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Visualizza Versione Completa : 12 ottobre - Nostra Signora del Pilar



Augustinus
12-10-03, 08:42
Oggi, ricorrenza della scoperta dell'America, da parte di Cristoforo Colombo, vorrei onorare questa data ricordando la festività della solenne Dedicazione della Basilica della Madonna del Pilar a Saragozza.
Sin dall'Alto Medioevo, questa si celebrava il 12 ottobre. E fu proprio in questo giorno, nel 1492, che Cristoforo Colombo approdò, per la prima volta, sulle coste del Nuovo Mondo. Una coincidenza che, in una prospettiva di fede, può considerarsi provvidenziale, data la grande venerazione che il comandante italiano aveva per la Madonna. Non a caso una delle tre caravelle si chiamava "Santa Maria", in onore della Vergine.

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La venerazione verso la Madonna del Pilar è antichissima, risale alle origini stesse del Cristianesimo ed alla prima evangelizzazione in terra iberica.
La Vergine, infatti, sarebbe venuta a Caesarea Augusta (Saragozza) nella notte del 2 gennaio del 40 d.C., ancora vivente a Gerusalemme, per confortare l'apostolo Santiago (S. Giacomo il Maggiore) ed i suoi primi iberici da lui battezzati, sconfortati per gli scarsi frutti portati dalla prima predicazione. Per questo, lasciò un pilar (un pilastro) quale simbolo di forza e tenacia della fede.
Da allora la diffusione della fede cristiana trovò un nuovo slancio e più numerose giunsero le conversioni.
Da allora anche quel "Pilar" divenne oggetto di grande devozione per tutti gli spagnoli. Sul luogo dell'apparizione oggi esiste uno dei più grandi santuari della Cristianità, che sorge imponente sulla riva destra dell'Ebro, chiamato dai latini Hiberus, e che ha dato nome all'intera penisola, Hiberia, appunto.
In questo Santuario, nella Santa, Angelica y Apostolica Capilla, si venera il Sacro Pilastro, sormontato dalla statua della Vergine, su uno sfondo di marmi preziosi e di 148 stelle d'oro incrostate di gemme. Il Pilastro non è altro che una colonna di diaspro alta circa un metro e 70 centimetri, con un diametro di 24. La statua, in legno nero, è alta meno di una quarantina di centimetri. La colonna è rivestita d'argento ed è coperta da un prezioso drappo, che è cambiato ogni alba, secondo i colori liturgici del giorno.
Nel Grande Santuario accorrono sin dall'alba schiere innumerevoli di fedeli a salutare la loro Madonna; in esso hanno lavorato artisti insigni come Francisco Goya y Lucientes, araganose e dunque gran devoto della sua Vergine del Pilar.
Ella è patrona della Spagna e della Hispanidad.

Augustinus
12-10-03, 10:01
http://usuarios.lycos.es/caballerosNSdelPilar/pioxii.jpg Pio XII dinanzi all'effige della Madonna del Pilar

http://usuarios.lycos.es/caballerosNSdelPilar/papa2.jpg Giovanni Paolo II al Santuario nel 1982

http://usuarios.lycos.es/caballerosNSdelPilar/papas.jpg Francisco Bayeu, La Vergine del Pilar tra S. Pietro e S. Gregorio Magno

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http://www.barranque.com/guerracivil/virgendelpilar.jpg In queste due cartolline che precedono, l'immagine della Madonna del Pilar divenne anche simbolo di lotta politica durante la guerra civile spagnola, quando, nell'estate del 1936, tre bombe furono lanciate sul santuario, suscitando un'ondata di indignazione persino tra i "rossi"

Augustinus
12-10-03, 10:16
Cristoforo Colombo, l’espansione europea e la scoperta dell’America

di Marco Tangheroni

in AA. VV., Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, Piemme, Casale Mon.to 1994, 259 ss.

«Siamo riuniti di fronte a questo Faro di Colombo, che con la sua forma a forma di croce vuole simbolizzare la Croce di Cristo piantata su questa terra nel 1492 Con esso si è voluto anche rendere omaggio al grande Ammiraglio che lasciò scritto quale sua volontà: "mettete croci in tutte le vie e i sentieri, affinché Dio li benedica"» (Giovanni Paolo II)
«Giovedì 11 ottobre. Navigò in direzione di Ovest-Sud-Ovest. Incontrarono mare grosso, più di quanto ne avessero avuto in tutto il viaggio. Videro procellarie e un giunco verde presso la nave... Dopo il tramonto del sole, tornò alla sua primitiva rotta verso Ovest. Saranno andati a 12 miglia all'ora e fino alle ore 2 dopo mezzanotte avranno percorso 22 leghe e mezzo. E poiché la caravella Pinta era meglio dotata di velatura e andava dinanzi all'Ammiraglio, trovò terra e fece i segnali che l'Ammiraglio aveva ordinato... Ammainarono tutte le vele e rimasero con il trevo, che è la vela grande, senza coltellacci, e si posero in panna, temporeggiando fino al far del giorno successivo, venerdì, quando arrivarono ad un'isoletta dei Lucayos, che si chiamava nella lingua degli indiani Guanabanì.

Subito videro gente ignuda e l'Ammiraglio scese a terra sulla barca armata e Martino Alonso Pinzón e Vicente Anes, suo fratello, che era capitano della Niña. L'Ammiraglio spiegò la bandiera reale e i capitani avevano le due bandiere della croce verde, che l'Ammiraglio alzava come insegna in tutte le navi, con una F ed una Y ed in cima ad ogni lettera una corona, una da un lato della croce e l'altra dall'altro».

Queste - ovviamente tradotte dal castigliano - sono le parole del Diario di bordo di Colombo, pervenutoci soltanto nella riduzione del padre Las Casas, relative allo straordinario evento compiutosi il 12 ottobre del 1492, la scoperta dell'America. Un evento di straordinaria importanza storica che, insieme all'espansione portoghese verso l'Oriente (pochi anni prima Bartolomeo Diaz aveva doppiato il capo di Buona Speranza e pochi anni dopo anni dopo Vasco da Gama raggiungerà il subcontinente indiano), aprì la via alla planetarizzazione del mondo. Per quanto nei manuali di storia in uso nelle scuole superiori siano di solito ormai pochissime le pagine dedicate a questo tema, la sua importanza storica difficilmente potrebbe essere sopravvalutata: crediamo che in realtà non si ingannasse Lopez de Gómara, quando, con comprensibile esaltazione per la nascita della Nuova Spagna, una settantina di anni dopo lo sbarco a San Salvador scrisse che l'avvenimento era stato il più grande e importante nella storia del mondo dopo l'incarnazione di Nostro Signor Gesù Cristo.

La nostra epoca, immersa nella mediocrità, mal riesce a sopportare, anche nelle valutazioni storiche, la grandezza di avvenimenti e di persone, tutto annegando nel sociologismo, nell'economicismo, nella storia della lunga durata o del rispettivo quotidiano. E di grande «avvenimento», come di «grande ammiraglio», ha parlato più volte, in occasione del Quinto Centenario del Descubrirniento, anche il papa Giovanni Paolo II.

In occasione di questa ricorrenza abbiamo assistito al diffondersi e quasi al prevalere, nei mass media, di un clima culturale e propagandistico che, già delineatosi negli anni precedenti, è venuto precisandosi e chiarendosi; abbiamo assistito ad una diffusa e imponente campagna contro la scoperta, la conquista, l'evangelizzazione e, attraverso queste polemiche, contro il passato e il presente della Chiesa cattolica, contro la Civiltà Cristiana e contro quei paesi, soprattutto la Spagna che, in quei secoli, ne furono sostegno ed espressione.

Un'orchestra - per usare il termine impiegato da Vladimir Volkoff nel Montaggio - composta da vari strumentisti.

Un primo gruppo, esiguo ma strumentalizzabile, è costituito dai cosiddetti indianisti che, sulla base di un'immagine assolutamente falsa delle culture precolombiane, propongono un ritorno ad una «concezione collettivista... e comunitaria del continente, basata sulla filosofia dell'uguaglianza», l'espulsione dei missionari e di ogni organizzazione di assistenza e la guerra ai servi dell'imperalismo, discendenti dei conquistatori protagonisti della «barbara irruzione dell'Europa», in nome di un confuso millenarismo incaico presente anche nell'ideologia marxista-leninista di Sendero Luminoso. Ciò in una comprensibile consonanza con Fidel Castro che si è proclamato «indigeno americano onorario».

Un secondo gruppo, anch'esso esiguo ma rumoroso e organizzato, è costituito da quei sedicenti cattolici sempre pronti a raccogliere l'invito alla demolizione della tradizione cattolica, alla fustigazione del passato della Chiesa; ciò non senza accettazione più o meno convinta da pane di più ampie espressioni della cultura cattolica, abituate a «lasciarsi presentare il conto, spesso truccato, senza discutere», per riprendere i termini di Jean Moulin in una conversazione con Vittorio Messori. Non a caso si è parlato, da parte di un autorevole settimanale francese, di un «complot médiatique» portato avanti da «théologiens de la liberation; . ..théologiens d'Europe opposés au credo de leur propre Eglise; groupes de presse: vedettes universitaires viellisantes» e volto ad impedire il viaggio del papa a Santo Domingo.

Ma la parte maggiore nell'operazione propagandistica hanno avuto i mass media americani, in preoccupante e non causale consonanza con la sempre più forte penetrazione delle sette di ispirazione protestante nell'America latina, in completo oblio (quasi, anzi, in una sorta di transfert) delle forme di colonizzazione anglosassone e riformata nell'America settentrionale. Ciò sulla spinta della nuova sinistra Political Correct; «un modo come un altro - è stato giustamente detto da Saverio Vertone - per alimentare quel blablabla di una certa intelligenza che in tutto il mondo ha ormai perso ogni riferimento ai fatti, alle necessàà, ai problemi di chi sta certamente male... [un lasciarsi] cullare dalle parole e dai manierismi intellettuali di chi sta abbastanza bene, e si nutre non solo di buone bistecche e patate ma anche di ignoranza. Poter dare del «fallocratico», «eurocentrico», «sessista» al povero Colombo...».

Lo sforzo di ristabilire la verità storica - o, piuttosto, dati i limiti di spazio, di offrire al lettore le linee essenziali di una tale operazione - si articolerà, nelle pagine successive, in due parti: la prima dedicata alla figura di Colombo, la seconda alla leggenda nera sulla scoperta e conquista dell'America latina.

Cominciamo col rispondere ad una domanda che viene spesso posta: fu l'arrivo a Guanahani il 12 ottobre 1492, della piccola flotta capitanata da Cristoforo Colombo l'inizio di una vera scoperta?

Nel Dizionario Italiano Ragionato leggiamo la seguente definizione del termine scoperta: «L'esplorazione e rivelazione agli uomini di nuove parti della Terra. La rivelazione, per opera della scienza, di nuovi fenomeni, di nuove specie biologiche, di nuovi corpi celesti». Dunque esplorare, cioè «cercare di scoprire, di svelare, di conoscere»; e rivelare, dal latino revelare=togliere il velo, svelare; e, ancora, rivelare agli uomini, cioè fare partecipi gli altri, tutti gli altri.

Già da questa definizione si comprende subito che solo una volontà ideologica e mistificatoria può portare a voler sostituire il termine incontro a quello di scoperta. Infatti, l'incontro, anche a volere prescindere dalle pur corrette considerazioni del professor Alberto Caturelli sul fatto che gli incontri avvengono tra persone e non tra culture o popoli considerati come una totalità, presuppone una casualità dell'imbattersi e una sorta di parità nel valore del movimento dei protagonisti.

Ora questo non è certo il caso di cui ci stiamo occupando, nel quale una cultura superiore si muove per esplorare e scoprire nuove terre, mentre l'altra, in questa prima fase, nulla apporta di suo. Dove su questa superiorità di una civiltà almeno sul piano tecnologico anche i più accaniti sostenitori dell'uguaglianza di tutte le civiltà, anche coloro per cui, come diceva Sciacca, il «cotto» dell'antropofago ha lo stesso valore della Divina Commedia, non possono non convenire per l'evidenza dei fatti.

La definizione, inoltre, permette di comprendere bene la differenza tra il descubrimiento e il quasi certo arrivo di un gruppo di Vikinghi nell'America settentrionale, tra la foce del San Lorenzo e l'attuale Massachusets, verso la fine del X secolo, sulla scia degli insediamenti in Groenlandia, la «terra verde», come intorno al 1000 poteva apparire. Un nucleo insediativo debole e scomparso abbastanza rapidamente, prima ancora che la fine della fase calda del clima provocasse una nuova avanzata dei ghiacci vaganti e un abbandono della stessa Groenlandia a partire dal XIV secolo, con la fine, anche, della navigazione delle rotte marittime scandinave dei mari più settentrionali.

Mi pare di potere dire che, nei limiti, ristretti, e comunque impropri per mancanza di sistematica esplorazione, di chiara consapevolezza e rivelazione ad altri, entro cui il termine «scoperta», con forzatura semantica, potrebbe essere impiegato per le navigazioni vikinghe, in ogni caso ciò che fu Scoperto cadde poi nell'oblio, venne, insomma, ri-coperto, nuovamente velato.

Lasciamo pure, dunque, all'acidità degli storici anglosassoni, che non si rassegnano al fatto che l'America sia stata scoperta da un latino e da un cattolico, i giudizi riduttivi sulla portata dell'avvenimento del 12 ottobre 1492, ed in conseguenza del significato storico di Cristoforo Colombo, del tipo di quello del «kennediano» Arthur Schlesinger jr: «Gli italo-americani mostrano un interesse particolare per il primo italiano a fare fortuna nell'emisfero occidentale. Ma alcuni scettici dicono che, quando salpò, non sapeva dove stesse andando; quando arrivò, non sapeva dove fosse; quando tornò non sapeva dove fosse stato».

La stessa volontà di sminuire l'importanza della scoperta fu alla base della decisione (da Caturelli qualificata giustamente come ridicola) del presidente Johnson di proclamare il giorno 9 ottobre giorno di Leif figlio di Erik vero anniversario della scoperta dell'America, sulla base di uno dei frequenti falsi ritrovamenti archeologici.

Senza la ferma volontà dell'Ammiraglio genovese, e senza l'appoggio della regina Isabella, il Nuovo Mondo non sarebbe stato scoperto in quel modo e in quel momento; come dubitare, allora, dell'importanza dell'avvenimento e dei suoi protagonisti?

Si noti che abbiamo scritto senza esitazioni «ammiraglio genovese». Infatti, bisogna ribadire, contro le fantasie di pseudoeruditi locali, che Colombo non fu né francese, né corso, né catalano, né galiziano, né portoghese o greco o inglese o tedesco. E non fu nemmeno ebreo, come hanno anche in anni recenti sostenuto scrittori come Salvador de Madariaga o Simon Wiesenthal, in cui argomenti non meritano per la loro debolezza di essere qui confutati, anche se hanno avuto editori a grande diffusione e una certa eco fin nei film a fumetti. Il lettore meno avvertito di questi può anche essere indotto in una certa confusione dal metodo, seguito dai loro autori, di accumulare una gran quantità di presunti indizi. In realtà, secondo un corretto metodo storico, l'accumulo di prove, ciascuna delle quali, considerate in sé, è di nessun fondamento e basata su asserzioni tanto assurde quanto formulate con impudente baldanza, anziché dare alla tesi una qualche solidità, ne dimostra più ampiamente l’incoscienza; ma, appunto, occorre essere avvertiti. Basti qui riportare i severi giudizi di storici come Jacques Heers («L'affermazione lascia alquanto sbalorditi») o i Bennassar («La tesi... non si appoggia su nessun argomento serio... Bisogna avere letto molto male i testi dello Scopritore per tirare fuori una simile teoria»).

E, ormai, le ricerche di archivio hanno permesso di ricostruire la storia della famiglia di Cristoforo, originaria dell'Appennino ligure, e di mettere a fuoco la figura del padre Domenico, il quale, oltre ad esercitare la professione di tessitore, fu anche guardiano della porta dell'Olivella ed era legato al clan familiare dei Fregoso.

