra nelle parole e nei fatti tale quale è effettivamente. Si tratta quindi di concordanza tra la manifestazione e la cosa manifestata, non d'una conformità tra l'effetto e la causa o regola, come si è detto della verità della giustizia.

ARTICOLO 3

Se la misericordia si addica a Dio

SEMBRA che la misericordia non si addica a Dio. Infatti:
1. La misericordia è una specie di tristezza, come dice il Damasceno. Ma la tristezza non c'è in Dio. Dunque la misericordia non si addice a Dio.
2. La misericordia è un rilassamento della giustizia. Ora, Dio non può tralasciare ciò che appartiene alla sua giustizia. Scrive, infatti, l'Apostolo: "Se noi non siamo fedeli, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso": ma rinnegherebbe se stesso, come osserva la Glossa, se smentisse le sue parole. Dunque la misericordia non si addice a Dio.

IN CONTRARIO: Nei Salmi sta scritto: "Clemente e misericordioso è il Signore".

RISPONDO: La misericordia va attribuita a Dio in modo principalissimo; non per quanto ha di sentimento o passione, ma per gli effetti (che produce). A chiarimento di questo si osservi che misericordioso si dice chi ha un cuore pieno di commiserazione, perché alla vista delle altrui miserie è preso da tristezza, come se si trattasse della sua propria miseria. E da ciò proviene che egli si adoperi a rimuovere l'altrui miseria come la sua propria miseria. E questo è l'effetto della misericordia. Rattristarsi, dunque, della miseria altrui non si addice a Dio, ma ben gli conviene, in grado sommo, di liberare dalla miseria, intendendo per miseria qualsiasi difetto. Ora, i difetti non si tolgono se non con qualche perfezione o qualche bene: ma la prima fonte di ogni bontà è Dio, come sopra fu dimostrato.
Però bisogna considerare che comunicare le perfezioni alle cose appartiene e alla bontà, e alla giustizia, e alla liberalità, e alla misericordia di Dio; ma per ragioni diverse. Il fatto di comunicare le perfezioni, considerato in modo assoluto, appartiene alla bontà, come sopra si è dimostrato. Ma se si vuole notare che Dio comunica alle cose delle perfezioni ad esse proporzionate, allora appartiene alla giustizia, come si è dimostrato. E se si vuole mettere in evidenza che egli concede delle perfezioni alle cose non per proprio vantaggio, ma unicamente spinto dalla sua bontà, abbiamo la liberalità. Se poi consideriamo che le perfezioni concesse da Dio eliminano delle deficienze, abbiamo la misericordia.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'obiezione considera la misericordia (soltanto) come sentimento o passione.
2. Quando Dio opera con misericordia, non agisce contro la sua giustizia, ma compie qualche cosa oltre i limiti della giustizia: precisamente come se uno ad un tale a cui sono dovuti cento denari, dà del suo duecento denari; costui non agisce contro giustizia, ma opera con liberalità, o con misericordia. Così pure se uno perdona l'offesa commessa contro di lui. Perché chi perdona, in qualche maniera dà: tant'è vero che l'Apostolo chiama il perdono una donazione: "Donatevi vicendevolmente, come Dio ha donato a voi in Cristo". Da ciò appare chiaro che la misericordia non toglie via la giustizia; ma è in qualche modo coronamento della giustizia. Per questo dice S. Giacomo che "la misericordia trionfa sul giudizio".

ARTICOLO 4

Se in tutte le opere di Dio ci sia misericordia e giustizia

SEMBRA che non in tutte le opere di Dio ci sia misericordia e giustizia. Infatti:
1. Alcune opere di Dio sono attribuite alla misericordia, come la giustificazione del peccatore; ed altre sono attribuite alla giustizia, come la dannazione degli empi. Per cui dice S. Giacomo: "Il giudizio sarà senza misericordia per chi non avrà usato misericordia". Dunque non in ogni opera di Dio si manifesta la giustizia e la misericordia.
2. L'Apostolo attribuisce la conversione dei Giudei alla giustizia ed alla verità, quella, invece, dei Gentili alla misericordia. Dunque non in tutte le opere di Dio si trova la misericordia e la giustizia.
3. Molti giusti in questo mondo sono tribolati; ora, questa è una cosa ingiusta. Non è dunque vero che in tutte le opere di Dio c'è giustizia e misericordia.
4. Proprio della giustizia è rendere quello che è dovuto, e proprio della misericordia sollevare (l'altrui) miseria; e così tanto la giustizia, quanto la misericordia nella loro opera presuppongono un qualche cosa. Ora, la creazione non presuppone niente. Dunque nell'opera della creazione non c'è né misericordia, né giustizia.

IN CONTRARIO: Nei Salmi sta scritto: "Le vie tutte del Signore sono misericordia e verità".

RISPONDO: È necessario affermare che in ogni opera di Dio si trovano la misericordia e la verità; purché si intenda la misericordia come eliminazione di una deficienza qualsiasi, per quanto non ogni deficienza propriamente possa dirsi miseria, ma soltanto le deficienze della creatura ragionevole, alla quale spetta essere felice: infatti, la miseria è il contrario della felicità.
La ragione poi di tale necessità sta in questo, che il debito soddisfatto dalla divina giustizia, o è cosa dovuta a Dio (stesso), oppure alla creatura: e nessuna delle due cose può mancare in qualsiasi opera di Dio. Infatti Dio non può fare cosa alcuna che non sia conforme alla sua sapienza e bontà; e in tal senso, come abbiamo detto, le cose sono a Dio dovute. Così pure, qualunque cosa Dio faccia nel creato, la fa secondo l'ordine e la proporzione convenienti, e in ciò consiste appunto la nozione di giustizia. E così è necessario che in ogni opera di Dio ci sia la giustizia.
Ogni opera della divina giustizia, poi, presuppone sempre l'opera della misericordia, ed in essa si fonda. Infatti niente è dovuto a una creatura se non in ragione di qualche perfezione che in essa preesiste o che si considera come anteriore; e se a sua volta tale perfezione è dovuta alla creatura, ciò è in forza di un'altra cosa antecedente. E siccome non si può procedere all'infinito, bisogna arrivare ad un qualche cosa che dipenda unicamente dalla bontà divina che è l'ultimo fine (di tutte le cose). Come se dicessimo che avere le mani è dovuto all'uomo a motivo dell'anima ragionevole; e che gli è dovuta un'anima ragionevole perché uomo, e che è uomo a causa della divina bontà. E così in ogni opera di Dio appare la misericordia, come sua prima radice. E l'influsso di essa permane in tutte le cose che vengono dopo, e vi opera con tanta maggiore efficacia perché le cause primarie hanno influssi più notevoli delle cause seconde. E per questo stesso motivo, anche quello che è dovuto ad una creatura, Dio, per l'abbondanza della sua bontà, lo dispensa con maggiore larghezza che non lo richieda la proporzione della cosa. Ed invero, quel che basterebbe per conservare l'ordine della giustizia è sempre meno di quello che conferisce la divina bontà, la quale supera ogni esigenza della creatura.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Alcune opere si attribuiscono alla giustizia e altre alla misericordia, perché in alcune appare più evidente la giustizia e in altre la misericordia. Perfino nella dannazione dei reprobi appare la misericordia, non già sotto forma di indulgenza, ma per una certa clemenza, perché punisce meno di quanto sarebbe dovuto. E così nella giustificazione del peccatore si manifesta la giustizia, perchè Dio perdona le colpe in vista dell'amore, che pure egli stesso infonde misericordiosamente, come si legge della Maddalena: "Le sono rimessi i suoi molti peccati, perché molto ha amato".
2. La giustizia e la misericordia appaiono nella conversione dei Giudei e in quella dei Gentili; solo che nella conversione dei Giudei figura un aspetto di giustizia che non figura nella conversione dei Gentili, come, p. es., l'essere stati salvati a motivo delle promesse fatte ai loro Padri.
3. Anche nel fatto che i giusti sono puniti in questo mondo appare la giustizia e la misericordia, in quanto che per mezzo di tali afflizioni si purificano di certi difetti, e distaccandosi dall'affetto delle cose terrene si innalzano di più a Dio, secondo il detto di S. Gregorio: "I mali che ci opprimono in questo mondo, ci spingono ad andare a Dio".
4. Sebbene la creazione non presupponga niente da parte del creato, presuppone però qualche cosa nel pensiero di Dio. E nel fatto che le cose vengono all'esistenza conformi alla sapienza e alla bontà divina troviamo anche in esse la ragione di giustizia. E in senso meno rigoroso vi troviamo la ragione di misericordia in quanto le cose passano dal non essere all'essere.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:08
Questione 22

La provvidenza di Dio

Dopo aver considerato ciò che appartiene alla volontà in modo assoluto, bisogna procedere allo studio di quel che riguarda insieme intelletto e volontà. Tale è la provvidenza rispetto a tutte le creature; e in modo speciale, relativamente agli uomini, la predestinazione, la riprovazione, e quanto ad esse è connesso in ordine alla salvezza eterna. Ed invero, anche nell'etica, dopo le virtù morali, si tratta della prudenza, alla quale appartiene la provvidenza.
Circa, poi, la provvidenza di Dio si pongono quattro quesiti: 1. Se in Dio possa esserci provvidenza; 2. Se tutte le cose siano soggette alla divina provvidenza; 3. Se la divina provvidenza si occupi immediatamente di tutte le cose; 4. Se la provvidenza divina renda necessario tutto quello cui provvede.

ARTICOLO 1

Se in Dio possa esserci provvidenza

SEMBRA che in Dio non possa esserci provvidenza. Infatti:
1. La provvidenza, secondo Cicerone, è una parte della prudenza. La prudenza, poi, essendo, al dire del Filosofo, la virtù del ben consigliarsi, non può appartenere a Dio, il quale, siccome non è soggetto a dubbi, non ha bisogno di consigliarsi. Dunque in Dio non può esserci provvidenza.
2. Tutto ciò che è in Dio, è eterno. Ora, la provvidenza non è qualcosa di eterno, perché riguarda cose esistenti che, secondo S. Giovanni Damasceno, non sono eterne. Dunque la provvidenza non compete a Dio.
3. In Dio non vi può essere niente di composto. Ora, la provvidenza sembra che sia qualche cosa di composto, giacché include in sé volontà e intelligenza. Dunque non si dà provvidenza in Dio.

IN CONTRARIO: Nel libro della Sapienza sta scritto: "La tua provvidenza, o Padre, governa tutte le cose".

RISPONDO: È necessario porre in Dio la provvidenza. Infatti, tutto il bene che si trova nelle cose, è creato da Dio, come abbiamo dimostrato altrove. Ora, nelle cose si trova il bene non solo quanto alla loro sostanza, ma anche quanto al loro ordinamento verso il fine, particolarmente verso il fine ultimo, che è, come si è visto sopra, la divina bontà. Quindi quest'ordine esistente nelle cose create è causato da Dio. Siccome, poi, Dio è causa delle cose mediante l'intelletto, e quindi la ragione di ogni sua opera preesiste necessariamente in lui, come appare evidente dal già detto, ne viene di necessità che l'ordinamento delle cose al loro fine preesiste nella mente divina. Ora, la provvidenza consiste precisamente in questo predisporre gli esseri al loro fine. Difatti essa è la parte principale della prudenza, a cui sono subordinate le altre due parti, cioè la memoria del passato e l'intelligenza del presente; perché dal ricordo del passato e dalla conoscenza del presente noi congetturiamo quel che dobbiamo provvedere per il futuro. Ora, è proprio della prudenza, a detta del Filosofo, ordinare tutte le cose al loro fine; sia rispetto a se stessi, e così diciamo prudente un uomo quando indirizza bene tutti i suoi atti al fine della sua vita; sia riguardo ai sottoposti, tanto nella famiglia che nella città o nel regno. In questo senso il Vangelo parla del "servo fedele e prudente, che il padrone ha messo capo dei suoi familiari". Ora, (soltanto) secondo, quest'ultima accezione la prudenza o provvidenza può convenire a Dio; infatti in Dio stesso nulla vi è che possa essere indirizzato verso un fine, essendo egli stesso l'ultimo fine. E proprio questa preordinazione delle cose al loro fine, in Dio si chiama provvidenza. Per tal motivo Boezio afferma che "la provvidenza è quella stessa divina ragione, la quale, riposta nel sommo principe dell'universo, dispone tutte le cose". E si ha tale disposizione tanto nell'ordinamento delle cose al loro fine, quanto nell'ordinamento delle parti rispetto al tutto.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La prudenza, secondo il Filosofo, ha come atto suo proprio decidere (o comandare) quelle cose circa le quali rettamente l'eubulia consiglia e la sinesi giudica. Perciò, sebbene a Dio non convenga il consigliarsi, in quanto il consiglio dice indagine su cose dubbie; nondimeno a Dio compete di comandare l'ordinamento di quelle cose, delle quali possiede un giusto concetto, secondo il detto del Salmo: "Pose una legge, che non passerà". E in questo senso la prudenza e la provvidenza convengono a Dio. - Sebbene si possa anche dire che il piano stesso delle cose da farsi, in Dio si chiama consiglio, non a motivo di una ricerca, ma per la certezza della conoscenza, alla quale arrivano dopo le indagini coloro che deliberano. Infatti sta scritto: "Colui che tutto opera secondo il consiglio della propria volontà".
2. Il provvedere (all'universo) comprende due cose, cioè: l'idea o il piano, che si chiama provvidenza o anche disposizione, e l'esecuzione del piano, che si chiama governo. La prima è eterna, la seconda legata al tempo.
3. La provvidenza è atto dell'intelletto, ma presuppone la volizione del fine, perché nessuno decide di compiere delle azioni per un fine, se prima non vuole il fine. Tanto è vero che la prudenza presuppone le virtù morali, le quali, come dice Aristotele, hanno il compito di indirizzare l'appetito verso il bene. E nondimeno, anche se la provvidenza riguardasse ugualmente volontà e intelligenza divina, non ne scapiterebbe la divina semplicità, perché, come sopra fu detto, volontà e intelligenza in Dio sono identica cosa.

ARTICOLO 2

Se tutte le cose siano soggette alla divina provvidenza

SEMBRA che non tutte le cose siano soggette alla divina provvidenza. Infatti:
1. Tutto ciò che è predisposto non è fortuito. Se dunque tutte le cose sono state predisposte da Dio, niente vi sarà di fortuito; e così scompaiono il caso e la fortuna. Ciò che è contro l'opinione comune.
2. Ogni saggio provveditore elimina, più che può, dalle cose di cui ha la cura, le deficienze ed i mali. Ora, vediamo che nelle cose ci sono tanti mali. Dunque, o Dio non può impedirli; e allora non è onnipotente; o non ha cura di tutte le cose.
3. Quello che accade per necessità non richiede provvidenza o prudenza. Di qui l'affermazione del Filosofo, che la prudenza "è la saggia disposizione delle cose contingenti, per le quali vi è deliberazione e scelta". Ma siccome molte cose avvengono per necessità, non tutto è soggetto alla divina provvidenza.
4. Chi è abbandonato a se stesso, non soggiace alla provvidenza di alcun governante. Ora, gli uomini sono da Dio abbandonati a se stessi, secondo il detto dell'Ecclesiastico: "Dio da principio creò l'uomo e lo lasciò in mano del suo arbitrio"; e in modo speciale i malvagi "li abbandonò alla durezza del loro cuore". Dunque non tutte le cose soggiacciono alla divina provvidenza.
5. L'Apostolo scrive che "Dio non si dà pensiero dei buoi": e per lo stesso motivo neppure di tutte le altre creature irragionevoli. Dunque non tutte le cose sono soggette alla provvidenza di Dio.

IN CONTRARIO: Nella Sacra Scrittura leggiamo a proposito della divina sapienza: "si estende con potenza da un'estremità all'altra (del mondo), e tutto governa con bontà".

RISPONDO: Alcuni hanno negato totalmente la provvidenza, come Democrito e gli Epicurei, i quali affermarono che il mondo è produzione del caso. Altri hanno detto che soltanto gli esseri incorruttibili dipendono dalla provvidenza; quelli corruttibili, invece, (ne dipendono) non quanto agli individui, ma quanto alle specie, perché sotto questo aspetto sono incorruttibili. In persona di costoro così parlano gli amici di Giobbe: "La nube è per lui un nascondiglio, e attorno ai cardini dei cieli egli passeggia, e non si occupa delle cose nostre". Ma da questa condizione degli esseri corruttibili Rabbi Mosè eccettuò gli uomini, per lo splendore dell'intelligenza, che essi partecipano: quanto agli altri individui corruttibili, seguì l'opinione degli altri filosofi.
Ma è necessario dire che tutte le cose, non solo considerate in generale, ma anche individualmente, sottostanno alla divina provvidenza. Eccone la dimostrazione. Siccome ogni agente opera per un fine, tanto si estende l'ordinamento degli effetti al fine, quanto si estende la causalità dell'agente primo. Se, infatti, nell'operare di qualche agente accade che qualche cosa avvenga all'infuori dell'ordinamento al fine, il motivo ne è che tale effetto deriva da qualche altra causa estranea all'intenzione dell'agente. Ora, la causalità di Dio, il quale è l'agente primo, si estende a tutti gli esseri, non solo quanto ai principi della specie, ma anche quanto ai principi individuali, sia delle cose incorruttibili, sia delle cose corruttibili. Quindi è necessario che tutto ciò che in qualsiasi modo ha l'essere sia da Dio ordinato al suo fine, secondo il detto dell'Apostolo: "Ciò che è da Dio, è ordinato". Siccome, dunque, la provvidenza di Dio non è altro che l'ordinamento delle cose verso il loro fine, come già è stato detto, è necessario che tutte le cose siano soggette alla divina provvidenza nella misura della loro partecipazione all'essere.
Bisogna anche notare, come sopra si è dimostrato, che Dio conosce tutti gli esseri, universali e particolari. E poiché la sua conoscenza sta in rapporto alle cose come le norme di un'arte stanno alle opere della medesima, come fu detto sopra, è necessario che tutte le cose sian sottoposte al suo ordinamento, come le opere di un'arte sono sottoposte alle norme dell'arte.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Una cosa è (parlare) della causa universale e altra cosa (parlare) della causa particolare. Si può infatti sfuggire all'ordinamento della causa particolare, ma non a quello della causa universale. Poiché niente può essere sottratto all'ordinamento di una causa particolare se non a motivo di una qualche altra causa particolare che la ostacola: p. es., la combustione del legno può essere impedita dall'azione dell'acqua. Ora, siccome tutte le cause particolari sono abbracciate dalla causa universale, è impossibile che qualsiasi effetto sfugga all'ordinamento della causa universale. Quindi, un effetto si dirà casuale e fortuito relativamente a una causa particolare, in quanto si sottrae all'ordinamento di essa; ma rispetto alla causa universale, dal cui ordinamento non può sottrarsi, bisogna dire che è previsto. Così, p. es., l'incontro di due servi, sebbene sia per loro casuale, è previsto dal loro padrone, il quale intenzionalmente li ha mandati in un medesimo posto, l'uno all'insaputa dell'altro.
2. Altro è il caso di chi ha la gestione di un bene particolare e altro quello del provveditore universale. Il primo elimina, per quanto può, ogni difetto da ciò che è affidato alle sue cure, mentre il provveditore universale, per assicurare il bene del tutto, permette qualche difetto in casi particolari. Perciò la distruzione e le deficienze delle cose create si possono dire contro la natura particolare di esse; ma rientrano nell'intenzione della natura universale, in quanto il difetto di una ridonda al bene di un'altra, o anche al bene di tutto l'universo; infatti, la distruzione di una cosa segna la generazione di un'altra, e così si conserva la specie. Essendo, dunque, Dio il provveditore universale di tutto l'essere, appartiene alla sua provvidenza il permettere alcuni difetti in qualche cosa particolare perché non sia impedito il bene perfetto dell'universo. Ed invero, se si impedissero tutti i mali, molti beni verrebbero a mancare all'universo; p. es., non vi sarebbe la vita del leone se non vi fosse la morte di altri animali; né vi sarebbe la pazienza dei martiri se non vi fosse la persecuzione dei tiranni. Perciò S. Agostino può dire: "L'onnipotente Iddio non lascerebbe trascorrere alcun male nelle sue opere se non fosse tanto potente e buono da trarre del bene anche dal male". - Quelli che sottrassero alla divina provvidenza gli esseri corruttibili, nei quali si riscontrano il caso e il male, pare siano stati spinti a questo dalle due difficoltà, ora risolte.
3. L'uomo non è l'autore della natura; ma si serve, a suo uso, delle cose naturali per la sua attività materiale e morale. Quindi la provvidenza umana non si estende alle cose necessarie, che provengono dalla natura; ad esse, invece, si estende la provvidenza di Dio, autore della natura. - Da questa difficoltà pare che siano stati mossi coloro che, come Democrito e gli altri antichi (filosofi) naturalisti, hanno sottratto alla divina provvidenza il corso delle cose naturali, attribuendolo alla necessità della materia.
4. Quando si legge che Dio abbandona l'uomo a se stesso non si intende escludere l'uomo dalla divina provvidenza; solo si vuole mostrare che non gli è stata prefissa una capacità operativa, determinata ad un solo modo di agire, come alle cose naturali, le quali non agiscono che sotto l'impulso di un altro, senza dirigersi da sé verso il loro fine, come fanno le creature ragionevoli mediante il libero arbitrio, in virtù del quale deliberano e scelgono. Perciò la Scrittura usa l'espressione "in mano del suo arbitrio". Ma poiché lo stesso atto del libero arbitrio si riconduce a Dio come alla sua causa, è necessario che anche ciò che si fa con libero arbitrio sia sottomesso alla divina provvidenza, perché la provvidenza dell'uomo è contenuta sotto la provvidenza di Dio, come una causa particolare sotto la causa umversale. - Agli uomini giusti poi Dio provvede in maniera più speciale che agli empi, in quanto non permette che ad essi accada qualche cosa che ostacoli definitivamente la loro salvezza: perché, come afferma l'Apostolo, "tutto coopera a bene per chi ama Dio". Degli empi, invece, si dice che li abbandona per il fatto che non li ritrae dal male morale. Ma non in modo tale che siano del tutto esclusi dalla sua provvidenza: perché se non fossero conservati dalla sua provvidenza, allora ricadrebbero nel nulla. - Pare che proprio da questa difficoltà sia stato mosso Cicerone a sottrarre alla divina provvidenza le cose umane, intorno alle quali noi ci consultiamo.
5. Poiché la creatura ragionevole, per il libero arbitrio, ha il dominio dei propri atti, come già si disse, è soggetta alla divina provvidenza in un modo tutto speciale; cioè le viene imputato a colpa o a merito quello che fa, e in cambio ne riceve pena o premio. Ora, l'Apostolo nega a Dio la cura dei buoi soltanto sotto questo aspetto, ma non nel senso che gli individui delle creature irragionevoli non siano sottoposti alla provvidenza di Dio, come credeva Rabbi Mosè.

ARTICOLO 3

Se Dio provveda direttamente a tutte le cose

SEMBRA che Dio non provveda direttamente a tutte le cose. Infatti:
1. A Dio bisogna attribuire tutto ciò che conferisce onore e dignità. Ora, è proprio della dignità di un re avere dei ministri per mezzo dei quali provvedere ai propri sudditi. Dunque con maggior ragione Dio non provvede direttamente a tutti gli esseri.
2. Alla provvidenza spetta ordinare le cose al loro fine. Ma il fine di ciascuna cosa non è che la sua perfezione ed il suo bene. D'altra parte ogni causa è capace di portare il suo effetto al bene. Perciò ogni causa agente viene a compiere gli (stessi) effetti della provvidenza. Se dunque Dio provvedesse immediatamente a tutti gli esseri, sarebbero eliminate tutte le cause seconde.
3. S. Agostino, come anche il Filosofo, parlando di cose vili afferma che "è meglio ignorarle, che conoscerle". Ma, a Dio bisogna attribuire tutto ciò che è meglio. Dunque Dio non ha l'immediata provvidenza delle cose vili e malvagie.

IN CONTRARIO: Sta scritto: "Ha forse costituito un altro a capo della terra? ovvero ha affidato a un altro l'orbe ch'ei fabbricò?". E S. Gregorio commenta: "Da se stesso governa il mondo che da se stesso ha creato".

RISPONDO: La provvidenza comprende due cose: cioè il piano, l'ordinamento degli esseri verso il loro fine, e l'esecuzione di questo piano, la quale si chiama governo. Per quanto riguarda la prima cosa, Dio provvede immediatamente a tutto. Perché nella sua mente ha l'idea di tutti gli esseri, anche dei più piccoli: e a tutte le cause che ha prestabilito per produrre degli effetti, ha dato capacità di produrre quei dati effetti. Perciò è necessario che abbia avuto in antecedenza nella sua mente (tutto) l'ordine di tali effetti. - Per quanto riguarda la seconda cosa, (cioè il governo) vi sono alcuni intermediari della divina provvidenza. Perché essa governa gli esseri inferiori mediante gli esseri superiori, non già per difetto di potenza, ma per sovrabbondanza di bontà, perché vuole comunicare anche alle creature la dignità di cause.
Con ciò viene scartata l'opinione di Platone, il quale, come racconta S. Gregorio di Nissa, poneva una triplice provvidenza. La prima sarebbe stata propria del Dio supremo, che di preferenza e in modo speciale avrebbe provveduto alle cose spirituali, e secondariamente a tutto il mondo, interessandosi dei generi, delle specie e delle cause universali. La seconda provvidenza avrebbe riguardato gli individui delle cose (corporee) soggette alla generazione e alla corruzione: e questa (Platone) l'attribuiva agli dei che percorrono i cieli, cioè alle sostanze separate, le quali muovono con moto circolare i corpi celesti. La terza, poi, sarebbe stata la provvidenza delle cose umane, che egli attribuiva ai demoni, che i Platonici ponevano di mezzo tra noi e gli dei, come narra S. Agostino.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Avere dei ministri come esecutori della propria provvidenza, fa parte della dignità di un re; ma che egli non abbia in sé la nozione esatta di ciò che i suoi ministri debbono eseguire, è un indice di impotenza. Infatti, ogni scienza operativa è tanto più perfetta, quanto più scende ai particolari, in cui si produce l'azione.
2. Per il fatto che Dio ha immediatamente cura di tutte le cose, non si eliminano le cause seconde, le quali sono le esecutrici del piano divino, come appare chiaro da ciò che si è detto sopra.
3. Per noi è meglio ignorare certe cose cattive e basse, in quanto ci impediscono di considerare le cose migliori, giacché non ci è possibile pensare molte cose insieme, e anche perché il pensiero delle cose malvagie talora porta al male la nostra volontà. Ma non è così per Dio, il quale con un solo sguardo vede insieme tutte le cose, e la cui volontà non può volgersi al male.

ARTICOLO 4

Se la provvidenza renda necessarie le cose governate

SEMBRA che la divina provvidenza renda necessarie le cose governate. Infatti:
1. Ogni effetto che abbia una sua causa immediata determinante, la quale attualmente esiste o è esistita e dalla quale deriva per necessità, è un effetto necessario, come dimostra il Filosofo. Ora, la provvidenza di Dio, essendo eterna, preesiste; e i suoi effetti ne derivano necessariarnente; perché la provvidenza divina non può essere frustrata. Dunque la divina provvidenza rende necessarie le cose governate.
2. Ogni provveditore cerca di consolidare l'opera sua, più che può, perché essa non venga meno. Ora, Dio è potente al sommo. Dunque alle cose che egli governa impone la stabilità di ciò che è necessario.
3. Boezio dice che il fato, "movendo dai principi dell'immutabile provvidenza, tiene stretti gli atti e le fortune degli uomini nell'indissolubile concatenazione delle cause". Sembra, dunque, che la provvidenza renda necessarie le cose.

IN CONTRARIO: Dionigi dice che "non è proprio della provvidenza distruggere la natura". Ora, alcune cose sono contingenti per natura. Dunque la divina provvidenza non può dare alle cose la necessità, privandole della loro contingenza.