Naturalmente, non diciamo questo da spirito nazionalistico o da preoccupazioni assurde di purezza razziale, ma dalla consapevolezza che l'origine ebraica di Colombo porta anche al travisamento della genesi e delle finalità del suo progetto, che, addirittura, nella prospettiva di Wiesenthal sarebbe stato concepito per assicurare agli ebrei iberici una nuova patria in vista della temuta espulsione; perderemmo così non solo l'utilità delle prime esperienze marinare mediterranee e il senso dei suoi stretti collegamenti con l'ambiente genovese dell'Andalusia, ma anche, e soprattutto, la missione evangelizzatrice che l’Ammiraglio attribuiva a se stesso. Genovese fu dunque, certamente e al di là di ogni ragionevole dubbio, Cristoforo Colombo; genovese e di assoluta formazione e cultura cristiane.

Esamineremo oltre i giudizi negativi su Colombo collegati alla condanna più generale della colonizzazione spagnola. Preme ora, invece, combattere valutazioni positive del navigatore genovese caratterizzate dalla contrapposizione di un Colombo uomo moderno, rappresentante del progresso, in lotta vittoriosa contro l'opposizione del suo tempo, in particolare della cultura cattolica, ottusa e dogmatica, e della reazionaria monarchia iberica.

Non è un caso, per limitarci ad un esempio, peraltro significativo per l'incidenza che esso avrà nell'immaginario degli spettatori, che questa sia la presentazione del personaggio che caratterizza pesantemente un recente e spettacolare film, in cui Colombo-Depardieu è in lotta contro terribili, dogmatici e ignoranti inquisitori e contro un potere monarchico oppressivo e calcolatore, cui alla fine potrà sfuggire soltanto grazie al fascino da latin lover che egli riesce ad esercitare sulla regina Isabella.

Per i fatti mi limiterò a ricordare che in realtà le obiezioni che prima i dotti portoghesi consultati dal re Giovanni II e poi quelli spagnoli, il cui parere fu richiesto dai Re Cattolici, avevano ragione nel bocciare, muovendo proprio da posizioni scientificamente più valide ed avanzate, la visione cosmografica di Colombo.

Questa, infatti, si basava su due errori che si sommavano a vicenda: un'errata valutazione della lunghezza della circonferenza terrestre e un esagerata estensione del continente euroasiatico verso oriente. Solo la somma di questi due errori poteva rendere concepibile come effettuabile, con i mezzi di allora, l'idea di un viaggio in cui ci si proponesse di raggiungere l'Oriente passando per l'Occidente. Basti pensare a quello che sarebbe successo alla piccola flotta se, per momentanea paradossale ipotesi, non ci fosse stato, nel mezzo tra l'Europa e l'Asia, il continente americano. Ed anche se si preferisse credere, senza prove e contro l'impressione che si ricava dalle testimonianze scritte, che in realtà Colombo sapeva di sostenere una tesi errata pur di ottenere l'appoggio dei sovrani cui si rivolgeva, nulla cambierebbe questa congettura circa quel che si è appena osservato.

Il nodo storico da chiarire è semmai quello di spiegare perché i Re Cattolici, nonostante i fondati pareri negativi dei più qualificati dotti dell'epoca, decisero di appoggiare l'impresa, quando, come ricorda nel 1501 lo stesso Colombo nel Memorial de agravios, «acá se decia que esta impresa hera burla». Al di là del sostegno accordato da importanti personaggi, come il Santangel, al navigatore genovese, credo che la soluzione di questo nodo vada ricercata soprattutto nel grande entusiasmo conseguente al compimento della Reconquista con la conquista di Granada il 2 gennaio 1492; gli stessi tempi dell'improvvisa decisione presa da Isabella e Ferdinando lo confermano. Del resto è lo stesso Ammiraglio a stabilire questa connessione nel prologo del Diario di Bordo, che si apre proprio con il ricordo di essere stato spettatore della conquista di Granada con cui i sovrani avevano «posto fine alla guerra contro i Mori che regnavano in Europa».

l'immagine di un Colombo uomo moderno ed illuminato è da fare risalire - ed è notazione non priva di interesse - alla cultura illuministica e al clima in cui fu celebrato il terzo centenario del suo viaggio alla fine del XVIII secolo. Mentre venivano riproposti e dilatati tutti i luoghi comuni della leggenda nera antispagnola e anticattolica, in quanto, per dirla con i Bennassar, «l'Espagne sert de repoussoir aux philosopbes des Lumières», lui, Colombo, veniva separato dalla conquista, anzi ad essa contrapposto, e presentato come un eroe coraggioso, generoso, tradito dai riprovevoli sviluppi successivi.

È invece assolutamente necessario alla corretta comprensione storica l'insistenza sulle radici medioevali e cristiane di Colombo, sulle motivazioni religiose che lo animarono, che imbarazzano molti storici moderni, i quali, come ha scritto Jacques Heers, docente di storia medievale alla Sorbona, «se ne parlano, vi vedono un elemento troppo trascurabile per evocarlo in maniera attenta, oppure un semplice pretesto. Molti pensano volentieri che il Genovese parlasse di dovere religioso, di servizio di Cristo e di prospettive di evangelizzazione solo per conciliarsi meglio le buone grazie della regina attraverso una manovra interessata». Ovvero, aggiungiamo, non potendo negare il gran peso reale di queste motivazioni, le considerano come un'eredità negativa, poi sviluppatasi ai limiti della malattia psichica, nonostante la quale, e non in virtù della quale, egli concepì e realizzò i suoi viaggi.

Questo non significa che anche altre motivazioni siano alla base dell'impresa, come la ricerca dell'oro, l'ambiziosa ricerca di una nobilitazione personale e della propria famiglia, una talora quasi irritante consapevolezza delle proprie capacità. Ma senza un adeguato e decisivo peso alle motivazioni di carattere religioso, noi non potremmo sperare di penetrare la personalità di Colombo, di capirne i gesti, di comprenderne gli scritti.

Citiamo ancora una volta Jacques Heers: «... lo scopritore del Nuovo Mondo si presenta a noi come un uomo di grande fede, profondamente attaccato alle proprie convinzioni, compenetrato di religiosità, accanito nel difendere e nell'esaltare il cristianesimo ovunque, nel promuovere una riconquista o una conquista contro i nemici di Dio, gli infedeli o i pagani. È perfino il solo tratto della sua personalità che non ammette discussioni, che ci appaia chiaramente, mentre altri, sui quali si è tanto e gratuitamente ricamato, ci sfuggono quasi completamente... Per Colombo ed altri, il viaggio, la peregrinazione, rimaneva, come ai tempi eroici dell'evangelizzazione dell'Europa, la virtù dei campioni di Dio, di coloro che abbandonano tutto per il suo servizio. Nuovi propagatori della fede, nuovi Crociati, questi capitani di mare e cavalieri di Cristo issano sempre il segno della croce sugli alberi delle loro caravelle».

Gli scritti di Colombo giunti fino a noi (purtroppo soltanto una parte del molto che scrisse: alla corte di Carlo V di chi mostrava una tendenza alla grafomania si diceva «scrive come Colombo») lasciano soltanto l'imbarazzo della scelta per la relativa esemplificazione.

È comunque importante ricordare che questi tratti sono già ampiamente presenti nel Diario di Bordo del primo viaggio per dimostrare che non siamo di fronte ad aspetti emersi soltanto nel periodo in cui, dall'anno 1500, egli era caduto in disgrazia, anche se è vero che proprio allora egli affina il proprio spirito e appare sempre più incline al misticismo.

Così è già presente la convinzione del carattere provvidenziale del viaggio, accompagnato dal favore divino. Alla data 23 settembre (aveva lasciato le Canarie verso l'ignoto il 6 settembre) Colombo istituisce un parallelo tra sé e Mosè, commentando l'improvviso ingrossarsi del mare senza vento: «Molto necessario mi fu il mare grosso, come non fu mai visto prima tranne al tempo degli Ebrei quando fuggirono dall'Egitto seguendo Mosè». Il naufragio della Santa Maria nella notte di Natale, in un primo momento attribuito da Colombo all'indolenza di un mozzo, è da lui letto, già il giorno successivo, come dovuto ad un tradimento degli uomini di Palos: un tradimento, peraltro, voluto da Dio perché egli fondasse, con il legname e le provviste della nave, il primo insediamento cristiano. E nel tradimento di Pinzòn vede la mano del demonio.

Quando, nel viaggio di ritorno, deve affrontare presso le Azzorre una spaventosa tempesta, l'Ammiraglio, sgomento per la sorte degli uomini che aveva convinto a seguirlo, per il timore di non rivedere i figli, per l'angoscia che il compimento del viaggio rimanesse ignoto ai sovrani, si volge a Dio, prima nella sua coscienza, poi con pubbliche e collettive promesse di pellegrinaggi a Santa Maria di Guadalupe e a Loreto, confortato dal ricordo delle «grazie che Dio gli aveva fatto, dandogli tanto grande vittoria, permettendogli di scoprire quello che aveva scoperto». Nella lettera al Santangel, probabilmente una copia della pergamena che, nel timore del naufragio, gettò in mare avvolta «in un panno incerato, legato molto bene» e posto dentro «un grande barile di legno», Colombo ricorda che tutto il successo suo e dei sovrani era dovuto esclusivamente a quel «eterno Dios nuestro Señor, el cual da a todos aquellos que andar su camino victoria de cosas que parecen imposibles».

L'idea di essere stato scelto dalla Provvidenza divina per compiere le antiche profezie è alla base delle sue riflessioni negli ultimi anni di vita. Nella lettera ai re del 1501 afferma che al suo viaggio, riuscito grazie a «un miracolo evidentissimo che volle fare Nostro Signore in questo affare del viaggio alle Indie», si deve il «pieno compimento di ciò che disse Isaia».

Da buon medievale il Genovese dava molta importanza ai nomi. E stata notata la cura con cui dà i nomi alle isole e ai luoghi che raggiunse con la sua esplorazione in relazione al calendario liturgico, alle solennità ecclesiastiche e ai misteri della fede. Ma soprattutto egli attribuiva un significato simbolico e provvidenziale al proprio nome: Colombo, ad immagine dello Spirito Santo e segno della pace che porta, Cristoforo in quanto «portatore a Cristo».

A partire dal 1502 egli non firma più el Almirante, ma con un criptogramma, al quale egli teneva moltissimo e attribuiva grande importanza, alla cui base pone appunto la segnatura Christo ferens, «che porta a Cristo». Quanto alle lettere puntate, al di sopra, l'interpretazione più recente e fondata vede nelle tre «S» del triangolo superiore una ripetuta e circolare invocazione allo Spirito Santo, nella «A» un'invocazione all'Altissimo e nelle tre lettere inferiori i nomi Christus; Maria, Yesus. La forma generale, del resto, richiama il triangolo trinitario.

Due appaiono, sempre, i pilastri della spiritualità di Colombo: la devozione per Maria e quella per la Santissima Trinità. A Maria dedica molti toponimi, come Asunción, Concepción, Anunciación. Alla Trinità vuole che siano dedicate da parte dei sovrani «solenni grazie... per l'accesso che avranno dall'accesso di tanti popoli alla nostra santa fede». Alla Trinità egli attribuisce, nel 1498, all'inizio dell'atto di maggiorascato in favore del figlio, l'idea prima - «nos puso en memoria» - e poi la precisa concezione - «perfecta inteligençia» - della possibilità di passare dalla Spagna alle Indie «pasando el mar Océano al Poniente».

L'idea della possibilità di condurre i popoli nuovi alla fede cristiana, che abbiamo appena sentito ricordata nella lettera al Santangel, è la prima che gli viene in mente di annotare il 12 ottobre: «Conobbi che era gente che meglio si salverebbe e si convertirebbe alla nostra santa fede con l'amore che con la forza». I passi del genere sono molto numerosi nel Diario. Il 17 novembre, per esempio, dopo avere sottolineato la necessità di superare la barriera linguistica, scrive: «E poi si raccoglieranno i benefici e si lavorerà per fare cristiani tutti questi popoli, il che agevolmente si farà perché essi non hanno setta alcuna, né sono idolatri».

Non moltiplicherò gli esempi. Ma ancora un riferimento va fatto al tema della Crociata, della liberazione del Santo Sepolcro, della lotta contro i Musulmani: un'idea fissa, un obiettivo concreto, nella mente di Colombo a partire dal 1500; un aspetto che, evidentemente, non può che imbarazzare gli interpreti «modernizzanti» e «laicizzanti» di Colombo.

È interessante notare che, contrariamente a quanto si pensava fino a quattro o cinque anni fa, questo tema, se domina, come ho detto, il pensiero dell'Ammiraglio dopo il terzo viaggio, appare sin dalla lettera indirizzata ai sovrani dopo il primo viaggio già nel 1493, rinvenuta in un copialettere settecentesco, contenente nove lettere di Colombo, sette delle quali prima ignote, pubblicato nel 1990. Nella prima di esse, appunto, oltre alla richiesta di un cardinalato per il figlio, c'è il calcolo degli Indios che potrebbero essere utilizzati nella crociata da organizzare.

Nell'atto di maggiorascato del 1498 l'Ammiraglio racconta di avere, fin da prima di essersi mosso per il suo viaggio di scoperta, richiesto al re e alla regina che la rendita delle Indie fosse utilizzata per la conquista di Gerusalemme e impone al figlio Diego o ad ogni altro suo erede di utilizzare le entrate che gli spettavano in base agli accordi di Santa Fé del 1492 di «andare con il Re Nostro Signore, se andrà a Gerusalemme a conquistarla, o anche solo, con la maggiore forza possibile».

Dopo il 1500 Colombo, caduto in temporanea disgrazia, tanto da essere trasportato in Spagna in catene, peraltro contro la volontà di Isabella che lo fece subito liberare, pone mano ad una raccolta, nota come Libro de las Profecías, in cui mise insieme assieme passi della Bibbia, di Padri della Chiesa e della Medea di Seneca nei quali egli vedeva l'annuncio della sua scoperta di nuove terre e dello svelamento dei misteri nascosti dall'Oceano. Il suo titolo completo lega insieme il recupero della Città Santa e la conversione degli Indios: Liber seu manipulus de auctoritatibus, dictis ac sententiìs et prophetiìs circa materiam recuperande sancte civitatis et montis Dei Syon ac inventionis et conversionis insularum Indie et omnium gentium atque nationum, ad reges nostros Hispanos. Nello stesso 1501, in un passaggio di una lunga ed orgogliosa lettera indirizzata ai sovrani citava Gioacchino da Fiore il quale aveva scritto che «doveva uscire di Spagna chi avrebbe riedificato la casa del monte Sion».

Ci par dunque legittimo riproporre qui la definizione data dal Taviani: non santo, ma defensor fidei. E sottolineare, riprendendo il titolo di un nostro articolo, le radici medievali e cristiane di Colombo.

Nuova, originale e ardita fu dunque l'impresa di Colombo; ma al tempo stesso dobbiamo vederla inserita nel quadro dell'espansione europea dei secoli XIII-XVI, una delle grandi fasi della storia universale, peraltro generalmente trascurata tanto nei manuali scolastici quanto nella pratica dell'insegnamento. Pure, se consideriamo la situazione della Terra all'inizio del XIII secolo dobbiamo constatare, con Pierre Chaunu, che l'occupazione umana di essa era incompleta e discontinua; «originatasi certamente da un focolaio unico, la specie umana, vinta dalla distanza, ha dunque vissuto lungo tutto l'arco interminabile della preistoria, i destini autonomi delle culture e delle civiltà».

Vediamo, in rapida successione ed in modo essenziale, le tappe di questa espansione.

Nel 1291, lo stesso anno della caduta di San Giovanni d'Acri, ultimo baluardo crociato in Terrasanta, due fratelli genovesi si avventurano nell'Atlantico con due galere, ad partes Indie per mare Oceanum; precursori di Colombo o di Vasco da Gama? Non lo sappiamo, perché non fecero ritorno. Come, mezzo secolo più tardi, non farà ritorno il maiorchino jaume Ferrer partito nel 1346 per anar al riu de l'or, al di là del Sahara.

Ma dalla prima metà del XIV secolo si scoprono gli arcipelaghi oceanici: le Canarie, Madera, le Azzorre, che vengono, dopo la scoperta, colonizzate da portoghesi e spagnoli anche se il primo contatto era stato stabilito da un genovese, Lancelotto Malocello. Queste isole segnano i confini di una sorta di «Mediterraneo atlantico» e serviranno poi, egregiamente, da trampolini di lancio per le ulteriori spedizioni.

Il Portogallo, grazie anche all'opera del principe Enrico il Navigatore, fu il grande protagonista della progressiva scoperta delle coste africane: un'impresa sistematica e pluridecennale che non casualmente prosegue sullo slancio della conquista di Ceuta nel 1415. Nel 1434 è superato capo Bojador, nel 1444 è raggiunta la foce del Senegal, tra il 1470 e il 1475 è compiuta l'esplorazione di tutto il golfo di Guinea e dell'Africa equatoriale: Colombo, come egli stesso ci ricorda in postille apposte a libri di sua proprietà, durante il periodo in cui visse in Portogallo ebbe modo di navigare fino alla Guinea pochi anni dopo, facendo un'esperienza fondamentale.

Salito al trono Giovanni II nel 1481 gli sforzi portoghesi riprendono: nel 1486 Diogo Cao raggiunge il 230 grado di latitudine sud; l'anno successivo parte la spedizione di Bartolomeo Diaz che nella primavera del 1488 supera il capo Tempestoso. com'egli lo chiamò, o di Buona Speranza come venne poi denominato per felice volontà del re. La via per l'Asia era ormai aperta e pochi anni dopo la percorrerà, per primo, Vasco da Gama.

Si vede dunque che l'impresa di Colombo si inseriva in una storia di lunga durata che la precede e la segue. Il che non le toglie la novità, l'ardimento, la grandezza: ma allontana, questo sì, eventuali sospetti di casualità. Proprio per questo, anzi, possiamo a maggiore ragione definirla vera scoperta.

Quest'espansione europea, per quanto sia giusto ricordarne anche le finalità economiche o i fattori geostorici (primo fra tutti la progressiva chiusura del Mediterraneo orientale a causa dell'espansione dei Turchi ottomani) e le condizioni tecniche (come i progressi dell'arte della navigazione), ha bisogno di essere spiegata a livelli più profondi, anche perché protagonista di essa non è una realtà di base sovrappopolata in cerca di sbocchi: al contrario, la grande peste del 1348 e le epidemie successive ne avevano brutalmente ridotto la popolazione. Si calcola che il Portogallo avesse, attorno al 1450, da 700.000 a 800.000 abitanti; la Castiglia, negli stessi anni, doveva contarne ne circa 4 milioni. L'Europa intera, compresa la Russia, doveva averne allora circa 60 milioni, l'Africa tra i 60 e i 70, l'America 80, l'Asia 200: insomma, la planetarizzazione del mondo fu opera del 15% dell'umanità.

In altre parole, per dirla ancora con Pierre Chaunu, «Perché l'Europa? Perché non la Cina?». Quella Cina che pure aveva, e da più tempo, la tecnologia e le risorse umane per slanciarsi verso l'esterno.

Sembra impossibile non cercare la spiegazione nell'essenza cristiana della civiltà europea, peraltro capace di fare propria nei suoi aspetti positivi l'eredità della civiltà greco-romana. Forma, nel senso filosofico della parola, della civiltà europea medievale era la religione cristiana, cioè una religione il cui atteggiamento verso il tempo e la storia sono assolutamente positivi, avendo al suo centro l'incarnazione del suo Dio (patì sotto Ponzio Pilato, cioè in un momento e in un luogo precisi). Pio ricordato come Colombo sentisse di essere stato chiamato a compiere le profezie degli antichi e della Scrittura. e «a cielo chiuso», su un piano di conoscenza storica e di teologia della storia, dobbiamo riconoscere che egli aveva in un certo senso ragione: effettivamente nel suo viaggio ) come momento cruciale di una lunga fase di espansione) si compirono le attese, le «premonizioni» come ben dice il Caturelli, dell'antichità classica e della Cristianità medievale che non conoscevano, ma pre-sentivano l'esistenza di altre genti e di mondi nuovi.

Nel XV canto dalla Gerusalemme Liberata Torquato Tasso fa ricordare alla Fortuna i segni posti da Ercole e il viaggio di Ulisse: «ma quei segni sprezzò ch'egli prescrisse, di veder vago e di saper, Ulisse»; e le fa poi profetare la realizzazione dell'impresa da parte di Colombo, nuovo Ulisse: «Un uom della Liguria avrà ardimento/ a l'incognito corso esporsi in prima;/ né 'l minaccievol fremito del vento,/ né l'inospito mar, né 'l dubbio clima,/ né s'altro di periglio o di spavento/ più grave e formidabile or si stima,/ faran che 'l generoso entro a i divieti! d'Abila angusti l'alta mente accheti./ Tu spegherai, Colombo, a un novo polo! lontane sì le fortunate antenne,/ ch'a pene seguirà con gli occhi il volo/ la fama ch'ha mille occhi e mille penne».

In questi versi, evidentemente, il Tasso ha presente la figura e le vicende di Ulisse quali erano state narrate nel XXVI canto dell'Inferno da Dante Alighieri, «onore della Chiesa», secondo la bella espressione di Paolo VI.

L'Ulisse di Dante (che non è all'Inferno per questa ragione) è spinto al suo ultimo viaggio, al di là dei riguardi posti da Ercole, da una naturale sete di conoscenza; ma il suo viaggio è, però, al tempo stesso un folle volo, perché compiuto senza l'aiuto della grazia divina, sì che esso si conclude, come altrui piacque, davanti alla montagna del Purgatorio, non senza aver intravisto una nova terra. Ulisse è così realmente figura di Colombo, e troverà, quasi due secoli dopo Dante, il suo intervento nel navigatore genovese. Come la civiltà antica ebbe nella civiltà cristiana del Medioevo, di cui la scoperta di Colombo è frutto maturo e quasi ultimo, il suo inveramento.

Scrive Franco Cardini: «E stato comunque notato che c'è qualcosa di mistico, di arcano - qualcuno s’è arrischiato a dire di soprannaturale - in quella scoperta delle coste di San Salvador-Watling: i voli di uccelli, i misteriosi legni lavorati come messaggi dentro oniriche bottiglie, la luce tremula como una candelilla. Ma era denso di segni quel 1492.

Come si è detto, peraltro, le polemiche che hanno accompagnato la ricorrenza del quinto centenario della scoperta dell'America non hanno investito soltanto la figura di Colombo ma anche la regina Isabella (la cui causa di beatificazione è avversata energicamente) e, più in generale, tutto il ciclo scoperta-esplorazione-conquista che si aprì il 12 ottobre del 1993. Tutto il più stantio armamentario della «leggenda nera» antispagnola ed anti-cattolica, nata all'epoca delle guerre di religione e compiutamente formatasi con l'Illuminismo, è stato riproposto. Ed una parola più di tutte è stata insistentemente ripetuta, un'accusa è stata violentemente formulata: con Colombo ha avuto inizio un genocidio, del quale i conquistadores sarebbero stati i crudeli esecutori.

Vediamo dunque, rapidamente, le osservazioni fondamentali che si possono muovere a questa leyenda negra. Naturalmente con ciò non si vuole affermare che siano stati assenti nell'azione dei colonizzatori iberici episodi e tratti moralmente e umanamente riprovevoli, opponendo così una leyenda rosa o blanca alle deformazioni della leyenda negra. Per dirla con le parole esatte di Giovanni Paolo II a Santo Domingo, ci furono eccessi di conquistatori, e non, come è apparso nelle traduzioni italiane, dei conquistatori.

In primo luogo occorre sfatare il mito che il Nuovo Mondo fosse, all'arrivo degli Spagnoli, una specie di Paradiso Terrestre, abitato da società libere e pacifiche. In realtà erano stati costruiti, a prezzo di guerre sanguinosissime, regni ed imperi fondati sull'oppressione di gran parte della popolazione, sulla schiavitù, sulla pratica dei sacrifici umani.

Con tutta la nostra buona volontà di conoscitori dell'antropologia e della necessità di considerare le civiltà, per così dire, dall'interno, iuxta propria principia, sono questi dati di fatto che non possiamo dimenticare.

Quando si rimprovera ai colonizzatori europei la distruzione di tesori d'arte o lo stravolgimento delle strutture sociali preesistenti, perché dimenticare, allora, che queste pratiche erano già largamente praticate nel continente americano? Giustamente veniva recentemente ricordato dall'Economist che «i rotoli aztechi delle loro conquiste erano decorati con le scene delle distruzioni dei templi dei loro avversari vinti» e che «gli Inca deportarono intere popolazioni in luoghi lontani e non familiari in una scala fino ad allora sconosciuta».

L'utilizzazione di categorie portate alla comprensione di tutto in un caso («le loro civiltà erano così e vanno accettate per quello che erano») e la condanna di tutto nell'altro caso, senza nulla concedere allo spirito dei tempi, dimostrano la malafede culturale di certe posizioni.

Si deve invece ricordare che gran parte delle nostre conoscenze sulla civiltà amerindia deriva proprio dall'attenzione con cui gli Europei seppero guardare alle civiltà con cui vennero in contatto, sì che ci può ben dire che «l'etnologia scientifica fu inventata nel Messico del XVI secolo».

La stessa conoscenza degli episodi di maltrattamento o di crudeltà (questi, del resto, avvenuti in genere in risposta ad atti di crudeltà degli indios) è dovuta alle cronache spagnole e al grande dibattito teologico e filosofico sul diritto naturale che si svolse nel Cinquecento in Spagna; un dibattito che sarebbe erroneo ridurre ai soli Las Casas e Sepùlveda, in quanto coinvolse la Chiesa, le università e la corte.

Così raramente vengono ricordate le leggi e i provvedimenti dei sovrani spagnoli, dalla condanna di Isabella della deportazione in Europa di alcuni indigeni alle Nuove leggi di Can lo V (1542), le quali «sul piano del pensiero segnano... la vittoria della filosofia scolastica cristiana sull'umanesimo pagano-rinascimentale, sulle scappatoie offerte dalla categoria greco-aristotelica applicata agli Indi, servi per natura» (Chaunu).

Ancora, non si vede perché dimenticare gli aspetti eroici e straordinari di molte fasi della conquista, portata a termine da condottieri di straordinario valore e in condizioni di impressionante inferiorità numerica. Per esempio, come non apprezzare le dimensioni epiche della conquista dell'altopiano messicano fatta dall'hidalgo dell'Estramadura Hernan Cortés?

Oltre tutto, dimenticando questi aspetti, non si riesce a spiegare la rapidità della conquista, la quale, inoltre, fu resa possibile proprio dalla debolezza dei regni e degli imperi indigeni, dovuta anche alla loro struttura fortemente caratterizzata dal feroce dominio di pochi su molti e quindi dalle alleanze con popoli indigeni che i conquistadores poterono stringere.

Già Colombo era stato accolto dagli Arawak abitanti le prime isole con cui venne in contatto come un aiuto insperato, piovuto dal cielo, contro i Caraibi. L'impresa di Cortés non sarebbe stata certamente possibile senza l'alleanza con varie città indiane, soprattutto con Tlaxcala. Pizarro si inserì in una guerra civile in atto nell'impero inca.

La storiografia mette oggi in rilievo gli elementi di debolezza delle realtà amerindie anche dal punto di vista della cultura materiale.

Lo Chaunu scrive: «La fragilità dell'uomo americano in America, la degradazione irreversibile dell'Indio è una delle chiavi di interpretazione più importanti di questo primo passato umano del Nuovo Mondo... Il dramma dell'umanità amerindia è di non avere potuto usufruire dell'esperienza degli altri uomini del Vecchio Mondo».

Rimasti alla zappa, gli indios ignoravano la ruota, l'aratro pesante, il mantice, la lavorazione del ferro e (per quanto grandi architetti) anche l'arco. Non navigavano e non comunicavano agevolmente tra di loro, per la incredibile molteplicità delle lingue e per la mancanza di contatti pacifici e culturali. Ogni cultura distruggeva quella precedente e ripartiva quasi da zero. La più brillante delle civiltà precolombiane, quella maya, era crollata ben prima della conquista bianca. «Nessuna civiltà amerinda, insomma, ha veramente superato la fase calcolitica, l'età della pietra e del rame».

Consideriamo infine la catastrofe demografica.

Se si ritiene che nell'America del Nord, negli enormi spazi corrispondenti agli odierni Stati Uniti e Canada, la popolazione non arrivasse, nel XVI secolo, al milione di anime, i calcoli più elevati per il Centro e Sud America arrivano ad una cifra di circa 80 milioni: pochi per gli spazi a disposizione, ma certo moltissimi rispetto ai 15 milioni rimasti dopo un centinaio di anni.

Ma e bene precisare che l'accusa di genocidio nei confronti dei colonizzatori non ha alcun fondamento.

Essa intanto, cozza contro la logica. Gli Spagnoli, anche per lo scrupolo umanitario di una parte almeno dei loro ceti dirigenti, in particolare ecclesiastici, ma in parte pure per ovvie motivazioni economiche dipendenti dal lavoro delle popolazioni indigene, avevano tutto l'interesse a preservare la sopravvivenza dei nativi. Solo in una percentuale molto bassa la catastrofe demografica può essere attribuita alle guerre di conquista o all'imposizione del lavoro (certo, come altrove, molto duro nelle miniere).

Nella sostanza essa dipese dalle grandi epidemie provocate dall'incontro di due realtà biologiche precedentemente prive di contatto e quindi portatrici di parassiti ignoti e perciò tragicamente distruttrici, non tanto per le popolazioni africane o europee, quanto proprio per le popolazioni americane fino ad allora vissute nel più totale isolamento dal resto degli abitanti della Terra e dunque anche dai microbi delle altre regioni del pianeta.

Le nuove (per gli indios) malattie provocarono sin dai primi anni la morte di una gran parte della popolazione indigena delle isole, probabilmente circa l'80%. Fu soprattutto il morbillo a colpire a Santo Domingo, con conseguenze aggravate dai bagni gelati con cui gli indios, secondo il racconto di Las Casas, cercarono di curare febbri ed eruzioni che rappresentavano, per loro, una patologia assolutamente nuova. Il vaiolo, arrivato poco dopo, portò alla quasi totale estinzione della popolazione indigena dell'isola.

Verso il 1520 la malattia raggiunse il Messico e il Guatemala e cinque anni dopo. l'impero Inca. Ulteriori stragi nei decenni successivi furono compiute nel continente americano dal morbillo, dal tifo, da influenze maligne tra le quali quella del 1576 uccise sugli altipiani dal 40 al 50% della popolazione india, colpendo unicamente gli indi e risparmiando non solo i bianchi ma anche gli schiavi neri.

Né i vuoti erano facilmente colmabili per il basso livello di riproduzione. Per esempio, i Maya sono spariti senza che ne sia stato responsabile il deus ex machina rappresentato dall'uomo bianco; i neonati amerindi, anche nei settori più evoluti, sono molto meno resistenti di quelli dell'Europa cristiana nella stessa epoca... il coefficiente netto di riproduzione inoltre si trova, nel migliore dei casi, ad un livello che supera di poco l'unità.

Infine, proprio l'assenza di razzismo da parte dei bianchi nei confronti degli indios non ne favoriva la conservazione etnica; il fenomeno del meticciato fu presto molto diffuso.

Bibliografia

La migliore biografia del Genovese è quella di J. HEERS, Cristoforo Colombo, Rusconi, Milano 1983.
Per una lettura più rapida CH. VERLINDEN, Cristoforo Colombo, Visione e perseveranza, tr. it., Edizioni Paoline, Roma 1985.
Per l'inquadramento dell'impresa colombiana nell'espansione europea della fine del Medio Evo, P. CHAUNU), L'espansione europea dal XIII al XV secolo, tr. it., Mursia, Milano 1979.
L'articolo dell'autore di questo contributo cui si fa riferimento è M. TANGHERONI-M. PARENTI, Cristoforo Colombo, ammiraglio genovese e «defensor fidei», in «Cristianità», n. 203 (1992), pp. 11-17, con bibliografia aggiornata.
Il Diario di bordo è qui citato nell’edizione curata da G. FERRO, Diario di bordo. Libro della prima navigazione e scoperta delle Indie, Mursia, Milano 1985.
Per il criptogramma e la spiritualità di Colombo: G. PISTARINO, Cnstoforo Colombo: l'enigma del criptogramma, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova 1990.
Per il significato della scoperta e i suoi sviluppi: il profondo A. CATURELLI, Il Nuovo Mondo Riscoperto, Edizioni Ares, Milano 1992.
Per la fase della conquista: E CHAUNU, La conquista e l’esplorazione dei nuovi mondi (secolo XVI), tr. it., Mursia, Milano 1977.