RISPONDO: La divina provvidenza rende necessarie alcune cose, ma non tutte, come alcuni hanno creduto. Alla provvidenza, infatti, appartiene indirizzare le cose al loro fine. Ora, dopo la bontà divina, la quale è il fine trascendente delle cose, il bene principale in esse immanente è la perfezione dell'universo, la quale non esisterebbe affatto se nelle cose non si trovassero tutti i gradi dell'essere. Quindi alla divina provvidenza spetta produrre tutte le gradazioni dell'ente. Perciò ad alcuni effetti ha prestabilito cause necessarie, affinché avvenissero necessariamente; ad altri, invece, ha prefisso cause contingenti, perché potessero avvenire in modo contingente, secondo la condizione delle loro cause immediate.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Effetto della divina provvidenza non è soltanto che una cosa avvenga in un modo qualsiasi; ma che avvenga in modo contingente, o necessario. Perciò quello che la divina provvidenza dispone che avvenga infallibilmente e necessariamente, avviene infallibilmente e necessariamente; quello che il piano della provvidenza divina esige che avvenga in modo contingente, avviene in modo contingente.
2. La stabilità e la certezza dell'ordine della divina provvidenza consiste proprio in questo, che le cose che Dio governa avvengano tutte nel modo da lui prefisso, cioè in modo necessario o contingente.
3. Quell'immutabilità e indissolubilità, a cui accenna Boezio, si riferisce alla sicurezza della provvidenza, la quale non può fallire nei suoi effetti, e neppure nel modo di accadere da essa stabilito: ma non si riferisce alla necessità degli effetti. Dobbiamo anche considerare che necessario e contingente sono attributi propri dell'ente, in quanto ente. Quindi la contingenza e la necessità cadono sotto la provvidenza di Dio, il quale è il datore universale di tutto l'essere; e non sotto quella di cause particolari.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:09
Questione 23

La predestinazione

Dopo lo studio della provvidenza divina, bisogna trattare della predestinazione e del libro della vita.
Intorno alla predestinazione si pongono otto quesiti: 1. Se spetti a Dio la predestinazione; 2. Che cosa sia la predestinazione e se ponga qualche cosa nel predestinato; 3. Se a Dio competa la riprovazione di alcuni uomini; 4. Confronto tra predestinazione ed elezione; se, cioè, i predestinati siano (anche) eletti; 5. Se i meriti siano la causa o il motivo della predestinazione, della riprovazione, o dell'elezione; 6. Certezza della predestinazione; se, cioè, i predestinati si salvino infallibilmente; 7. Se il numero dei predestinati sia certo; 8. Se giovino alla predestinazione le preghiere dei santi.

ARTICOLO 1

Se gli uomini siano predestinati da Dio

SEMBRA che gli uomini non siano predestinati da Dio. Infatti:
1. Scrive il Damasceno: "Bisogna ammettere che Dio conosce in precedenza tutte le cose, ma non tutte le predestina. Ed infatti conosce in precedenza tutto quello che è in noi, ma non lo predetermina". Ora, esistono in noi meriti e demeriti in quanto siamo, per il libero arbitrio, padroni dei nostri atti. Per conseguenza ciò che riguarda il merito ed il demerito non è predestinato da Dio. E così si esclude la predestinazione degli uomini.
2. Tutte le creature, abbiamo detto sopra, sono dirette dalla divina provvidenza al loro fine. Ora, delle altre creature non si dice che sono predestinate da Dio. Dunque neppure degli uomini.
3. Gli angeli sono capaci di beatitudine, come gli uomini. Ora, gli angeli non hanno bisogno di predestinazione non avendo mai conosciuto miseria; mentre la predestinazione, secondo S. Agostino, è "il proposito di prestare soccorso". Dunque gli uomini non sono predestinati.
4. I beneflci conferiti da Dio agli uomini son rivelati ai santi dallo Spirito Santo, secondo quel detto dell'Apostolo: "Noi non lo spirito del mondo abbiamo ricevuto, ma lo spirito che viene da Dio, affinché conosciamo le cose da Dio a noi donate". Se dunque gli uomini fossero predestinati da Dio, la predestinazione, essendo un beneficio di Dio, sarebbe conosciuta dai predestinati. E questo è evidentemente falso.

IN CONTRARIO: S. Paolo dice: "quelli che ha predestinati li ha anche chiamati".

RISPONDO: A Dio spetta predestinare gli uomini. Tutto, infatti, è sottoposto alla divina provvidenza come si è dimostrato. Appartiene poi alla provvidenza, come si è visto, indirizzare le cose al fine. E il fine, a cui le cose sono ordinate da Dio, è duplice. Uno, che sorpassa i limiti e la capacità di ogni natura creata, e tale fine è la vita eterna consistente nella visione di Dio, che trascende la natura di ogni essere creato, come fu già dimostrato. L'altro fine, invece, è proporzionato agli esseri creati; e cioè ogni cosa creata lo può raggiungere con le sue capacità naturali. Ora, quando (si tratta di un fine) che un essere non può raggiungere con le forze naturali, è necessario che un altro ve lo porti, come la freccia è lanciata verso il bersaglio dall'arciere. Per tal motivo la creatura ragionevole, capace della vita eterna, è, strettamente parlando, condotta e come trasferita in essa da Dio. E il disegno di questo trasferimento preesiste in Dio, come in lui preesiste il piano che dispone tutti gli esseri verso il loro fine, piano che abbiamo detto essere la provvidenza. D'altra parte, l'idea di una cosa da farsi, esistente nella mente del suo autore, è una certa preesistenza in lui della cosa stessa. Perciò il disegno della predetta trasmissione o trasferimento della creatura ragionevole al fine della vita eterna, si chiama predestinazione: infatti destinare vuol dire mandare. E così è chiaro che la predestinazione, quanto al suo oggetto, è una parte della provvidenza.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il Damasceno chiama predeterminazione il render necessaria una cosa; alla maniera degli esseri corporei che son determinati a un solo effetto. Come appare chiaro da quello che aggiunge: "(Dio) non vuole il male, né costringe alla virtù". Quindi non viene negata la predestinazione.
2. Le creature irragionevoli non son capaci di quel fine che oltrepassa le (stesse) capacità della natura umana. Quindi, in linguaggio proprio, non si possono dire predestinate, ancorché talora si adoperi abusivamente il termine predestinazione a proposito di qualsiasi altro fine.
3. Gli angeli abbisognano di predestinazione, come gli uomini, sebbene non si siano mai trovati in una condizione di miseria. Difatti il movimento non si specifica dal punto di partenza, ma dal punto d'arrivo: così poco importa, rispetto all'imbiancatura, che l'oggetto imbiancato prima fosse nero, o giallo o rosso. Ugualmente, poco importa, rispetto alla predestinazione, che uno sia predestinato alla vita eterna dallo stato di miseria o da un altro stato. - Si potrebbe anche rispondere che il conferimento di un bene che supera le facoltà di colui al quale viene concesso, è (sempre) effetto della misericordia, come già vedemmo.
4. Anche se ad alcuni, per speciale privilegio, viene rivelata la propria predestinazione, non è tuttavia conveniente che sia rivelata a tutti, perché altrimenti quelli che non sono predestinati, si darebbero alla disperazione; e la sicurezza dei predestinati finirebbe col degenerare in negligenza.

ARTICOLO 2

Se la predestinazione risieda nei predestinati

SEMBRA che la predestinazione risieda nei predestinati. Infatti:
1. L'attività (di un agente) implica la passività (di un paziente). Se, dunque, la predestinazione in Dio è all'attivo, bisogna che si trovi al passivo nei predestinati.
2. Origene, commentando le parole di S. Paolo: "Colui che è stato predestinato, ecc.", dice: "La predestinazione riguarda un soggetto inesistente e la destinazione un soggetto esistente". Ma (giustamente) osserva S. Agostino: "Che cos'è la predestinazione se non la destinazione di qualcuno?". Dunque la predestinazione riguarda soltanto dei soggetti esistenti. E così presuppone qualche cosa nel predestinato.
3. La preparazione è qualche cosa nel soggetto che viene preparato. Ora, la predestinazione, secondo S. Agostino, è "la preparazione dei benefici di Dio". Dunque la predestinazione è qualche cosa nei predestinati.
4. Ciò che è temporale non entra nella definizione dell'eterno. Ora, la grazia, che è qualche cosa di temporale, si pone nella definizione della predestinazione, giacché si dice che la predestinazione "è una preparazione della grazia nel presente, e della gloria nel futuro". Dunque la predestinazione non è qualche cosa di eterno. E così non può essere in Dio, ma nei predestinati, perché tutto ciò che è in Dio, è eterno.

IN CONTRARIO: S. Agostino dice che la predestinazione è "la prescienza dei benefici di Dio". Ora, la prescienza non è nelle cose conosciute, ma in colui che conosce. Dunque neppure la predestinazione è nei predestinati, ma in colui che predestina.

RISPONDO: La predestinazione non si trova nei predestinati, ma solo in colui che predestina. Si è detto, infatti, che la predestinazione è una parte della provvidenza. Ora, la provvidenza non risiede nelle cose ad essa soggette; ma è un piano che si trova nella mente di colui che provvede, come abbiamo visto. L'esecuzione della provvidenza, che si chiama governo, presa in senso passivo, si trova nelle cose governate, e presa in senso attivo, si trova in colui che governa. È chiaro, dunque che la predestinazione è (soltanto) il disegno concepito dalla mente divina che mira a indirizzare alcuni alla salvezza eterna. L'esecuzione poi di questo disegno si trova al passivo nei predestinati; ma all'attivo si trova in Dio. E tale esecuzione della predestinazione si ha nella vocazione e nella glorificazione, secondo le parole dell'Apostolo: "Quelli che ha predestinati li ha anche chiamati; e quelli che ha chiamati li ha anche glorificati".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Le azioni materiali e transitive implicano di suo la passività, come riscaldare e segare; non però le azioni (immanenti) che restano nell'operante, come l'intendere ed il volere, come già dicemmo. E la predestinazione è una di tali azioni. Quindi essa non risiede nei predestinati. Ma (soltanto) la sua esecuzione, che si riversa sulle creature, pone in esse un qualche effetto.
2. Destinazione, talora significa il trasferimento concreto di un soggetto verso un termine, e in questo caso la destinazione non riguarda se non quello che esiste. Altre volte destinazione si prende per indicare il trasferimento ideato dalla mente, come quando si dice che noi destiniamo quello che con la mente fermamente proponiamo. In questo secondo senso si dice nei Maccabei che "Eleazaro destinò (cioè risolse) di non ammettere mai cose illecite per amore della vita". Intesa così, destinazione può riguardare ciò che non esiste. Tuttavia la predestinazione, in ragione dell'anteriorità che implica, può (sempre) riguardare ciò che non esiste in qualsiasi senso si prenda la parola destinazione.
3. Vi è una duplice preparazione. L'una del paziente per ricevere l'azione; e tale preparazione si trova in colui che è preparato. L'altra è la preparazione dell'agente, perché possa agire: questa è nell'agente. Ora, la predestinazione è una preparazione di questa seconda specie, nel senso che un agente di natura intellettuale si dice che si prepara ad agire in quanto concepisce innanzi l'opera che deve essere compiuta. In questo senso Dio si è preparato da tutta l'eternità a predestinare, ideando il disegno di indirizzare alcuni alla salvezza.
4. La grazia non entra nella definizione della predestinazione come se ne fosse elemento essenziale: ma perché la predestinazione importa una relazione alla grazia, come di causa all'effetto e di atto all'oggetto. Quindi non ne segue che la predestinazione sia qualche cosa di temporale.

ARTICOLO 3

Se Dio riprovi qualcuno

SEMBRA che Dio non riprovi nessuno. Infatti:
1. Non si può riprovare colui che si ama. Ora, Dio ama tutti gli uomini, come dice la Sacra Scrittura: "Ami invero gli esseri tutti e nulla abomini di quanto hai creato". Dunque Dio non riprova nessun uomo.
2. Se Dio riprovasse qualcuno bisognerebbe (concedere) che tra la riprovazione ed i reprobi ci fosse la stessa relazione che passa tra la predestinazione ed i predestinati. Ora, la predestinazione è causa della salvezza dei predestinati. Dunque la riprovazione sarà la causa della perdizione dei reprobi. Ma questo è falso, poiché, come dice la Scrittura: "La tua perdizione viene da te, o Israele; da me viene soltanto il tuo aiuto". Dunque Dio non riprova alcuno.
3. A nessuno si può imputare ciò che non può evitare. Ma se Dio riprovasse qualcuno, questi non potrebbe evitare la perdizione; perché sta scritto: "Considera le opere di Dio: come niuno possa raddrizzare ciò che egli disprezzò". Non si potrebbe dunque imputare agli uomini se vanno perduti. E questo è falso. Dunque Dio non riprova alcuno.

IN CONTRARIO: Dice la Sacra Scrittura: "Io ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù".

RISPONDO: Dio riprova alcuni. Infatti abbiamo già detto che la predestinazione è una parte della provvidenza. Si è anche dimostrato che la provvidenza può ragionevolmente permettere qualche deficienza nelle cose ad essa sottoposte. Dunque, siccome gli uomini vengono indirizzati alla vita eterna dalla provvidenza divina, appartiene ad essa il permettere che alcuni manchino di raggiungere questo fine. E ciò si dice riprovare.
Quindi come la predestinazione è parte della provvidenza relativamente a coloro che da Dio vengono ordinati alta salvezza eterna; così la riprovazione è parte della divina provvidenza rispetto a coloro che non raggiungono tale fine. Quindi la riprovazione non dice soltanto prescienza: ma vi aggiunge concettualmente qualche cosa, come abbiamo già visto per la provvidenza. Difatti, come la predestinazione include la volontà di conferire la grazia e la gloria, così la riprovazione include la volontà di permettere che qualcuno cada nella colpa, e (la volontà) di infliggere la pena della dannazione per il peccato.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Dio ama tutti gli uomini, anzi ama tutte le creature, in quanto a tutti gli esseri vuole del bene: non a tutti però vuole ogni bene. Perciò quando ad alcuni non vuole il bene della vita eterna, si dice che li ha in odio, o che li riprova.
2. Quanto al modo di causare, la riprovazione si comporta altrimenti dalla predestinazione. La predestinazione, infatti, è causa tanto di ciò che è atteso dai predestinati nella vita futura, cioè della gloria, quanto di ciò che da essi è percepito nel presente, cioè della grazia. La riprovazione invece non è causa di ciò che si verifica nella vita presente, cioè della colpa; ma solo causa dell'abbandono da parte di Dio. È però causa di quel che sarà inflitto nel futuro, cioè della pena eterna. Ma la colpa proviene dal libero arbitrio di colui che è riprovato ed abbandonato dalla grazia. E così si avvera il detto del profeta: "La tua perdizione proviene da te, o Israele".
3. La riprovazione di Dio non riduce affatto le capacità dei reprobi. Quindi, quando si dice che i reprobi non possono ottenere la grazia, si deve intendere non di una impossibilità assoluta, ma di una impossibilità ipotetica. In questo stesso senso abbiamo detto sopra che è necessario che il predestinato si salvi, cioè di necessità ipotetica, la quale non toglie il libero arbitrio. Perciò, sebbene uno che è riprovato da Dio non possa ottenere la grazia, tuttavia dipende dal suo libero arbitrio che cada in questo o in quel peccato. Giustamente dunque gli viene imputato a colpa.

ARTICOLO 4

Se i predestinati siano eletti da Dio

SEMBRA che i predestinati non siano eletti da Dio. Infatti:
1. Dionigi dice che Dio diffonde la sua bontà, come il sole spande la sua luce su tutti i corpi, senza scelta. Ora, la bontà di Dio viene comunicata in modo speciale ad alcuni con la partecipazione della grazia e della gloria. Dunque Dio senza scelta (o elezione) dà la grazia e la gloria. E questo è il compito della predestinazione.
2. L'elezione riguarda cose esistenti. Mentre la predestinazione, che risale all'eternità, concerne anche esseri che non esistono. Dunque alcuni sono predestinati senza elezione.
3. L'elezione indica una certa discriminazione, mentre Dio, al dire di S. Paolo, "vuole che tutti gli uomini siano salvati". Dunque la predestinazione, la quale preordina gli uomini alla salvezza, avviene senza elezione.

IN CONTRARIO: S. Paolo afferma: "Ci ha eletti in lui prima della creazione del mondo".

RISPONDO: La predestinazione concettualmente presuppone l'elezione, la quale presuppone l'amore. La ragione di ciò è che la predestinazione, come è stato detto, è parte della provvidenza. La provvidenza, poi, come anche la prudenza, è il piano esistente nell'intelletto che dispone la destinazione di alcuni esseri al fine, come sopra fu detto. Ora, non si comanda la destinazione di un qualche cosa al fine, se non precede la volizione del fine. Per cui la predestinazione di alcuni alla salvezza eterna presuppone, logicamente, che Dio voglia la loro salvezza. Ora, questa volontà comprende l'elezione e l'amore. L'amore, in quanto Dio vuole ad essi il bene che è la salvezza eterna, giacché, come abbiamo detto altrove, amare vuol dire volere un bene a qualcuno; l'elezione, poi, in quanto (Dio) vuole tale bene ad alcuni a preferenza di altri, giacché alcuni li riprova, come sopra si è detto.
Però l'elezione e l'amore in Dio hanno una disposizione diversa che in noi; perché in noi la volontà amando non crea il bene; ma dal bene che già esiste siamo incitati ad amare. E perciò scegliamo uno per amarlo, e quindi in noi l'elezione precede l'amore. In Dio è tutto il contrario. Infatti la sua volontà, con la quale amando vuole a qualcuno un bene, è causa che questo bene sia posseduto da costui a preferenza di altri. E così è evidente che l'amore è logicamente presupposto all'elezione, e l'elezione alla predestinazione. Per conseguenza tutti i predestinati sono amati ed eletti.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Se si considera genericamente l'effusione della bontà divina, Dio comunica la sua bontà senza elezione, perché non vi è un essere che non partecipi un qualche cosa della sua bontà, come si è già detto. Ma se si considera il dono di questo o di quel bene in particolare, allora Dio non distribuisce senza elezione, perché dà a certuni dei beni che non dà ad altri. E così nel conferimento della grazia e della gloria interviene l'elezione.
2. Quando la volontà di colui che sceglie è portata a eleggere dal bene preesistente nell'oggetto, allora l'elezione verte necessariamente su cose già esistenti; così avviene nella nostra scelta. Ma in Dio è ben altrimenti, come si è detto. E perciò, osserva S. Agostino, "Dio elegge cose non ancora esistenti, eppure chi sceglie non c'è pericolo che sbagli".
3. Come già abbiamo spiegato, Dio vuole che tutti gli uomini si salvino con volontà antecedente, che non è volontà assoluta, ma condizionata; non già con volontà conseguente, che è un volere in modo assoluto.

ARTICOLO 5

Se la previsione dei meriti sia la causa della predestinazione

SEMBRA che la previsione dei meriti sia la causa della predestinazione. Infatti:
1. Dice l'Apostolo: "Quelli che egli ha preconosciuto li ha anche predestinati". E la Glossa di S. Ambrogio commentando le parole: "Avrò misericordia di chi avrò misericordia", dice: "Concederò la mia misericordia a colui che io prevedo che tornerà a me con tutto il cuore". Dunque la previsione dei meriti è la causa della predestinazione.
2. La predestinazione divina essendo, come dice S. Agostino, "un proposito di misericordia", include il divino volere, che non può essere irragionevole. Ora, non vi può essere altra ragione della predestinazione all'infuori della previsione dei meriti. Dunque essa è la causa della predestinazione.
3. "In Dio", ci assicura l'Apostolo, "non c'è ingiustizia". Ora sembra cosa ingiusta dare a esseri uguali cose disuguali. E gli uomini sono precisamente tutti uguali, sia quanto alla natura, sia quanto al peccato originale: la loro disuguaglianza è soltanto rispetto al merito o demerito delle proprie azioni. Perciò Dio non prepara agli uomini un trattamento disuguale, predestinando e riprovando, se non a causa della previsione dei differenti meriti.

IN CONTRARIO: Dice l'Apostolo: "Egli ci salvò non per opere di giustizia fatte da noi, ma secondo la sua misericordia". Ora, come ci ha salvati, così aveva predestinato di salvarci. Non è dunque la previsione dei meriti la causa della predestinazione.

RISPONDO: La predestinazione include la volontà, come abbiamo visto; perciò bisogna ricercare la ragione della predestinazione come si ricerca quella della volontà divina. Ma abbiamo detto che non si può assegnare una causa alla divina volontà in quanto atto volitivo; ma le si può assegnare (se si considerano) gli oggetti della volizione, perché Dio può volere una cosa a causa di un'altra. Non c'è stato, dunque, nessuno così pazzo da dire che i meriti sono la causa della divina predestinazione cioè dell'atto del predestinante. La questione è un'altra, vale a dire, se la predestinazione, nei suoi effetti, abbia una causa. E questo è come domandarsi se Dio abbia preordinato di dare gli effetti della predestinazione ad uno in vista dei suoi meriti.
Ci furono, dunque, dei teologi i quali sostenevano che gli effetti della predestinazione per alcuni furono prestabiliti a causa di meriti acquistati in un'altra vita anteriore. Tale fu l'opinione di Origene, il quale riteneva che le anime umane fossero state create tutte (insieme) dapprincipio, e che secondo la diversità delle loro opere avrebbero sortito uno stato diverso in questo mondo, unite che fossero a dei corpi. Senonché, tale opinione è esclusa dall'Apostolo che (parlando di Esaù e di Giacobbe) dice: "non essendo ancora nati, e non avendo fatto nulla né di bene né di male non dalle opere, ma dal volere di chi chiama fu detto che il maggiore sarà servo del minore".
Ma ci furono altri i quali opinarono che motivo e causa degli effetti della predestinazione sono i meriti acquistati in questa vita. I Pelagiani, infatti, sostennero che l'inizio dell'agire meritorio proviene da noi, il compimento da Dio. E così accade che gli effetti della predestinazione siano concessi a uno piuttosto che ad un altro, perché il primo vi ha dato inizio preparandosi, e l'altro, no. - Ma contro questa opinione stanno le parole dell'Apostolo: "non siamo in grado di pensare alcunché da noi, come fosse da noi". Ora, non è possibile trovare un principio (operativo) anteriore al pensiero. Quindi non si può affermare che in noi esista quell'inizio che sia causa degli effetti della predestinazione.
Vi furono quindi altri i quali insegnarono, che la causa della predestinazione sono i meriti che seguono l'effetto della predestinazione, intendendo dire che Dio dà la grazia ad alcuno, ed ha preordinato di dargliela, appunto perché ha previsto che se ne servirà bene. È come se un re donasse ad un soldato un cavallo, sapendo che ne userà a dovere. - Ma costoro evidentemente hanno distinto ciò che viene dalla grazia da ciò che proviene dal libero arbitrio, come se un medesimo effetto non potesse derivare da entrambi. È chiaro infatti che quanto viene dalla grazia è un effetto della predestinazione: e quindi non può considerarsi come causa della predestinazione, essendo incluso nella predestinazione. Se dunque qualche altra cosa, da parte nostra, fosse la ragione della predestinazione, questo qualche cosa sarebbe estraneo all'effetto della predestinazione. Ora, non si può distinguere ciò che proviene dal libero arbitrio da ciò che proviene dalla predestinazione, come non si può mai distinguere quello che deriva dalla causa seconda da ciò che deriva dalla causa prima: poiché la provvidenza, come è stato già detto, produce i suoi effetti mediante le operazioni delle cause seconde. Perciò anche le azioni compiute dal libero arbitrio derivano dalla predestinazione.
E allora dobbiamo dire, concludendo, che possiamo considerare l'effetto della predestinazione in due maniere. Primo, in particolare. E sotto questo aspetto, niente impedisce che un effetto non sia causa e ragione di un altro: cioè l'ultimo può essere causa del primo come causa finale; il primo può essere causa del secondo come causa meritoria, la quale corrisponde a (quel genere di causalità chiamato) disposizione della materia. Come quando diciamo, p. es., che Dio ha stabilito di dare ad alcuno la gloria a motivo dei suoi meriti; e che ha decretato di dargli la grazia perché si meritasse la gloria. - In un secondo modo si può considerare l'effetto della predestinazione, cioè in generale. E allora è impossibile che tutti gli effetti della predestinazione, considerati in blocco, abbiano una qualche causa da parte nostra; perché qualsiasi cosa è nell'uomo che lo porti verso la salvezza, è compresa totalmente sotto l'effetto della predestinazione, persino la preparazione alla grazia; e difatti ciò non avviene se non mediante l'aiuto divino, secondo le parole della Scrittura: "Convertici, a te, Signore, e ci convertiremo". Invece, considerata così nei suoi effetti, la predestinazione ha come causa la divina bontà, alla quale l'effetto totale della predestinazione è ordinato come al suo fine, e dalla quale procede come dal suo primo principio motore.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'uso previsto della grazia non è la causa della concessione di essa, altro che nell'ordine della causa finale, come abbiamo spiegato.
2. La predestinazione, considerata in generale, nei suoi effetti, ha per causa la stessa divina bontà. Se poi si considera in particolare, un effetto è causa dell'altro, come si è spiegato.
3. Dalla stessa bontà divina si può derivare la ragione della predestinazione di alcuni e della riprovazione di altri. Si dice, infatti, che Dio ha creato tutte le cose a motivo della sua bontà, affinché la sua bontà fosse rappresentata in tutti gli esseri. È poi necessario che la divina bontà, la quale in sé è una e semplice, sia rappresentata nelle cose sotto varie forme; perché le cose create non possono raggiungere la divina semplicità. E quindi per la perfezione dell'universo si richiedono vari gradi nelle cose: alcune dovranno occupare un posto elevato nell'universo, ed altre un luogo infimo. E perché si conservi questa multiforme varietà di gradi, Dio permette che avvengano alcuni mali, in modo che non siano impediti molti beni, come sopra abbiamo visto.
Perciò, consideriamo ora tutto il genere umano alla stregua dell'universo. Dio volle che tra gli uomini alcuni, da lui predestinati, rappresentassero la sua bontà sotto l'aspetto della misericordia, e usò ad essi misericordia, e che altri, da lui riprovati, (rappresentassero la sua bontà) sotto l'aspetto della giustizia, e li sottopose alla punizione. Questo è il motivo per cui Dio elegge alcuni, ed altri riprova. L'Apostolo stesso assegnò una tale causa con le seguenti parole: "Dio volendo mostrare l'ira sua", cioè la giustizia vendicativa, "e far riconoscere che egli può, tollerò", cioè permise, "con molta longanimità dei vasi d'ira pronti per la perdizione, anche al fine di manifestare la ricchezza della sua gloria verso i vasi della misericordia, già preparati per la gloria". E in un altro luogo egli afferma: "In una grande casa non vi sono soltanto vasi d'oro e d'argento, ma anche di legno e d'argilla; gli uni a uso d'onore, gli altri a uso vile".
Ma il fatto che elegge questi alla gloria e riprova quelli, non ha altra causa che la divina volontà. Perciò S. Agostino dice: "Se non vuoi errare, non voler giudicare perché attiri a sé l'uno e non attiri l'altro". Così pure, nella natura si può trovare la ragione perché Dio, pur nell'uniformità della materia prima, ha creato una parte di essa sotto la forma di fuoco, un'altra sotto la forma di terra; perché cioè vi fosse varietà di specie nella natura. Ma che questa parte di materia prima sia sotto la forma di fuoco e l'altra sotto la forma di terra, dipende esclusivamente dalla divina volontà. Come dipende esclusivamente dalla volontà del muratore che una data pietra sia in questa parte della parete e una seconda da un'altra parte: sebbene la regola dell'arte richieda che alcune pietre siano collocate qua ed altre là.
Né per questo, tuttavia, Dio è ingiusto dal momento che riserva cose disuguali ad esseri non disuguali. Sarebbe contro le norme della giustizia, se l'effetto della predestinazione fosse dato per debito e non per grazia. Ma quando si tratta di cose che si danno per grazia, ciascuno può dare a suo piacimento a chi vuole, più o meno, senza pregiudizio della giustizia, purché a nessuno sottragga quello che gli è dovuto. È ciò che dice il padre di famiglia (della parabola evangelica): "Prendi il tuo, e vattene. Non mi è permesso di fare quel che voglio?".

ARTICOLO 6

Se la predestinazione sia infallibile

SEMBRA che la predestinazione non sia infallibile. Infatti:
1. S. Agostino nel commentare le parole dell'Apocalisse, "tieni saldo quello che hai, affinché nessuno prenda la tua corona", dice: "Un altro non la prenderà, se costui non l'avrà perduta". Si può, dunque, acquistare e perdere la corona, che è effetto della predestinazione. La predestinazione dunque non è infallibile.
2. Fatta l'ipotesi di una cosa possibile, non segue alcun impossibile. Ora, è possibile che un predestinato, Pietro, pecchi, e subito venga ucciso. In questa ipotesi l'effetto della predestinazione sarebbe frustrato. E la cosa non è impossibile. Perciò la predestinazione non è infallibile.
3. Ciò che Dio poteva, lo pùò ancora. Ma Dio poteva non predestinare chi ha predestinato. Dunque ora può non predestinarlo. Dunque la predestinazione non è sicura.