FONTE: Contro la leggenda nera (hhttp://www.kattoliko.it/Leggendanera/modules.php?name=News&file=article&sid=220)

http://www.cattolicesimo.com/immsacre/colombo.jpg John Vanderlyn, La scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo

http://www.cattolicesimo.com/immsacre/columbus.jpg

http://classic.archives.nd.edu/maritain/images/ce/Columbus.gif Padre Juan Perez benedice Cristoforo Colombo in procinto di partire per le Americhe

http://img67.imageshack.us/img67/2280/christophercolombusbysetr5.jpg Sebastiano del Piombo, Cristoforo Colombo, 1529-30

Augustinus
12-10-03, 11:25
La scoperta dell'America

di Francesco Pappalardo

1. La scoperta

L’arrivo nell’isola di Guanahaní — poi San Salvador — della piccola flotta capitanata dal genovese Cristoforo Colombo (1451 ca. -1506), il 12 ottobre 1492, segna l’inizio della scoperta, della conquista e dell’evangelizzazione delle Americhe. Non si tratta, dunque, di un semplice rinvenimento — come nel caso del probabile arrivo di un gruppo di vichinghi nell’America Settentrionale verso la fine del secolo X, che non ebbe alcuna conseguenza per il continente —, ma di un atto che pone le premesse di un’integrazione razziale, culturale e spirituale unica nella storia.

L’impresa di Colombo s’inserisce nel quadro dell’espansione europea dei secoli XIII-XVI, che vede protagonisti soprattutto portoghesi e spagnoli, i quali solcano con entusiasmo mari sconosciuti e affrontano i pericoli dei viaggi verso l’ignoto, animati anzitutto dal desiderio di ampliare le frontiere della Cristianità. Nell’ammiraglio genovese e in coloro che lo seguono non sono da trascurare le motivazioni economiche e la ricerca di orizzonti più ampi, anche in relazione al serrarsi del Mediterraneo Orientale per l’avanzata dei turchi ottomani, ma un peso notevole hanno pure le aspirazioni religiose, cioè il desiderio di convertire gli indigeni e di reperire fondi per la riconquista di Gerusalemme. Se il progetto crociato del grande navigatore non viene realizzato, non si può dimenticare che l’oro del Nuovo Mondo servirà a finanziare la resistenza contro i turchi.

La spedizione guidata da Colombo segue immediatamente il compimento della Reconquista, cioè del processo di liberazione della penisola iberica dai musulmani, iniziato nel secolo VIII e concluso con la presa di Granada, il 2 gennaio 1492. L’entusiasmo per la vittoria spiega anche perché i Re Cattolici, Isabella di Castiglia (1451-1504) e Ferdinando d’Aragona (1452-1516), consapevoli della grande missione della Spagna — difendere e diffondere il messaggio cristiano in Europa e nel mondo — accogliessero il progetto, apparentemente irrealizzabile, del navigatore genovese: andare dalla Spagna alle Indie "passando il Mare Oceano a Ponente".

2. La conquista

A partire dal secondo viaggio di Colombo — realizzato fra il 1493 e il 1496 — la visione idilliaca delle Indie, che aveva caratterizzato fino ad allora le relazioni degli scopritori, viene meno tragicamente con l’uccisione di tutti i compagni dell’ammiraglio da parte degli indios. Ha inizio la conquista, il cui fine principale è sempre l’evangelizzazione, che prevale su altri fini del tutto leciti, come l’onore e la grandezza della Spagna, nonché la ricerca di ricchezze e di profitti materiali. L’ideale missionario, applicato alle nuove terre, costituisce l’humus dal quale scaturisce un tipo umano forse irripetibile, quello dei conquistadores. Figli di una terra dove si era appena conclusa la crociata contro i mori, ma in cui sopravviveva lo spirito che l’aveva ispirata, molti di essi attraversano l’oceano animati da un sogno di conquista e di gloria, fondato sulla volontà di ampliare i confini della fede cristiana e i domìni della Corona spagnola.

La conquista, soprattutto nella fase iniziale, è una sorpresa per tutti, risultando come la conseguenza non di un piano preciso, ma di una serie di reazioni di fronte a situazioni impreviste o d’iniziative di pochi audaci, come quella di Hernán Cortés (1485-1547) nei territori dell’attuale Messico. Inoltre, solo per le comunità del Centroamerica e dell’America andina si può parlare di vera e propria conquista, perché i nuovi arrivati non si misurano con organizzazioni primitive ma con autentici Stati, caratterizzati peraltro da inspiegabili assenze sul piano economico e tecnologico — la ruota, l’allevamento, la lavorazione del ferro, l’arco e la volta nelle costruzioni — o da presenze sinistre, come il cannibalismo, i sacrifici umani, la schiavitù. Questi elementi spiegano sia l’intransigenza e il furore dei conquistadores — che inorridiscono di fronte a oscure idolatrie, nei cui templi scorreva sempre sangue —, sia la facilità della conquista. Infatti, i regni e gli imperi indigeni, costruiti a prezzo di guerre sanguinosissime e fondati sulla tirannia e sulla crudeltà, portavano in sé i germi della propria distruzione: l’inaridimento culturale e l’instabilità politica, a causa della turbolenza dei popoli sottomessi, la cui presenza a fianco degli spagnoli capovolge le sorti della guerra e la trasforma in una carneficina.

Una diffusa letteratura antispagnola e anticattolica — nata nel Cinquecento in ambienti protestanti e alimentata ancor oggi da movimenti indianisti ed ecologisti, gruppi neomarxisti e terzomondisti, nonché frange cattoliche progressiste — continua a presentare la conquista come un "genocidio", ma la storiografia ha mostrato la falsità di questa leggenda nera. "Usciti troppo bruscamente dal loro isolamento — scrive lo storico francese e calvinista Pierre Chaunu —, gli Indiani d’America non soccombettero sotto i colpi delle spade in acciaio di Toledo, ma sotto lo choc microbico e virale". La catastrofe demografica dei popoli amerindi ha la sua causa nelle grandi epidemie, provocate dal contatto fra due realtà biologiche estranee, e non in una presunta politica razzista e di sterminio messa in opera dagli spagnoli, i quali, invece, avevano tutto l’interesse a garantire la sopravvivenza dei nativi e favoriscono la fusione fra vincitori e vinti. Significativamente l’Iberoamerica è la sola delle Americhe dove, ancor oggi, la razza indiana e i suoi meticci costituiscono la grande maggioranza della popolazione, dimostrando fra l’altro, grazie all’irrisorietà dell’insediamento di neri africani, che la Spagna ricorse in modo molto limitato all’importazione di schiavi nel Nuovo Mondo. Anche le denunce del domenicano Bartolomé de Las Casas (1474-1566) — subito confutate dal missionario francescano Toribio da Benavente (1490 ca.-1569) — si sono rivelate eccessive e inaffidabili, così da non poter essere utilizzate come fonti storiche esclusive e attendibili.

In realtà, nella conquista non colpiscono tanto gli abusi e gli errori iniziali — caratteristici di tutte le vicende umane — quanto la grande capacità di autocritica, unica nella storia della colonizzazione mondiale, che era la conseguenza di una profonda coscienza cristiana. Di fronte alle deviazioni la voce della Chiesa si leva dal primo momento attraverso la denuncia da parte dei missionari, le elaborazioni dottrinali dei teologi e dei giuristi, la sollecitudine dei sovrani spagnoli, che prendono numerosi provvedimenti in difesa degli indios, anzitutto le leggi di Burgos, promulgate dall’imperatore Carlo V d’Asburgo (1500-1558) nel 1519, due anni prima delle denunce di padre Las Casas. In particolare, la testimonianza della Scuola di Salamanca e le celebri ralazioni sugli indios, del domenicano Francisco de Vitoria (1483-1546), rappresentano un encomiabile sforzo di porre i fondamenti teologici e filosofici di una colonizzazione secondo princìpi ispirati all’etica cristiana.

3. L’evangelizzazione

Al momento di finanziare l’impresa di Colombo la regina Isabella spera di condurre altri popoli alla vera fede e non bada né a spese né a difficoltà per onorare gli impegni assunti con Papa Alessandro VI (1492-1503), che aveva concesso ai sovrani il dirito di patronato sulle nuove terre in cambio di precisi doveri di evangelizzazione. Ne consegue uno spiegamento missionario senza precedenti, che dà presto una nuova configurazione alla realtà ecclesiale universale, proprio nel momento in cui le convulsioni religiose in Europa provocavano gravi divisioni nella Cristianità, e che costituisce, secondo le parole di Papa Giovanni Paolo II, "una delle pagine più belle di tutta la storia dell’evangelizzazione portata a compimento dalla Chiesa".

Protagonisti di questa epopea sono innanzitutto i missionari — altamente selezionati e dotati di grande libertà d’iniziativa di fronte alle autorità civili —, quindi la Corona spagnola, cioè i sovrani e gli organi di governo, fra cui il Consiglio delle Indie, infine tutti gli spagnoli giunti nel continente — conquistadores e coloni —, i quali, nonostante i limiti del loro operato, erano consapevoli di aprire la strada alla diffusione del messaggio di Cristo.

L’azione evangelizzatrice opera in tre direzioni convergenti: l’irradiazione della fede e della cultura cristiana, il salvataggio delle lingue e delle tradizioni del continente americano, la civilizzazione delle popolazioni locali. Sotto il primo aspetto i missionari fanno fruttificare i semi di religiosità presenti nelle credenze dei popoli indigeni attraverso l’elaborazione di nuovi metodi di catechesi, la creazione di parrocchie di indios, dove costoro venivano istruiti nella verità della fede cristiana e ricevevano i sacramenti, e la preparazione di catechismi bilingui o pittografici.

Di fronte al lento progresso dell’evangelizzazione dei primi anni — rivolta a popoli idolatri e lontani culturalmente dalla mentalità europea —, i missionari comprendono che è necessario conoscere a fondo la mentalità e la cultura indigena per presentare il Vangelo nel modo più adeguato. Con un lavoro di autentica premessa all’inculturazione essi studiano le istituzioni, gli usi e i costumi degli indios, raccolgono con amore le testimonianze culturali amerinde più antiche — dando inizio alla moderna etnografia — e apprendono gli idiomi locali, dedicandosi anche alla stesura di grammatiche, di vocabolari e di frasari di conversazione. In questo modo fanno compiere alle lingue indigene, fino ad allora soltanto orali, un incommensurabile salto qualitativo, elevandole all’astrazione della scrittura alfabetica, che dà loro la possibilità di superare l’arcaica struttura che le caratterizzava e di pervenire alla cultura riflessiva.

Infine, i conquistadores e i missionari procedono a un vero e proprio atto di fondazione, erigendo città e creando istituzioni di governo, e realizzano una fondamentale opera di civilizzazione, analoga a quella compiuta dalla Chiesa in Europa durante il Medioevo cristiano. Costruiscono case e chiese, promuovono l’agricoltura e l’allevamento degli animali, creano scuole di arti e mestieri, aprono ospedali — il primo di questi, fondato in Messico da Cortés, nel 1521, è attivo ancor oggi — e numerosissimi centri di carità, fondano collegi e università, la prima delle quali a Santo Domingo, nel 1538, a meno di cinquant’anni dalla scoperta.

L’opera di evangelizzazione e di civilizzazione degli indigeni favorisce anche la creazione di un grande patrimonio artistico, frutto dell’incontro fra la cultura cattolica e la sensibilità delle popolazioni locali. Il monastero medioevale del secolo XVI, la cattedrale rinascimentale del secolo XVII e la chiesa barocca del secolo XVIII illustrano le tappe dello sviluppo architettonico nel continente americano, così come alcuni capolavori pittorici, soprattutto quadri raffiguranti soggetti originali, come le Vergini mulatte e gli arcangeli archibugieri di Cuzco, in Perú, e le statue dei dodici profeti nel santuario del Bom Jesús, a Congonhas do Campo, in Brasile, opera dell’architetto e scultore Antonio Francisco Lisboa (1730-1814), raffigurano visivamente tale incontro fra l’iconografia cristiana e le tradizioni di quei popoli.

L’integrazione fra vincitori e vinti è annunciata dall’apparizione della Vergine Maria all’indio Juan Diego (1474-1544) nel dicembre 1531, sulla collina di Tepeyac, presso Città di Messico, appena dieci anni dopo l’impresa di Cortés. Il volto meticcio della Vergine di Guadalupe prefigura la nascita di una nuova e originale civiltà, esito non di una violenta sovrapposizione ma di una felice sintesi, che si realizza sotto il segno del cattolicesimo, senza incontrare le difficoltà proprie della colonizzazione di marca protestante. Si compie così la fondazione dell’Iberoamerica, una realtà nuova, generata dalla fusione delle tradizioni greco-romana, iberica e cattolica con gli elementi più vitali del mondo precolombiano. I paesi del Nuovo Mondo non costituiranno infatti colonie ma province d’oltremare del regno di Spagna che, insieme con l’impero portoghese, come sottolinea il pensatore e giurista brasiliano José Pedro Galvão de Sousa (1912-1992), perpetuerà per alcuni secoli la tradizione dell’impero missionario medioevale. Oggi la metà dei membri della Chiesa cattolica abita il continente iberoamericano, definito da Papa Giovanni Paolo II — nella lettera apostolica Los caminos del Evangelio, del 29 giugno 1990 — "il Continente della speranza".
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Per approfondire: Marco Tangheroni e Maurizio Parenti, Cristoforo Colombo, ammiraglio genovese e "defensor fidei" (http://www.alleanzacattolica.org/indici/articoli/parentim_tangheronim203.htm), in Cristianità, anno XX, n. 203, marzo 1992, pp. 11-17; Pierre Chaunu, L’espansione europea dal XIII al XV secolo, trad. it., Mursia, Milano 1979; Alberto Caturelli, Il nuovo mondo riscoperto. La scoperta, la conquista, l’evangelizzazione dell’America e la cultura occidentale, trad. it., Ares, Milano 1992; Jean Dumont, Il Vangelo nelle Americhe. Dalla barbarie alla civiltà. Con un’appendice sul processo di beatificazione della regina Isabella la Cattolica, trad. it., con una prefazione di M. Tangheroni, Effedieffe, Milano 1992; e Giulio Dante Guerra, La Madonna di Guadalupe. Un caso di "inculturazione" miracolosa (http://www.alleanzacattolica.org/indici/articoli/guerragd205_206.htm). In appendice "Preghiera per la Vergine di Guadalupe" di Papa Giovanni Paolo II, Cristianità, Piacenza 1992.

FONTE: Voci per un Dizionario del Pensiero Forte (http://www.alleanzacattolica.org/idis_dpf/voci/s_scoperta_dell_america.htm)

Augustinus
12-10-03, 11:44
Cristoforo Colombo, ammiraglio genovese e "defensor fidei"

di Maurizio Parenti e Marco Tangheroni

in Cristianità, n. 203 (1992)

Le ricorrenze di date più o meno memorabili sono diventate spesso, ai nostri giorni, occasione per celebrazioni di vario tipo, pretesti per operazioni di carattere commerciale o di convenienza accademica; pertanto è giustificabile una possibile avversione per tali celebrazioni.

Tuttavia, mentre non si può negare che queste ricorrenze possano anche portare a utili ripensamenti e a effettivi approfondimenti dei vari temi, è pure innegabile che — per dire il meno — certi "giochi" dei numeri abbiano una forte suggestione, in specie per chi, senza pretendere di decifrare i dettagli della Provvidenza storica, a essa crede. Basti ricordare l’impressionante rispondenza fra il 1789, data d’inizio della Rivoluzione francese, e il 1989, data d’inizio della fine della Rivoluzione comunista come mito e, entro certi limiti, anche come potere (1).

Nel caso, poi, del quinto centenario della scoperta dell’America, alla oggettiva importanza dell’argomento si aggiungono motivi d’intervento di fronte a una polemica crescente e artificiosa, priva di seri contenuti storici e che ha invece bersagli ben precisi, il principale dei quali è senz’altro da identificare nella Chiesa cattolica e nella sua opera di evangelizzazione. Ne sono protagonisti ambienti protestanti, movimenti indianisti, terzomondismi marxisteggianti, nostalgici inguaribili del catto-comunismo alla disperata ricerca di nuove cause e di nuovi complessi di colpa.