IN CONTRARIO: Su quel testo paolino, "quelli che egli ha preconosciuto li ha anche predestinati", la Glossa dice: "La predestinazione è la previsione e la preparazione dei benefici di Dio, per cui son certissimamente salvati coloro che si salvano".

RISPONDO: La predestinazione certissimamente ed infallibilmente ottiene il suo effetto, né tuttavia, importa necessità, in modo cioè che il suo effetto provenga necessariamente. Infatti sopra abbiamo dimostrato che la predestinazione è una parte della provvidenza. Ora, non tutto ciò che è soggetto alla provvidenza è reso necessario; ma alcune cose accadono in modo contingente, secondo la natura delle cause prossime, che la divina provvidenza ha posto per produrre tali effetti. Tuttavia l'ordine della provvidenza è infallibile, come sopra si è dimostrato. Così, è ugualmente sicuro l'ordine della predestinazione; e nondimeno non è abolito il libero arbitrio da cui deriva che l'effetto della predestinazione si produca in modo contingente.
In proposito bisogna richiamare anche quel che si è detto sopra a riguardo della scienza e della volontà divina, che non tolgono alle cose la loro contingenza, pur essendo esse certissime ed infallibili.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. In due maniere si può dire che la corona appartenga ad alcuno. Primo, in virtù della divina predestinazione: e in tal senso, nessuno perde la sua corona. Secondo, gli può appartenere per i meriti (acquistati in stato) di grazia: giacché una cosa che abbiamo meritato è in qualche modo nostra. E in questo senso uno può perdere la sua corona per un peccato mortale successivo. Si dice poi che un altro riceve la corona perduta, in quanto prende il posto del primo. Dio, infatti, non permette che alcuni cadano, senza che ne risollevi altri, secondo quel detto di Giobbe: "Egli infrange molti e innumerevoli, e pone degli altri in luogo loro". Così, infatti, in luogo degli angeli decaduti furono sostituiti gli uomini; e in luogo dei Giudei, i Gentili. Colui che sarà stato sostituito ad un altro nello stato di grazia, riceverà la corona di chi è caduto, anche per questo, perché nella vita eterna, nella quale ciascuno godrà tanto del bene da lui stesso compiuto quanto del bene compiuto da altri, godrà del bene che l'altro aveva fatto.
2. Considerata la cosa in se stessa, è possibile che un predestinato muoia in peccato mortale; ma posto (come di fatto è) che sia predestinato, allora è impossibile. Non ne segue perciò che la predestinazione possa fallire.
3. La predestinazione implica la volontà divina. Quindi, come quando Dio vuole qualche cosa creata, questa cosa è necessaria per supposizione, in ragione dell'immutabilità della volontà divina e non in senso assoluto, come abbiamo spiegato; così bisogna dire qui riguardo alla predestinazione. Perciò non si potrà dire che Dio può non predestinare chi ha predestinato, se si prende la proposizione in senso composto; sebbene, parlando assolutamente, Dio possa predestinare o non predestinare. Ma con ciò non si intacca la certezza della predestinazione.

ARTICOLO 7

Se il numero dei predestinati sia determinato

SEMBRA che il numero dei predestinati non sia determinato. Infatti:
1. Un numero a cui si può fare un'aggiunta non è determinato. Ora, al numero dei predestinati, come pare, si può fare delle aggiunte: poiché sta scritto: "Il Signore Dio nostro aggiunga ancora a questo numero molte migliaia"; "cioè", dice la Glossa, "il numero stabilito da Dio, il quale sa chi sono i suoi". Dunque il numero dei predestinati non è fisso.
2. Non si può assegnare un motivo per cui Dio preordini gli uomini alla salvezza in un determinato numero piuttosto che in un altro. Ma Dio non fa niente senza un motivo. Dunque il numero di coloro che debbono essere salvi non è già stato fissato da Dio.
3. Le opere di Dio sono più perfette di quelle della natura. Ora, nelle opere della natura il bene si trova nel maggior numero dei casi, i difetti invece ed il male in un minor numero. Se dunque il numero degli eletti fosse stabilito da Dio, i salvati dovrebbero essere più di quelli che finiranno dannati. Ora, dal Vangelo sembra il contrario, infatti si legge: "larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano". Dunque il numero di quelli che devono essere salvati non è stato fissato da Dio.

IN CONTRARIO: Dice S. Agostino: "Il numero dei predestinati è fissato e non può essere accresciuto né diminuito".

RISPONDO: Il numero dei predestinati è determinato. Alcuni, però, hanno detto che è determinato formalmente ma non materialmente: come se dicessimo che è stabilito che se ne salverà cento, o mille, non però (che saranno salvi) questi o quelli. Ma ciò distrugge l'infallibilità della predestinazione, della quale abbiamo parlato sopra. E perciò è necessario affermare che il numero dei predestinati è fisso per Dio non solo formalmente, ma anche materialmente.
Ma bisogna osservare che il numero dei predestinati si dice fisso per Dio non solo a motivo della conoscenza, perché cioè egli sa quanti si salveranno (poiché in questo senso per Dio è certo anche il numero delle gocce d'acqua e dei granellini di arena che sono nel mare); ma a motivo di un'elezione e di una determinazione.
Per capir bene ciò, bisogna ricordarsi che ogni agente tende a fare qualche cosa di definito, come si disse quando si parlò dell'infinito. Ora, chiunque intende dare al suo lavoro una misura determinata, fissa un numero nelle parti essenziali di essa, direttamente richieste alla perfezione del tutto. E non stabilisce di proposito un numero determinato per quegli elementi che non si richiedono come principali, ma solo in vista di altri: ne prenderà invece quei tanti che saranno necessari. P. es., un architetto nella sua mente determina le dimensioni di una casa; ne determina il numero degli ambienti che vi vuol fare, come anche le dimensioni delle mura e del tetto: invece non fissa il numero esatto delle pietre, ma ne prende tante quante ne abbisognano per dare alle mura le dimensioni volute.
Ebbene, così bisogna considerare l'azione di Dio rispetto all'universo, che è la sua opera. Dio ha prestabilito quali proporzioni dovesse avere l'universo, e quale fosse il numero conveniente alle parti essenziali del creato, quelle cioè che in qualche modo sono ordinate alla perpetuità; cioè quante sfere, quante stelle, quanti elementi, quante specie di cose. Invece gli individui corruttibili non sono ordinati al bene dell'universo come parti principali, ma vi concorrono come parti secondarie, in quanto per mezzo di essi si conserva la specie. Perciò, sebbene Dio conosca il numero di tutti gli individui, non è prestabilito da Dio proprio di proposito il numero dei buoi, delle zanzare e simili; ma la divina provvidenza ne ha prodotti tanti, quanti ne bastano per la conservazione delle specie.
Ora, fra tutte le creature, in modo principale conferiscono al bene dell'universo le creature ragionevoli, che, in quanto tali, sono incorruttibili; ed in modo anche più speciale quelle (tra esse) che conseguono la beatitudine, perché esse più immediatamente raggiungono l'ultimo fine. Quindi il numero dei predestinati è rigorosamente definito per Dio, non solo perché conosciuto, ma anche perché voluto come una delle cose più importanti da lui prestabilite. - Ma non può parlarsi proprio allo stesso modo del numero dei reprobi, che sono da Dio preordinati per il bene degli eletti, per i quali tutto coopera al bene.
Quanto poi al numero di tutti i predestinati, quale sia, alcuni hanno detto che si salveranno tanti uomini quanti angeli decaddero. Altri, invece, dicono che se ne salveranno tanti, quanti sono gli angeli che perseverarono. Altri, infine, che si salveranno tanti, quanti furono gli angeli decaduti, e in più tanti altri, quanti furono gli angeli creati. Ma è meglio dire che "soltanto a Dio è noto il numero degli eletti da collocarsi nella felicità supema".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Questo testo della Scrittura va inteso di coloro che Dio ha prestabilito per il conferimento della grazia nel tempo presente. Il numero di costoro, infatti, può crescere o diminuire, ma non il numero dei predestinati.
2. La quantità di una parte trova la sua ragione nella proporzione che essa ha col tutto. E così c'è un motivo per cui Dio creò tante stelle, tante specie di cose, e predestinò tanti uomini, ed è (precisamente) la proporzione di queste parti principali con la perfezione dell'universo.
3. Un bene proporzionato alla comune condizione della natura si trova nel maggior numero dei casi; e la deficienza di un tale bene è un'eccezione. Ma il bene che è al di sopra della comune condizione della natura si trova in un numero ristretto; mentre la deficienza di esso si riscontra in un grande numero di casi. Così è chiaro che son di più gli uomini i quali hanno una cognizione sufficiente per regolare le funzioni ordinarie della vita, e in numero assai ridotto quelli che ne sono privi, e che chiamiamo idioti o scemi: ma sono pochissimi, in confronto agli altri, quelli che arrivano ad avere una cognizione profonda dei problemi del pensiero. Siccome, dunque, la beatitudine eterna, consistente nella visione di Dio, supera la comune condizione della natura, specialmente privata com'è della grazia per la corruzione (prodotta) dal peccato originale, sono pochi quelli che si salvano. E proprio in questo si mostra in modo specialissimo la misericordia di Dio, che innalza alcuni a quella salvezza, che la maggioranza (degli uomini) non raggiunge, seguendo il corso ordinario e l'inclinazione della natura.

ARTICOLO 8

Se la predestinazione possa essere aiutata dalle preghiere dei santi

SEMBRA che la predestinazione non possa essere aiutata dalle preghiere dei santi. Infatti:
1. Niente di eterno è preceduto da qualche cosa di temporaneo; e per conseguenza ciò che è temporaneo non può essere di aiuto a quello che è eterno. Ora, la predestinazione è eterna. Quindi, siccome le preghiere dei santi si svolgono nel tempo, non possono essere di giovamento alla predestinazione di qualcuno. Dunque la predestinazione non può essere facilitata dalle preghiere dei santi.
2. Come nessuno ha bisogno di consiglio, se non per deficienza di cognizione, così nessuno ha bisogno di aiuto se non per mancanza di forza. Ora, né l'una né l'altra cosa si può attribuire a Dio nell'atto di predestinare; infatti S. Paolo dice: "Chi aiutò lo Spirito del Signore? O chi fu suo consigliere?". Dunque la predestinazione non è aiutata dalle preghiere dei santi.
3. Essere aiutato ed essere impedito sono sullo stesso piano. Ora, la predestinazione non può essere impedita da alcuno. Dunque non può essere nemmeno aiutata.

IN CONTRARIO: Dice la Scrittura: "Isacco pregò Dio per Rebecca sua moglie e (il Signore) dette a Rebecca di concepire". Ora, da quel concepimento nacque Giacobbe, il quale fu predestinato. D'altra parte, tale predestinazione non si sarebbe avverata se Giacobbe non fosse nato. Dunque la predestinazione si giova delle preghiere dei santi.

RISPONDO: Su questo problema vi furono diversi errori. Alcuni considerando l'infallibilità della predestinazione divina, hanno affermato che le preghiere sono superflue, e così pure qualunque altra cosa fatta per conseguire la salvezza eterna, perché sia che si facciano o che si tralascino, i predestinati la conseguono ed i reprobi non la conseguono. - Ma contro questa opinione stanno tutti gli ammonimenti della Sacra Scrittura, gli incitamenti alla preghiera ed alle opere buone.
Altri hanno sostenuto che con la preghiera si può mutare la divina predestinazione. E questa si dice che fosse l'opinione degli Egiziani, i quali ritenevano che con sacrifici e preghiere si potessero impedire le disposizioni divine, che essi chiamavano fato. - Ma anche questa opinione è in contrasto con la Sacra Scrittura. Infatti si legge: "Il trionfatore di Israele non perdonerà e non si pentirà". E S. Paolo afferma: "I doni e la vocazione di Dio non sono cose che soggiacciono a pentimento".
E quindi dobbiamo ragionare diversamente, perché nella predestinazione ci sono da considerare due elementi: il disegno divino, ed il suo effetto. Quanto, dunque, al primo elemento, in nessuna maniera la predestinazione può ricevere aiuto dalle preghiere dei santi: perché non potrà mai avvenire che uno sia predestinato per le preghiere dei santi. Quanto, poi, al secondo elemento, si può dire che la predestinazione è aiutata dalle preghiere dei santi e dalle altre opere buone; perché la provvidenza, di cui la predestinazione è una parte, non elimina le cause seconde, ma dispone gli effetti in maniera che anche l'ordine delle cause seconde sia compreso sotto di essa. Quindi come è stato provveduto agli effetti naturali preordinando ad essi anche le rispettive cause naturali, senza le quali tali effetti non sarebbero prodotti; così è stata predestinata da Dio la salvezza di uno, in maniera che entro l'ordine della predestinazione viene compreso anche tutto ciò che porta l'uomo alla salvezza, sia le sue proprie preghiere come quelle degli altri, sia le opere buone, sia qualunque altra cosa del genere, senza le quali nessuno può conseguire la salvezza. Quindi i predestinati devono sforzarsi di agire e di pregar bene, perché con questi mezzi l'effetto della predestinazione si compie con certezza. Per questo sta scritto: "Studiatevi sempre più di rendere certa la vostra vocazione ed elezione per mezzo delle buone opere".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Questa ragione vale a dimostrare che la predestinazione non si giova delle preghiere dei santi relativamente al disegno divino (della predestinazione).
2. In due sensi si dice che uno è aiutato da un altro. Primo, in quanto riceve da esso la forza: essere aiutato così è proprio di chi è debole, e quindi non si può prestare a Dio (un tale aiuto). In questo senso vanno intese le parole: "Chi aiutò lo Spirito del Signore?". Secondo, si dice che uno è aiutato da un altro, quando si serve di lui per compiere l'opera propria, come un padrone usa del suo servitore. Ora, Dio è aiutato da noi in questo modo, in quanto noi eseguiamo i suoi ordini, secondo le parole di S. Paolo: "Noi siamo cooperatori di Dio". E ciò non è per difetto della potenza divina, ma perché Dio usa delle cause intermedie per conservare nelle cose la bellezza dell'ordine e anche per comunicare alle creature la dignità di cause.
3. Le cause seconde non possono sottrarsi all'ordinamento della causa prima universale, come si è detto sopra: esse l'eseguono. E perciò la predestinazione può essere aiutata, ma non impedita dalle creature.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:10
Questione 24

Il libro della vita

Ed ora veniamo a trattare del libro della vita. In proposito si pongono tre quesiti: 1. Che cosa sia il libro della vita; 2. Di quale vita sia libro; 3. Se qualcuno possa essere cancellato dal libro della vita.

ARTICOLO 1

Se il libro della vita sia la stessa cosa della predestinazione

SEMBRA che il libro della vita non sia la stessa cosa della predestinazione. Infatti:
1. Nella Scrittura si legge: "Tutte queste cose sono il libro della vita"; "cioè", commenta la Glossa, "il nuovo e il vecchio Testamento". Ora, ciò non è la predestinazione. Dunque il libro della vita non si identifica con la predestinazione.
2. S. Agostino dice che il libro della vita "è una certa forza divina, che farà tornare in mente ad ognuno tutte le proprie opere buone e cattive". Ora, la forza divina non pare che si riallacci alla predestinazione, ma piuttosto all'attributo della potenza. Dunque il libro della vita non è la medesima cosa della predestinazione.
3. Alla predestinazione si oppone la riprovazione. Se dunque il libro della vita fosse la predestinazione, dovrebbe esserci anche il libro della morte.

IN CONTRARIO: La Glossa, commentando il seguente versetto dei Salmi, "siano cancellati dal libro dei viventi", afferma: "Questo libro è la conoscenza di Dio, per la quale egli ha predestinato alla vita quelli che ha preconosciuto".

RISPONDO: Si parla in senso metaforico del libro della vita in Dio, per un'analogia desunta dalle cose umane. C'è l'uso tra gli uomini di iscrivere in un libro coloro che sono eletti a qualche ufficio, come i soldati o i consiglieri che una volta erano chiamati Padri coscritti. Ora, appare chiaro da quel che abbiamo già detto, che tutti i predestinati sono eletti da Dio ad avere la vita eterna. Dunque l'iscrizione dei predestinati si chiama libro della vita.
D'altra parte si dice, con una metafora, che è scritto nella mente di qualcuno ciò che egli tiene fisso nella memoria; così, p. es., quando si dice nei Proverbi: "Non dimenticare il mio insegnamento e il tuo cuore custodisca i miei precetti", poco dopo si aggiunge: "Scrivili sulle tavole del tuo cuore". Del resto si scrivono le cose sui libri per venire in aiuto della memoria. Perciò la conoscenza stessa di Dio, con la quale egli ricorda fermamente di aver destinato certuni alla vita eterna, si chiama libro della vita. Come le parole scritte in un libro sono un segno di quanto deve essere effettuato, così la conoscenza divina è per Dio un segno che sta a indicare coloro i quali devono essere condotti alla vita eterna; proprio come dice S. Paolo: "Il fondamento gettato da Dio sta saldo e porta questo sigillo: Il Signore conosce i suoi".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. (L'espressione) il libro della vita si può prendere in due sensi. Primo, per designare l'iscrizione di coloro che sono eletti alla vita: ed ora parliamo in tal senso del libro della vita. Secondo, si può dire libro della vita la trascrizione delle cose che conducono alla vita. E anche questo in due sensi. O delle cose che bisogna fare: e così possiamo chiamare libro della vita il Nuovo ed il Vecchio Testamento. O delle cose che già furono compiute: e allora possiamo chiamare libro della vita quella forza divina, che farà tornare in mente a ciascuno i propri atti. Così si può chiamare libro della milizia sia quello in cui sono iscritti coloro che sono scelti per il servizio militare, sia quello in cui si insegna l'arte militare, sia quello in cui si narrano le gesta militari.
2. È sciolta così anche la seconda difficoltà.
3. Non c'è l'uso di iscrivere gli scartati, ma solo gli eletti. Perciò alla riprovazione non corrisponde il libro della morte, come alla predestinazione il libro della vita.
4. Il libro della vita differisce dalla predestinazione concettualmente, perché vi aggiunge l'idea di conoscenza, come appare anche dalla Glossa riportata.

ARTICOLO 2

Se il libro della vita riguardi soltanto la vita gloriosa dei predestinati

SEMBRA che il libro della vita non riguardi soltanto la vita gloriosa dei predestinati. Infatti:
1. Il libro della vita è la conoscenza della vita. Ora, Dio mediante la sua vita conosce ogni altra vita. Dunque il libro della vita concerne la vita divina, e non soltanto la vita dei predestinati.
2. La vita della gloria viene da Dio come la vita naturale. Se dunque la conoscenza della vita gloriosa si chiama libro della vita, dovrà chiamarsi libro della vita anche la conoscenza della vita naturale.
3. Sono eletti alla grazia alcuni che pure non sono eletti alla vita della gloria, come appare chiaro da ciò che è scritto nel Vangelo: "Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo". Ora, il libro della vita è, come abbiamo detto, l'iscrizione divina degli eletti. Dunque riguarda anche la vita della grazia.

IN CONTRARIO: Il libro della vita è la conoscenza della predestinazione, come abbiamo già detto. Ora, la predestinazione non riguarda la vita della grazia se non in quanto è ordinata alla gloria: giacché non sono predestinati quelli che hanno la grazia e non giungono alla gloria. Il libro della vita dunque riguarda soltanto la gloria.

RISPONDO: Come abbiamo detto, il libro di vita importa una certa iscrizione e conoscenza di coloro che sono eletti alla vita. Ora, uno ha bisogno di essere eletto per ciò che non gli compete secondo la sua natura. E la funzione per la quale viene eletto ha ragione di fine: infatti un soldato non è arruolato o iscritto per portare le armi, ma per combattere; poiché questo è appunto l'ufficio al quale è ordinata la milizia. Ora, il fine che trascende la natura è la vita della gloria, come sopra si è detto. Perciò, a rigore, il libro della vita riguarda la vita della gloria.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La vita divina, anche in quanto è vita gloriosa, è naturale per Dio. Quindi riguardo a lui non vi è elezione, e per conseguenza neppure un libro della vita. Noi, infatti, non diciamo che un uomo è eletto ad avere i sensi, o a qualche cosa connessa con la sua natura.
2. Questo chiarisce anche la soluzione della seconda difficoltà. Infatti non si dà elezione, né libro della vita per ciò che riguarda l'esistenza naturale.
3. La vita della grazia non ha ragione di fine, ma di mezzo al fine. Quindi alla vita della grazia uno non si dice eletto se non in quanto la vita della grazia è ordinata alla gloria. E per questo motivo coloro che hanno la grazia e non raggiungono la gloria, non si dicono eletti semplicemente, ma solo sotto un certo aspetto. Così pure non si dicono senz'altro iscritti nel libro della vita, ma solo in qualche modo, in quanto cioè nel disegno e nella conoscenza di Dio è stabilito che essi abbiano un certo ordine alla vita eterna, in forza della partecipazione alla grazia.

ARTICOLO 3

Se qualcuno possa essere cancellato dal libro della vita

SEMBRA che nessuno possa essere cancellato dal libro della vita. Infatti:
1. S. Agostino dice che "la prescienza di Dio, la quale non può fallire, è il libro della vita". Ora, alla previsione di Dio, come anche alla predestinazione, niente può essere sottratto. Dunque neanche dal libro della vita uno può essere cancellato.
2. Ciò che si trova in un soggetto segue il modo di essere di quest'ultimo. Ora, il libro della vita è qualche cosa di eterno e di immutabile. Dunque tutto ciò che è in esso, non vi si trova temporalmente, ma in maniera immutabile e indelebile.
3. Cancellare è il contrario di scrivere. Ora, nessuno può essere iscritto nuovamente nel libro della vita. Dunque non può esserne neppure cancellato.

IN CONTRARIO: Sta scritto: "Siano cancellati dal libro dei viventi".

RISPONDO: Alcuni sostengono che dal libro della vita nessuno può essere veramente cancellato: ma si usa dire che uno è cancellato secondo l'opinione degli uomini. Nella Sacra Scrittura, infatti comunemente si dice che una cosa accade quando viene ad essere conosciuta. E secondo questo modo di parlare, si afferma che alcuni sono iscritti nel libro della vita, in quanto gli uomini credono che vi siano iscritti, a motivo dello stato di grazia che al presente scorgono in essi. E quando si vede, in questo mondo o nell'altro, che son decaduti dallo stato di grazia, allora si dice che ne sono cancellati. Tale cancellamento è spiegato così anche nella Glossa alle parole del Salmo: "Siano cancellati dal libro dei viventi".
Ma siccome tra i premi dei giusti vien posto anche quello di non essere cancellato dal libro della vita, secondo il detto dell'Apocalisse, "Chi vince sarà dunque vestito di bianche vesti e non cancellerò il suo nome dal libro della vita"; e le promesse fatte ai santi non esistono soltanto nell'opinione degli uomini; perciò si può dire che essere cancellato, o non essere cancellato dal libro della vita, non va riferito soltanto all'opinione degli uomini, ma anche alla realtà. Il libro della vita, infatti, è l'iscrizione degli esseri destinati alla vita eterna. Ora, uno può essere ordinato alla vita eterna in due maniere: cioè, in forza d'una predestinazione divina, e questo ordinamento non può mancare; e in forza della grazia. Difatti chiunque ha la grazia di suo è degno della vita eterna. Ma questa connessione talora fallisce: perché alcuni, pur essendo ordinati, a motivo della grazia ricevuta, a possedere la vita eterna, tuttavia non la raggiungono per il peccato mortale. Quelli, perciò, che sono ordinati ad avere la vita eterna in forza della divina predestinazione, sono iscritti senz'altro nel libro della vita: perché vi sono iscritti come persone che avranno la vita eterna in se stessa. E questi non saranno mai cancellati dal libro della vita. Ma quelli che sono ordinati a possedere la vita eterna, non per divina predestinazione, ma solo in forza della grazia, non si dicono senz'altro iscritti nel libro della vita, ma solo in certo senso: perché iscritti come chiamati ad avere la vita eterna, non in se stessa, ma nella sua causa. E questi ultimi possono essere cancellati dal libro della vita: non nel senso che tale cancellatura si riferisca alla conoscenza di Dio, come se Dio prima conosca qualche cosa e poi non la conosca più; ma relativamente alla cosa conosciuta, vale a dire perché Dio sa che uno prima era ordinato alla vita eterna e poi non lo sarà più, per aver perso la grazia.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La cancellatura (che si può verificare) nel libro della vita non va riferita alla prescienza (divina), come se in Dio avvenisse un mutamento; ma alle persone preconosciute, le quali possono cambiare, come si è spiegato.
2. Sebbene le cose esistano in Dio in maniera immutabile, in se stesse sono mutevoli. E a questa mutabilità si riferisce l'essere cancellati dal libro della vita.
3. Come si dice che uno è cancellato dal libro della vita, così si può dire che vi è nuovamente iscritto: o secondo l'opinione degli uomini, o in quanto comincia, per la grazia, ad avere nuovamente ordine alla vita eterna. Tutto ciò cade sotto la conoscenza divina, ma non come cosa nuova.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:11
Questione 25

La potenza divina

Dopo lo studio della scienza e della volontà divina, e delle cose che ad esse si riconnettono, rimane da considerare la potenza divina.
In proposito si fanno sei quesiti: 1. Se in Dio vi sia la potenza; 2. Se la sua potenza sia infinita; 3. Se Dio sia onnipotente; 4. Se Dio possa fare che le cose passate non siano state; 5. Se possa fare quello che non fa, o tralasciare quello che fa; 6. Se le cose che fa, possa farle migliori.

ARTICOLO 1

Se in Dio vi sia la potenza

SEMBRA che in Dio non vi sia la potenza. Infatti:
1. Come la materia prima sta alla potenza, così Dio, primo agente, sta all'atto. Ora, la materia prima in sé considerata è senza alcun atto. Dunque il primo agente, che è Dio, è senza potenza.
2. Dice il Filosofo che migliore di ogni potenza è il suo atto: perché la forma è migliore della materia, e l'azione è migliore della potenza attiva; è infatti il fine di essa. Ora, niente è meglio di ciò che è in Dio; perché tutto ciò che è in Dio, è Dio, come sopra abbiamo dimostrato. Dunque in Dio non vi è potenza alcuna.
3. La potenza è il principio dell'operazione. Ora, l'operazione divina è la sua essenza; poiché in Dio non vi è alcun accidente. Ma l'essenza divina non ha principio alcuno. Dunque l'attributo della potenza non conviene a Dio.
4. Sopra abbiamo dimostrato che la scienza di Dio e la sua volontà sono la causa delle cose. Ora, causa e principio sono identici. Dunque non bisogna ammettere in Dio la potenza, ma solo la scienza e la volontà.

IN CONTRARIO: Nei Salmi sta scritto: "Potente tu sei, o Signore, e la tua fedeltà ti fa corona".

RISPONDO: Vi è una duplice potenza: quella passiva, che in nessun modo è in Dio; e quella attiva, che si deve attribuire a Dio in grado sommo. È evidente, infatti, che ogni essere, in quanto è in atto ed è perfetto, è principio attivo: e invece, ogni essere è passivo in quanto è difettoso e imperfetto. Ora, sopra si è dimostrato che Dio è atto puro, assolutamente e universalmente perfetto; né in lui vi può essere imperfezione alcuna. Quindi a lui compete al massimo grado di essere principio attivo, ed in nessun modo (si addice a lui di essere) passivo. Ora, la natura di principio attivo conviene alla potenza attiva. Infatti la potenza attiva è il principio di azione transitiva, e la potenza passiva è un principio di passività come dice il Filosofo. Resta, dunque, che in Dio vi è la potenza attiva al massimo grado.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La potenza attiva non si contrappone all'atto, ma si fonda in esso: poiché ogni essere agisce in quanto è in atto. La potenza passiva, invece, si contrappone all'atto; poiché ogni essere è passivo in quanto è in potenza. Perciò da Dio si esclude questa potenza, non già quella attiva.
2. Ogni qual volta l'atto è il contrapposto della potenza, è necessario che esso sia superiore della potenza. Ora, l'azione di Dio non è qualcosa di distinto dalla sua potenza: ma l'una e l'altra si identificano con l'essenza divina, poiché neppure l'essere si distingue in Dio dalla sua essenza. Non c'è dunque da supporre che vi sia qualche cosa di superiore alla potenza di Dio.
3. Nelle cose create la potenza non è soltanto principio dell'azione, ma anche degli effetti. Perciò in Dio si salva la nozione di potenza in quanto causa degli effetti, non però in quanto principio dell'azione, poiché questa s'identifica con l'essenza di Dio. Purché (non si voglia dire), secondo il nostro modo di intendere, che la divina essenza, la quale in sé precontiene indivise tutte le perfezioni esistenti nelle cose create, si può concepire e come azione e come potenza; così del resto si concepisce (Dio) e come supposito che ha la sua natura e come natura.
4. La potenza non si pone in Dio come qualcosa che differisce dalla scienza e dalla volontà realmente, ma soltanto concettualmente, in quanto cioè la potenza implica la nozione di causa che esegue quello che la volontà comanda e che la scienza dirige; le quali tre cose convengono a Dio come una stessa realtà. - O anche si può dire che la scienza o la volontà divina, in quanto sono un principio di operazione, presentano l'aspetto di potenza. E per questo la (nostra) considerazione della scienza e della volontà divina precede la considerazione della potenza (di Dio), come la causa precede l'operazione e l'effetto.