E poco sembrano valere gli sforzi e i risultati dell’autentica ricerca storica. Come ricorda Franco Cardini, contro questa "tradizione pseudostoriografica [...] la voce ferma e autorevole di studiosi seri sembra impotente" (2); il che, aggiungiamo, conferma l’importanza della posta culturale in palio.

Già chiara, peraltro, si è levata la voce del Magistero pontificio. Nel suo secondo pellegrinaggio apostolico in Argentina, Papa Giovanni Paolo II si è espresso sul significato storico della scoperta e della conseguente opera di evangelizzazione: "Negli uomini e nelle donne di questa terra, nei suoi costumi e nel suo stile di vita perfino nella sua architettura, si scoprono i frutti di quell’incontro di due mondi che ebbe luogo quando giunsero i primi spagnoli ed entrarono in contatto con i popoli indigeni che vivevano in questa regione, e in modo particolare con la cultura quechua-aymarà.

"Da questo incontro fruttuoso è nata la vostra cultura, vivificata dalla fede cattolica che, fin dall’inizio, si è radicata molto profondamente in queste terre" (3).

Appare perciò utile un’opera chiarificatrice, che deve cominciare proprio dalla personalità di Cristoforo Colombo, il primo artefice della scoperta. Infatti, anche sulla sua figura si accaniscono nuovi detrattori, che riprendono vecchi tentativi di ridimensionamento, ipotesi prive di fondamento, interpretazioni non rispondenti a quanto la ricerca storica ha ormai acquisito pur nella difficoltà oggettiva delle fonti (4).

Né giovano a una buona comprensione della personalità dell’Ammiraglio certe prospettive insistenti su una sua presunta "modernità", che lo avrebbe portato a superare e a vincere i pregiudizi medievali (5). Queste prospettive riprendono la posizione largamente dominante nella cultura illuminista, che esaltò il personaggio Cristoforo Colombo e la sua scoperta, "triomphe de la raison", infamando, al tempo stesso, la Spagna e la civiltà cattolica (6).

Anche la formula adottata da Paolo Emilio Taviani, "una psicologia moderna su base medievale", secondo cui Cristoforo Colombo si collocherebbe "in mezzo tra due età", perché medievali sarebbero "l’impostazione teorica [...], la visione filosofica e teologica e gli stessi presupposti delle sue concezioni scientifiche", mentre rinascimentali "il suo ardore investigativo, il vivissimo sentimento della natura, la capacità di affrontare le spiegazioni dei fatti fino ad allora non ancora osservati o spiegati", paga un tributo non accettabile a una visione convenzionale della curiosità "scientifica" e dell’atteggiamento medievale verso le realtà della natura (7).

In verità, è impossibile comprendere l’uomo Cristoforo Colombo senza intenderne le profonde radici cattoliche e medievali, senza inquadrarlo nel suo tempo e senza porlo al punto cruciale di una generale espansione europea (8): piuttosto che tentare una biografia (9), ci sembra opportuno insistere proprio su questa chiave di lettura e su alcune questioni a essa connesse.

La patria di Cristoforo Colombo

Approfittando dell’assenza di un certificato di nascita e della non rarità, in tutto il Mediterraneo, del cognome nelle diverse varianti linguistiche, la fantasia degli autori si è scatenata nell’attribuire a Cristoforo Colombo i luoghi di nascita più diversi: lo si è voluto francese, corso, catalano, galiziano, portoghese, greco, inglese, tedesco...

Ma l’alternativa più insistente, e nuovamente ripresentata anche in occasione del quinto centenario della scoperta dell’America, è la sua origine ebraica; essa merita di essere brevemente esaminata perché, anche nella versione che lo vorrebbe di famiglia ebraica convertita, un converso, questa tesi lo riporterebbe, in parte, a una tradizione culturale diversa da quella da noi indicata come decisiva per la comprensione della sua figura.

Già formulata, agli inizi del nostro secolo, da Henry Vignaud — in un’opera peraltro tesa alla demolizione della grandezza di Cristoforo Colombo (10) —, è stata ripresa nel 1939 da uno scrittore particolarmente sottile ed elegante, Salvador de Madariaga, all’interno di una concezione mirante a esaltare il ruolo dei conversos nella Spagna del tempo, decisivi nella guida del regno, dell’Inquisizione e dell’economia (11). Dunque, Cristoforo Colombo sarebbe stato un ebreo catalano convertito, appartenente a una famiglia fuggita in Liguria, dopo i moti antiebraici avvenuti in Catalogna alla fine del secolo XIV.

Gli argomenti di Salvador de Madariaga sono di singolare debolezza e soltanto l’accumulo delle ipotesi e l’ingegnosità dello stile possono disorientare e stordire un lettore troppo passivo. Basti dire che i motivi principali sono i seguenti:

— un’interpretazione ebraica del criptogramma con cui Cristoforo Colombo firmava le sue lettere;

— il fatto che la madre si chiamasse Susanna, personaggio dell’Antico Testamento;

— il mestiere di tessitore del padre, Domenico, considerato "mestiere di elezione degli ebrei".

Ma del criptogramma lo stesso Ammiraglio ci invita a una lettura cristiana e strettamente collegata alla sua convinzione di avere avuto una precisa missione da Dio. Quanto ai nomi, dopo aver osservato che, pur raro, quello di Susanna era presente in tutte le principali casate nobili genovesi, Jacques Heers fa notare che Domenico Colombo dette a tutti i suoi figli nomi "perfettamente e inequivocabilmente cristiani: Cristoforo, Bartolomeo, Giacomo e Giovanni Pellegrino" (12).

Quanto all’argomentazione relativa al mestiere del padre, citiamo ancora Jacques Heers: "L’affermazione lascia alquanto sbalorditi se si pensa alle migliaia e migliaia di telai che a quel tempo tessevano la lana nelle città e nelle campagne d’Italia"; a Genova, poi, non vi è nessuna traccia di una presenza ebraica in questo settore, anzi, a differenza di altre città, come Venezia, la presenza ebraica in generale era, attorno al 1450, praticamente inesistente (13).

Ancor meno serio — per riprendere il severo ma giusto giudizio di Bartolomé e di Lucile Bennassar (14) — è pretendere, come fa Simon Wiesenthal, che Cristoforo Colombo cercasse nelle Indie una patria per stabilirvi gli ebrei iberici minacciati di espulsione (15): basti osservare che il progetto del navigatore genovese era stato formulato compiutamente almeno un decennio prima, mentre il provvedimento dei Re Cattolici fu una decisione quasi improvvisa.

In realtà, oggi non si può seriamente dubitare che Cristoforo Colombo fosse genovese, di famiglia originaria della montagna ligure. Sappiamo che suo padre, di nome Domenico, esercitava il mestiere di tessitore e, legato al clan familiare dei Fregoso, fu guardiano della porta dell’Olivella. Conosciamo anche il nonno, Giovanni, anch’egli tessitore. La ricerca d’archivio ha aggiunto vari documenti alla generale attestazione dei suoi contemporanei che lo indicano come genovese.

E poiché allora i genovesi erano quelli che si muovevano su più ampi spazi marittimi, assicurando i trasporti per mare dal Mar Nero alle Fiandre e all’Inghilterra, si possono ben comprendere le sue esperienze giovanili a Chio, il lungo soggiorno in Portogallo, con le prime esperienze oceaniche e il concepimento del suo progetto, perfino certi aspetti del suo soggiorno in Andalusia, ove la presenza di uomini d’affari genovesi e fiorentini era, come in Portogallo, notevole.

Il progetto. Rifiuti e approvazioni

Come l’esperienza marinara di Cristoforo Colombo si inquadra perfettamente nella storia della sua patria e del suo tempo, così il progetto di raggiungere l’Oriente passando, attraverso l’Oceano, per l’Occidente, si stava imponendo, sia pure in maniera sfocata e imprecisa, in diversi ambienti scientifici ed eruditi dell’epoca: basti ricordare l’influenza di Paolo dal Pozzo Toscanelli.

Il navigatore genovese ha il merito di concepire con maggior precisione il disegno, rafforzando le tesi di alcuni dotti con la personale esperienza di uomo di mare, che aveva osservato indizi significativi e raccolto anche alcune voci degli ambienti marinari; e quindi di perseguire con ostinazione la realizzazione dell’impresa condotta, poi, con le sue straordinarie doti nella guida delle navi e degli uomini (16).

Tuttavia è bene ricordare che il suo progetto si basava su un duplice errore geografico, pur condiviso da sapienti di grande autorità, e verrebbe voglia di esclamare con la liturgia del Sabato Santo: felix culpa! : infatti egli riteneva la Terra molto più piccola e l’Asia molto più estesa verso l’Europa. Così gli poté apparire realizzabile un viaggio che, senza l’inattesa presenza di un altro continente, si sarebbe rivelato, evidentemente, impossibile.

È importante ricordare questo fatto perché ci permette di comprendere il parere negativo sia degli studiosi consultati dal re del Portogallo, Giovanni II, sia di quelli spagnoli, in buona parte dell’università di Salamanca, interpellati dai Re Cattolici. Essi avevano, da un punto di vista matematico e geografico, ragione. E su questo piano avvennero, com’è documentato, le discussioni. Naturalmente non era in questione la sfericità della Terra, dato pienamente acquisito dalla cultura geografica medievale, ma la sua dimensione; e non sarebbe stato necessario ricordarlo se non fosse ancora largamente diffuso questo luogo comune tipico della "leggenda nera" sul Medioevo.

Dunque tali studiosi non erano, come spesso li si immagina, i rappresentanti di una cultura vecchia, superata, "medioevale", contrapposta a quella nuova e "moderna" di Cristoforo Colombo. Ancor meno essi erano fanatici religiosi nemici della umanistica laicità del genovese, come, per esempio, ce li raffigurava uno sceneggiato televisivo realizzato alcuni anni or sono, senza risparmiarci nessuno dei topoi che era, ahimé, prevedibile attendersi: facce incavate, occhi ardenti, voci stridule. Semmai era proprio Cristoforo Colombo a superare, di fronte agli altri e a sé stesso, le obbiezioni oltre che con argomenti razionali anche con una convinzione progressivamente crescente di una missione affidatagli dalla Provvidenza.

Un’ultima considerazione: perché il progetto di Cristoforo Colombo, che era stato giudicato negativamente da ripetuti autorevoli pareri, trovò quasi improvvisamente accoglienza da parte dei Re Cattolici nei primi mesi del 1492?

Indubbiamente pesarono i sostenitori e i finanziatori che il navigatore genovese era riuscito a procurarsi, ma la spiegazione essenziale è da ricercarsi nell’euforia dei sovrani, della Corte e del popolo spagnoli per l’avvenuto compimento del processo di Reconquista, avviato dalla metà del secolo VIII e terminato il 2 gennaio 1492 con la conquista di Granada: un quinto centenario, questo, che il governo socialista spagnolo non ha avuto il coraggio di celebrare o di commemorare.

La religiosità di Cristoforo Colombo

Certamente in Cristoforo Colombo e in coloro che lo seguirono, come in generale nell’espansione europea della fine del Medioevo, non sono da trascurare le motivazioni di tipo economico e, in particolare, la ricerca dell’oro, senza dimenticare che, a partire dagli anni Quaranta del secolo XV, per i portoghesi acquista crescente importanza anche la cattura di schiavi lungo le coste africane: ma questa motivazione economica è assente dal progetto del navigatore genovese; più in generale, in tale espansione si manifesta "l’incoercibile bisogno, più o meno cosciente, di spazio" (17), non per eccesso di popolazione — le grandi epidemie di peste del secolo precedente avevano abbattuto di circa il 40% la popolazione europea —, ma per la ricerca di orizzonti più ampi, anche in relazione al serrarsi del Mediterraneo Orientale per l’avanzata dei turchi ottomani e al completamento della Reconquista.

Inoltre, per Cristoforo Colombo le motivazioni di ordine religioso avevano un peso notevole, che sarebbe estremamente ingiusto e arbitrario ridurre a giustificazioni strumentali o a residui poco significativi di riti o di pratiche a carattere magico e superstizioso.

E ciò va ribadito contro gli storici moderni poco propensi a prendere in considerazione il richiamo religioso; essi, come ha osservato Jacques Heers, "se ne parlano, vi vedono un elemento troppo trascurabile per evocarlo in maniera attenta, oppure un semplice pretesto. Molti pensano volentieri che il Genovese parlasse di dovere religioso, di servizio di Cristo e di prospettive di evangelizzazione solo per conciliarsi meglio le buone grazie della regina attraverso una manovra interessata" (18).

Già la lettura del Diario di bordo ci offre un’ampia esemplificazione di questi aspetti decisivi per comprendere la personalità dell’Ammiraglio (19): ci limitiamo a qualche esempio, per altro assai eloquente, circa la profonda religiosità di Cristoforo Colombo e la sua convinzione di svolgere una missione accompagnata dal favore divino.

In data 23 settembre 1492 egli istituisce un parallelo fra sé e Mosé: come allora a Mosé, che conduceva gli ebrei fuori dalla schiavitù egiziana, risultò utile il mare grosso in assenza di vento, così lo stesso straordinario fenomeno si è ripetuto a suo vantaggio per tranquillizzare i marinai timorosi circa la possibilità di fare ritorno.

Il problema della conversione degli indigeni è, fin dallo stesso primo contatto del 12 ottobre, al centro dell’attenzione dello scopritore: "Conobbi che era gente che meglio si salverebbe e si convertirebbe alla nostra santa fede con l’amore che con la forza" (20). E in data 27 novembre, rivolgendosi ai sovrani spagnoli, dopo aver esposto la necessità di superare la barriera linguistica, scrive: "E poi si raccoglieranno i benefici e si lavorerà per fare cristiani tutti questi popoli, il che agevolmente si farà perché essi non hanno setta alcuna, né sono idolatri" (21).

Sempre il Diario di bordo ci informa sul comportamento e sui pensieri di Cristoforo Colombo durante la spaventosa tempesta che coglie le due caravelle superstiti a metà febbraio, durante il viaggio di ritorno.

In tali drammatici frangenti egli ha il timore che Dio gli impedisca il ritorno e "attribuì questo alla sua poca fede e alla mancanza di fiducia nella Provvidenza divina. D’altra parte lo confortavano le grazie che Dio gli aveva fatto, dandogli tanto grande vittoria, permettendogli di scoprire quello che aveva scoperto. [...] E che, come nel passato aveva posto il suo fine e indirizzato tutta la sua impresa a Dio e lo aveva ascoltato [...] doveva credere che gli darebbe compimento di quanto cominciato e lo porterebbe a salvamento" (22).

Da buon capitano medievale Cristoforo Colombo si preoccupa "che si estraesse a sorte un pellegrino che andasse a Santa Maria di Guadalupe e portasse un cero di 5 libbre di cera", e la sorte designa proprio lui: a questo santuario dell’Estremadura condurrà di persona i primi indiani portati in Spagna a ricevere il battesimo.

Poi viene deciso anche "di mandare un pellegrino a Santa Maria di Loreto, che è nella marca di Ancona, terra del Papa, che è una casa dove Nostra Signora ha fatto e fa molti e grandi miracoli"; "dopo di ciò l’Ammiraglio e tutto l’equipaggio fecero voto di andare, arrivando alla prima terra, tutti in camicia in processione a far preghiera in una chiesa che fosse dedicata a Nostra Signora" (23).

Va inoltre ricordato che l’Ammiraglio tiene sempre presenti, anche nel corso delle sue esplorazioni, il calendario liturgico, le solennità ecclesiastiche e i misteri della Fede (24). Il 6 dicembre 1492, giorno della festività di san Nicola, chiama con quel nome il porto dell’isola Hispaniola — poi Haiti — in cui si trovava, come nel secondo viaggio un promontorio riceve il nome di Cabo Cruz il 3 maggio, giorno del rinvenimento della Croce.

Cristoforo Colombo, il Santo Sepolcro e la Crociata

Un motivo ricorrente nei testi di Cristoforo Colombo è quello della finalizzazione dei risultati della sua impresa alla liberazione del Santo Sepolcro.