ARTICOLO 2

Se la potenza di Dio sia infinita

SEMBRA che la potenza di Dio non sia infinita. Infatti:
1. Ogni infinito, secondo il Filosofo, è imperfetto. Ma la potenza di Dio non è imperfetta. Dunque non è infinita.
2. Ogni potenza si manifesta attraverso gli effetti: altrimenti sarebbe inutile. Se dunque la potenza di Dio fosse infinita, potrebbe produrre un effetto infinito: la qual cosa è impossibile.
3. Il Filosofo prova che se la potenza di un corpo fosse infinita, essa muoverebbe istantaneamente. Ora, Dio non muove istantaneamente: ma "muove la creatura spirituale nel tempo, e la creatura corporale nel luogo e nel tempo", secondo l'espressione di S. Agostino. La potenza di lui non è dunque infinita.

IN CONTRARIO: S. Ilario dice che Dio è "un vivente e un potente di smisurata virtù". Ora, tutto ciò che è senza misura, è infinito. Dunque la virtù divina è infinita.

RISPONDO: Come abbiamo già detto, in Dio si trova la potenza attiva, perché egli è in atto. Ora, il suo essere è infinito, in quanto non è limitato da un soggetto che lo riceve, come risulta da ciò che abbiamo detto quando si trattava dell'infinità della divina essenza. È necessario perciò che la potenza attiva di Dio sia infinita. Infatti, in tutti gli agenti si riscontra questo, che quanto più perfettamente un agente possiede la forma in virtù della quale agisce, tanto maggiore è la sua potenza attiva. P. es., più un corpo è caldo, tanto maggiore è il suo potere di riscaldamento; e potrebbe avere una potenza infinita di riscaldamento, se il suo calore fosse infinito. Quindi, siccome l'essenza divina, con la quale Dio agisce, è infinita, come si è già dimostrato, ne viene che la sua potenza sia infinita.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il Filosofo parla dell'infinito che appartiene alla materia non determinata da una forma: e questo è l'infinito che conviene alla quantità. Ora, non così è infinita la divina essenza, come abbiamo già dimostrato; e quindi neppure la divina potenza. Non ne segue, perciò, che questa sia imperfetta.
2. Solo la potenza di una causa univoca si manifesta tutta nel suo effetto: così la potenza generativa dell'uomo non può (fare) niente di più che generare un uomo. Ma la potenza di una causa non univoca non si manifesta tutta nella produzione del suo effetto: così, p. es., la potenza del sole non si manifesta tutta nella produzione di un animale generato dalla fermentazione. Ora, è chiaro che Dio non è un agente univoco: perché nessun'altra cosa può avere in comune con lui la specie o il genere, come sopra fu dimostrato. Resta, perciò, che il suo effetto è sempre al di sotto della sua potenza. Non è dunque richiesto che la potenza di Dio si manifesti infinita col produrre un effetto infinito. - Del resto, anche se non producesse nessun effetto, la potenza di Dio non sarebbe invano. Invano è ciò che non raggiunge il fine al quale è stato ordinato: ora, la potenza di Dio non è ordinata agli effetti come ad un fine, ché anzi essa è il fine dei suoi effetti.
3. Nel luogo citato il Filosofo prova che, se un corpo avesse un potere infinito, muoverebbe al di fuori del tempo; ma, tuttavia, dimostra che la potenza del motore del cielo è infinita, perché può muovere per un tempo infinito. Resta, dunque, secondo il suo pensiero, che la potenza infinita di un corpo, se si desse, muoverebbe al di fuori del tempo; ma non la potenza di un motore incorporeo. E la ragione si è che un corpo, il quale muove un altro corpo, è un agente univoco. Quindi è necessario che tutta la potenza di tale agente si manifesti nel moto. Infatti, quanto più grande è la potenza di un corpo motore, tanto più veloce è il movimento che imprime: perciò se fosse infinita muoverebbe necessariamente con una velocità illimitata, e ciò equivarrebbe a muovere fuori del tempo. Ma il motore incorporeo non è un agente univoco. Quindi non c'è bisogno che la sua potenza si manifesti tutta nel moto, fino a muovere fuori d'ogni tempo. E specialmente perché muove secondo il beneplacito della sua volontà.

ARTICOLO 3

Se Dio sia onnipotente

SEMBRA che Dio non sia onnipotente. Infatti:
1. Esser mosso e subire un'azione è una delle tante cose (possibili). Ma Dio non lo può fare, perché, come abbiamo dimostrato sopra, è immobile. Dunque non è onnipotente.
2. Peccare è un fare qualche cosa. Ora, Dio non può peccare, né "rinnegare se stesso", come dice l'Apostolo. Dunque Dio non è onnipotente.
3. Di Dio si dice che "manifesta al sommo la sua onnipotenza perdonando ed usando misericordia". Dunque l'estremo limite della potenza divina è il perdonare ed aver misericordia. Ora, c'è qualche cosa di molto più grande del perdonare e dell'usare misericordia; p. es., creare un altro mondo, o (fare) qualche altra opera di questo genere. Dunque Dio non è onnipotente.
4. La Glossa, commentando il detto paolino, "Dio ha fatto vedere come è stolta la sapienza di questo mondo", dice: "Dio ha fatto vedere come è stolta la sapienza del mondo, mostrando possibile quello che essa giudicava impossibile". Quindi sembra che non dobbiamo giudicare se una cosa è possibile o impossibile secondo le cause inferiori, come giudica la sapienza mondana, ma secondo la divina potenza. Se dunque si ammette che Dio è onnipotente, tutte le cose saranno possibili. Perciò niente sarà impossibile. Ora, tolto l'impossibile, è levato di mezzo il necessario: perché ciò che è necessario, è impossibile che non sia. Non vi sarà dunque niente di necessario nelle cose, se Dio è onnipotente. Ma questo è assurdo. Dunque Dio non è onnipotente.

IN CONTRARIO: Nel Vangelo sta scritto: "Non vi è parola alcuna che sia impossibile a Dio".

RISPONDO: Tutti sono d'accordo nel riconoscere che Dio è onnipotente. Ma il difficile sta nell'assegnare la ragione dell'onnipotenza, perché quando si dice che Dio può tutto, resta il dubbio che cosa si comprenda sotto questo termine collettivo (tutto). Ma se si esamina bene la cosa, siccome potenza si dice relativamente ai possibili, quando si dice che Dio può tutto, non si può intendere meglio di così: che può tutto ciò che è possibile, e che per questo si dice onnipotente.
Ora, secondo il Filosofo, il termine possibile si prende in due sensi. Primo, s'intende in relazione ad una potenza particolare: così ciò che è sottoposto alla potenza umana, si dice che è possibile all'uomo. Ora, non può dirsi che Dio sia onnipotente, perché può tutto quello che è possibile a natura creata: poiché la potenza divina si estende molto più oltre. Se invece uno dicesse che Dio è onnipotente perché può tutto ciò che è possibile alla sua potenza, farebbe un circolo vizioso nello spiegare l'onnipotenza: con ciò non si verrebbe a dire nient'altro che questo, che Dio è onnipotente perché può tutto quello che può. Resta, dunque, che Dio si dice onnipotente perché può tutte le cose che sono possibili. E questo è il secondo senso in cui si prende il termine possibile. Ora, una cosa si dice possibile o impossibile, assolutamente parlando, secondo il rapporto dei termini: possibile, quando il predicato non ripugna al soggetto, come, (nell'espressione): "Socrate siede"; assolutamente impossibile invece, quando il predicato ripugna al soggetto, come, (nell'espressione): "l'uomo è un asino".
Ora, bisogna considerare che, siccome ogni agente produce un effetto simile a sé, a ogni potenza attiva corrisponde un possibile come oggetto proprio, secondo la natura dell'atto in cui si fonda la potenza attiva: p. es., la potenza calorifica si riferisce, come al proprio oggetto, a ciò che è suscettibile d'essere riscaldato. Ora, l'essere divino, su cui si fonda la ragione della potenza divina, è l'essere infinito, non limitato ad un qualche genere di enti, ma avente in sé, in antecedenza, la perfezione di tutto l'essere. Quindi tutto ciò che può avere ragione di ente è contenuto tra i possibili assoluti, a riguardo dei quali Dio si dice onnipotente.
Ora, nulla si oppone alla ragione di ente, se non il non ente. Dunque, alla ragione di possibile assoluto, oggetto dell'onnipotenza divina, ripugna solo quello che implica in sé l'essere ed il non essere simultaneamente. Ciò, infatti, è fuori del dominio della divina onnipotenza, non per difetto della potenza di Dio; ma perché non ha la natura di cosa fattibile o possibile. Così, tutto ciò che non implica contraddizione, è contenuto tra quei possibili rispetto ai quali Dio si dice onnipotente; tutto quello, invece, che implica contraddizione, non rientra sotto la divina onnipotenza, perché non può avere la natura di cosa possibile. Quindi è più esatto dire che ciò non può essere fatto, anziché dire che Dio non lo può fare. - E questa spiegazione non contrasta con le parole dell'Angelo: "non vi è parola alcuna che sia impossibile a Dio". Infatti ciò che implica contraddizione non può essere una parola: perché nessun intelletto può concepirlo.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Dio si dice onnipotente secondo la potenza attiva, non secondo la potenza passiva, come si è spiegato. Perciò il non essere capace di movimento e di passività non è un ostacolo alla sua onnipotenza.
2. Peccare è un difetto di perfezione nell'atto: quindi il poter peccare è un poter venir meno nell'agire; la qual cosa ripugna all'onnipotenza. Ed è appunto per questo che Dio non può peccare, perché è onnipotente. È vero, tuttavia, che il Filosofo ha scritto che "Dio e il giusto possono compiere cose malvagie". Ma questa espressione deve intendersi o come una proposizione condizionale la cui protasi è impossibile, come se si dicesse che Dio potrebbe fare del male se lo volesse; perché niente impedisce che una proposizione condizionale sia vera, benché la protasi e l'apodosi siano false; come se si dicesse: "Se l'uomo è un asino, ha quattro zampe". Oppure si deve interpretare in questo senso, che Dio potrebbe fare delle cose, che ora sembrano cattive; ma che se le facesse lui, sarebbero buone. O, (infine), egli parla secondo l'opinione comune dei pagani, i quali dicevano che certi uomini eran trasformati in dei, p. es., in Giove o in Mercurio.
3. L'onnipotenza divina si manifesta al sommo nel perdonare e nell'usare misericordia, perché in tal maniera, col rimettere liberamente i peccati, Dio mostra di avere la suprema potestà: non potendo condonare i peccati a suo piacimento chi è sottoposto alla legge di un superiore. - Si può anche dire che perdonando agli uomini ed avendone pietà, li conduce alla partecipazione del bene infinito, che è l'ultimo effetto della divina potenza. - Finalmente, perché, come sopra si è detto, l'effetto della divina misericordia è il fondamento di tutte le opere divine: giacché niente è dovuto a chicchessia se non in base a quello che gli è stato dato da Dio (gratuitamente). E la divina onnipotenza si manifesta al sommo appunto in questo che ad essa risale la prima costituzione di tutti i beni.
4. Il possibile si dice assoluto non rispetto alle cause superiori, né riguardo alle cause inferiori; ma in se stesso. Il possibile che si dice tale in rapporto ad una potenza qualsiasi, si denomina possibile in relazione alla sua causa prossima. Quindi, le cose che possono essere fatte direttamente solo da Dio, come creare, giustificare, e simili, si dicono possibili in rapporto alla causa suprema; le cose, invece, che possono esser fatte dalle cause inferiori, si dicono possibili relativamente alle cause inferiori. Ed infatti, l'effetto trae la sua contingenza o la sua necessità dalla condizione della causa prossima, come fu spiegato sopra. Ora, la sapienza del mondo è reputata stolta proprio perché giudica impossibile anche per Dio quello che è impossibile alla natura. E così è evidente che l'onnipotenza di Dio non esclude dalle cose l'impossibilità e la necessità.

ARTICOLO 4

Se Dio possa fare che le cose passate non siano state

SEMBRA che Dio possa fare che le cose passate non siano state. Infatti:
1. Ciò che di suo è impossibile, è più impossibile di ciò che è impossibile per una semplice combinazione. Ora, Dio può fare ciò che è impossibile di suo come dar la vista a un cieco o risuscitare un morto. Dunque molto più Dio può fare quello che è impossibile per una combinazione qualsiasi. Ora, che le cose passate non siano state, è impossibile per una semplice combinazione: è, infatti, una combinazione che sia impossibile il non correre di Socrate per il fatto che (ormai) è passato. Dunque Dio può far sì che le cose passate non siano state.
2. Quello che Dio ha potuto, lo può ancora: perché la sua potenza non è diminuita. Ma Dio poteva fare, prima che Socrate corresse, che non corresse. Dunque, dopo che ha corso, Dio può fare che non abbia corso.
3. La carità è una virtù più grande della verginità. Ora, Dio può ripristinare la carità perduta. Dunque anche la verginità. Dunque può far sì che una donna che fu violata, non sia stata violata.

IN CONTRARIO: Dice S. Girolamo: "Dio, pur potendo tutto, non può d'una donna violata farne una incorrotta". Per la stessa ragione non può fare che qualsiasi altro evento passato non sia avvenuto.

RISPONDO: Abbiamo detto sopra che nell'onnipotenza di Dio non rientra ciò che implica contraddizione. Ora, che le cose passate non siano avvenute, implica contraddizione. Ed invero: come è contraddittorio il dire che Socrate siede e che non siede, così è contraddittorio dire che stette seduto e che non stette seduto. Ora, dire che stette seduto, è dire che la cosa è passata; dire invece che non stette seduto, è affermare che la cosa non avvenne. Dunque che le cose passate non siano state, sfugge alla divina potenza. È quanto S. Agostino afferma: "Chiunque dice così: "Se Dio è onnipotente, faccia sì che le cose avvenute non siano avvenute", non si accorge che dice questo: "Se Dio è onnipotente, faccia sì che ciò che è vero, per il fatto stesso che è vero, sia falso"". Ed anche il Filosofo dice che "di una sola capacità è privo Dio: far sì che non sia avvenuto quello che è avvenuto".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Sebbene sia vero che a considerare la cosa (passata) in se stessa, p. es., il correre di Socrate, il suo non essere avvenuta risulti impossibile per una semplice combinazione; tuttavia se si considera la cosa passata proprio in quanto passata, allora il suo non essere avvenuta non solo risulta impossibile di per se stesso, ma (impossibile) assolutamente, perché implica contraddizione. E, per conseguenza, è più impossibile della resurrezione di un morto, la quale non implica contraddizione, ma si dice impossibile relativamente ad una certa potenza, cioè a quella naturale. Queste impossibilità, infatti, rientrano nella potenza di Dio.
2. Come Dio, data la perfezione della sua potenza, può tutto, meno alcune cose non sottoposte ad essa, perché fuori della categoria dei possibili; così, data l'invariabilità della sua potenza, può fare ancora tutto quello che poté; ma certe cose, che una volta, quando erano da farsi, ebbero la natura di possibili, ora, che sono fatte, la perdono. E di tali cose si dice che Dio non le può fare, perché non possono essere fatte.
3. Dio può togliere ogni corruzione di mente e di corpo da una donna violata; ma non può distruggere il fatto che sia stata violata. Come neanche può fare che qualsiasi peccatore non abbia peccato e non abbia perso la carità.

ARTICOLO 5

Se Dio possa fare quello che non fa

SEMBRA che Dio non possa fare se non quello che fa. Infatti:
1. Dio non può fare quelle cose che non ha previsto e non ha prestabilito di fare. Ora, non ha previsto e preordinato di fare se non le cose che fa. Dunque non può fare se non quello che fa.
2. Dio non può fare se non quello che deve (fare) e quello che è giusto che sia fatto. Ma Dio non deve fare quello che non fa: e non è giusto che faccia quello che non fa. Dunque Dio non può fare se non quello che fa.
3. Dio non può fare se non ciò che è buono e conveniente per le cose create. Ora, per le cose fatte da Dio, non è bene né conveniente che siano diversamente da come sono. Dunque Dio non può fare se non le cose che fa.

IN CONTRARIO: Sta scritto nel Vangelo: "Non posso io chiamare in aiuto il Padre mio, il quale mi manderebbe subito più di dodici legioni di angeli?". Ora, Gesù non lo chiamò in aiuto, e neppure il Padre inviò degli angeli per respingere i Giudei. Dunque Dio poteva fare quello che non ha fatto.

RISPONDO: Questo problema ha dato luogo a due errori. Alcuni hanno preteso che Dio agisca per necessità di natura; vale a dire, come dall'operazione delle cose naturali non possono provenire se non quelle cose che ne derivano, p. es., dal seme dell'uomo, l'uomo; dal seme dell'olivo, l'olivo; così dall'operazione divina non possono scaturire altre cose o altro ordine di cose che quello attuale. - Ora, invece, abbiamo già dimostrato che Dio non opera come per necessità di natura, ma che la sua volontà è la causa di tutte le cose; e che tale volontà non è determinata naturalmente e necessariamente alle cose presenti. Perciò in nessuna maniera l'ordine attuale delle cose proviene da Dio così necessariamente, che non ne possano provenire altre.
Altri, invece, hanno sostenuto che la potenza divina è determinata al corso attuale delle cose, a motivo dell'ordine della sapienza e della giustizia divina, senza le quali Dio non opera. - Siccome la potenza di Dio, la quale è la sua stessa essenza, non è distinta dalla sapienza di Dio, si può a buon diritto affermare che nulla rientra nella potenza di Dio, che non rientri anche nell'ordine della divina sapienza: infatti la sapienza divina abbraccia tutto ciò che può la potenza. Pur tuttavia l'ordine che la divina sapienza ha impresso nelle cose, e che, come abbiamo già dimostrato, costituisce l'essenza della giustizia, non adegua la sapienza divina, in modo che la sapienza divina sia limitata all'ordine attuale. È evidente, infatti, che tutta la concezione dell'ordine, imposto dal sapiente alle sue opere, si desume dal fine. Quando, dunque, il fine è proporzionato alle cose fatte per questo fine, la sapienza dell'agente è limitata ad un determinato ordine. Ma, la bontà divina è un fine che eccede oltre ogni proporzione le cose create. Quindi la sapienza divina non è determinata ad un ordine fisso di cose, in modo tale che da essa non possa derivarne un altro. Bisogna dunque affermare in modo assoluto che Dio può fare altre cose oltre quelle che fa.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. In noi la potenza e l'essenza sono distinte dall'intelligenza e dalla volontà, e, a sua volta, l'intelletto è distinto dalla sapienza e la volontà dalla giustizia; perciò può esserci in noi qualche cosa che rientra nella (nostra) potenza, e non può rientrare nella volontà giusta o nell'intelletto saggio. Ma in Dio sono tutt'uno potenza ed essenza, volontà e intelligenza, sapienza e giustizia. Quindi nella potenza divina non può rientrare cosa alcuna, che non debba rientrare nella sua volontà giusta e nel suo intelletto sapiente. Tuttavia, siccome la sua volontà non è determinata necessariamente a questa o a quella cosa, se non forse ipoteticamente, come già vedemmo; e siccome neanche la sapienza e la giustizia di Dio, come abbiamo detto sopra, son determinate a tale ordine di cose; niente impedisce che nella potenza di Dio rientri qualche cosa ch'egli non vuole, e che non è contenuta entro l'ordine che ha fissato alle cose. E poiché la potenza si concepisce come esecutrice, la volontà invece come ordinatrice, e l'intelletto e la sapienza come principio direttivo (di ciò che la potenza esegue), quello che si attribuisce alla potenza in sé considerata, si dice che Dio lo può secondo la potenza assoluta. Tali sono tutte le cose in cui si può trovare la ragione di ente, come abbiamo detto sopra. Quello poi che si attribuisce alla potenza divina in quanto esegue gli ordini della volontà giusta, si dice che Dio lo può fare di potenza ordinata. In tal senso dunque, dobbiamo dire che Dio, di potenza assoluta, può fare cose diverse da quelle che ha previsto e stabilito di fare: peraltro non può darsi che faccia cose all'infuori di quelle che ha preconosciuto e che ha preordinato di fare. Poiché lo stesso suo fare è soggetto alla prescienza ed al preordinamento: non vi è soggetta però la sua potenza, perché questa rientra nella sua natura. Infatti, (quando) Dio fa qualche cosa, la fa perché vuole: invece non ha la potenza di farla perché vuole, ma perché tale è la sua natura.
2. Dio non deve niente a nessuno, tranne che a se stesso. Perciò, quando si dice che Dio non può fare se non quello che deve, non si vuol dire altro che Dio non può fare se non quello che è giusto e conveniente per lui. Ora, questa affermazione "(Dio non può fare se non quello che è) conveniente e giusto" possiamo intenderla in due maniere. Secondo una prima interpretazione (i termini) conveniente e giusto dovrebbero essere considerati in strettissimo rapporto con la parola è, in modo da restringere la frase a significare soltanto le cose attuali; e così (con tale restrizione) andrebbero riferiti alla (divina) potenza. E in tal modo l'affermazione è falsa: perché ne viene fuori questo senso: "Dio non può fare se non quello che nel momento attuale è conveniente e giusto". Se invece (i due termini) vengono considerati principalmente in rapporto con la parola può, che ha un valore (non restrittivo, ma) di amplificazione, e soltanto secondariamente sono messi in rapporto con la parola è, allora si verrà a significare un presente indeterminato, e ne risulterà un'affermazione vera, con questo significato: "Dio non può fare se non quello che, se egli lo facesse, sarebbe conveniente e giusto".
3. Sebbene l'ordine attuale delle cose sia limitato a quelle ora esistenti; tuttavia la sapienza e la potenza di Dio non si limitano a tale ordine. Quindi, quantunque per queste cose che ora sono nessun altro ordine sarebbe buono e conveniente, Dio, tuttavia, potrebbe fare altre cose e fissare ad esse un altro ordinamento.

ARTICOLO 6

Se Dio possa fare migliori le cose che fa

SEMBRA che Dio non possa fare migliori le cose che fa. Infatti:
1. Tutto quello che Dio fa, lo fa con somma potenza e sapienza. Ora, una cosa è fatta tanto meglio, con quanta maggiore potenza e sapienza viene fatta. Dunque Dio non può fare una cosa migliore di come la fa.
2. S. Agostino così argomenta: "Se Dio avesse potuto e non avesse voluto generare un figlio uguale a sé, sarebbe stato invidioso". Per la stessa ragione, se Dio poteva fare le cose migliori di come le ha fatte e non ha voluto farle, è stato invidioso. Ma l'invidia è del tutto estranea a Dio. Dunque Dio ha fatto tutto nel migliore dei modi. Quindi non può far niente meglio di come lo fa.
3. Ciò che è buono al massimo grado, non può essere fatto migliore: perché nulla è più grande del massimo. Ora, come dice S. Agostino, "le cose che Dio ha fatto, singolarmente considerate, sono buone, ma prese tutte insieme sono buonissime; perché dal loro insieme risulta l'ammirabile bellezza dell'universo". Dunque la bellezza dell'universo non può essere fatta migliore da Dio.
4. Cristo, in quanto uomo, è pieno di grazia e di verità, ed ha lo Spirito Santo senza misura; e quindi non può essere migliore. Parimente, la beatitudine creata si dice che è il sommo bene; e quindi non può essere migliore. Infine, la Beata Vergine Maria è stata esaltata su tutti i cori degli angeli; perciò non può essere migliore. Dunque Dio non può fare migliori tutte le cose che fa.

IN CONTRARIO: S. Paolo afferma che "Dio può fare tutto, ben al di là di quel che noi domandiamo o pensiamo".

RISPONDO: C'è una doppia bontà nelle cose. Una appartiene alla loro essenza, come essere ragionevole rientra nell'essenza dell'uomo. E, quanto a questa bontà, Dio non può fare una cosa migliore di come essa è, sebbene possa farne un'altra migliore. Come pure non può fare maggiore il numero quattro, perché se fosse maggiore, non sarebbe più il numero quattro, ma un altro numero. Difatti l'aggiunta di una differenza sostanziale nelle definizioni equivale all'aggiunta di una unità nei numeri, come osserva Aristotele. L'altra bontà è estranea all'essenza delle cose; come per l'uomo è un bene non essenziale essere virtuoso o essere sapiente. E secondo questa specie di bontà, Dio può rendere migliori le cose che egli ha fatto. Ma, assolutamente parlando, di qualsiasi cosa da lui fatta, Dio ne può fare un'altra migliore.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quando si dice che Dio può fare una cosa meglio di come l'ha fatta, se la parola meglio si prende come nome, l'espressione è vera, perché (Dio) di qualsiasi cosa può farne un'altra migliore. La medesima cosa poi in qualche modo la può fare migliore, e in qualche modo no, come abbiamo spiegato. Se poi il termine meglio si prenda come avverbio, e designi il modo di agire da parte di chi opera, in tal caso Dio non può far meglio di come fa: perché non può agire con maggiore sapienza e bontà. Se invece designi il modo di essere della cosa fatta, allora Dio può farla meglio; perché può dare alle cose che ha fatto un miglior modo di essere per quel che riguarda gli elementi accidentali, sebbene non lo possa quanto agli elementi essenziali.
2. È nella natura del figlio di essere uguale al padre, giunto che sia all'età perfetta; ma non rientra nell'essenza di alcuna creatura di essere migliore di come Dio l'ha fatta. Quindi il confronto non torna.
3. L'universo, supposte le cose che attualmente lo compongono, non può essere migliore, dato l'ordine convenientissimo impresso da Dio alle cose; nel quale ordine consiste il bene dell'universo. Che se una sola di tali cose fosse migliorata, l'ordine sarebbe turbato; come sarebbe alterata la melodia della cetra se una corda fosse tesa più del dovuto. Potrebbe, però, Dio fare altre cose o aggiungerne delle altre a quelle già fatte; ed in tal modo quello sarebbe un universo migliore.
4. L'umanità del Cristo perché unita alla Divinità, e la beatitudine creata perché godimento di Dio, e la Beata Vergine Maria perché Madre di Dio, hanno una certa dignità infinita, loro derivante dal bene infinito, che è Dio. E sotto questo aspetto niente può essere creato migliore di essi, come niente vi può essere migliore di Dio.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:12
Questione 26

La beatitudine di Dio

Finalmente, dopo la considerazione delle cose concernenti l'unità della divina essenza, bisogna trattare della beatitudine di Dio.
Intorno a ciò si fanno quattro quesiti: 1. Se la beatitudine spetti a Dio; 2. Secondo quale atto Dio si dica beato, se cioè secondo l'atto dell'intelletto; 3. Se Dio costituisca essenzialmente la felicità di ogni beato; 4. Se nelle sua beatitudine sia inclusa ogni beatitudine.

ARTICOLO 1

Se a Dio spetti la beatitudine

SEMBRA che a Dio non spetti la beatitudine. Infatti:
1. Al dire di Boezio la beatitudine è "uno stato perfetto in cui sono assommati tutti i beni". Ora, questa somma di beni non si trova in Dio, come (in lui) non vi è composizione. Dunque a Dio non spetta la beatitudine.
2. La beatitudine, o felicità, secondo il Filosofo è "il premio della virtù". Ora, a Dio non si addice il premio, come neppure il merito. Dunque nemmeno la beatitudine.

IN CONTRARIO: Scrive l'Apostolo: "...che, nei tempi stabiliti, opererà il beato e unico sovrano, Re dei re e Signore dei signori".

RISPONDO: La beatitudine conviene a Dio in grado sommo. E infatti col nome di beatitudine non si intende altro che il bene perfetto della natura intellettuale: di cui è proprio conoscere la pienezza del bene che possiede, essere suscettibile di bene o di male ed essere padrona dei suoi atti. Ora, queste due cose, cioè essere perfetto ed essere intelligente, appartengono in modo eccellentissimo a Dio. Dunque la beatitudine conviene a Dio in sommo grado.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Questa somma di beni in Dio non vi è come un composto, ma come cosa semplice: perché quello che nelle creature è molteplice, preesiste in Dio nella semplicità e nell'unità, come già dimostrammo altrove.
2. Essere premio della virtù è cosa accidentale alla beatitudine o felicità in quanto c'è chi si acquista la beatitudine; precisamente come è accidentale all'ente di essere termine della generazione, in quanto (vi sono enti che) passano dalla potenza all'atto. Quindi come Dio ha l'essere sebbene non sia generato, così ha la beatitudine, benché non la possa meritare.

ARTICOLO 2

Se Dio sia beato di una beatitudine d'indole intellettuale

SEMBRA che Dio non sia beato di una beatitudine d'indole intellettuale. Infatti:
1. La beatitudine è il sommo bene. Ora, in Dio il bene si dice in ragione dell'essenza; poiché il bene riguarda l'essere che, secondo Boezio, segue l'essenza. Dunque anche la beatitudine si attribuisce a Dio a motivo dell'essenza e non dell'intelligenza.
2. La beatitudine ha ragione di fine. Ora, il fine è oggetto della volontà, come anche il bene. Dunque la beatitudine si attribuisce a Dio secondo la volontà e non secondo l'intelletto.

IN CONTRARIO: Dice S. Gregorio: "È glorioso chi, godendo in se stesso, non abbisogna di lodi che gli vengano dal di fuori". Ma essere glorioso (qui) significa essere beato. E siccome godiamo Dio con l'intelletto, poiché, secondo S. Agostino, "tutta la nostra ricompensa sarà la visione", si dovrà attribuire a Dio la beatitudine secondo l'intelletto.

RISPONDO: La beatitudine, come abbiamo detto, è il bene perfetto degli esseri intellettuali. Da ciò segue che, come ogni altro essere cerca la propria perfezione, così anche gli esseri intellettuali naturalmente desiderano essere felici. Ora, quello che vi è di più perfetto negli esseri intellettuali è l'operazione dell'intelligenza con la quale in qualche maniera si impossessano di tutte le cose. Per cui la beatitudine di ogni essere intelligente creato consiste nell'intendere. In Dio però l'essere non è realmente distinto dall'atto dell'intendere, ma solo secondo il nostro modo di concepire. Dunque bisogna attribuire una beatitudine d'indole intellettuale a Dio, come pure a tutti i beati, i quali son detti così per assimilazione alla beatitudine di lui.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Con tale argomento si prova che Dio è beato per essenza; non si prova però che in ragione della sua essenza gli spetti la beatitudine, che invece gli conviene in ragione dell'intelletto.
2. La beatitudine, dal momento che è un bene, è oggetto della volontà. Ma l'oggetto di una potenza si concepisce prima dell'atto. Quindi, secondo il nostro modo di intendere, la beatitudine divina è anteriore all'atto della volontà che si riposa in essa. E questo non può essere altro che l'atto dell'intelletto. Perciò la beatitudine si effettua nell'atto dell'intelligenza.

ARTICOLO 3

Se Dio sia la beatitudine di ogni beato

SEMBRA che Dio sia la beatitudine di ogni beato. Infatti:
1. Dio, come si è dimostrato sopra, è il sommo bene. Ora, è impossibile che vi siano più sommi beni, come si è già visto. Ma poiché appartiene all'essenza della beatitudine di essere il sommo bene, è chiaro che la beatitudine non è altro che Dio.
2. La beatitudine è il fine ultimo degli esseri intelligenti. Ora, essere ultimo fine delle nature intellettuali conviene solo a Dio. Dunque la beatitudine di ogni beato è soltanto Dio.

IN CONTRARIO: La beatitudine dell'uno è maggiore di quella dell'altro, secondo il detto: "Un astro differisce dall'altro nello splendore". Ma nulla è più grande di Dio. Dunque la beatitudine è una cosa diversa da Dio.

RISPONDO: La beatitudine delle nature intellettuali consiste in un atto dell'intelligenza. E in esso si possono considerare due cose, cioè: l'oggetto dell'atto, che è l'intelligibile; e l'atto stesso, che è l'intellezione. Se dunque si considera la beatitudine dal lato dell'oggetto, allora soltanto Dio è la beatitudine: perché uno è beato soltanto per il fatto che vede Dio con la sua intelligenza, secondo il detto di S. Agostino: "Beato è chi conosce te, anche se ignori tutto il resto". Ma se si considera in rapporto all'atto del soggetto intelligente, allora la beatitudine nelle creature è qualche cosa di creato; in Dio, invece, anche sotto questo aspetto, è qualche cosa d'increato.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La beatitudine quanto all'oggetto è il sommo bene in senso assoluto; invece la beatitudine nelle creature beate considerata in relazione all'atto, è un sommo bene, non però in senso assoluto, ma nell'ordine dei beni che possono essere partecipati dalle creature.
2. Il termine fine può indicare due cose, cioè il finis cuius e il flnis quo; ossia, la cosa di cui si gode, e l'atto col quale si gode: p. es., per l'avaro il finis cuius è il denaro, e il finis quo è l'acquisto del denaro. Quindi per le creature ragionevoli Dio è il fine ultimo quale oggetto; ma la beatitudine creata è l'uso, o meglio, il godimento di tale oggetto.

ARTICOLO 4

Se nella beatitudine di Dio sia inclusa ogni altra beatitudine

SEMBRA che la beatitudine di Dio non includa ogni altra beatitudine. Infatti:
1. Vi sono delle false beatitudini. Ora, in Dio non vi può esser niente di falso. Dunque la beatitudine di Dio non include ogni altra beatitudine.
2. Secondo alcuni vi è una beatitudine consistente in cose materiali, i piaceri, le ricchezze, e simili; (tutte) cose che non possono convenire a Dio, essendo egli incorporeo. Dunque la beatitudine di Dio non comprende tutte le altre beatitudini.

IN CONTRARIO: La beatitudine è una perfezione. Ora, la perfezione di Dio comprende ogni perfezione, come abbiamo dimostrato sopra. Dunque la beatitudine divina include ogni beatitudine.

RISPONDO: Quanto di desiderabile si trova in qualsiasi beatitudine, sia vera o falsa, preesiste in modo eminente nella beatitudine divina. Così, (se si considera) la felicità della vita contemplativa, Dio ha la continua e infallibile contemplazione di se stesso e di tutte le altre cose: (se si considera) la felicità della vita attiva, ha il governo di tutto l'universo. Mentre (se si considera) la felicità terrena, consistente secondo Boezio nei piaceri, nelle ricchezze, nel potere, nelle cariche e nella gloria, Dio possiede in cambio dei piaceri la contentezza di sé e di tutte le altre cose; in cambio delle ricchezze, ha quella assoluta sufficienza che le ricchezze promettono; in luogo del potere, ha l'onnipotenza; in luogo delle cariche, il regime universale; in vece della gloria, l'ammirazione di ogni creatura.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Una beatitudine è falsa in quanto si allontana dalla natura della vera beatitudine: e sotto tale aspetto non può trovarsi in Dio. Ma tutto ciò che in essa somiglia, per quanto lontanamente, alla vera beatitudine, preesiste nella beatitudine divina.
2. I beni che si trovano materialmente negli esseri corporei, si trovano in Dio alla maniera di Dio, (vale a dire) spiritualmente.

E questo basti per quanto riguarda l'unità della divina essenza.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:12
Questione 27

Origine o processioni delle Persone divine

Dopo aver considerato ciò che riguarda l'unità dell'essenza divina, resta da vedere quello che riguarda la trinità delle Persone. E siccome le Persone divine si distinguono per le loro relazioni d'origine, secondo l'ordine della materia, si tratterà prima dell'origine o processioni, poi delle relazioni di origine, e in terzo luogo delle Persone.
Sulla processione si pongono cinque quesiti: 1. Se in Dio vi siano processioni; 2. Se qualcuna di queste processioni si possa dire generazione; 3. Se oltre la generazione vi sia in Dio qualche altra processione; 4. Se quest'altra non possa anch'essa dirsi generazione; 5. Se in Dio vi siano solo due processioni.

ARTICOLO 1

Se in Dio vi siano processioni

SEMBRA che in Dio non vi possa essere alcuna processione. Infatti:
1. Processione significa movimento e precisamente movimento verso l'esterno. Ma in Dio non vi è nulla che sia mobile o esterno. Quindi neppure vi è processione.
2. Ciò che procede è diverso da quello da cui procede. Ora in Dio non c'è nulla di diverso, ma somma semplicità. Perciò in Dio non c'è alcuna processione.
3. Il procedere da altri pare che ripugni al concetto di primo principio. Ma, come si è provato più sopra, Dio è il primo principio. Quindi in lui non vi può essere alcuna processione.

IN CONTRARIO: Il Signore dice: "Io procedo da Dio".

RISPONDO: La Sacra Scrittura, trattando di Dio, usa parole esprimenti processione. Questa processione però fu intesa in diversi modi. Alcuni la intesero come processione degli effetti dalle cause. E così la intese Ario, il quale diceva che il Figlio procede dal Padre come sua prima creatura, e lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio come creatura di entrambi. - Ma allora né il Figlio sarebbe vero Dio, né lo Spirito Santo. Questo però è in contrasto con ciò che vien detto del Figlio: "affinché siamo nel vero suo Figlio. Questi è il vero Dio". E dello Spirito Santo è detto: "Non sapete che il corpo vostro è tempio dello Spirito Santo?". Ora, avere un tempio spetta a Dio solo.
Altri invece presero la processione nel senso che le si dà quando si dice che la causa procede nel suo effetto, o in quanto lo produce o in quanto gli imprime la propria somiglianza. In questo senso la interpretò Sabellio, il quale affermava che lo stesso Dio Padre è detto Figlio in quanto prese carne dalla Vergine. E diceva che è anche Spirito Santo in quanto santifica e vivifica l'uomo. - Questo senso però è escluso da ciò che il Signore dice di se stesso: "Il Figlio non può far nulla da sé solo"; e da molte altre espressioni le quali mostrano che il Figlio non è lo stesso che il Padre.
Ora, se si guarda bene, si vede che tanto l'uno che l'altro presero il termine processione nel senso di moto tendente all'esterno: quindi né l'uno né l'altro ammise la processione in Dio stesso. Essendo però ogni processione la conseguenza di qualche azione, come dall'azione che tende a un oggetto esteriore deriva una processione all'esterno; così dall'azione che resta nell'agente si ha una processione che resta nell'interno stesso dell'agente. E questo si vede molto chiaramente nell'intelletto, la cui azione, cioè l'intendere, rimane in chi intende. Difatti, in chiunque intende, per ciò stesso che intende, c'è qualcosa che procede in lui, ed è il concetto (l'idea) della cosa intesa, la quale sgorga dall'attività della mente e dalla nozione della cosa intesa. È questo concetto, o idea, che viene espresso esternamente con la voce: e vien detto verbo mentale e ne è segno il verbo orale o parola.
Ora, essendo Dio al di sopra di tutte le cose, ciò che si dice di lui non va inteso per analogia con le creature inferiori, ma con le superiori, cioè con le sostanze intellettuali; e per di più anche le similitudini desunte da esse sono insufficienti a rappresentare le cose divine. Perciò la processione (divina) non va presa nello stesso senso di quella che si verifica nei corpi con moto locale, o con l'azione transitiva di una causa su oggetti esteriori, come quella del fuoco sulla cosa scaldata; ma piuttosto come una emanazione intellettuale, quale è quella del verbo mentale che resta nella mente che lo esprime. E in questo stesso senso la fede cattolica ammette delle processioni in Dio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'argomento ha valore per la processione che è moto locale o conseguenza di azione tendente a materia esterna o ad effetto esteriore: ma non è di questo genere la processione che si ammette in Dio, come si è spiegato.
2. Ciò che procede per processione all'esterno, deve essere diverso dal principio da cui procede. Ma ciò che procede interiormente per processo intellettuale non occorre che sia diverso: anzi, quanto più perfettamente procede, tanto più si identifica con ciò da cui procede. Infatti è chiaro che quanto più perfettamente una cosa si intende, tanto più intima resta a chi la intende e più unificata (al principio da cui procede). Infatti tanto più una cosa si identifica con l'intelletto, quanto più l'intelletto attualmente la intende. Perciò siccome l'intendere di Dio è al vertice della (attualità o) perfezione, come si è già detto, necessariamente il verbo divino è una cosa stessa col principio da cui procede, senza ombra di diversità.
3. Procedere da un principio, come qualcosa di estraneo e diverso da esso, ripugna al concetto di primo principio: invece procedere come qualcosa di intimo e senza alcuna diversità, in maniera intellettuale, è incluso nel concetto di primo principio. Difatti quando diciamo che l'architetto è principio dell'edificio, nel concetto di questo principio è inclusa l'idea (dell'edificio, cioè) della sua arte: e se l'architetto fosse il primo principio, tale idea sarebbe inclusa nell'idea di primo principio. Ora Dio, che è il primo principio delle cose, sta ad esse come un artefice sta alle sue opere.

ARTICOLO 2

Se in Dio qualche processione possa dirsi generazione

SEMBRA che nessuna processione in Dio si possa dire generazione. Infatti:
1. La generazione è una mutazione dal non essere all'essere, cioè l'opposto della corruzione; ed il soggetto ad esse comune è la materia. Ma niente di tutto questo conviene a Dio. Quindi nella divinità non vi può essere generazione.
2. La processione che c'è in Dio è di ordine intellettuale, come si è spiegato. Ma tale processione in noi non si dice generazione. Quindi neppure in Dio.
3. Ogni cosa generata riceve il suo essere dal generante. Dunque l'essere, in ogni cosa generata, è un essere ricevuto. Ma l'essere ricevuto non è di per sé sussistente. Ora, siccome l'essere divino, come si è già dimostrato, è per sé sussistente, ne segue che nessuna cosa generata ha l'essere divino. Quindi non si può dire che in Dio ci sia generazione.

IN CONTRARIO: Sta scritto nei Salmi: "Io oggi ti ho generato".

RISPONDO: In Dio la processione del verbo si chiama generazione. Per chiarire questo punto si deve notare che la parola generazione la usiamo in due sensi. Primo, in un senso vago, e si estende a tutte le cose generabili e corruttibili. E così la generazione non è altro che una mutazione dal non essere all'essere. Secondo, in senso proprio (da applicarsi) ai viventi: e così la generazione significa l'origine di un vivente da un altro come da principio vivente ad esso congiunto. E questa si dice propriamente nascita. Tuttavia non ogni vivente si dice generato, ma in senso rigoroso soltanto quello che procede per via di somiglianza. Perciò i peli o i capelli non hanno natura di cosa generata e di figlio, ma solo ciò che procede per via di somiglianza. E non basta neppure una somiglianza generica, giacché i vermi che nascono dall'uomo non si dicono generati da lui, né suoi figli sebbene vi sia una somiglianza generica: ma si richiede ulteriormente che proceda come simile nella stessa specie di natura, come l'uomo dall'uomo, il cavallo dal cavallo.
Nei viventi dunque che passano dalla potenza all'atto della vita, vi sono tutti e due i suddetti modi di generazione, come negli uomini e negli animali. Se invece c'è un vivente la cui vita non passa dalla potenza all'atto, dato che in lui ci sia una processione, essa esclude affatto il primo modo di generazione; ma potrà benissimo avere l'altro modo, quello esclusivo dei viventi.
Ed è in questo modo che in Dio la processione del verbo è una generazione. Esso infatti procede per un'azione intellettuale che è operazione vitale, e da un principio congiunto, come si è detto: e secondo una somiglianza perché il concetto dell'intelletto è (immagine o) somiglianza della cosa intesa, e della stessa natura poiché, come si è dimostrato sopra, l'intendere e l'essere in Dio sono la stessa cosa. Perciò la processione del verbo in Dio si dice generazione, e il verbo che così procede si dice Figlio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Questa prima difficoltà proviene dalla generazione presa nel primo senso, in quanto cioè importa un passaggio dalla potenza all'atto. Ma, come già si è detto, non in tal senso si trova in Dio.
2. In noi l'intendere non è la sostanza dell'intelletto: quindi in noi il verbo che procede per l'operazione intellettiva non è della stessa natura dell'intelletto da cui procede. Perciò (a questo suo procedere) non conviene propriamente e completamente l'idea di generazione. L'intendere divino, invece, è la stessa sostanza di colui che intende, come si è dimostrato altrove: perciò il verbo che ne procede, procede come sussistente della stessa natura del suo principio. Per questo esso è detto in senso proprio generato e Figlio. Quindi la Scrittura a significare la processione della Sapienza usa termini appartenenti alla generazione dei viventi, cioè le parole concepimento e parto: è detto infatti in persona della Sapienza divina: "Non esistevano ancora gli abissi e io ero già concepita; prima dei colli ero partorita". (Quando parliamo) del nostro intelletto usiamo anche la parola concezione, ma solo perché nel nostro verbo mentale c'è la somiglianza della cosa intesa, senza però che vi sia l'identità della natura.
3. Non tutto ciò che si può dire avuto in un soggetto si può anche dire ricevuto: altrimenti non si potrebbe dire che le cose create hanno tutta la loro sostanza da Dio, perché non c'è un soggetto ricettivo di tutta la sostanza. Così, dunque ciò che in Dio è generato ha l'essere dal generante, non però come se quell'essere fosse ricevuto in una materia o soggetto (perché ciò ripugna all'essere divino essenzialmente sussistente); ma si dice avuto in quanto chi procede ha da altri l'essere divino che ha e non perché egli sia altra cosa dall'essere divino. Giacché questo nella sua perfezione contiene ugualmente e il verbo che procede intellettualmente e il principio da cui questo verbo procede; come contiene, e lo abbiamo già visto, tutto ciò che rientra nella sua perfezione.

ARTICOLO 3

Se in Dio oltre la generazione del verbo, ci sia una seconda processione

SEMBRA che in Dio non ci sia una seconda processione, oltre la generazione del verbo. Infatti:
1. Per la stessa ragione per cui si ammette questa (seconda), se ne dovrebbe poi ammettere una terza, e poi una quarta e così si andrebbe all'infinito: cosa inammissibile. Bisogna quindi fermarsi alla prima, in modo che in Dio non ci sia che un'unica processione.
2. Per ogni natura non c'è che un solo modo di venir comunicata. E questo perché le operazioni hanno la loro unità e diversità dal termine. Ora, la processione che c'è in Dio è per comunicare la natura divina. E siccome questa è una sola, come già si è detto, una sola deve essere la processione in Dio.
3. Se in Dio ci fosse un'altra processione, diversa da quella del verbo, non potrebbe essere che quella dell'amore, la quale risulta dall'operazione della volontà. Ma questa processione non può essere diversa da quella intellettuale dell'intelletto; perché in Dio la volontà non differisce dall'intelletto, come si è già dimostrato. Perciò in Dio non c'è altra processione che quella del verbo.

IN CONTRARIO: Lo Spirito Santo procede dal Padre, come è detto nel Vangelo. Ora, Egli è diverso dal Figlio, secondo quello che sta scritto: "Io pregherò il Padre ed egli vi manderà un altro Consolatore". Quindi in Dio c'è un'altra processione oltre quella del verbo.

RISPONDO: In Dio, ci sono due processioni: quella del verbo e un'altra. A chiarimento di ciò si tenga presente che in Dio c'è soltanto la processione per azione immanente, e non quella che tende a un termine estrinseco. Ora, una tale azione nella natura intellettuale appartiene e all'intelletto e alla volontà. Secondo l'azione dell'intelletto si ha la processione del verbo. Secondo poi l'operazione della volontà si trova in noi un'altra processione; cioè quella dell'amore, per la quale l'amato si trova nell'amante, a quel modo che per la concezione del verbo la cosa espressa o intesa è in chi la intende. Quindi, oltre la processione del verbo, si pone in Dio un'altra processione, quella dell'amore.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Non c'è bisogno di giungere all'infinito nel numero delle processioni divine. Infatti in una natura intellettuale le processioni immanenti si arrestano a quella della volontà.
2. Contrariamente a quanto avviene nelle altre creature, tutto quello che avviene in Dio è Dio, come abbiamo già detto. Perciò per ogni processione immanente, in Dio si comunica la natura; ciò che non avviene negli altri esseri.
3. Sebbene in Dio la volontà non differisca dall'intelletto, tuttavia la volontà e l'intelletto richiedono che le loro processioni abbiano tra loro un ordine. Infatti non si dà processione d'amore se non in rapporto a quella del verbo (mentale): ché la volontà non può amare se non ciò che è appreso dall'intelletto. A quel modo dunque che abbiamo un ordine del verbo rispetto al principio da cui procede, quantunque in Dio l'intelletto e il verbo mentale siano essenzialmente la stessa cosa, così, sebbene in Dio siano la stessa cosa volontà e intelletto, siccome l'amore non può procedere se non dal verbo mentale, la processione dell'amore (anche) in Dio ha una distinzione di ordine da quella del verbo.

ARTICOLO 4

Se la processione dell'amore in Dio sia una generazione

SEMBRA che la processione dell'amore in Dio sia una generazione. Infatti:
1. Ciò che nei viventi procede in somiglianza di natura, procede come generato e nato. Ma in Dio ciò che procede come amore, procede in somiglianza di natura; perché altrimenti sarebbe di natura diversa da Dio, e si avrebbe una processione all'esterno. Quindi in Dio ciò che procede come amore, procede come generato e nato.
2. La somiglianza appartiene all'amore non meno che al verbo, onde è detto: "ogni animale ama il suo simile". Se dunque, a motivo della somiglianza, conviene al verbo che procede di essere generato e di nascere, pare che debba convenire anche all'amore che procede di essere generato.
3. Non può dirsi contenuto in un genere ciò che non è contenuto in qualcuna delle sue specie. Perciò se in Dio vi è una processione di amore, è necessario che oltre questo nome generico (di processione), essa ne abbia anche un altro speciale. Ma di nomi appartenenti a processione non c'è altro che quello di generazione. Perciò sembra che in Dio anche questa processione dell'amore sia generazione.

IN CONTRARIO: Se fosse così, lo Spirito Santo che procede come amore, procederebbe come generato. Ma ciò è contrario a quanto è detto nel Simbolo Atanasiano: "Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio, non come fatto, né creato, né generato, ma come procedente".

RISPONDO: La processione dell'amore in Dio non si può chiamare generazione. A chiarimento di ciò è da notare che tra l'intelletto e la volontà c'è questa differenza, che l'intelletto passa all'atto in quanto l'oggetto inteso è in esso per la sua somiglianza (o rappresentazione): invece la volontà passa all'atto non perché ci sia in essa una rappresentazione della cosa voluta, ma perché ha in sé una certa inclinazione verso la cosa voluta. Perciò la processione propria dell'intelletto è per somiglianza: e si può chiamare generazione, perché il produrre un proprio simile è caratteristico della generazione. Invece la processione della volontà non è secondo una somiglianza, ma piuttosto per un impulso o spinta verso qualcosa. Per questo, ciò che in Dio procede come amore, non procede come generato o figlio, ma piuttosto come spirito: nome, questo, con cui si indica un moto vitale e una spinta; poiché si dice che uno è spinto dall'amore a fare qualche cosa.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Tutto ciò che è in Dio è una stessa cosa con la natura divina. Perciò la vera ragione per cui si distingue una processione dall'altra non si può desumere da questa unità: ma si deve ricavare dall'ordine che c'è tra loro. E tale ordine si ricava dalla natura dell'intelletto e della volontà. Perciò dall'indole di queste facoltà tutt'e due le processioni in Dio traggono il nome che ne esprime la natura speciale. Ed è per questo che chi procede come amore, sebbene riceva la natura divina, tuttavia non si dice nato.
2. Si deve dire che la somiglianza appartiene al verbo e all'amore in modo diverso. Al verbo, in quanto esso è un'immagine, una riproduzione della cosa intesa, come il generato lo è del generante: all'amore invece appartiene non in quanto esso è l'immagine (della cosa amata), ma perché la somiglianza porta ad amare. Perciò non segue che l'amore sia generato: ma solo che il generato è il principio dell'amore.
3. Dio, come si è detto sopra, non lo possiamo nominare che dalle creature. Ora, siccome nelle creature la natura non si comunica che mediante la generazione, tra le processioni divine ha nome proprio e speciale soltanto la generazione. Quindi la processione che non è generazione rimane senza nome particolare. Si può però chiamare spirazione, perché processione dello spirito.

ARTICOLO 5

Se in Dio vi siano più di due processioni

SEMBRA che in Dio vi siano più di due processioni. Infatti:
1. Come si attribuisce a Dio la scienza e la volontà, così gli si attribuisce anche la potenza. Se dunque da parte dell'intelletto e della volontà si hanno in lui due processioni, pare che ce ne debba essere una terza da parte della potenza.
2. Sembra che alla bontà in modo particolare convenga di essere principio di processioni, dato che il bene tende a diffondere se stesso. Perciò si direbbe che in Dio vi debba essere qualche processione anche secondo la bontà.
3. La fecondità è maggiore in Dio che in noi. Ma in noi non c'è una sola processione concettuale, bensì molte; perché da un verbo ne sgorga un altro, e da un amore ne nasce un altro. Perciò in Dio vi devono essere più di due processioni.

IN CONTRARIO: In Dio non vi sono che due procedenti, cioè il Figlio e lo Spirito Santo. Quindi non vi sono che due processioni.

RISPONDO: In Dio non vi possono essere processioni che secondo azioni immanenti. Ora, in una natura intellettuale e divina queste non sono che due sole, cioè l'intendere e il volere. Il sentire, che pare anch'esso un'azione immanente, è estraneo alla natura (puramente) intellettuale; e non è del tutto fuori del genere delle azioni transeunti, perché si compie mediante l'azione del sensibile sul senso. Resta dunque che in Dio non vi possono essere altre processioni che quella del verbo e dell'amore.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La potenza è il principio dell'azione che si esercita su di un altro soggetto: quindi da essa proviene l'azione transeunte. Per questo dall'attributo della potenza non si ha una processione di persona divina, ma soltanto la derivazione delle creature.
2. Come dice Boezio, il bene appartiene all'essenza e non all'operazione, se non forse come oggetto della volontà. E siccome le processioni divine devono essere desunte dalle operazioni, quindi dalla bontà e da altri attributi non si hanno altre processioni oltre quelle del verbo e dell'amore, in quanto Dio intende ed ama la sua essenza, la sua verità e la sua bontà.
3. Come si è già detto Dio con un semplicissimo atto intende e vuole ogni cosa. Quindi in lui non vi può essere verbo da verbo, né amore da amore, ma c'è un solo verbo e un solo amore perfettissimi. E in ciò si manifesta la sua perfetta fecondità.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:13
Questione 32

La nostra conoscenza delle Persone divine

Logicamente passiamo ora a trattare della cognizione che possiamo avere delle divine Persone.
E a questo riguardo si pongono quattro quesiti: 1. Se con la ragione naturale si possano conoscere le Persone divine; 2. Se si debbano attribuire alle Persone divine delle nozioni; 3. Sul numero di queste nozioni; 4. Se circa le nozioni si possano avere opinioni differenti.

ARTICOLO 1

Se la Trinità delle divine Persone si possa conoscere con la sola ragione naturale

SEMBRA che con la sola ragione naturale si possa conoscere la Trinità delle Persone divine. Infatti:
1. I filosofi non giunsero alla cognizione di Dio che con la sola ragione naturale: ora, risulta che essi hanno detto molte cose sulla Trinità delle Persone. Infatti Aristotele afferma: "Con questo numero", cioè col tre, "ci industriamo di magnificare il Dio uno, superiore a tutte le perfezioni delle cose create". - E S. Agostino riferisce: "Ed io lessi costà", cioè nei libri dei Platonici, "non con le stesse parole, ma in sostanza le stesse cose, convalidate da molte e diverse ragioni, che in principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio", e altre simili cose egli seguita a narrare: e con tali parole si indica esattamente la pluralità delle Persone divine. - Anche la Glossa (spiegando il fatto) che i maghi del faraone fallirono al terzo segno (aggiunge): cioè mancarono della cognizione della terza Persona, ossia dello Spirito Santo; dunque ne conobbero almeno due. - Anche Trismegisto disse: "la monade generò la monade e riflettè in se stessa il suo calore": con le quali parole si viene a indicare la generazione del Figlio e la processione dello Spirito Santo. Dunque con la sola ragione si possono conoscere le Persone divine.
2. Afferma Riccardo di S. Vittore: "Ritengo per indubitato che qualsiasi verità si possa provare non solo con argomenti probabili ma anche con ragioni apodittiche". Per tale motivo alcuni vollero provare anche la Trinità delle Persone appellandosi all'infinita bontà di Dio che (soltanto) nella processione delle Persone divine si comunica in modo infinito. Altri invece riuscirono a provarla rifacendosi al principio che "senza la compagnia di altri non può essere veramente giocondo il possesso di un bene qualsiasi". Ed anche S. Agostino spiega la Trinità delle Persone con la processione del verbo e dell'amore nella nostra anima: ed è la via che anche noi abbiamo seguito. Perciò la Trinità delle Persone si può conoscere con la sola ragione naturale.
3. Sarebbe inutile rivelare all'uomo quello che non si può conoscere con la ragione umana. Ma non si può dire che la divina rivelazione del mistero della Trinità sia inutile. Dunque la Trinità delle Persone divine può essere conosciuta dalla ragione umana.