Nel Diario di bordo, dopo aver narrato la costruzione del primo insediamento, quello di Navidad — fondato il 25 dicembre del 1492, subito dopo il naufragio della Santa Maria. —, afferma che intende ritornare in un secondo viaggio dalla Castiglia e trovare oro e spezie "in tanta quantità che i re, prima di 3 anni, intraprendessero e preparassero [l’azione] per andare a conquistare la Casa Santa" confermando così l’impegno preso "con fermezza" con i sovrani prima della sua partenza, e cioè "che tutto il guadagno di questa mia impresa si spendesse nella riconquista di Gerusalemme". In quell’occasione — ricorda — i sovrani "sorrisero e dissero che piaceva loro e che [anche] senza questo avevano quel desiderio" (25).

Nell’atto con cui istituisce il maggiorascato a favore di don Diego, il suo primogenito, Cristoforo Colombo ricorda nuovamente l’intenzione di spendere la rendita delle Indie "per la conquista di Gerusalemme" e impegna il figlio, o il suo erede, "ad andare con il Re Nostro Signore, se andrà a Gerusalemme a conquistarla, o anche solo, con la maggior forza possibile" (26).

Dopo il terzo viaggio, fra il 1501 e il 1502, l’Ammiraglio, temporaneamente caduto in disgrazia presso i sovrani, pone mano al Libro de las Profecias, una raccolta di passi biblici, di Padri della Chiesa e di Seneca "circa materiam recuperande sancte civitatis et montis Dei Syon ac inventionis et conversionis insularum Indie et omnium gentium atque nationum ad reges nostros Hispanos", come suona il titolo del manoscritto conservato nella Biblioteca Colombina di Siviglia (27).

Del resto, come orgogliosamente affermava, sempre nel 1501, in una lunga lettera ai Re Cattolici, non aveva forse scritto l’abate Gioacchino che "doveva uscire di Spagna chi avrebbe riedificato la casa del monte Sion" (28)?

Nella stessa lettera, pur amareggiato, umiliato, deluso, afferma chiaramente di considerarsi il missionario predestinato a portare a Cristo gli abitanti delle terre da lui scoperte, in "pieno compimento di ciò che disse Isaia" e grazie a "un miracolo evidentissimo che volle fare Nostro Signore in questo affare del viaggio alle Indie" (29).

E se indubbiamente il progetto crociato non fu realizzato, come dimenticare, comunque, che "l’oro del Nuovo Mondo servirà a finanziare eserciti e armadas contro i Turchi" (30)?

Negli anni Ottanta è stato scoperto un libro copiador, cioè un quaderno copialettere, contenente nove lettere di Cristoforo Colombo, sette delle quali inedite (31).

Alcune di esse, tutte indirizzate ai Re Cattolici e ricche di diverse informazioni nuove, confermano ulteriormente le profonde radici medievali e cristiane della personalità del navigatore e l’alta consapevolezza del significato storico dell’impresa compiuta. E ritorna, in una di esse, il tema del ricupero della "Casa Santa" di Gerusalemme.

Cristoforo Colombo, il criptogramma e la devozione alla Santissima Trinità

Geo Pistarino ha avanzato un’ipotesi interpretativa del famoso criptogramma o acronimo che Cristoforo Colombo crea probabilmente in occasione del secondo viaggio, di cui impone l’adozione ai suoi eredi nel testamento del 1498 e che adotta poi sistematicamente come firma, dopo aver pazientemente esaminato tutte le ipotesi, anche le più arbitrarie e strampalate, formulate nei secoli, con trascrizioni in ebraico o, addirittura, in linguaggio esoterico-massonico o pseudo-templare (32).

Sulla base delle indicazioni date dall’Ammiraglio, bisogna ricercare la corretta interpretazione nell’ambito preciso della sua religiosità cattolica. Non a caso, a partire dal 1502, alla base del criptogramma egli pone, in sostituzione del precedente El Almirante, la spiegazione del significato del suo nome: Christo ferens, che porta a Cristo.

Secondo l’ipotesi di lettura prospettata da Geo Pistarino le tre "S" del triangolo superiore andrebbero lette come una ripetuta e circolare invocazione allo Spirito Santo, al Sanctus Spiritus mentre le lettere inferiori rimanderebbero ai nomi Christus, Maria, Yesus, ricordando che nella scrittura spagnola dell’epoca "Y" e "J" si identificavano. La "A" starebbe per Altissimus. La forma generale, poi, richiamerebbe il triangolo trinitario.

Senza esaminare questa ipotesi in tutti i suoi aspetti, compreso il problema dei rapporti fra Cristoforo Colombo ed eredità gioachimite, più o meno dirette, importa riprendere alcune osservazioni dell’autore su due cardini della spiritualità del genovese: la devozione mariana — si pensi ai toponimi da lui dati di Asunción, Concepción, Anunciación — e quella verso la Santissima Trinità.

A questa, secondo quanto affermava in una lettera scritta dalla Niña il 15 febbraio 1493, tutta la Cristianità doveva dare "solenni grazie" con molte orazioni "per la grande esaltazione che avranno dall’accesso di tanti popoli alla nostra santa fede" (33). E "in nome della Santa Trinità" muove, in occasione del secondo viaggio, all’esplorazione di Cuba.

Di più: all’inizio dell’atto del maggiorascato del 1498, Cristoforo Colombo attribuisce alla Santissima Trinità l’idea prima — "ci ha messo in mente" — e poi la precisa concezione — "perfetta comprensione" — della possibilità di andare dalla Spagna alle Indie "passando il Mare Oceano a Ponente" (34). Nello stesso anno, nella lettera scritta dall’isola di Hispaniola ai Re Cattolici con la relazione del terzo viaggio, il richiamo alla Santa Trinità è continuo: Essa ha mosso i sovrani ad appoggiare l’impresa di cui era il messaggero; in Suo nome è partito ogni volta; con il Suo aiuto compirà gli ordini che gli verranno dati (35).

Non santo ma defensor fidei

Con quanto siamo venuti dicendo non intendiamo, certamente, proporre la causa di beatificazione di Cristoforo Colombo. Non mancano, del resto, nella sua vita aspetti sconcertanti, come la lunga convivenza more uxorio con Beatrice de Harana, o, pur comprensibili per gli usi della sua epoca, ma condannabili — e non approvati dalla regina Isabella —, come la riduzione in schiavitù di alcuni indigeni.

Ma intendiamo, questo sì, ricondurne la figura e la personalità alle dimensioni cattoliche e medievali che, a nostro parere e seguendo rispettosamente le fonti, le caratterizzano.

In questo senso ci pare efficace la formula di Paolo Emilio Taviani: "non santo, ma defensor fidei" (36).

Ci sembra dunque giusto concludere riportando alcuni giudizi che sostanzialmente condividiamo.

Secondo Samuel Eliot Morrison, se è vero che Cristoforo Colombo sembra spegnersi sotto il segno della sconfitta, senza aver trovato il Gran Khan, senza aver convertito moltitudini di pagani, senza aver riconquistato Gerusalemme, senza aver saputo assicurare un futuro ai propri familiari, senza la partecipazione di nessun membro della Corte ai suoi funerali a Valladolid, è anche vero che "la profonda convinzione che era in lui dell’immanenza, dell’onnipotenza e dell’infinita sapienza di Dio alleviò le sue pene ed esaltò i suoi trionfi. Non è quindi la pietà il sentimento che dobbiamo nutrire per l’Ammiraglio del Mare Oceano" (37).

Secondo Jacques Heers, "[...] lo scopritore del Nuovo Mondo si presenta a noi come un uomo di grande fede, profondamente attaccato alle proprie convinzioni, compenetrato di religiosità, accanito nel difendere e nell’esaltare il cristianesimo ovunque, nel promuovere una riconquista o una conquista contro i nemici di Dio, gli infedeli o i pagani. È perfino il solo tratto della sua personalità che non ammette discussioni, che ci appaia chiaramente, mentre altri, sui quali si è tanto e gratuitamente ricamato, ci sfuggono quasi completamente" (38).

E ancora: "Per Colombo ed altri, il viaggio, la peregrinazione, rimaneva, come ai tempi eroici dell’evangelizzazione dell’Europa, la virtù dei campioni di Dio, di coloro che abbandonano tutto per il suo servizio. Nuovi propagatori della fede, nuovi Crociati, questi capitani di mare e cavalieri di Cristo issano sempre il segno della croce sugli alberi delle loro caravelle" (39), e già durante il primo viaggio, come annota nel Diario di bordo, Cristoforo Colombo "in ogni posto dove sbarcava faceva innalzare una croce e ve la lasciava" (40).

Insomma, alla domanda che oggi, con intenti spesso polemici, viene insistentemente ripetuta: "Fu vera gloria?" (41), riteniamo di dover rispondere affermativamente che sì, fu vera gloria.

***
Note

(1) Cfr. Giovanni Cantoni, URSS, agosto 1991: una tappa sulla strada del postcomunismo, in Cristianità, anno XIX, n. 197-198, settembre-ottobre 1991.

(2) Franco Cardini, Dio salvi la regina Isabella, in il Giornale, 20-1-1992.

(3) Giovanni Paolo II, Omelia a Salta, in Argentina, dell’8-4-1987, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. X, 1, p. 1178.

(4) Esponenti del Movimiento Indianista sono giunti a dire che "al confronto di Colombo Hitler sembra un delinquente alle prime armi" (Felipe Fernandez-Armesto, In defence of Columbus. The trouble with Eden, in The Economist, 21-12-1991, p. 47).

(5) Dalle Capitulaciones de Santa Fé, cioè dagli accordi con i Re Cattolici, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, il 17 aprile 1492, nel quartier generale dell’assedio di Granada, Cristoforo Colombo ha il titolo di Ammiraglio, trasmissibile per via ereditaria.

(6) Cfr. Bartolomé Bennassar e Lucile Bennassar, 1492. Un monde nouveau?, Perrin, Parigi 1991, pp. 50-55.

(7) Paolo Emilio Taviani, I viaggi di Colombo. La grande scoperta, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1984, 2° vol., p. 323.

(8) Cfr. Pierre Chaunu, L’espansione europea dal XIII al XV secolo, trad. it., Mursia, Milano 1979.

(9) A nostro parere la migliore, anche per l’inquadramento generale del periodo, resta quella di Jacques Heers, Cristoforo Colombo, trad. it., Rusconi, Milano 1983; per una lettura più rapida si raccomanda l’agile volumetto di Charles Verlinden, Cristoforo Colombo. Visione e perseveranza, trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1985. Per la ricchezza di dati, e anche per le splendide illustrazioni, ricordiamo pure P. E. Taviani, Cristoforo Colombo. La genesi della grande scoperta, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1974, 2 voll.; Idem, I viaggi di Colombo. La grande scoperta, cit. A livello giornalistico, ci sono apparsi sostanzialmente buoni gli articoli pubblicati da Cesco Vian sul quotidiano Avvenire, del 5, 12, 19, 30-10 e 6 e 11-11-1991. La bibliografia su Cristoforo Colombo è sterminata: cfr. Simonetta Conti, Bibliografia colombiana, 1793-1990, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, Genova 1990, che elenca 8.409 titoli.

(10) Cfr. Henry Vignaud, Le vrai Cristophe Colomb et la legende, Picard, Parigi 1921; Idem, Histoire critique de la grande entreprise de Cristophe Colomb, Welter, Parigi 1911, 2 voll.

(11) Cfr. Salvador de Madariaga, Cristoforo Colombo, trad. it., Dall’Oglio, Milano 1985.

(12) J. Heers, op. cit., p. 26; l’autore, ordinario di storia medievale alla Sorbona, è il maggior studioso contemporaneo della storia di Genova nel Quattrocento.

(13) Ibid., pp. 27-28.

(14) Cfr. B. Bennassar e L. Bennassar, op. cit., pp. 184-185.

(15) Cfr. Simon Wiesenthal, Operazione Nuovo Mondo, trad. it., Garzanti, Milano 1991.

(16) Relativamente alle grandi qualità marinare di Cristoforo Colombo, considerato dalla maggior parte degli storici uno dei più grandi navigatori di tutti i tempi, cfr. Samuel Eliot Morison, Cristoforo Colombo ammiraglio del Mare Oceano, trad. it., il Mulino, Bologna 1985; l’autore, un ammiraglio americano, all’inizio degli anni Quaranta condusse una serie di ricognizioni sulla scorta delle rotte colombiane.

(17) P. Chaunu, op. cit., p. 292.

(18) J. Heers, op. cit., p. 641.

(19) Esso ci è giunto soltanto attraverso una riduzione fatta da Bartolomé de Las Casas. La migliore traduzione italiana è Cristoforo Colombo, Diario di bordo. Libro della prima navigazione e scoperta delle Indie, a cura di Gaetano Ferro, Mursia, Milano 1985.

(20) Ibid., p. 46: Bartolomé de Las Casas trascrive testualmente il Diario, donde l’uso della prima persona; quando riassume utilizza la terza persona.

(21) Ibid., p. 108.

(22) Ibid., pp. 206-208.

(23) Ibid., pp. 205-206.

(24) Cfr. Geo Pistarino, Cristoforo Colombo: l’enigma del criptogramma, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova 1990, p. 88.

(25) C. Colombo, Diario di bordo. Libro della prima navigazione e scoperta delle Indie, cit., p. 164. Su questa "idea fissa" dell’Ammiraglio, cfr. Juan Gil, Colón y la Casa Santa, in Historiografía y Bibliografía americanistas, XXI (1977), pp. 125-135.

(26) Cristóbal Colón, Textos y documentos completos, a cura di Consuelo Varela, Alianza, Madrid 1982, p. 199.

(27) Ibid., doc. L, p. 261.

(28) Ibid., doc. XLIII, p. 256.

(29) Ibidem.

(30) J. Heers, op. cit., p. 684.

(31) Cfr. C. Colón, Manuscripto del Libro Copiador de Cristóbal Colón, transcripción por Romeu de Armas, Collección Tabulae Americae, Ministerio de Cultura, Madrid 1989, 2 voll.

(32) Cfr. G. Pistarino, Cristoforo Colombo: l’enigma del criptogramma, cit.

(33) C. Colón, Textos y documentos completos, cit., p. 146, doc. V.

(34) Ibid., doc. XX, p. 192.

(35) Cfr. ibid., doc. XXV, pp. 204-223.

(36) P. E. Taviani, I viaggi di Colombo. La grande scoperta, cit., p. 323; e ciò al di là delle riserve già espresse e di quelle relative a frasi che accompagnano la formula, come questa: "Fu fanatico, come oggi si direbbe integralista".

(37) S. E. Morison, op. cit., p. 682.

(38) J. Heers, op. cit., p. 641.

(39) Ibid., p. 669.

(40) Ibid., p. 672.

(41) Cfr. il dibattito fra sei scrittori Disputa su Cristoforo Colombo. Fu vera gloria?, in Euros, I, 5/6, novembre-dicembre 1991.