IN CONTRARIO: Dice S. Ilario: "Non pensi l'uomo di poter penetrare con la sua intelligenza il mistero della (eterna) generazione". E S. Ambrogio: "È impossibile capire il mistero della generazione (divina): la mente vien meno, la voce tace". Ma, come abbiamo dimostrato, è appunto dall'origine per generazione e processione che si distinguono le Persone divine. Perciò si conclude che la Trinità delle Persone non si può conoscere con la ragione, dal momento che l'uomo non è in grado di conoscere e di raggiungere con la sua intelligenza se non ciò che offre la possibilità di una dimostrazione apodittica.

RISPONDO: È impossibile giungere alla cognizione della Trinità delle Persone divine con la sola ragione naturale. Si è infatti dimostrato più sopra che l'uomo con la sola ragione non può giungere alla cognizione di Dio, se non per mezzo delle creature. Ora, queste conducono a Dio come gli effetti alle loro cause. Quindi con la ragione naturale si può conoscere di Dio soltanto quei dati che necessariamente conseguono dall'essere egli principio di tutte le cose; e su questo criterio ci siamo basati nel trattato su Dio. Ora, la virtù creatrice è comune a tutta la Trinità: quindi appartiene all'unità dell'essenza e non alla pluralità delle Persone. Perciò con la ragione naturale si può conoscere solo quanto fa parte dell'essenza e non ciò che appartiene alla pluralità delle Persone.
Quelli poi, che tentano di dimostrare la Trinità delle Persone con la ragione naturale, compromettono la fede in due modi. Primo, ne compromettono la dignità, poiché la fede ha per oggetto cose affatto invisibili, che superano la capacità della ragione umana. L'Apostolo infatti afferma che "la fede è di cose che non si vedono". E altrove: "Di sapienza parliamo sì tra uomini perfetti, ma è sapienza non di questo secolo, né dei principi di questo secolo; parliamo della sapienza di Dio in mistero, la sapienza nascosta". - Secondo, ne compromettono l'efficacia nell'attirare altri alla fede. Infatti, se per indurre a credere si portano delle ragioni che non sono cogenti, ci si espone alla derisione di coloro che non credono: poiché costoro penseranno che noi ci appoggiamo su tali argomenti per credere.
Per tale motivo tutto ciò che è di fede si deve provare soltanto con i testi (della Scrittura) per coloro che la riconoscono. Per gli altri basta difendere la non assurdità di quello che la fede insegna. Perciò Dionigi ammonisce: "Se qualcuno non cede all'autorità della parola di Dio, è del tutto estraneo e lontano dalla nostra filosofia. Se invece ammette la verità della parola", cioè di quella divina, "è con noi, giacché noi pure ci serviamo di tale regola".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. I filosofi non conobbero il mistero della Trinità delle divine Persone per quello che ad esse è proprio, cioè la paternità, la filiazione e la processione; secondo le parole dell'Apostolo: "Parliamo di sapienza divina, che nessuno dei principi di questo secolo ha conosciuto", cioè nessuno dei filosofi, come spiega la Glossa. Conobbero tuttavia alcuni attributi essenziali che si appropriano alle varie persone, come la potenza, la sapienza e la bontà che si appropriano (rispettivamente) al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. - Perciò l'espressione di Aristotele, "ci industriamo di magnificare Dio con quel numero..." non si deve intendere nel senso che egli ponesse il numero tre in Dio; ma vuole soltanto dire che gli antichi usavano il tre nei sacrifici e nelle preghiere, per una certa sua perfezione. - Nei libri dei Platonici poi l'espressione, "In principio era il verbo", non sta a indicare il verbo che in Dio è persona generata: ma soltanto il verbo che è idea astratta (e archetipa della realtà), secondo la quale tutte le cose furono fatte, e che si attribuisce per appropriazione al Figlio. - Ma per quanto (i filosofi) abbiano conosciuto gli attributi appropriati alle tre persone, si dice che fallirono al terzo segno, cioè nella cognizione della terza Persona, perché deviarono dalla bontà che viene appropriata allo Spirito Santo, mentre, come dice S. Paolo, pur avendo conosciuto Dio, "non lo glorificarono come Dio". Oppure perché i Platonici ammettevano un primo essere, che chiamavano padre di tutto l'universo, e dopo di lui un'altra sostanza a lui soggetta, che chiamavano mente o intelletto del padre, nella quale c'erano le idee di tutte le cose, come racconta Macrobio: e invece non parlavano affatto di una terza sostanza distinta che potesse in certo qual modo corrispondere allo Spirito Santo. Ora noi non ammettiamo che il Padre e il Figlio differiscano in tal modo per natura: ma questo fu l'errore di Origene e di Ario, che in ciò si lasciarono guidare dai Platonici. - Quanto poi all'affermazione di Trismegisto, che cioè "la monade generò la monade e riflettè in se stessa il suo calore", non è da riferirsi alla generazione del Figlio e alla processione dello Spirito Santo, ma all'origine del mondo, giacché il Dio uno produsse un universo per l'amore di se medesimo.
2. Si può portare un argomento per due scopi. Primo, per provare in modo rigoroso un dato principio: a tale scopo, p. es., nelle scienze naturali si portano argomenti rigorosi per dimostrare che il moto dei cieli ha sempre una velocità uniforme. Secondo, si può portare un argomento non per dimostrare scientificamente un dato principio, ma soltanto per far vedere come siano legati intimamente al principio, posto (come assioma), gli effetti che ne derivano: così, p. es., in astronomia si ammettono gli eccentrici e gli epicicli perché, accettata questa ipotesi, si può dare ragione delle irregolarità che nel moto dei corpi celesti appaiono ai sensi: tuttavia questo argomento non è apodittico, perché forse (tali irregolarità) potrebbero spiegarsi anche ammettendo un'altra ipotesi. Sono del primo genere le ragioni che si portano per provare l'unità di Dio ed altre simili verità. Invece gli argomenti con i quali si vuole provare la Trinità appartengono all'altro genere: perché, supposta la Trinità, quelle ragioni ne mostrano la congruenza; ma non sono sufficienti a provare la Trinità delle Persone. - E questo si vede benissimo esaminando i singoli argomenti. Infatti, l'infinita bontà di Dio, si manifesta anche nella sola produzione delle creature: perché solo una potenza infinita è capace di produrre dal nulla. In realtà perché Dio si comunichi con infinita bontà non è necessario che da lui proceda un infinito, ma che la cosa prodotta partecipi la bontà divina secondo tutta la propria capacità. - Così quel detto "senza compagnia non è del tutto giocondo il possesso di un bene" è vero quando in una persona non si trova la bontà nella sua perfezione, e quindi ha bisogno della bontà di un altro a sé associato per raggiungerne il pieno godimento. La somiglianza poi dell'intelletto nostro con quello divino non prova nulla in modo apodittico, perché l'intelletto non è univoco in Dio e in noi. - In conseguenza di tutto questo S. Agostino dice che la fede dà la scienza, ma la scienza non dà la fede.
3. La cognizione delle Persone divine ci è necessaria per due motivi. Primo, per avere un giusto concetto della creazione. Infatti dicendo che Dio ha fatto le cose mediante il Verbo, si evita l'errore di coloro i quali dicevano che Dio le ha create per necessità di natura. E con l'ammettere in Dio la processione dell'amore, si indica che non ha prodotto le creature per qualche sua indigenza o per qualche causa (a lui) estrinseca; ma solo per amore della sua bontà. Onde Mosè, dopo aver detto che "in principio Dio creò il cielo e la terra", soggiunge: "Disse Dio: Sia fatta la luce", per far conoscere il Verbo. E continua: "Vide Dio che la luce era buona", per mostrare l'approvazione dell'amore divino. E così (sta scritto) per le altre creature. - Secondo, e principalmente, perché si abbia una giusta idea della redenzione del genere umano avvenuta con l'incarnazione del Figlio e l'effusione dello Spirito Santo.

ARTICOLO 2

Se in Dio si debbano ammettere delle nozioni

SEMBRA che in Dio non si debbano ammettere delle nozioni. Infatti:
1. Dionigi scrive: "Non si deve aver l'ardire di attribuire a Dio nulla all'infuori di ciò che è espresso nella Scrittura". Ma nella Scrittura non si fa cenno delle nozioni. Perciò queste non si devono attribuire a Dio.
2. Tutto ciò che si attribuisce a Dio appartiene o all'unità dell'essenza o alla trinità delle persone. Ora, le nozioni non appartengono né all'unità dell'essenza né alla trinità delle persone. Infatti non si predicano delle nozioni gli attributi dell'essenza, poiché non si dice che la paternità è sapiente o che crea; e neppure quelli delle persone; poiché non diciamo che la paternità genera o che la filiazione è generata. Perciò le nozioni non si devono attribuire a Dio.
3. Poiché ciò che è semplice si conosce per se stesso, non gli si devono attribuire dei termini astratti (come le nozioni) che sono (soltanto) mezzi per conoscere. Ora le persone divine sono semplicissime. Non si devono dunque ammettere delle nozioni nella divinità.

IN CONTRARIO: Dice S. Giovanni Damasceno: "Rileviamo la differenza delle ipostasi", cioè delle persone, "dalle tre proprietà di paternità, filiazione e processione". Perciò in Dio si devono ammettere le proprietà e le nozioni.

RISPONDO: Prevostino, badando alla semplicità delle persone divine, pensò che a Dio non si dovessero attribuire le nozioni, e dove le trovava prendeva l'astratto per il concreto: perché, come usiamo dire, prego la tua benignità, invece di te benigno, così quando si parla di paternità, in Dio, si intenderebbe Dio Padre.
Però, come si è già dimostrato, nel parlare di Dio non si pregiudica affatto alla sua semplicità con l'uso dei termini astratti e concreti; perché denominiamo le cose come le conosciamo. Ora, il nostro intelletto non può giungere alla semplicità divina come va considerata in se stessa: e perciò le cose divine le apprende e le denomina secondo la sua natura, cioè come portano le cose sensibili dalle quali dipende il suo conoscere. In queste per indicare le sole forme usiamo termini astratti: invece per indicare le cose sussistenti usiamo termini concreti. Perciò, come si è detto, le cose divine, a motivo della loro semplicità, le designamo con termini astratti: e a motivo della loro sussistenza e completezza, con termini concreti.
È poi necessario esprimere all'astratto o al concreto non solo i termini essenziali, dicendo deità e Dio, sapienza e sapiente; ma anche quelli personali, dicendo paternità e Padre. A questo ci obbligano principalmente due motivi. Primo, le obiezioni degli eretici. Infatti noi professiamo che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un Dio solo e tre Persone; allora, come alla domanda: "che cos'è che li fa essere un solo Dio?", si risponde che è la natura o deità, così si dovette ricorrere ad altri termini astratti con i quali si potesse rispondere in forza di che cosa le persone si distinguono. Tali sono appunto le proprietà o nozioni, espresse all'astratto, come la paternità e la filiazione. Per questo in Dio la natura si esprime come quid (o sostanza), la persona invece come quis (o subietto), e la proprietà come quo (ovvero come forma).
Secondo, perché in Dio una stessa persona, il Padre, dice relazione a due persone, cioè al Figlio e allo Spirito Santo. Ora, non (può riferirsi a queste due persone) con una sola relazione: perché allora anche il Figlio e lo Spirito Santo si riferirebbero al Padre con una stessa relazione; e così ne seguirebbe che il Figlio e lo Spirito Santo non sono due persone distinte, poiché le sole relazioni distinguono le persone della Trinità. E non si può neppure dire con Prevostino che, come Dio ha riferimento alle creature in un modo solo, mentre le creature si riferiscono a lui in diversi modi, così il Padre con un'unica relazione si riferisce al Figlio e allo Spirito Santo, mentre questi due si riferiscono a lui con due relazioni. Perché non si può dire che due relazioni sono specificamente diverse, se nel termine correlativo corrisponde loro una sola relazione, poiché la relazione consiste essenzialmente nel suo riferirsi all'altro termine: difatti le relazioni di padrone e di padre sono distinte, come sono distinte quelle di servo e di figlio. Ora, tutte le creature si riferiscono a Dio con la stessa specifica relazione, quella cioè di sue creature; invece il Figlio e lo Spirito Santo non si riferiscono al Padre con relazioni di identica natura: e quindi il paragone non regge. Di più, come abbiamo già spiegato, non c'è motivo di ammettere che la relazione di Dio alle creature sia reale: che poi quelle di ragione siano molte non presenta inconvenienti. Invece la relazione del Padre al Figlio e allo Spirito Santo deve essere reale. Perciò è necessario che alle due relazioni del Figlio e dello Spirito Santo col Padre corrispondano nel Padre due relazioni, una al Figlio e l'altra allo Spirito Santo. Di conseguenza, non essendo che una la persona del Padre, si dovettero indicare separatamente con termini astratti le relazioni, denominate appunto proprietà e nozioni.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Sebbene delle nozioni non si parli nella Sacra Scrittura, tuttavia vi si nominano le Persone, nelle quali queste nozioni si trovano come l'astratto nel concreto.
2. Le nozioni in Dio non stanno a indicare delle realtà concrete, ma (soltanto) delle forme ideali, che servono a far conoscere le Persone; sebbene queste nozioni o relazioni esistano realmente in Dio, come abbiamo spiegato. Perciò tutto quello che dice ordine a qualche atto essenziale o personale, non si può attribuire alle nozioni: perché il significato particolare di queste ultime non lo comporta. Cosicché non si può dire che la paternità genera o che crea, e neppure che è sapiente o intelligente. Invece si possono attribuire alle nozioni gli attributi essenziali che non hanno stretto rapporto con un atto, ma escludono soltanto da Dio le condizioni delle creature: così possiamo dire che la paternità è eterna o immensa, e altre simili affermazioni. Allo stesso modo, data la loro identità reale, i sostantivi personali o essenziali si possono predicare delle nozioni; infatti si può dire: la paternità è Dio, la paternità è il Padre.
3. Quantunque le persone divine siano semplicissime, tuttavia, senza pregiudicare a tale loro semplicità, come si è già detto, si possono esprimere in termini astratti le ragioni (o i costitutivi) delle persone.

ARTICOLO 3

Se le nozioni siano cinque

SEMBRA che le nozioni non siano cinque. Infatti:
1. Le nozioni proprie delle persone sono le relazioni che le distinguono; ma queste sono soltanto quattro. Dunque anche le nozioni sono soltanto quattro.
2. Dio si dice uno perché una è l'essenza, e trino perché sono tre le persone. Se dunque in Dio vi sono cinque nozioni, dovrebbe dirsi cinquino; ma questo è inammissibile.
3. Se essendo tre le persone, le nozioni sono cinque, è necessario che in qualche persona vi siano due o più nozioni; così nella persona del Padre si ammette l'innascibilità, la paternità e la spirazione comune. Ora, queste tre nozioni differiscono o realmente o concettualmente. Se differiscono realmente, allora la persona del Padre è composta di più cose. Se differiscono soltanto concettualmente, allora una si potrà predicare dell'altra, e come diciamo che la bontà di Dio è la sua sapienza, non differendo realmente una dall'altra, così potremmo dire che la spirazione comune è la paternità: ma questo non si può ammettere. Dunque le nozioni non possono essere cinque.

IN CONTRARIO: 1. Pare che siano più (di cinque). Infatti come ammettiamo la nozione di innascibilità dal fatto che il Padre non procede da nessuno, così si deve ammettere una sesta nozione per il fatto che dallo Spirito Santo non procede un'altra persona.
2. Come è comune al Padre e al Figlio che da essi proceda lo Spirito Santo, così è comune al Figlio e allo Spirito Santo il procedere dal Padre. Perciò, come si ammette una nozione comune al Padre e al Figlio (la spirazione comune), così se ne deve ammettere anche una comune al Figlio e allo Spirito Santo (la comune processione).

RISPONDO: Si chiama nozione la ragione formale che serve a conoscere una persona divina. Ora, la pluralità delle persone divine dipende dall'origine. Il concetto di origine importa un principio (a quo alius) e un termine (qui ab alio): e da questi due lati si può conoscere una persona. Ora, non si viene a conoscere la persona del Padre perché deriva da un altro, ma perché non deriva da nessuno. E da questo lato la sua nozione è l'innascibilità. In quanto poi da lui derivano altri, (il Padre) si manifesta in due modi. Perché, in quanto da lui procede il Figlio si rende noto mediante la nozione di paternità: e in quanto da lui procede lo Spirito Santo si rende noto mediante la nozione di spirazione comune. Così pure si viene a conoscere il Figlio per il fatto che nascendo deriva da un altro: cioè si rende noto mediante la filiazione. E si rende noto allo stesso modo del Padre, cioè mediante la spirazione comune, in quanto un altro, cioè lo Spirito Santo, procede da lui. Si viene poi a conoscere lo Spirito Santo in quanto procede da un altro o da altri: e così ci si rende noto mediante la processione. Ma non (si viene a conoscere) per il fatto che altri proceda da lui: perché nessuna persona divina da lui procede. - Dunque in Dio ci sono cinque nozioni, cioè l'innascibilità, la paternità, la filiazione, la spirazione comune e la processione.
Di queste solo quattro sono relazioni, perché l'innascibilità è una relazione solo per riduzione, come si dirà in seguito. Quattro sole sono anche le proprietà: perché la spirazione comune, per ciò stesso che conviene a due persone, non è una proprietà. Tre soltanto sono nozioni personali, cioè costitutive delle persone, vale a dire paternità, filiazione e processione: giacché la spirazione comune e l'innascibilità sono nozioni di persone, ma non personali, come meglio si spiegherà in seguito.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Oltre le quattro relazioni bisogna ammettere, come si è spiegato, un'altra nozione (l'innascibilità).
2. L'essenza divina e le persone divine sono espresse come cose; ma le nozioni sono come ragioni formali che notificano le persone. Perciò, sebbene si dica che Dio è uno per l'unità dell'essenza, e trino per la trinità delle persone, non si può dire cinquino per le cinque nozioni.
3. Siccome soltanto l'opposizione delle relazioni produce pluralità reale in Dio, più proprietà di una stessa persona non si distinguono realmente perché tra loro non esiste opposizione di relazioni. Tuttavia non si predicano l'una dell'altra, perché stanno a indicare formalità diverse della stessa persona; come anche non diciamo che l'attributo di potenza è l'attributo della scienza, sebbene diciamo che la scienza è la potenza.
4. Come abbiamo visto, la persona importa dignità, perciò non si può ritenere come nozione dello Spirito Santo il non procedere da lui altra persona. Questo non conferisce nulla alla sua dignità, come (all'opposto) mette in evidenza l'autorità del Padre il non essere da altri.
5. Il Figlio e lo Spirito Santo non hanno in comune un unico e speciale modo di essere originati dal Padre; come (al contrario) il Padre e il Figlio hanno in comune un modo speciale di produrre lo Spirito Santo. Ora, ciò che è causa di cognizione (di una persona) deve essere qualche cosa di speciale, perciò il paragone non torna.

ARTICOLO 4

Se siano permesse opinioni contrastanti circa le nozioni

SEMBRA che non siano permesse opinioni contrastanti circa le nozioni. Infatti:
1. S. Agostino dice che "in nessun altro caso è tanto pericoloso l'errore" come in materia di Trinità, alla quale materia certamente appartengono le nozioni. Ma non si danno opinioni in contrasto senza che si abbia l'errore. Quindi non è lecita la libertà di opinione sulle nozioni.
2. Mediante le nozioni si conoscono le persone, come abbiamo spiegato. Ma circa le persone non è lecito seguire opinioni contrastanti. Dunque neppure circa le nozioni.

IN CONTRARIO: Negli articoli di fede non vi è nulla che riguardi le nozioni. Dunque a proposito di nozioni è lecito pensarla in un modo o in un altro.

RISPONDO: Una cosa può appartenere alla fede in due modi. Primo, direttamente: in qualità di oggetto principale della rivelazione divina, come l'unità e la trinità di Dio, l'incarnazione del Figlio di Dio, e simili. E (naturalmente) è eresia sostenere un'opinione sbagliata su tali argomenti: specialmente se vi si unisce la pertinacia. - Indirettamente invece appartengono alla fede quelle cose dalla cui negazione deriva qualche conseguenza contraria alla fede; come, p. es., se qualcuno negasse che Samuele fu figlio di Elcana: infatti ne verrebbe che la divina Scrittura contiene degli errori. Perciò su quello che appartiene alla fede in questo secondo modo uno può seguire opinioni erronee, senza pericolo di eresia, quando non è chiarito, o non è stato ancora determinato che da esse segue qualche cosa di contrario alla fede: tanto più se non vi aderisce con pertinacia. Ma se è chiaro, e specialmente se è stato determinato dalla Chiesa, che da tali idee deriva qualche cosa di opposto alla fede, il ritenerle sarebbe eresia. Per questo molte sentenze, che prima non si ritenevano eretiche, ora lo sono, perché adesso si vedono più chiaramente le conseguenze che ne derivano.
Perciò si deve concludere che anche circa le nozioni alcuni, senza pericolo di eresia, hanno potuto seguire opinioni contrastanti, non avendo essi l'intenzione di sostenere con ciò nulla di contrario alla fede. Se però qualcuno ne avesse un'opinione sbagliata avvertendo che ne deriva qualche cosa di contrario alla fede, costui cadrebbe nell'eresia.
Con ciò risulta evidente la risposta alle difficoltà.

Thomas Aquinas
23-06-04, 19:14
Questione 42

Uguaglianza e somiglianza delle Persone divine

Infine rimane da confrontare tra loro le persone divine. Primo, parleremo della loro uguaglianza e somiglianza; secondo, delle loro missioni.
Riguardo alla prima questione si pongono sei quesiti: 1. Se l'uguaglianza abbia luogo tra le persone divine; 2. Se la persona che procede sia uguale in eternità a quella da cui procede; 3. Se tra le persone divine vi sia un ordine; 4. Se le persone divine siano uguali in grandezza; 5. Se siano una nell'altra; 6. Se siano uguali in potenza.

ARTICOLO 1

Se tra le persone divine vi sia uguaglianza

SEMBRA che tra le persone divine non vi sia uguaglianza. Infatti:
1. Come dice il Filosofo, l'uguaglianza si desume dal concordare nella quantità. Ora, tra le persone divine non c'è né la quantità continua intrinseca, chiamata estensione; né la quantità continua estrinseca, cioè il luogo e il tempo. E non c'è neppure tra loro l'uguaglianza nella quantità discreta, perché due persone sono più di una. Quindi alle persone divine non conviene l'uguaglianza.
2. Le persone divine, come si è detto, sono tutte di una stessa e identica essenza. Ora, l'essenza viene significata come una forma. Ma il concordare nella stessa forma non produce uguaglianza, ma solo somiglianza. Dunque tra le persone divine c'è somiglianza, ma non uguaglianza.
3. Le cose tra cui c'è uguaglianza sono uguali tra loro; infatti l'uguale si dice uguale all'uguale. Ma le persone divine non possono dirsi uguali l'una all'altra. Perché, come dice S. Agostino, "se l'immagine riproduce esattamente e perfettamente l'oggetto di cui è immagine, essa si adegua all'oggetto, non questo si adegua ad essa". Ora, il Figlio è immagine del Padre, perciò questi non è uguale al Figlio. Dunque tra le persone divine non c'è uguaglianza.
4. L'uguaglianza è una relazione. Ma nessuna relazione è comune alle persone divine: perché esse si distinguono tra loro appunto per le relazioni. Dunque alle persone divine non può convenire l'uguaglianza.

IN CONTRARIO: È detto nel Simbolo Atanasiano che "le tre persone sono coeterne ed uguali tra loro".

RISPONDO: È necessario ammettere che tra le persone divine c'è uguaglianza. Infatti, secondo il Filosofo, si ha il concetto di uguale escludendo il più e il meno. Ora, non possiamo ammettere che tra le persone divine ci sia il più e il meno: perché, come dice Boezio "sono costretti a riconoscere delle discrepanze" nella divinità "coloro che ammettono in Dio il più e il meno, come gli Ariani, i quali con lo stabilire dei gradi distruggono la Trinità e la riducono a una pluralità".
E il motivo è questo, che le cose disuguali non possono avere un'unica quantità. Ora, la quantità in Dio non è altro che la sua essenza. Donde segue che se nelle persone divine ci fosse qualche disuguaglianza, non potrebbero avere un'unica essenza: e così le tre persone non sarebbero un Dio solo, il che è inammissibile. Perciò bisogna ammettere l'uguaglianza tra le divine persone.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Ci sono due specie di quantità. La prima è quella di mole, o di estensione, che, essendo propria delle cose corporee, non si può trovare in Dio. L'altra è la quantità di intensità, che si desume dal grado di perfezione della natura o della forma: si parla di questa quantità quando un corpo si dice più o meno caldo, per indicare che più o meno perfettamente partecipa del calore. La grandezza di questa quantità intensiva si desume, in primo luogo, dalla sua radice, cioè dalla perfezione della natura o forma: e in quesio senso si può parlare di grandezza spirituale, come si parla di grande calore a motivo della sua intensità e perfezione. In tal senso S. Agostino dice che "tra le cose che sono grandi senza essere estese, è più grande quella che è migliore": infatti diciamo che è migliore ciò che è più perfetto. In secondo luogo si desume dagli effetti della forma. Il primo effetto della forma è l'essere: giacché ogni cosa ha l'essere dalla propria forma. L'altro effetto è l'operazione: giacché ogni agente agisce in forza della propria forma. Perciò la misura quantitativa dell'intensità si desume e dall'essere e dall'operazione: dall'essere in quanto le cose di natura più perfetta sono anche più durature; dall'operazione, in quanto le cose di natura più perfetta sono anche più capaci di agire. Perciò, come dice S. Agostino, l'uguaglianza tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo "sta in questo, che nessuno di loro precede l'altro nell'eternità, o lo sorpassa nella grandezza, o lo supera nella potenza".
2. Dove l'uguaglianza si desume dalla quantità di intensità, essa include la somiglianza e vi aggiunge in più l'esclusione di una preminenza. Infatti le cose che hanno la stessa forma si possono bensì dire simili, anche se la partecipano in grado differente; l'aria, p. es., può dirsi simile al fuoco nel calore: però non si possono dire uguali se una partecipa la forma più perfettamente dell'altra. Ora, il Padre e il Figlio non solo hanno la stessa natura, ma l'hanno in modo ugualmente perfetto; perciò il Figlio non solo si dice simile al Padre, per escludere l'errore di Eunomio, ma contro quello di Ario lo si dice anche uguale.
3. L'uguaglianza e la somiglianza in Dio si possono esprimere in due modi, cioè coi nomi e coi verbi. Se si esprimono coi nomi, allora tanto l'una che l'altra ammettono la reciprocità, perché il Figlio è simile e uguale al Padre, e il Padre è simile e uguale al Figlio. E questo perché l'essenza divina non è più nel Padre che nel Figlio: perciò come il Figlio ha la grandezza del Padre, e quindi è uguale al Padre, così il Padre ha la grandezza del Figlio ed è uguale al Figlio. Invece nelle creature, come dice Dionigi, (questo non avviene, cioè) "non c'è questa reciprocità di uguaglianza e di somiglianza". Tanto è vero che gli effetti si dicono simili alle loro cause, perché ne hanno in sé la forma, ma non viceversa; perché la forma si trova principalmente nelle cause e solo secondariamente negli effetti. - I verbi però esprimono l'uguaglianza unita all'idea di movimento. E sebbene il moto in Dio non esista, tuttavia c'è in lui (il dare e) il ricevere. Quindi poiché il Figlio riceve dal Padre, diciamo che il Figlio uguaglia il Padre e non viceversa.
4. Nelle persone divine non c'è altro che l'essenza in cui comunicano, e le relazioni per le quali si distinguono. L'uguaglianza importa queste due cose: la distinzione delle persone, perché nessuna cosa può dirsi uguale a se stessa; e l'unità dell'essenza, perché le persone si dicono uguali tra loro precisamente perché sono di un'unica essenza e grandezza. È poi chiaro che nessuna cosa si riferisce a se medesima per una relazione reale. Così pure è evidente che una relazione non si riferisce ad un'altra mediante una terza relazione: difatti, quando diciamo che la paternità si oppone alla filiazione, l'opposizione non è una terza relazione interposta tra la paternità e la filiazione. Perché altrimenti in tutti e due i casi si andrebbe all'infinito. Perciò l'uguaglianza e la somiglianza delle persone divine non è un'altra relazione reale distinta dalle relazioni personali (paternità, filiazione, spirazione): ma nel suo concetto include sia le relazioni che distinguono le persone come l'unità dell'essenza. Per questo il Maestro delle Sentenze dice che nelle persone divine "soltanto le denominazioni sono relative".

ARTICOLO 2

Se la persona che procede, il Figlio, per esempio, sia coeterna al suo principio

SEMBRA che la persona che procede, il Figlio, p. es., non sia coeterna al suo principio. Infatti:
1. Ario enumera dodici modi di derivazione. Il primo è quello della linea che nasce dal punto: e qui manca l'uguaglianza nella semplicità. Il secondo è quello dell'emissione dei raggi dal sole: dove manca l'uguaglianza di natura. Il terzo modo è quello conforme al bollo o all'impronta lasciata dal sigillo: ove però manca la consustanzialità e l'efficacia di potenza. Il quarto è quello dell'infusione della buona volontà da parte di Dio: dove manca affatto la consustanzialità. Il quinto è quello della derivazione dell'accidente dalla sostanza: e all'accidente manca la sussistenza. Il sesto modo è quello dell'astrazione delle specie conoscitive dalla materia, i sensi, p. es., ricevono la specie dalle cose sensibili: e qui manca l'uguaglianza (di immaterialità o) di semplicità spirituale. Il settimo è quello dell'eccitazione della volontà prodotta dal pensiero; ma questa eccitazione richiede del tempo. L'ottavo modo è quello della mutazione di figura, come quando col bronzo si forma una statua: e questo è sempre materiale. Il nono è quello del moto prodotto dal movente: e qui si ha causa ed effetto. Il decimo è quello desunto dalle specie che vengono tratte fuori dal genere (nel quale erano contenute): ma questo modo non può convenire a Dio, perché il Padre non si predica del Figlio, come si predica il genere della specie. L'undicesimo è quello dell'ideazione, secondo cui l'arca sensibile deriva da quella ideale esistente nella mente (dell'artigiano). Il dodicesimo è quello della nascita, cioè quello del figlio che nasce dal padre: ma qui abbiamo un prima e un poi in ordine di tempo. È chiaro perciò che in qualunque modo una cosa derivi da un'altra, o manca l'uguaglianza di natura o quella di durata. Se dunque il Figlio deriva dal Padre, o bisogna dire che egli è minore del Padre, o che è posteriore, o l'una e l'altra cosa insieme.
2. Tutto ciò che deriva da un altro, ha un principio. Ma nulla di eterno ha principio. Dunque né il Figlio né lo Spirito Santo sono eterni.
3. Tutto ciò che si corrompe cessa di essere. Dunque tutto ciò che vien generato incomincia ad essere; infatti vien generato affinché sia. Ora il Figlio è generato dal Padre. Dunque incomincia ad essere, e non è coeterno al Padre.
4. Se il Figlio è generato dal Padre, o è continuamente generato, o si può assegnare un istante della sua generazione. Se è continuamente generato, siccome ciò che si sta generando è imperfetto, e lo vediamo bene nelle cose in divenire, cioè nel tempo e nel moto, ne segue che il Figlio è sempre imperfetto; il che è inammissibile. Dunque deve esserci un istante della generazione del Figlio. Dunque prima di quell'istante il Figlio non esisteva.

IN CONTRARIO: Nel Simbolo Atanasiano si legge che "tutte e tre le persone sono coeterne".

RISPONDO: È necessario concludere che il Figlio è coeterno al Padre. Per mettere in chiaro la cosa si osservi che due possono essere i motivi per cui quanto deriva da un principio è ad esso posteriore; primo, può dipendere dall'agente; secondo, può dipendere dall'azione. Se dipende dall'agente questo avviene in modi diversi secondo che si tratti di agenti volontari, o di cause naturali. Negli agenti volontari (la posteriorità di quanto ne deriva) si deve alla scelta del tempo: perché come è in loro facoltà la scelta della forma da dare all'effetto, e si è già spiegato, così è in loro potere la scelta del tempo per produrlo. Trattandosi invece di cause naturali, la posteriorità dell'effetto è dovuta al fatto che un agente inizialmente non ha quella perfezione di energia necessaria per agire, ma l'acquista dopo qualche tempo; così, p. es., l'uomo da principio è inetto alla generazione. - L'azione, a sua volta può impedire che il principio e quanto ne deriva siano simultanei, se essa ha un certo svolgimento. Quindi pur ammettendo che un agente cominci a compiere un'azione di questo genere, subito non appena esiste, nondimeno non si produrrà subito il suo effetto nello stesso istante, ma solo in quello che termina la sua azione.
Ora, stando a quanto si è detto sopra, è chiaro che il Padre non genera il Figlio per volontà, ma per natura. Inoltre la natura del Padre è perfettissima da tutta l'eternità. Di più l'azione con cui il Padre produce il Figlio non è un'azione che abbia uno svolgimento: perché altrimenti il Figlio di Dio sarebbe generato con uno sviluppo progressivo, e la sua generazione sarebbe di carattere materiale e soggetta a mutamento, il che è inammissibile. Rimane dunque stabilito che il Figlio esiste da quando esiste il Padre. Quindi il Figlio è coeterno al Padre: così pure lo Spirito Santo è coeterno a entrambi.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Nessuno dei modi di derivazione delle creature può rappresentare perfettamente la generazione divina. Quindi bisogna farsene un'idea ricavandola da questi vari modi, affinché ciò che manca in uno si possa trovare in un altro. Per questo il Concilio di Efeso insegna: "il termine splendore ti manifesti che il Figlio coesiste sempre coeterno al Padre; il termine verbo ti mostri l'impassibilità della sua nascita; e il nome Figlio ti insinui la sua consustanzialità". Ma fra tutte le derivazioni la più espressiva è quella del verbo che procede dall'intelletto; perché il verbo non è posteriore a chi lo esprime, a meno che non sia un intelletto che (come l'umano), passa dalla potenza all'atto: cosa che di Dio non si può dire.
2. L'eternità esclude l'inizio o il principio della durata, ma non il principio di origine.
3. Ogni corruzione è una mutazione: e quindi ciò che si corrompe cessa di essere ed incomincia a non essere. Ma la generazione divina non è una trasmutazione, come già si è detto. Perciò il Figlio vien sempre generato, e il Padre sempre lo genera.
4. Nella categoria del tempo ciò che è indivisibile, cioè l'istante, è diverso da ciò che perdura, cioè dal tempo. Ma nell'eternità l'istante indivisibile perdura sempre, come si è detto. Ora, la generazione del Figlio non avviene né in un istante del tempo, e meno ancora nel tempo, ma nell'eternità. Perciò per esprimere meglio la presenzialità e la permanenza eterna (dell'atto della divina generazione) si può dire con Origene che il Figlio "perpetuamente nasce". Pero, è meglio dire, con S. Gregorio e con S. Agostino, che il Figlio è sempre nato, per indicare con l'avverbio sempre la sua permanenza eterna, e col participio nato la sua perfezione. Sicché, il Figlio non è imperfetto, né "ci fu istante in cui egli non era", come pretendeva Ario.

ARTICOLO 3

Se nelle persone divine ci sia ordine di natura

SEMBRA che nelle persone divine non ci sia ordine di natura. Infatti:
1. Tutto ciò che c'è in Dio è o essenza o persona o nozione. Ma l'ordine di natura non significa né l'essenza né una persona e neppure una nozione. Quindi tale ordine non c'è in Dio.
2. In tutte le cose in cui c'è ordine di natura, una è prima dell'altra, almeno naturalmente o concettualmente. Ma, nelle persone divine, come dice Atanasio, "non c'è né prima né poi". Dunque nelle persone divine non c'è ordine di natura.
3. L'ordine suppone la distinzione tra le cose. Ma in Dio la natura non ammette distinzione. Quindi essa non è ordinata. Dunque in Dio non c'è ordine di natura.
4. La natura divina è l'essenza di Dio; ma in Dio non c'è ordine di essenza. Quindi non c'è neppure ordine di natura.

IN CONTRARIO: Ovunque c'è una pluralità senza ordine, c'è confusione. Ma, come si dice nel Simbolo Atanasiano, nelle persone divine non c'è confusione. Dunque c'è ordine.

RISPONDO: L'ordine si concepisce sempre in rapporto a un principio. Ora, abbiamo principi di vario genere, cioè geometrici, come il punto, razionali, come i principi di dimostrazione, e i vari generi di causa; quindi abbiamo vari generi di ordine. Ma tra le persone divine si parla di principio soltanto rispetto alle origini, senza priorità alcuna, come abbiamo spiegato. Quindi ci deve essere in Dio ordine rispetto alle origini, ma senza priorità. E questo è chiamato ordine di natura, "in forza del quale", al dire di S. Agostino "uno deriva dall'altro, senza che uno sia prima dell'altro".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Ordine di natura indica la nozione di origine, ma genericamente, senza alcuna specificazione.
2. Nelle creature anche se ciò che deriva da un principio fosse sincrono ad esso per la durata, qualora si consideri il principio come principio, il principio stesso è anteriore sia per priorità di natura che di ragione. Se invece si considerano (direttamente) le relazioni di causa e causato, di principio e principiato, è chiaro che esse sono simultanee, sia naturalmente che concettualmente, perché l'una cosa è inclusa nella definizione dell'altra. Ora, in Dio proprio le relazioni sono persone sussistenti di un'unica natura. Perciò in Dio né per la natura né per le relazioni una persona può essere prima delle altre, neppure per una priorità di natura o concettuale.
3. Parlare di ordine di natura non vuol dire ordinare la natura stessa; ma vuol dire semplicemente che tra le persone divine c'è un ordine secondo la loro origine naturale.
4. Natura implica in qualche modo l'idea di principio o di causa, non così essenza. Perciò l'ordine di origine si dice piuttosto ordine di natura, anziché ordine di essenza.

ARTICOLO 4

Se il Figlio sia uguale al Padre in grandezza

SEMBRA che il Figlio non sia uguale al Padre in grandezza. Infatti:
1. Il Figlio medesimo afferma: "il Padre è maggiore di me". E l'Apostolo dice di lui: "Il Figlio stesso sarà sottoposto a Colui che tutto gli ha assoggettato".
2. La paternità conferisce dignità al Padre. Ma essa non conviene al Figlio. Dunque il Figlio non ha tutto quello che appartiene alla dignità del Padre, e di conseguenza non gli è uguale in grandezza.
3. Dove troviamo un tutto e delle parti, parecchie di queste sono qualcosa di più che una sola o poche soltanto; tre uomini, p. es., sono più che uno o due. Ora anche in Dio si può trovare il tutto universale e le parti, perché sotto il termine di relazione o di nozione sono contenute più nozioni. Ora nel Padre ci sono tre nozioni, nel Figlio invece due soltanto; perciò il Figlio non può essere uguale al Padre.

IN CONTRARIO: S. Paolo così parla (del Figlio): "non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio".

RISPONDO: È necessario affermare che il Figlio è uguale al Padre in grandezza. Infatti la grandezza di Dio non è altro che la perfezione della di lui natura. Ora, rientra nell'idea di paternità e di filiazione che il figlio per la generazione arrivi a quello stesso grado di perfezione della natura raggiunto dal padre. Però negli uomini la generazione consiste nella lenta trasmutazione di un soggetto che passa dalla potenza all'atto; perciò il figlio di un uomo non è uguale al padre fin da principio; ma lo diviene in seguito con la crescita normale, a meno che non capiti altra cosa, data la scarsa efficacia del principio generativo. Ora, da quanto fu detto, è chiaro che in Dio c'è in senso vero e proprio tanto la paternità che la filiazione. Né si può dire che la potenza del Padre sia stata difettosa nel generare; o che il Figlio raggiunga la sua perfezione poco alla volta e per una lenta trasmutazione. Quindi si deve ammettere che il Figlio, già da tutta l'eternità, è uguale al Padre in grandezza. Per questo S. Ilario insegna: "Tolta la debolezza dei corpi, tolto l'inizio del concepimento, tolti i dolori del parto e tutte le umane necessità, ogni figlio, per la sua nascita è uguale al padre, essendone l'immagine naturale".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quelle parole vanno riferite alla natura umana del Cristo, nella quale egli è minore del Padre, e a lui sottoposto. Ma secondo la natura divina è uguale al Padre. E questo corrisponde a quanto asserisce S. Atanasio: "Egli è uguale al Padre per la divinità, minore del Padre per l'umanità". Oppure, secondo S. Ilario: "Il Padre è maggiore per la dignità di donatore, però non è minore colui cui viene dato l'identico essere". E altrove insegna che "la soggezione del Figlio, è pietà di natura", cioè riconoscimento dell'autorità paterna, "mentre la soggezione delle altre cose, è debolezza di creature".
2. L'uguaglianza si desume dalla grandezza. Ma in Dio grandezza indica perfezione della natura, come si è detto sopra, ed appartiene così all'essenza. Perciò in Dio l'uguaglianza e la somiglianza si desumono da ciò che è essenziale: e non vi può essere in lui disuguaglianza e dissomiglianza per la distinzione delle relazioni. Quindi S. Agostino dice: "Si ha il problema dell'origine col domandare da chi deriva; si ha invece quello dell'uguaglianza domandando quale è, e come è grande". La paternità dunque costituisce la dignità del Padre, come la costituisce la di lui essenza, perché la dignità è qualcosa di assoluto che appartiene all'essenza. Ora, l'essenza che nel Padre è paternità, nel Figlio è filiazione. Perciò è vero che il Figlio ha tanta dignità quanta ne ha il Padre. Però non ne segue che si possa concludere: il Padre ha la paternità, dunque anche il Figlio ha la paternità. Perché (in tale illazione) si salta dall'essenza alle relazioni: infatti identica è l'essenza e la dignità del Padre e del Figlio, ma nel Padre ha la relazione di donatore; nel Figlio invece ha la relazione di ricevente.
3. La relazione in Dio non è un tutto universale, quantunque si predichi delle singole relazioni: perché tutte le relazioni si identificano nell'essenza e nell'essere, il che ripugna al concetto di universale, le cui parti si distinguono per il loro essere diverso. In precedenza abbiamo spiegato che anche persona in Dio non è un universale. Perciò né tutte le relazioni, né tutte le persone prese assieme sono qualcosa di più che una sola; perché in ogni persona c'è tutta la perfezione della natura divina.

ARTICOLO 5

Se il Figlio sia nel Padre e il Padre nel Figlio

SEMBRA che il Figlio non sia nel Padre, e viceversa (che il Padre non sia nel Figlio). Infatti:
1. Il Filosofo enumera otto modi secondo cui una cosa può essere in un'altra; e secondo nessuno di essi il Figlio è nel Padre o viceversa, come si può vedere percorrendoli uno ad uno. Dunque il Figlio non è nel Padre, né il Padre nel Figlio.
2. Nessuna cosa si trova in quella da cui è uscita. Ma il Figlio da tutta l'eternità è uscito dal Padre, come dice la Scrittura: "la sua uscita è dal principio dei giorni dell'eternità". Perciò il Figlio non è nel Padre.
3. Due opposti non si trovano l'uno nell'altro. Ma il Padre e il Figlio sono opposti relativamente. Perciò uno non può essere nell'altro.

IN CONTRARIO: Dice il Cristo nel Vangelo: "Io sono nel Padre, e il Padre è in me".

RISPONDO: Nel Padre e nel Figlio si devono considerare tre cose, cioè l'essenza, la relazione e l'origine; e secondo ognuna di esse il Figlio è nel Padre e viceversa. Il Padre è nel Figlio, secondo l'essenza, perché il Padre è la sua essenza, e senza trasmutarsi comunica questa sua essenza al Figlio: e siccome l'essenza del Padre è nel Figlio, così anche il Padre è nel Figlio. Così pure il Figlio è nel Padre, perché è la stessa essenza che è il Padre. Ciò corrisponde a quanto insegna S. Ilario: "L'immutabile Iddio segue, per così dire, la sua natura, generando un altro Dio immutabile. Perciò possiamo riconoscere come sussistente in quest'ultimo la natura divina, trovandosi Dio in Dio". - Anche secondo le relazioni è chiaro che uno degli opposti relativi è concettualmente nell'altro. - Così pure secondo l'origine è evidente che la processione del verbo intelligibile non è un'operazione che passa all'esterno, ma resta nell'intelletto che la esprime. Ed anche ciò che è espresso col verbo, è contenuto in esso. - Le stesse ragioni valgono per lo Spirito Santo.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Ciò che si trova nelle creature non basta a dare un'idea esatta delle cose di Dio. Perciò, secondo nessuno dei modi che il Filosofo enumera, il Figlio è nel Padre o viceversa. Il modo che più si avvicina è quello descritto da una cosa che resta immanente al principio che l'ha originata: però nelle creature manca sempre l'unità di essenza tra il principio e ciò che deriva da tale principio.
2. L'uscita del Figlio dal Padre avviene per una processione immanente, come quella del verbo interiore, che sgorga dal cuore e in esso rimane. Perciò in Dio questa uscita ha luogo soltanto per la distinzione delle relazioni, non per una separazione avvenuta nell'essenza.
3. Il Padre e il Figlio si oppongono per le loro relazioni e non per la loro essenza. Tuttavia, come si è detto, anche gli opposti relativi si trovano l'uno nell'altro.

ARTICOLO 6

Se il Figlio sia uguale al Padre nella potenza

SEMBRA che il Figlio non sia uguale al Padre nella potenza. Infatti:
1. Dice il Santo Vangelo: "Il Figlio non può fare nulla da sé, se non quello che vede fare dal Padre". Il Padre invece può fare da sé. Dunque il Padre è più potente del Figlio.
2. Il potere di chi comanda e insegna è maggiore del potere di chi ubbidisce e ascolta. Ora il Padre comanda al Figlio, il quale disse: "opero come il Padre mi ha comandato". Inoltre il Padre insegna anche al Figlio, poiché sta scritto: "Il Padre ama il Figlio, e gli manifesta tutto quello che egli fa". Così pure il Figlio ascolta: "Come io intendo, giudico". Perciò il Padre è più potente del Figlio.
3. Appartiene alla potenza del Padre poter generare un Figlio uguale a sé. Dice infatti S. Agostino: "Se non potesse generare un Figlio uguale a sé, dove sarebbe l'onnipotenza di Dio Padre?". Ma, come si è dimostrato, il Figlio non può generare un Figlio. Dunque il Figlio non può tutto quello che può il Padre. E quindi non è uguale a lui nel potere.

IN CONTRARIO: Il Vangelo afferma: "tutto quello che fa il Padre, lo fa parimente il Figlio".

RISPONDO: È necessario concludere che il Figlio è uguale al Padre anche nella potenza. Infatti il potere di agire è una conseguenza della perfezione della natura: così vediamo che nelle creature quanto più perfetta è la natura di un agente, tanto più perfettamente egli agisce. Ora, si è dimostrato che la stessa ragione di paternità e di filiazione richiede che il Figlio sia uguale al Padre nella grandezza, cioè nella perfezione della natura. Conseguentemente si deve anche dire che il Figlio è uguale al Padre nella potenza. - Lo stesso si dica dello Spirito Santo rispetto al Padre e al Figlio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Le parole evangeliche "il Figlio non può far nulla da sé" non tolgono nulla al Figlio del potere che ha il Padre; perché subito vi si aggiunge: "tutto quello che fa il Padre, lo fa parimente il Figlio". Ma ci mostrano che il Figlio riceve il potere dal Padre da cui riceve la natura. Quindi S. Ilario può affermare: "Tale è l'unità della natura divina che il Figlio, pur agendo di per sé, non agisce da sé".
2. Il manifestare del Padre e l'ascoltare del Figlio non significano altro che il Padre comunica al Figlio la scienza, come gli comunica l'essenza. E a questo stesso può riferirsi il comandare del Padre, avendogli dato da tutta l'eternità con la generazione, la cognizione e il volere di ciò che egli doveva fare. - Oppure, e meglio, tutto ciò è da riferirsi al Cristo come uomo.
3. Come la medesima essenza nel Padre è la paternità, e nel Figlio è la filiazione, così la medesima potenza nel Padre genera e nel Figlio è generata. Quindi è chiaro che tutto ciò che può il Padre, lo può anche il Figlio. Non ne segue però che il Figlio possa generare: perché (in tale illazione) si salta dall'essenza alle relazioni, giacché in Dio la generazione significa una relazione. Perciò il Figlio ha la stessa onnipotenza del Padre, ma con una diversa relazione. Il Padre la possiede come donatore: e ciò viene indicato col dire che può generare. Il Figlio invece la possiede come ricevente: e questo si indica affermando che può essere generato.

Thomas Aquinas
25-06-04, 20:24
SUMMA THEOLOGIAE (III)

Questione 1

Convenienza dell'incarnazione

Sul mistero dell'incarnazione abbiamo da considerare tre cose: la sua convenienza, il modo d'unione proprio del Verbo incarnato, le conseguenze di quest'unione.
Sulla convenienza dell'incarnazione si pongono sei quesiti: 1. Se era conveniente che Dio s'incarnasse; 2. Se ciò fosse necessario per la redenzione del genere umano; 3. Se Dio si sarebbe incarnato nel caso che l'uomo non avesse peccato; 4. Se Dio si sia incarnato più per togliere il peccato originale che quello attuale; 5. Se era conveniente che s'incarnasse agli inizi del mondo; 6. Se l'incarnazione dovesse essere differita alla fine del mondo.

ARTICOLO 1

Se era conveniente che Dio s'incarnasse

SEMBRA che l'incarnazione di Dio non fosse conveniente. Infatti:
1. Essendo Dio dall'eternità lo stesso bene per essenza, è cosa ottima che rimanga quello che da sempre è stato. Ma Dio è sempre stato assolutamente immateriale. Sarebbe stato dunque convenientissimo che egli non si fosse unito alla carne. Perciò l'incarnazione divina non era conveniente.
2. Stanno male insieme cose tra loro infinitamente distanti, come combinare insieme in una pittura la faccia d'uomo con un occipite di cavallo. Ma Dio e carne distano all'infinito: Dio è semplicissimo, la carne invece composta, specie quella umana. Era dunque sconveniente che Dio si unisse alla carne umana.
3. Tanto ci corre tra un corpo e lo spirito purissimo quanto tra il peccato e la somma bontà. Ma sarebbe stato del tutto sconveniente che Dio, bontà suprema, assumesse il peccato. Non era dunque conveniente che il sommo spirito increato assumesse un corpo.
4. Non si può costringere in minimi termini chi supera le grandi misure, né può dedicarsi a piccoli compiti chi è impegnato in quelli più grandi. Dunque non va bene, usando le parole di Volusiano a S. Agostino, "che nel corpicciuolo di un bimbo in fasce si nasconda colui al quale non basta l'universo; che abbandoni i suoi cieli il grande Sovrano, e riduca a un solo minuscolo corpo il governo di tutto l'universo".

IN CONTRARIO: È convenientissimo che le cose visibili mostrino le cose divine invisibili; per questo fine infatti il mondo è stato creato, come asserisce l'Apostolo: "Le invisibili perfezioni di Dio appaiono chiare dalle opere sue". Ma il mistero dell'incarnazione, dice il Damasceno, "rivela insieme la bontà, la sapienza, la giustizia, la potenza di Dio: la bontà, perché non sdegnò la debolezza della sua creatura; la giustizia, perché fece sconfiggere il demonio dallo stesso che ne era stato vinto e non a forza strappò l'uomo dalla morte; la sapienza, perché trovò il saldo più generoso per il debito più insolvibile; l'infinita potenza, perché non c'è nulla di più grande di un Dio fatto uomo". Era dunque conveniente che Dio si incarnasse.

RISPONDO: A ciascuna cosa si addice quello che è secondo la sua natura; all'uomo, per es., ragionare, perché è per sua natura ragionevole. Ma la natura di Dio è la bontà stessa, come spiega Dionigi. Perciò si addice a Dio tutto quello che è proprio della bontà.
Ora, la bontà tende a comunicarsi, osserva Dionigi. Di conseguenza alla somma bontà si addice di comunicarsi alla creatura in modo sommo. Ciò avviene precisamente quando Dio "unisce a sé una natura creata così intimamente che una sola persona risulti di tre elementi: Verbo, anima, carne", come si esprime S. Agostino. È chiaro dunque che l'incarnazione di Dio era conveniente.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il mistero dell'incarnazione non si è attuato per un qualche cambiamento nell'eterna condizione di Dio, ma in quanto egli in maniera nuova si unì a una creatura o meglio unì a sé la creatura. Ora, non disdice che una creatura, mutevole di per se stessa, non si mantenga sempre nel medesimo stato. Perciò come essa, non esistendo prima, fu prodotta nell'essere, così non era sconveniente che venisse unita a Dio dopo che non lo era mai stata.
2. L'unione con Dio in unità di persona non si addiceva alla carne umana in forza della sua natura, perché oltrepassava il suo ordine. Si addiceva tuttavia a Dio, per l'infinita eccellenza della sua bontà, che unisse a sé codesta carne per la nostra salvezza.
3. Ogni differenza che distanzia le creature dal Creatore è stata stabilita dalla sapienza di Dio e ordinata alla manifestazione della sua bontà: infatti Dio, non creato, non mutevole, non corporeo, produsse le creature mutevoli e materiali in funzione della sua bontà; ugualmente le pene furono introdotte dalla giustizia di Dio per la sua gloria. Al contrario le colpe si commettono con l'abbandono delle norme della sapienza divina e dell'ordine della divina bontà. Perciò Dio poteva assumere convenientemente una natura creata, mutevole, corporea e passibile; non così il male della colpa.
4. Rispondiamo con le stesse parole di S. Agostino a Volusiano: "La dottrina cristiana non insegna che Dio, calandosi nella carne umana, abbia abbandonato o perduto il governo dell'universo, oppure che l'abbia come ristretto in quel minuscolo corpo: questa è immaginazione di uomini capaci di pensare solo a livello della materia. Dio è grande non per mole, ma per la sua potenza; perciò la sua grandezza raccogliendosi nelle piccole cose non ne sente disagio. Come il nostro fugace parlare viene ascoltato in un medesimo istante da molti e arriva a ciascuno per intero, così non è incredibile che il Verbo divino, non fugace, sia contemporaneamente tutto e dovunque". Quindi nessun inconveniente deriva dall'incarnazione di Dio.

ARTICOLO 2

Se l'incarnazione del Verbo di Dio fosse necessaria per la redenzione del genere umano

SEMBRA che non fosse necessaria l'incarnazione del Verbo di Dio per la redenzione del genere umano. Infatti:
1. Il Verbo divino, essendo perfetto Dio, come vedemmo nella Prima Parte, non acquistò alcuna virtù dal corpo che assunse. Se dunque il Verbo divino riparò la nostra natura incarnandosi, l'avrebbe potuta riparare anche senza prendere un corpo.
2. Per la redenzione della natura umana, caduta a causa del peccato, si richiedeva soltanto che l'uomo soddisfacesse per il peccato. Dio infatti non deve esigere dall'uomo l'impossibile; ed essendo più incline a compatire che a punire, come imputò all'uomo l'atto del peccato, gli dovrebbe ascrivere a distruzione del peccato l'atto contrario. Non era dunque necessaria, per redimere la natura umana, l'incarnazione del Verbo di Dio.
3. La salvezza dell'uomo dipende principalmente dal suo rispetto verso Dio, come ricorda la S. Scrittura: "Se io sono il Signore, dov'è il rispetto a me dovuto? Se io sono il Padre, dov'è il mio onore?". Ma il rispetto di Dio nasce negli uomini alla considerazione della sua assoluta trascendenza e della sua lontananza dalla sensibilità umana; si legge infatti nei Salmi: "Eccelso su tutte le genti è il Signore e al di sopra dei cieli la sua gloria". "Chi è come il Signore, Dio nostro?". Che Dio dunque si faccia simile a noi assumendo la nostra carne non sembra che giovi alla salvezza umana.