Fonte: Contro la leggenda nera (http://www.kattoliko.it/leggendanera/modules.php?name=News&file=article&sid=221)

Augustinus
13-10-03, 13:12
http://www.arrakis.es/~eb2dvt/pilar.jpg

http://www.red2000.com/spain/images/photo/z-pilar.jpeg

http://www.cattolicesimo.com/immsacre/LosTorres5.jpg Ecco il santuario del Pilar a Saragozza, con le sue caratteristiche cupole

Augustinus
13-10-03, 23:01
http://www.cattolicesimo.com/ImmSacre/fondo20pilar20noche.jpg Vedute notturne della Basilica del Pilar

http://www.cattolicesimo.com/ImmSacre/ac20pilar3.jpg

http://www.cattolicesimo.com/ImmSacre/ac20pilar.jpg Altre vedute della Basilica che si specchia nel fiume Ebro

http://www.cattolicesimo.com/ImmSacre/ac20pilar1.jpg

http://www.cattolicesimo.com/ImmSacre/ac20pilar2.jpg

Augustinus
11-10-04, 20:39
Dal sito SANTI E BEATI (http://www.santiebeati.it/search/jump.cgi?ID=92029):

Nostra Signora del Pilar

12 ottobre

Il più antico santuario della Spagna e forse della cristianità è quello della Beata Vergine del Pilar a Saragozza. In stile barocco, la costruzione è a forma rettangolare, divisa a tre navate e riccamente decorata e affrescata da Velázquez, Francisco de Goya, Ramon e Francisco Bayen. Lunga ben centotrentacinque metri e larga cinquantanove, ha quattro torri e undici cupole, di cui quella centrale, particolarmente imponente, svetta per ben ottanta metri.
Secondo la leggenda, la cappella primitiva sarebbe stata costruita da S. Giacomo il Maggiore verso l’anno 40, in ricordo della prodigiosa “Venuta” della Vergine da Gerusalemme a Saragozza per confortare l'apostolo assai deluso dei risultati negativi della sua predicazione. Il “Pilar” è appunto la colonna di alabastro su cui la Vergine avrebbe posato i piedi.
Alcuni mistici, come la venerabile Maria d’Agreda e Anna Caterina Emmerick,confermarono questa antichissima tradizione secondo le loro rivelazioni e visioni, ma già nel 1200 l’episodio è riportato in quello che è considerato il primo documento scritto sulla Madonna del Pilar.
Bisogna anche dire, per amore di verità storica, che la chiesa di “Sancta Maria intra muros” a Saragozza esisteva ancor prima della invasione araba, avvenuta nel 711. Il monaco Aimoinus, giunto in Spagna nell’anno 855 alla ricerca delle reliquie di S. Vincenzo, scrisse che “la chiesa dedicata alla Vergine a Saragozza era la madre di tutte le chiese della città, e che S. Vincenzo vi aveva esercitato le funzioni di diacono al tempo del vescovo Valerio”.
Nel 1118 Saragozza, liberata dal dominio dei musulmani, ritornò capitale del regno di Aragona e nel 1294 Santa Maria del Pilar venne restaurata per accogliere schiere sempre più numerose di pellegrini.
Al tempo dell’unificazione della Spagna (sec. XV) per opera del re di Aragona Ferdinando il Cattolico e della regina Isabella di Castiglia, sua sposa, il culto della Madonna del Pilar si affermò in campo nazionale. Con la scoperta dell’America tale culto raggiunse anche il Nuovo Mondo: nell’anno 1492 avveniva la cacciata definitiva dei Saraceni dalla Spagna, Cristoforo Colombo partiva con tre caravelle, di cui una si chiamava per l’appunto “Santa Maria”, e – fatto abbastanza curioso, se non addirittura strabiliante – la data della scoperta del continente americano coincideva proprio con la data della festa del Pilar, il 12 ottobre.
Forse per tutte queste circostanze, nel 1958, la festa “pilarica” del 12 ottobre fu dichiarata festa della hispanidad, cioè della Spagna e di tutte le nazioni di lingua e cultura spagnola.
Ma nel 1640 un miracolo spettacolare doveva rendere ancora più celebre il santuario. Un giovane di diciassette anni, Miguel-Juan Pellicer di Calanda, conducendo un giorno un carro aggiogato a due muli, cadde dalla cavalcatura e andò a finire sotto una ruota del carro, che gli spezzò e gli schiacciò nel mezzo la tibia della gamba destra. Trasportato in ospedale per le cure del caso, si ritenne urgente amputargli la gamba a circa quattro dita dalla rotula.
Prima dell’operazione, l’infelice si era recato al santuario del Pilar per farvi le sue devozioni e ricevervi i sacramenti. Dopo l'intervento, vi era tornato per ringraziare la Madonna di averlo conservato in vita. Ma,non potendo più lavorare, Miguel-Juan si era unito agli altri mendicanti che domandavano l’elemosina all’ingresso della basilica. Nel frattempo, ogni volta che veniva rinnovato l’olio delle 77 lampade d’argento, accese nella cappella della Vergine, egli vi strofinava le sue piaghe, benché il chirurgo glielo avesse sconsigliato in quanto l’olio ritardava la cicatrizzazione del moncherino.
Tornato infine a Calanda, con la gamba di legno e una gruccia cominciò a mendicare spingendosi fino ai paesi vicini. Ma, il 29 marzo 1640, rientrò a casa sua e, a sera, dopo aver invocato, come al solito, la Vergine del Pilar, si addormentò. Al mattino, svegliandosi, si ritrovò con due gambe ed avvertì così i suoi genitori che la gamba destra, amputata da due anni e cinque mesi, era segnata al polpaccio dalle stesse cicatrici di prima dell’infortunio.
Fu istituita subito una Commissione d’inchiesta, nominata dall’arcivescovo,e i suoi membri, nel corso di accurati accertamenti, con loro grande meraviglia non trovarono più la gamba di Miguel sepolta tempo prima nel cimitero dell’ospedale. La fama del miracolo corse per tutta la Spagna e fu la causa della realizzazione del grandioso santuario attuale, iniziato nel 1681 e consacrato il 10 ottobre 1872.
Nel santuario, all’inizio della navata centrale è situata la “santa cappella”, dove si venera una piccola statua della Vergine col Bambino del secolo XIV, che poggia i piedi sul “Pilar” ricoperto di bronzo e argento, e che viene rivestita con manti diversi a seconda dei tempi liturgici e delle circostanze.
Questa immagine fu incoronata il 20 maggio 1905, con una corona tempestata da circa diecimila perle preziose, e solennemente benedetta dal pontefice S. Pio X.
La Madonna del Pilar, come Patrona della Spagna, da secoli attrae masse imponenti di pellegrini appartenenti a ogni classe sociale: dai più umili contadini ai più grandi re di Spagna, da Ferdinando il Cattolico a Juan Carlos, dal cardinale di Retz nel 1654 al papa Giovanni Paolo II nel 1982.
I pellegrinaggi al santuario sono ininterrotti lungo tutto l’arco dell’anno e si svolgono con la partecipazione alla santa Messa, alla recita del Rosario, con canti mariani e con il bacio alla colonna sulla piccola parte scoperta, che, a causa di questa devozione, presenta un marcato solco prodotto proprio dall’usura.
Molte famiglie spagnole danno il nome di Pilar alle loro bambine e tengono ad avere la sacra immagine in casa; numerosi altari e cappelle, dedicati alla Madonna del Pilar, si trovano nella Spagna e nell’America Latina. C’è a tal proposito un canto popolare spagnolo il cui ritornello a suon di nacchere ripete giustamente questa semplice verità: “Es la Virgen del Pilar, la que màs altares tiene, y no hay un buen español, que en su pecho no la lleve”: “È la Vergine del Pilar, quella che ha più altari, né si trova uno spagnolo, che non la porti nel cuore”.

Autore: Maria Di Lorenzo

http://www.cattolicesimo.com/immsacre/103.jpg Francisco Goya y Lucientes, Vergine del Pilar, 1775-1780, Museo de Zaragoza, Saragozza

http://www.cattolicesimo.com/immsacre/104.jpg Francisco Goya y Lucientes, Apparizione della Vergine del Pilar a San Giacomo ed ai discepoli, 1775-1780, Colección Rosillo, Madrid

http://www.cattolicesimo.com/immsacre/142.jpg Francisco Goya y Lucientes, Apparizione della Vergine del Pilar a San Giacomo (Santiago) ed i suoi discepoli, 1780-85, Colección García Rodríguez, Valladolid

http://www.cattolicesimo.com/immsacre/9.jpg http://www.cattolicesimo.com/immsacre/99.jpg Francisco Goya y Lucientes, Apparizione della Vergine del Pilar a San Giacomo (Santiago) ed i suoi discepoli, 1768-1769, Colección Pascual de Quinto, Saragozza

http://img417.imageshack.us/img417/9476/eng65017ek.jpg Francisco Bayeu y Subias, Apparizione della Vergine del Pilar a San Giacomo (Santiago), 1760, National Gallery, Londra

http://www.artic.edu/aic/collections/citi/images/standard/WebLarge/WebImg_000005/4674_185766.jpg Antonio González Velásquez (attrib.), Visione di S. Giacomo della Vergine del Pilar, 1750-55, Art Institute, Chicago

Augustinus
12-10-05, 13:50
S. Giacomo il Maggiore (http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?t=112247)

Augustinus
12-10-05, 14:30
Libro VII, Cap. 16, §§ 307-333

CAPITOLO 16

Maria beatissima viene a conoscere le risoluzioni prese dal diavolo per perseguitare la Chiesa, ne chiede rimedio alla presenza dell'Altissimo in cielo e ne informa gli apostoli; san Giacomo si reca a predicare in Spagna, dove una volta ella lo visita.

307. Quando Lucifero e i suoi ministri, dopo la conversione di Paolo, stavano escogitando il modo di vendicarsi sulla nostra Signora e sui cristiani, non immaginavano che la sua vista penetrasse le oscure caverne infernali e quanto vi era di più occulto nei loro conciliaboli; in tale inganno, quei cruentissimi draghi si ripromettevano più sicura la vittoria e l'esecuzione dei loro decreti contro di lei e contro i discepoli. Ella, però, dal luogo del suo ritiro, scrutava con la chiarezza della sua scienza quello che i nemici della luce discutevano e decidevano, intendendo tutti i loro fini e i mezzi scelti per conseguirli, lo sdegno che nutrivano per l'Altissimo e per lei, nonché il loro feroce odio per gli apostoli e gli altri fedeli. Nella sua saggezza valutava altresì che, senza il permesso celeste, essi non possono realizzare niente di ciò che architettano nella loro malvagità; tuttavia, poiché nell'esistenza mortale la battaglia è inevitabile e le erano note la fragilità e l'ignoranza che gli uomini comunemente hanno della maliziosa astuzia con cui i demoni procurano la loro perdizione, provava grande dolore e apprensione nell'osservare piani tanto perfidi per rovinarli.

308. Con queste eminentissime doti di carità e sapienza, a lei partecipate direttamente da quelle di Dio, le fu comunicata anche un'altra specie di attività infaticabile, simile a quella di lui, che sempre opera come atto purissimo. La vigilante Vergine aveva continuamente preoccupazione attuale della gloria dell'Onnipotente, come pure della salvezza e consolazione dei suoi figli; inoltre, nel suo intimo castissimo e prudente meditava eccelsi misteri, confrontando il passato con il presente e tutto questo con il futuro, che prevedeva con discrezione e lungimiranza sovrumane. L'acceso desiderio della felicità perenne dei membri della Chiesa, insieme alla compassione materna che sentiva delle loro tribolazioni e dei pericoli che li sovrastavano, la stimolavano a fare sue quelle pene. Per quanto dipendeva dal suo ardore, anelante a sopportarle per tutti nella propria persona, bramava che gli altri seguaci del Redentore si impegnassero con gioia e letizia, guadagnandosi la grazia e la vita senza fine, e che le sofferenze di tutti gravassero su lei sola. Anche se questo non era possibile nell'equità e provvidenza divina, si deve considerare un affetto tanto raro e meraviglioso, ed esserle grati che talvolta la volontà del supremo Re condiscendesse realmente ad esso per appagare la sua sete e darle ristoro nelle sue ansietà, consentendo che patisse per noi e ci meritasse enormi benefici.

309. La Principessa, però, non capì nei dettagli quello che veniva stabilito contro di lei, ma solo in generale di essere oggetto della rabbia più furiosa dei principi delle tenebre. Ciò che determinavano di fare le fu parzialmente celato per disposizione superna, affinché successivamente fosse maggiore il trionfo che avrebbe ottenuto. In effetti, il preavviso delle tentazioni e persecuzioni che avrebbe dovuto sostenere non era per lei necessario come per gli altri, che non erano tanto nobili; delle loro difficoltà ebbe, dunque, cognizione più precisa. Dato che in tutto ricorreva all'orazione per consultare l'Eterno, come istruita dall'esempio e dall'insegnamento del Maestro, lo fece subito con diligenza, abbassandosi in disparte fino a terra come di consueto, e con mirabile fervore parlò così:

310. «Immenso sovrano, perfetto e incomprensibile, ecco steso al vostro cospetto questo vile vermiciattolo. Per il vostro Unigenito e mio Signore, vi scongiuro di non rigettare le domande e i gemiti che presento al vostro sconfinato amore con quello che, uscito dall'incendio che divampa in voi, è stato riversato in questa semplice ancella. In nome dell'intera comunità ecclesiale, vi offro il sacrificio della passione di Cristo e quello del suo corpo consacrato, le preghiere a voi tanto gradite che egli vi ha innalzato mentre era nel mondo, la bontà che per il riscatto di tutti lo mosse ad incarnarsi nel mio grembo, dove l'ho portato per nove mesi, alimentandolo poi al mio seno; ponderate tutto, per concedermi licenza di implorare ciò che il mio cuore, aperto al vostro sguardo, sospira».

311. La Regina, rapita in estasi, contemplò Gesù che seduto sul trono impetrava che fosse esaudita, in quanto lo aveva generato ed era in tutto bene accetta al Padre, il quale si dichiarava vincolato dalle invocazioni che ella gli aveva indirizzato e soddisfatto di esse e quindi, fissandola con infinita benevolenza, pronunciava le seguenti parole: «Maria, mia diletta, ascendi più su». Allora, venne dal cielo un'innumerevole moltitudine di angeli di diversi ordini, i quali, giunti dinanzi a lei, la sollevarono dal suolo, che toccava con la fronte. Immediatamente la condussero in anima e corpo all'empireo, presso la sede della Trinità, che le si rivelò con una visione sublime, benché non intuitivamente ma per specie. Costei, prostratasi, adorò Dio nelle tre Persone con incommensurabile umiltà e riverenza, e rese grazie al Salvatore per aver appoggiato la sua supplica, sollecitandolo a farlo ancora. Egli, che da dove era la riconosceva come sua degna madre, non dimenticò l'obbedienza che le aveva prestato; anzi, davanti a tutta la sua corte rinnovò questa dimostrazione di figlio e come tale raccomandò un'altra volta quello di cui ella aveva premura. L'Altissimo rispose:

312. «Mio Unigenito, nel quale ho la pienezza del mio compiacimento, le mie orecchie sono attente a colei che vi ha fatto nascere e la mia clemenza è incline ad accontentarla in tutto». Poi, rivolto a lei proseguì: «Amica mia, prescelta da me tra migliaia, tu sei strumento della mia onnipotenza e deposito della mia carità. Abbi calma nei tuoi affanni ed esponimi ogni tuo bisogno, perché ascolterò le tue richieste, che sono sante ai miei occhi». Avuto questo beneplacito, ella disse: «Sommo Creatore, che a tutto date e sostenete l'esistenza, le mie aspirazioni riguardano la vostra Chiesa. Siate pietoso e abbiatene cura, perché è opera del Verbo fatto uomo, fondata ed acquistata con il suo sangue. Contro di essa tornano ad ergersi il serpente antico e i suoi alleati, pretendendo la rovina dei vostri fedeli, che sono il frutto della redenzione. Confondete le loro perverse deliberazioni e difendete gli apostoli, vostri ministri, e gli altri battezzati; affinché questi siano liberati dalla loro ira e dalle loro trame, le concentrino pure su di me, se è fattibile. Io sono una sola povera e i vostri servi sono molti; dunque, essi godano di tranquillità e dei vostri favori, così che possano dedicarsi alla vostra esaltazione, e sia io a sopportare quello che incombe su di loro. Combatterò contro satana e voi, con il vigore del vostro braccio, lo vincerete e sgomenterete nella sua crudeltà».

313. Il nostro Re riprese: «Mia carissima, ti accordo quanto è possibile: proteggerò i miei devoti in ciò che sarà conveniente per la mia gloria e ti lascerò soffrire quello che sarà utile per la loro corona. Perché ti sia manifesto il segreto del mio giudizio, con il quale tutto questo va dispensato, sali al nostro seggio, dove il tuo ardore ti dà spazio nel nostro concistoro e nella singolare partecipazione dei nostri attributi. Vieni, ti saranno svelati tanti misteri in ordine alla guida della comunità dei credenti e al suo sviluppo. Eseguirai il tuo volere, che coinciderà con il nostro, come adesso ti illustreremo». Ella si accorse di essere alzata dalla forza di questa dolcissima voce e collocata alla destra di sua Maestà, con ammirazione e giubilo di tutti i beati, che capirono il discorso e la decisione del loro sovrano. Fu senza dubbio una novità tale da muoverli a meraviglia il vedere che una donna nella carne mortale era elevata e invitata al fianco della Trinità, per essere illuminata su verità relative alla direzione della Chiesa, che erano nascoste a tutti e racchiuse nelle profondità divine.