IN CONTRARIO: Alla salvezza umana è necessario ciò che libera dalla perdizione il genere umano. Ma con il mistero dell'incarnazione divina si ottiene proprio questo, come dichiara il Vangelo: "Dio ha tanto amato il mondo che ha sacrificato il suo Figlio unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna". Dunque per la salvezza umana era necessario che Dio s'incarnasse.

RISPONDO: A un fine può essere necessario un mezzo in due modi: o così che senza di esso non si possa ottenere il fine, com'è necessario il cibo alla conservazione della vita umana; o così che il mezzo agevoli il raggiungimento del fine, com'è necessario un cavallo per un viaggio. Ebbene l'incarnazione di Dio non era necessaria per la redenzione della natura umana nel primo modo, potendo Dio redimerci con la sua onnipotenza in molte altre maniere. L'incarnazione era invece necessaria per la redenzione umana nel secondo modo. Di qui le parole di S. Agostino: "Dimostriamo che a Dio non mancavano altri mezzi, perché tutto sottostà ugualmente al suo potere; ma non ne ebbe un altro più conveniente per sanare la nostra miseria".
Tale convenienza può rilevarsi rispetto all'avanzamento dell'uomo nel bene. Primo, quanto alla fede, che acquista maggiore sicurezza dal credere alla parola immediata di Dio in persona. Perciò S. Agostino afferma: "Perché l'uomo con più fiducia accedesse alla verità, la Verità stessa, il Figlio di Dio, col farsi uomo gettò le fondamenta della fede". - Secondo, quanto alla speranza, che nell'incarnazione trova il suo stimolo più efficace: "Nulla", dice S. Agostino, "era tanto necessario a infonderci speranza quanto la dimostrazione del grande amore che Dio ci porta. Ma quale segno poteva essere più chiaro di questo, che la degnazione del Figlio di Dio a unirsi con la nostra natura?". - Terzo, quanto alla carità, che nell'incarnazione trova il suo massimo incentivo. Di qui le parole di S. Agostino: "Qual altro fine più grande ha la venuta del Signore se non la manifestazione dell'amore di Dio per noi?". E conclude: "Se poteva costarci di amare, che almeno non ci costi riamare". - Quarto, rispetto al ben operare, in cui con l'incarnazione Dio stesso si è fatto nostro modello. "Avevamo l'obbligo", spiega S. Agostino, "non di seguire l'uomo che si vedeva, ma Dio che non era visibile. Perciò, per dare all'uomo di poter vedere chi doveva seguire, Dio si fece uomo". - Quinto, quanto alla piena partecipazione della divinità, che è la vera beatitudine dell'uomo e il fine della sua vita. Tale piena partecipazione ci viene conferita per l'umanità di Cristo: infatti "Dio si è fatto uomo, perché l'uomo diventasse Dio", scrive S. Agostino.
Altrettanto utile era l'incarnazione per allontanare l'uomo dal male. Primo, perché persuade l'uomo a non stimare il diavolo, primo artefice del peccato, al di sopra di se stesso e a non prestargli ossequio. Per questo avverte S. Agostino: "Poiché la natura umana poté essere unita a Dio così intimamente da divenire con lui una sola persona, non osino quei superbi spiriti maligni anteporsi all'uomo vantandosi della propria incorporeità". - Secondo, l'incarnazione c'insegna quanto sia grande la dignità della natura umana, affinché non la macchiamo peccando. "Dio ci ha mostrato quale eminente posto abbia tra le cose create la natura umana, apparendo tra gli uomini come vero uomo", afferma S. Agostino. E il papa S. Leone ammonisce: "Riconosci, o cristiano, la tua dignità e, fatto partecipe della natura divina, non tornare all'antica miseria con un'indegna condotta". - Terzo, per distogliere l'uomo dalla presunzione "viene esaltata in Cristo uomo la grazia divina, non preceduta da merito alcuno", come si esprime S. Agostino. - Quarto, perché, per dirla col medesimo Santo, "una così grande umiltà di Dio è in grado di riprendere e di guarire la superbia dell'uomo, che costituisce l'impedimento più grave per la sua adesione a Dio". - Quinto, l'incarnazione giovò a liberare l'uomo dalla servitù. Ciò doveva avvenire, dice S. Agostino, "in modo che il diavolo fosse vinto dall'uomo Cristo Gesù"; e si attuò mediante la soddisfazione offerta da Gesù per noi. Un puro uomo infatti non avrebbe potuto soddisfare per tutto il genere umano; Dio d'altra parte non doveva soddisfare; era quindi necessario che Gesù Cristo fosse Dio e uomo. Di qui le parole di S. Leone papa: "La potenza assume la debolezza, la maestà l'abiezione; perché in corrispondenza dei nostri bisogni un solo e medesimo mediatore tra Dio e gli uomini potesse morire e risorgere per attributi diversi. Se infatti non fosse vero Dio, non potrebbe rimediare al nostro bisogno; se non fosse vero uomo, non sarebbe per noi un esempio".
Ci sono poi moltissimi altri vantaggi derivati dall'incarnazione al di sopra della comprensibilità umana.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'obiezione si fonda sul primo modo di necessità, quella cioè di un mezzo senza il quale non si può ottenere l'effetto.
2. Una soddisfazione può dirsi sufficiente in due modi. Primo, in maniera perfetta, in quanto è "condegna", ossia compensa degnamente o adeguatamente la colpa commessa. In tal senso non poteva essere sufficiente la soddisfazione d'un puro uomo, perché tutta la natura umana era stata corrotta dal peccato, né il merito di una o più persone poteva compensare alla pari il danno di tutta la natura. Inoltre, poiché il peccato commesso contro Dio acquista una certa infinità dalla infinità della maestà divina: l'offesa infatti è tanto più grande, quanto più grande è la persona verso cui si manca; era necessario per una soddisfazione adeguata che l'azione del riparatore avesse un'efficacia infinita, quale è appunto l'azione di un uomo-Dio.
Secondo, può dirsi sufficiente una soddisfazione in maniera imperfetta, ossia relativamente all'accettazione da parte di chi se ne contenta, anche se non è adeguata. In tal senso può essere sufficiente la soddisfazione d'un puro uomo. Tuttavia, poiché ogni cosa imperfetta presuppone la perfezione corrispondente su cui si regge, è dalla soddisfazione di Cristo che prende efficacia la soddisfazione d'ogni puro uomo.
3. Dio assumendo la carne non ha sminuito la propria maestà e quindi ciò non deroga al rispetto che gli è dovuto. Anzi questo cresce per la maggiore conoscenza che abbiamo di lui; poiché con il fatto stesso che ha voluto avvicinarsi a noi assumendo la carne, ci ha portati a conoscerlo di più.

ARTICOLO 3

Se Dio si sarebbe ugualmente incarnato nel caso che l'uomo non avesse peccato

SEMBRA che, se l'uomo non avesse peccato, Dio si sarebbe incarnato lo stesso. Infatti:
1. Rimane l'effetto, se rimane la causa. Ma nell'incarnazione di Cristo, come dice S. Agostino, oltre la liberazione dal peccato, "sono da considerarsi molte altre cause", quelle di cui abbiamo già fatto cenno. Dunque anche se l'uomo non avesse peccato, Dio si sarebbe incarnato.
2. Ci si aspetta dall'onnipotenza divina che porti a compimento le sue opere e che si manifesti in qualche effetto infinito. Ma nessuna pura creatura può dirsi effetto infinito, limitata com'è nell'essenza. In realtà solo nell'opera dell'incarnazione si manifesta un effetto infinito della potenza divina, che ha congiunto cose distanti tra loro all'infinito, facendo sì che l'uomo diventasse Dio. Nella medesima opera inoltre l'universo sembra raggiungere la sua perfezione, in quanto l'ultima creatura, l'uomo, viene congiunta con il primo principio, Dio. Dunque anche se l'uomo non avesse peccato, Dio si sarebbe incarnato.
3. La natura umana non è stata resa dal peccato più capace di grazia. Eppure dopo il peccato essa è stata in grado di ricevere la grazia dell'unione, che è la massima grazia. Dunque sarebbe stata capace di questa grazia, anche se l'uomo non avesse peccato. Né Dio avrebbe negato alla natura umana un bene di cui era capace. Dio quindi si sarebbe incarnato, anche se l'uomo non avesse peccato.
4. La predestinazione divina è eterna. Ma di Cristo S. Paolo dice che "è stato predestinato qual Figlio di Dio in manifestazioni di potenza". Perciò anche prima del peccato era necessario che per adempiere la predestinazione divina il Figlio di Dio s'incarnasse.
5. Il mistero dell'incarnazione fu rivelato al primo uomo, come risulta dalle sue parole: "Ecco, questo è un osso delle mie ossa, ecc.", relative al matrimonio, che l'Apostolo considera "grande mistero rispetto ai rapporti tra Cristo e la Chiesa". Ma l'uomo non poteva conoscere in precedenza la propria caduta, per la stessa ragione che non lo poteva l'angelo, come dimostra S. Agostino. Dunque Dio si sarebbe incarnato, anche se l'uomo non avesse peccato.

IN CONTRARIO: S. Agostino spiegando le parole evangeliche, "Il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto", dichiara: "Se l'uomo non avesse peccato, il Figlio dell'uomo non sarebbe venuto". Inoltre a commento delle parole di S. Paolo, "Cristo venne nel mondo a salvare i peccatori", la Glossa aggiunge: "Nessun motivo ebbe di venire tra noi Cristo Signore, se non quello di salvare i peccatori. Togli le malattie, togli le ferite e non c'è più bisogno di medicina".

RISPONDO: Ci sono in proposito opinioni opposte. Alcuni dicono che il Figlio di Dio si sarebbe incarnato, anche se l'uomo non avesse peccato. Altri invece affermano il contrario. Quest'ultima opinione pare che sia da preferirsi. Le cose infatti che dipendono dalla sola volontà di Dio, al di sopra di tutto ciò che è dovuto alle creature, non possono esserci note se non attraverso la Sacra Scrittura, nella quale la volontà divina viene manifestata. Perciò, siccome nella Sacra Scrittura il motivo dell'incarnazione viene sempre desunto dal peccato del primo uomo, è meglio dire che l'opera dell'incarnazione è stata disposta da Dio a rimedio del peccato, di modo che, non esistendo il peccato, non ci sarebbe stata l'incarnazione. La potenza di Dio però non è coartata entro questi termini: Dio infatti avrebbe potuto incarnarsi, anche se non ci fosse stato il peccato.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Tutti gli altri motivi assegnati all'incarnazione rientrano tra i rimedi del peccato. L'uomo infatti, se non avesse peccato, sarebbe stato illuminato dalla luce della sapienza divina e perfezionato da Dio nella rettitudine della santità, per l'acquisto di ogni conoscenza necessaria. Ma, poiché, abbandonando Dio era sceso alle cose materiali, fu opportuno che Dio, assunta la carne, tramite anche le cose materiali, gli offrisse il mezzo di salvarsi. Ecco perché commentando le parole evangeliche, "il Verbo si fece carne" S. Agostino annota: "La carne ti aveva accecato, la carne ti risana. Cristo venne precisamente per estinguere nella carne i vizi della carne".
2. L'infinita potenza di Dio si manifesta già nel modo di produrre le cose dal nulla. - Al compimento poi dell'universo basta che le cose create siano ordinate a Dio naturalmente come a loro fine. Che invece una creatura venga unita a Dio in unità di persona oltrepassa i limiti della perfezione naturale.
3. Si possono riscontrare nella natura umana due capacità. La prima al livello della sua potenza naturale. E tale capacità viene sempre soddisfatta da Dio, che provvede a ciascuna cosa secondo le capacità naturali. La seconda al livello della potenza divina, cui ogni creatura obbedisce al primo cenno. A quest'ordine appartiene la capacità umana di cui si parla nell'obiezione. Ora, Dio non asseconda sempre tale capacità della creatura, altrimenti egli non potrebbe fare nelle cose se non quello che fa, e ciò è falso, come si è visto nella Prima Parte.
Che poi la natura umana dopo il peccato sia stata innalzata più di prima non c'è nessuna incongruenza: Dio infatti permette il male per trarne un bene maggiore. Di qui le parole di S. Paolo: "Dove abbondò il peccato, lì anche sovrabbondò la grazia". E nella benedizione del Cero pasquale si canta: "O fortunata colpa, che meritò di avere tale e tanto Redentore!".
4. La predestinazione presuppone la previsione del futuro. Dio quindi, come predestina che la salvezza di una determinata persona si abbia a compiere per le preghiere di altri, così pure predestinò l'incarnazione a rimedio del peccato umano.
5. Niente impedisce che si riveli un effetto a chi non ha avuto la rivelazione della causa. Poté dunque il mistero dell'incarnazione essere rivelato al primo uomo, senza che egli fosse consapevole della sua futura caduta: poiché non sempre chi conosce un effetto, conosce anche la causa.

ARTICOLO 4

Se Dio si sia incarnato più per rimediare ai peccati attuali che al peccato originale

SEMBRA che Dio si sia incarnato più per rimediare ai peccati attuali che al peccato originale. Infatti:
1. Un peccato quanto più è grave, tanto più ostacola la salvezza umana, per la quale Dio si è incarnato. Ma il peccato attuale è più grave del peccato originale: a questo infatti è annessa una pena minima, come dice S. Agostino. L'incarnazione di Cristo è perciò ordinata principalmente a cancellare i peccati attuali.
2. Il peccato originale non merita la pena del senso, ma solo la pena del danno, come si è visto nella Seconda Parte. Ora, per la soddisfazione dei peccati Cristo è venuto a soffrire la pena del senso sulla croce e non la pena del danno; mai infatti gli mancò la visione o beatitudine divina. Venne dunque a togliere più il peccato attuale che quello originale.
3. Il Crisostomo osserva che "un servo fedele è propenso a considerare come personali i benefici comuni che il suo padrone ha concesso a tutti: S. Paolo infatti, quasi parlasse soltanto di sé, scrive: "Mi ha amato e ha sacrificato se stesso per me"". Ma i peccati nostri personali sono quelli attuali, perché l'originale è peccato comune. Dobbiamo dunque avere la pia convinzione che Dio sia venuto principalmente per i peccati attuali.

IN CONTRARIO: Nel Vangelo si legge: "Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo".

RISPONDO: È certo che Cristo venne in questo mondo a distruggere non solo il peccato originale, ma anche tutti i peccati che si sono aggiunti in seguito: non che tutti siano cancellati (e ciò per colpa degli uomini che non aderiscono a Cristo, secondo le parole del Vangelo: "La luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce"), ma egli fece quanto bastava alla loro cancellazione. Perciò S. Paolo dice: "Non come il fallo è il dono: infatti da un sol fallo è provocato il giudizio di condanna, mentre il dono è assoluzione da molti peccati".
Tuttavia quanto più grande è un peccato, tanto più la sua distruzione ha motivato la venuta di Cristo. Ora, una cosa può dirsi grande in due modi. Primo, intensivamente: più grande è, per es., la bianchezza che è più intensa. E in tal senso il peccato attuale è più grande del peccato originale, essendo più volontario, come si è detto nella Seconda Parte. - Secondo, una cosa può dirsi grande in estensione: così una bianchezza più grande è quella che occupa una superficie maggiore. In tal senso il peccato originale che contagia tutto il genere umano è più grande di qualsiasi peccato attuale, che è proprio di una persona. E sotto quest'aspetto è vero che Cristo è venuto principalmente a togliere il peccato originale, perché "il bene sociale è più divino del bene individuale", come si esprime Aristotele.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'argomentazione si basa sulla grandezza intensiva del peccato.
2. Al peccato originale la pena del senso non è riservata nella sanzione futura; ma vanno ad esso attribuite le pene sensibili che noi soffriamo in questa vita, come la fame, la sete, la morte e simili. Perciò Cristo a riparare compiutamente il peccato originale volle soffrire il dolore sensibile, per consumare in se stesso la morte e le altre sofferenze.
3. Come spiega nello stesso passo il Crisostomo, l'Apostolo diceva quelle parole "non per restringere gli amplissimi benefici di Cristo diffusi sul mondo, ma per indicare che Cristo si era sacrificato per lui come per tutti. Che importa infatti se anche gli altri sono stati beneficati, quando i benefici prestati a te sono così integri e perfetti, come se a nessun altro ne fosse stato concesso qualcosa?". Dover dunque attribuire a sé i benefici di Cristo non significa dover negare che siano stati fatti agli altri. Perciò non si esclude che egli sia venuto più per distruggere il peccato di tutta la natura che i peccati personali. Ma quel peccato comune è stato curato in ciascuno tanto perfettamente, quanto sarebbe stato curato in uno solo. - Del resto a motivo del vincolo della carità ciascuno deve sentire come fatto a se stesso ciò che è stato fatto per tutti.

ARTICOLO 5

Se era conveniente che Dio s'incarnasse agli inizi del genere umano

SEMBRA che l'incarnazione divina sarebbe stata conveniente agli inizi del genere umano. Infatti:
1. L'opera dell'incarnazione proviene dall'immensità della carità divina, conforme al testo di S. Paolo: "Dio, che è ricco di misericordia, per l'infinito amore che ci portava, essendo noi morti per le nostre colpe, ci ha convivificati in Cristo". Ma la carità non tarda a soccorrere l'amico che è nel bisogno, come raccomanda la S. Scrittura: "Non dire al tuo amico: Va, torna domani e ti darò, se la cosa gliela puoi dare subito". Dio dunque non doveva differire l'opera dell'incarnazione, ma soccorrere con essa il genere umano subito agli inizi.
2. S. Paolo scrive: "Cristo venne in questo mondo a salvare i peccatori". Ma se ne sarebbero salvati di più, se Dio si fosse incarnato agl'inizi del genere umano, perché moltissimi nel volgere dei secoli perirono nei loro peccati ignorando Dio. Quindi sarebbe stato più conveniente che Dio si fosse incarnato agli inizi del genere umano.
3. Il piano della grazia non è meno ordinato del piano della natura. Ma "la natura parte dalla perfezione", come dice Boezio. Quindi il piano della grazia doveva essere perfetto fin da principio. Ora, la perfezione della grazia si ha nell'opera dell'incarnazione, secondo le parole: "il Verbo si fece carne", seguite dalle altre: "pieno di grazia e di verità". Cristo dunque avrebbe dovuto incarnarsi agli inizi dell'umanità.

IN CONTRARIO: Commentando le parole di S. Paolo: "Ma quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio fatto da donna", la Glossa afferma che "la pienezza dei tempi è il tempo prestabilito da Dio Padre in cui mandare il suo Figlio". Ora, Dio ha stabilito tutto con sapienza. Perciò egli si è incarnato nel tempo più opportuno. Dunque non sarebbe stato conveniente che Dio si incarnasse ai primordi dell'umanità.

RISPONDO: Poiché l'incarnazione è ordinata principalmente alla riparazione della natura umana con la distruzione del peccato, è chiaro che non sarebbe stata conveniente l'incarnazione divina ai primordi dell'umanità prima del peccato, perché la medicina si somministra solo agli ammalati. Perciò il Signore stesso dice: "Del medico non hanno bisogno i sani, ma i malati, e io non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori".
Ma neppure subito dopo il peccato sarebbe stato conveniente che Dio s'incarnasse. Primo, per la natura del peccato dell'uomo, che proveniva dalla superbia: perciò l'uomo doveva essere liberato in modo che, umiliato, riconoscesse d'aver bisogno d'un liberatore. Ecco perché la Glossa spiegando le parole di S. Paolo, "promulgata per mezzo di angeli in mano d'un mediatore", dice: "Molto sapientemente fu disposto che dopo la caduta dell'uomo non fosse mandato sull'istante il Figlio di Dio. Prima infatti Dio lasciò l'uomo in balia della sua libertà sotto la legge di natura, perché conoscesse così le forze della propria natura. Fallendo nella prova, gli fu data la Legge. Con questa il male peggiorò, non per difetto della Legge, ma per la corruzione della natura; affinché, conosciuta la propria insufficienza, invocasse il medico e cercasse il soccorso della grazia".
Secondo, per l'ordinato progresso nel bene, che esige di procedere dall'imperfetto al perfetto. Per questo dice l'Apostolo: "Non è prima l'elemento spirituale ma l'animale, lo spirituale viene dopo. Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre; il secondo uomo è dal cielo e celeste".
Terzo, per la dignità stessa del Verbo Incarnato. Infatti sulle parole "quando venne la pienezza dei tempi", la Glossa osserva: "Quanto più grande era il giudice venturo, tanto più lunga serie di messaggeri lo doveva precedere".
Quarto, perché il fervore della fede non si intiepidisse per la lunghezza del tempo. Poiché verso la fine del mondo "si raffredderà la carità di molti" e il Signore stesso domanda: "Quando il Figlio dell'uomo verrà, troverà ancora fede sulla terra?".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La carità non indugia a soccorrere l'amico, tuttavia sceglie il momento più opportuno per le circostanze e per le persone. Se un medico desse a un infermo la medicina subito all'inizio della malattia, otterrebbe di meno, oppure lo danneggerebbe più che aiutarlo. Perciò anche il Signore non somministrò subito all'umanità il rimedio dell'incarnazione, perché non lo disprezzasse per superbia, non avendo ancora preso coscienza della propria infermità.
2. All'obiezione S. Agostino diede in un primo tempo la seguente risposta: "Cristo volle apparire tra gli uomini e predicare la sua dottrina quando e dove sapeva che sarebbero vissuti i futuri credenti. Nei tempi infatti e nei luoghi dove il suo Vangelo non è stato predicato egli prevedeva che alla sua parola tutti sarebbero stati tanto increduli quanto lo furono non tutti ma molti tra coloro che lo udirono in persona, i quali non vollero credere in lui neppur vedendolo risuscitare dei morti".
Ma in seguito lo stesso Santo così scrisse, riprovando questa soluzione: "Possiamo forse dire che i cittadini di Tiro e di Sidone si sarebbero rifiutati di credere con tali miracoli, o che non avrebbero creduto se si fossero compiuti tra loro, quando il Signore medesimo attesta che avrebbero fatto penitenza con grande umiltà, se quei segni dei divini interventi fossero stati fatti in mezzo a loro?".
"Perciò", egli conclude, "si deve affermare con l'Apostolo che ciò "non dipende né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che usa misericordia". Dio, tra quanti previde che avrebbero prestato fede ai suoi miracoli, se fossero stati compiuti presso di essi, soccorse quelli che volle e non soccorse altri, di cui dispose diversamente nella sua predestinazione con atto occulto ma giusto. Cosicché dobbiamo credere e riscontrare senza esitazione la sua misericordia in coloro che vengono liberati e la sua giustizia in coloro che vengono puniti".
3. In cose diverse tra loro è vero che il perfetto viene prima dell'imperfetto in ordine di tempo e di natura, perché è il perfetto che porta le altre cose alla perfezione; ma in una medesima cosa ciò che è imperfetto precede il perfetto in ordine di tempo, sebbene lo segua in ordine di natura. Così dunque l'imperfezione della natura umana è preceduta dall'eterna perfezione di Dio, ma precede il raggiungimento della propria perfezione, che consiste nella sua unione con lui.

ARTICOLO 6

Se l'incarnazione dovesse essere differita alla fine del mondo

SEMBRA che l'incarnazione dovesse essere differita alla fine del mondo. Infatti:
1. Nei Salmi si legge: "La mia vecchiaia (sarà ricolma) di misericordia", e la Glossa per vecchiaia intende "gli ultimi tempi". Ma principalmente il tempo dell'incarnazione è tempo di misericordia, secondo l'espressione del Salmista: "È venuto il tempo della sua misericordia". L'incarnazione dunque doveva essere differita alla fine del mondo.
2. In una stessa cosa come si è detto, la perfezione è posteriore all'imperfezione in ordine di tempo. Perciò quello che è assolutamente perfetto, dev'essere temporalmente ultimo. Ma la suprema perfezione della natura umana si ha nell'unione con il Verbo, perché "in Cristo piacque al Padre che abitasse ogni pienezza della divinità", come dice l'Apostolo. L'incarnazione dunque doveva essere rimandata alla fine del mondo.
3. Non conviene fare in due volte ciò che può esser fatto in una volta sola. Ma alla salvezza della natura umana poteva bastare una sola venuta di Cristo: quella che sarà alla fine del mondo. Dunque non era necessario che venisse prima con l'incarnazione. Quindi questa venuta doveva essere rinviata alla fine del mondo.

IN CONTRARIO: Il profeta Abacuc aveva detto: "Nel mezzo degli anni renderai manifesta, o Signore, l'opera tua". Dunque il mistero dell'incarnazione per cui Dio si manifestò al mondo, non doveva essere rimandato alla fine dei tempi.

RISPONDO: Come non sarebbe stato opportuno che Dio s'incarnasse agli inizi del mondo, così non sarebbe stato conveniente che l'incarnazione fosse ritardata alla fine. Ciò risulta evidente (da due cose): primo, dall'unione della natura divina con la natura umana. Come infatti abbiamo detto, l'imperfezione precede nel tempo la perfezione in quella realtà che da imperfetta diviene perfetta; invece nel soggetto che è causa efficiente della perfezione il perfetto precede cronologicamente l'imperfetto. Ora, nell'incarnazione queste due realtà s'incontrano. Poiché in essa la natura umana fu elevata alla suprema perfezione; e per questo non conveniva che l'incarnazione avvenisse agli albori del genere umano. D'altra parte il Verbo incarnato è causa efficiente della perfezione umana, come si legge nel Vangelo: "Dalla pienezza di lui tutti abbiamo ricevuto"; e per questo non doveva l'incarnazione essere procrastinata alla fine del mondo. Invece la perfezione della gloria, cui dev'essere condotta la natura umana dal Verbo incarnato, avverrà alla fine del mondo.
Secondo, dagli effetti della salvezza umana. Come infatti dice S. Agostino, "è a discrezione di chi dona scegliere quando e quanto vuol donare. Perciò (Dio) venne quando stimò necessario soccorrere l'uomo e la sua opera ben accetta. Mentre un certo languore del genere umano aveva cominciato a cancellare tra gli uomini la conoscenza di Dio e a corrompere i costumi, si degnò Dio di chiamare Abramo, perché in lui si avesse l'esempio di un rinnovamento nella religione e nella morale. E poiché il culto divino era ancora troppo trascurato, diede per mezzo di Mosè la legge scritta. Avendola però le genti disprezzata con il rifiuto di assoggettarvisi, e non avendola messa in pratica neppure quelli che l'avevano accolta, mosso da misericordia, il Signore mandò il suo Figlio, perché, concesso a tutti gli uomini il perdono dei peccati, li offrisse santificati a Dio Padre". Se però questo rimedio fosse stato rimandato alla fine del mondo, sarebbe sparita del tutto dalla terra la conoscenza di Dio, il suo culto e l'onestà dei costumi.
Terzo, per il fatto che la dilazione non sarebbe stata conveniente a manifestare la potenza di Dio, la quale invece ha così salvato gli uomini in molte maniere: non solo con la fede del Cristo venturo, ma anche con la fede del Cristo presente e del Cristo già venuto.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quella Glossa parla della misericordia che conduce alla gloria. Se tuttavia si riferisse alla misericordia dimostrata verso l'umanità con l'incarnazione di Cristo, bisognerebbe notare con S. Agostino che l'incarnazione si può equiparare alla giovinezza dell'umanità "per il vigore e il fervore della fede, operante nella carità", e alla sua vecchiaia o sesta età "per il numero delle epoche, essendo venuto il Cristo nella sesta età del genere umano". E "sebbene nel corpo gioventù e senilità non possano essere contemporanee, lo possono essere però nell'anima: la giovinezza per la prontezza, la vecchiaia per la ponderazione". Perciò S. Agostino in un passo afferma, che "la venuta dal cielo del Maestro, la cui imitazione portasse l'umanità alla perfezione morale, non era conveniente se non nell'età della giovinezza", mentre in altro passo dice che il Cristo è venuto nella sesta età, ossia nella vecchiaia del genere umano.
2. L'incarnazione va considerata non soltanto come termine di sviluppo dall'imperfetto al perfetto, ma anche come causa di perfezione nella natura umana, secondo le spiegazioni date.
3. Rispondiamo con il commento del Crisostomo alle parole evangeliche, "Dio non ha mandato il suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo": "Due sono le venute di Cristo: la prima a rimettere i peccati, la seconda a giudicare. Se non avesse fatto così, tutti si sarebbero ugualmente perduti, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio". È chiaro dunque che egli non doveva rimandare la sua venuta misericordiosa alla fine del mondo.