314. Susciterebbe stupore se lo si facesse in qualche città, chiamandone una alle assemblee nelle quali si discute del governo pubblico, e ancor più se la si introducesse nelle sedute dei consigli supremi, dove si affrontano e risolvono le questioni di maggiore complessità ed importanza per i regni e la loro amministrazione. Si stimerebbe questa innovazione poco sicura, dato che Salomone afferma di essere andato in cerca della ragione e di aver trovato un uomo su mille che la possedeva, ma neppure una donna. Sono così rare quelle che l'hanno costante e retta, per la loro fragilità naturale, che normalmente essa non si presume in nessuna; se poi ce ne sono alcune, non fanno numero per occuparsi di affari ardui e dibattuti senza che abbiano un'altra luce oltre a quella comune. Questa legge non comprendeva Maria perché, se Eva nella sua ignoranza cominciò a distruggere la casa del mondo che il Signore aveva edificato, ella, che fu sapientissima e madre della sapienza, la rifabbricò e la trasformò con la sua incomparabile prudenza', che le ottenne di entrare in quel concistoro, nel quale si parlava di tale riparazione.

315. Lì fu interrogata un'altra volta su che cosa volesse per sé e per tutti i cristiani, in particolare per i Dodici e i discepoli. La saggia Regina espresse ancora il suo fervoroso anelito alla magnificazione di Dio e al loro sollievo nella persecuzione che i nemici tramavano contro di essi. Anche se le tre Persone conoscevano tutto ciò, le comandarono di dichiararlo per dare la loro approvazione e compiacersene, e per renderla più istruita su nuovi arcani inerenti ai loro decreti e alla predestinazione degli eletti. Per spiegare quanto mi è stato rivelato su questo, asserisco che, essendo la volontà della Vergine perfetta ed in tutto straordinariamente giusta e gradita all'Altissimo, pare che questi non potesse desiderare nulla che fosse contrario ad essa. Egli era rivolto verso l'ineffabile santità di lei e come ferito dai capelli e dallo sguardo di una compagna tanto diletta, unica tra tutti. Il Padre la trattava come figlia, il Figlio come madre e lo Spirito come sposa, e tutti e tre le avevano affidato la Chiesa, ponendo in lei tutta la fiducia; per questo, non intendevano stabilire l'esecuzione di niente senza consultarla e ricevere in qualche modo il suo consenso.

316. Perché il suo beneplacito e quello della Signora coincidessero in questo, l'Onnipotente dovette comunicarle ulteriormente la sua scienza e gli occulti disegni della provvidenza con la quale egli dispone con peso e misurar, nella maniera più equa e adeguata, ogni cosa concernente le sue creature, i loro fini e i loro mezzi. Dunque, in tale circostanza ella fu rischiarata mirabilmente su quello che era opportuno che il sommo potere operasse e ne penetrò le recondite motivazioni. Seppe quali e quanti apostoli era bene che patissero e perissero prima del suo passaggio da questa vita all'altra, quali sofferenze avrebbero sostenuto per il nome di Gesù, quali cause vi erano per ciò e per la necessità che fondassero la Chiesa spargendo il proprio sangue, come aveva fatto il loro Maestro. Inoltre, apprese che, per la cognizione di quanto avrebbero dovuto sopportare i seguaci del Redentore, avrebbe compensato con il proprio dolore il non subire ella stessa tutto quello che ambiva, poiché era inevitabile che affrontassero una tribolazione momentanea per arrivare al premio eterno pronto per loro. Affinché avesse materia più abbondante per questo tipo di merito, fu informata dell'ormai prossima uccisione di Giacomo e della prigionia di Pietro, ma non le fu detto che l'angelo l'avrebbe liberato, sciogliendo le sue catene. Le fu annunciato anche che a ciascuno sarebbe stato concesso il genere di pena e di martirio proporzionato alle forze della grazia e del suo spirito.

317. Per soddisfare completamente l'ardente carità della purissima Principessa, la Trinità le accordò di combattere ancora le sue battaglie contro i serpenti infernali e di conquistare le vittorie e i trionfi che gli altri non potevano conseguire, schiacciando loro la testa e confondendoli nella loro arroganza per indebolirli e fiaccarne le energie contro i fedeli. A questo scopo, le furono rinnovati tutti i doni e la partecipazione degli attributi divini, ed ognuna delle tre Persone la benedisse. Quindi, i custodi la riportarono all'oratorio del cenacolo nel medesimo modo in cui l'avevano condotta all'empireo. Appena uscì dall'estasi, si prostrò a terra in forma di croce e, stretta alla polvere, con incredibile umiltà e versando tenere lacrime ringraziò il Signore per il beneficio del quale l'aveva arricchita, senza che in esso ella avesse dimenticato di dare prova della sua sconfinata modestia. Si trattenne, poi, per un po' con gli esseri superni sui misteri e i bisogni della Chiesa, per accorrere attraverso il loro ministero dove c'era più urgenza. Le sembrò conveniente avvertire i Dodici di alcune cose e rinvigorirli, incoraggiandoli per le angustie che l'avversario comune avrebbe provocato loro, dato che essi erano quelli contro i quali lottava più duramente. Perciò, parlò a Pietro, a Giovanni e agli altri che erano con loro e li avvisò di molti fatti che sarebbero accaduti; inoltre, confermò la conversione di san Paolo, manifestando lo zelo con cui proclamava sua Maestà e la sua legge.

318. Inviò dei messaggeri celesti agli apostoli che erano già fuori Gerusalemme ed anche ai discepoli, perché li preparassero ed esortassero con le stesse notizie che aveva trasmesso agli altri e li mettessero al corrente del mutamento avvenuto in Saulo; comandò in particolare ad uno di essi di palesare a quest'ultimo le trame che il demonio ordiva contro di lui, di animarlo e renderlo saldo nella speranza dell'aiuto di Dio nelle sue fatiche. Eseguirono ciò con la consueta velocità, obbedendo alla loro Regina, e comparvero a coloro ai quali erano stati indirizzati. Questo singolare favore colmò tutti di profonda consolazione e nuovo ardimento, e ciascuno rispose con rispettosa riconoscenza tramite gli stessi, promettendole di morire con letizia per l'onore del suo Unigenito. Pure il giovane di Tarso risaltò in questo, perché la sua devozione e la sua brama di vedere la propria salvatrice e di esserle grato lo spronavano a più evidenti dimostrazioni e a più grande sottomissione. Egli era allora a Damasco, dove evangelizzava e disputava con i membri di quelle sinagoghe, anche se subito dopo si trasferì in Arabia, facendo in seguito ritorno nel luogo dal quale era partito.

319. San Giacomo il Maggiore era più lontano di tutti gli altri, poiché era uscito per primo dalla città per la missione e, trascorsi alcuni giorni nei dintorni, si era recato in Spagna. Si era imbarcato a Ioppe, l'attuale Giaffa, nel trentaquattro dopo Cristo, nel mese di agosto, che allora si chiamava sestile, un anno e cinque mesi dopo la passione, otto mesi dopo la lapidazione di Stefano e cinque mesi prima della conversione di Paolo, secondo quanto ho già scritto. Da lì, facendo scalo in Sardegna, era approdato al porto di Cartagena, nel quale aveva cominciato la predicazione; presto, diretto dallo Spirito, aveva preso il cammino per Granada, dove aveva capito che la messe era abbondante e l'occasione opportuna per soffrire per Gesù, come in effetti successe.

320. Era tra i prediletti di Maria e tra coloro che ella assisteva di più, sebbene esteriormente non lo distinguesse molto, per l'uniformità con la quale prudentemente trattava tutti come pure perché egli era suo parente. Anche Giovanni, suo fratello, aveva lo stesso legame con lei, ma a suo vantaggio giocavano altre ragioni, perché tutto il collegio apostolico sapeva che il Maestro stesso dalla croce lo aveva dato come figlio a sua Madre e così, se questa lasciava trasparire il suo affetto, non c'erano gli inconvenienti che ci sarebbero stati se lo avesse fatto con Giacomo o con chiunque altro tra loro; intimamente, però, aveva un amore del tutto speciale per lui, e glielo rivelò sempre con grazie eccezionali. Egli le meritò con la riverenza e la venerazione in cui si segnalava ed ebbe necessità della sua difesa perché, essendo di cuore nobile e generoso e di animo ferventissimo, andava incontro alle tribolazioni e ai rischi con invincibile valore. Perciò, precedette i suoi compagni nell'avviarsi a portare l'annuncio e a subire il martirio. Nel tempo del suo peregrinare fu proprio un fulmine come figlio del tuono, giacché per questo ricevette tale nome quando si unì agli altri.

321. In Spagna gli si presentarono inconcepibili difficoltà e persecuzioni mosse da satana per mezzo dei giudei. Non furono piccole neppure quelle che poi dovette sopportare in Italia e in Asia minore, da dove tornò a Gerusalemme a diffondere la lieta novella e ad affrontare il supplizio, dopo aver percorso in pochi anni province tanto distanti e nazioni tanto diverse. Poiché non appartiene al mio intento riferire tutto quello che sostenne in così vari viaggi, esporrò solo ciò che conviene a questa Storia. Quanto al resto, ho compreso che la nostra Signora ebbe cura di lui in modo eccezionale per i motivi da me addotti, e che attraverso i suoi angeli lo preservò da parecchi gravi pericoli e frequentemente lo confortò mandandoli a trovarlo e a dargli informazioni e consigli, perché ne aveva bisogno più degli altri, considerata la brevità della sua vita. Spesso il medesimo Redentore fece scendere dal cielo alcuni suoi servitori affinché lo proteggessero e lo trasportassero da una parte all'altra, guidandolo nei suoi spostamenti e nella sua opera.

322. Nel periodo in cui dimorò in Spagna, tra gli altri benefici che gli furono elargiti dalla Vergine due furono assai considerevoli, perché ella stessa lo visitò e soccorse. Una di queste apparizioni, che si verificò a Saragozza, è tanto certa quanto celebrata nel mondo, e oggi non si potrebbe negarla senza distruggere una verità così pia, confermata e consolidata da mirabili prodigi e da testimonianze per più di milleseicento anni; accennerò ad essa nel prossimo capitolo. Dell'altra, che fu la prima, non mi è noto che si conservi memoria, poiché fu più nascosta. Secondo quello che mi è stato svelato, accadde a Granada, nella maniera che adesso spiegherò. Gli ebrei avevano lì delle sinagoghe fin dal momento del loro arrivo; la terra era fertile e la vicinanza ai porti del Mediterraneo consentiva loro di tenersi comodamente in contatto con la Palestina. Quando vi giunse Giacomo, avevano sentito parlare degli avvenimenti riguardanti sua Maestà: alcuni di essi ambivano di conoscere i suoi insegnamenti e il loro fondamento, ma nella maggioranza erano già stati preparati con un'empia incredulità da Lucifero a non accoglierli e a non permettere che fossero trasmessi agli altri, perché contrari ai loro riti e a Mosè; infatti, avevano paura che altrimenti i pagani avrebbero eliminato il giudaismo. Con tale diabolico inganno, impedivano la fede in costoro, che, constatando che Cristo era rigettato come impostore dal suo stesso popolo, non si persuadevano facilmente a seguirlo.

323. L'Apostolo entrò in città e, appena ebbe iniziato a predicare, si imbatté nella loro resistenza: lo facevano passare per un avventuriero, imbroglione, inventore di sette false, stregone ed ammaliatore. Egli aveva con sé dodici discepoli, ad imitazione del suo Signore, e, siccome perseveravano tutti nella proclamazione del Vangelo, cresceva l'odio contro di essi, tanto che fu presa la decisione di ucciderli; in effetti, ne fu assassinato immediatamente uno, che si era opposto con ardente zelo. Dato che, però, non temevano la morte ed anzi aspiravano a patire per Gesù, continuarono a proporre il loro messaggio ancor più intrepidamente. Dopo che ebbero faticato in questo per vari giorni ed ebbero convertito molti abitanti di quel luogo e della zona circostante, il furore dei giudei si accese maggiormente. Infine, questi li catturarono tutti e li trascinarono in catene fuori delle mura per ammazzarli, e appena furono in campagna legarono nuovamente i loro piedi affinché non fuggissero, perché li ritenevano maghi e incantatori. Mentre stavano per decapitarli, Giacomo non cessava di implorare il favore dell'Altissimo e della sua Regina. Le disse: «Santa Madre del mio Salvatore, assistete in quest'ora il vostro umile schiavo. Voi che siete clementissima, pregate per me e per questi confessori. Se è volontà dell'Onnipotente che periamo qui per la sua gloria, supplicatelo che riceva la mia anima alla sua presenza. Ricordatevi di me e beneditemi in nome di colui che vi ha scelto tra tutti. Accettate il sacrificio che faccio di non incontrare i vostri occhi misericordiosi in quest'ora, che per me deve essere l'ultima. O Maria, o Maria!».

324. Ripeté tante volte l'invocazione finale, che ella ascoltò dal suo oratorio, da dove stava osservando distintamente tutto ciò che succedeva a quel suo amatissimo figlio. Allora, le sue viscere materne si mossero a tenera compassione per la tribolazione che egli sosteneva e nella quale le si rivolgeva, e ne provò particolare dolore pure per il fatto di essere così lontana anche se, avendo chiaro che niente era difficile al potere infinito, si inclinò a desiderare di aiutarlo in quel frangente; inoltre, tale pena aumentò in lei poiché aveva cognizione che sarebbe stato il primo a versare il proprio sangue. Comunque, non chiese a Dio o agli esseri celesti di portarla da lui, perché la trattenne dal farlo la sua eccezionale prudenza, con la quale intendeva che la provvidenza non avrebbe fatto mancare il necessario, e nel domandare queste grazie mentre viveva quaggiù si regolava sul beneplacito della Trinità, con eccellente discrezione e riguardo.

325. Il suo Unigenito, che teneva l'attenzione fissa ai suoi aneliti come santi, giusti e pieni di pietà, dispose all'istante che i suoi mille custodi eseguissero quanto ella sospirava. Questi le si manifestarono in forma umana e, palesatole l'ordine che avevano avuto, senza alcun indugio la fecero salire su un trono formato da una bellissima nuvola e la condussero in Spagna, sul campo dove erano Giacomo e i suoi e dove i nemici che li avevano fatti prigionieri avevano già sguainato le scimitarre o sciabole. Solo l'Apostolo la vide sulla nube, dalla quale ella gli parlò con dolcezza: «Mio diletto, carissimo al Redentore, state di buon animo e siate benedetto eternamente da colui che vi ha creato e vi ha chiamato alla sua luce. Orsù, servitore fedele, alzatevi e siate sciolto dai ceppi». Egli si era prostrato come meglio aveva potuto. Alle parole della fortissima Principessa, le catene di tutti si aprirono in un attimo e si trovarono liberi. I giudei, che avevano le armi in pugno, caddero a terra e vi rimasero per alcune ore privi di sensi, mentre i demoni, che li appoggiavano e provocavano furono precipitati negli abissi infernali. Così, sua Maestà poté essere magnificato senza impedimenti da quei dodici e da Giacomo, e questi ringraziò la Vergine con incomparabile sottomissione e giubilo del suo intimo; gli altri, pur non potendola contemplare, dall'accaduto si resero conto del prodigio, e il loro maestro lo rivelò nella misura che gli parve conveniente per confermarli nella fede, nella speranza e nella devozione a lei.

326. Tale singolare beneficio fu anche più mirabile perché la Signora non solo lo difese dalla morte affinché tutto quel regno traesse giovamento dalla sua predicazione, ma regolò anche i suoi spostamenti; ella, infatti, incaricò cento dei suoi angeli di accompagnarlo, guidandolo di paese in paese e proteggendolo dappertutto da ogni pericolo, e di indirizzarlo quindi verso Saragozza. Essi le obbedirono e gli altri la trasferirono al cenacolo. Con una simile scorta, Giacomo percorse quei territori più sicuro che gli israeliti nel deserto. Lasciò a Granada alcuni dei suoi, che poi vi subirono il martirio, e proseguì il viaggio in molte località dell'Andalusia con i rimanenti e con gli altri che accoglieva. Giunse a Toledo e di là passò in Portogallo, in Galizia e per Astorga; facendo delle deviazioni verso posti differenti, arrivò nella Rioja e da Logrono si recò a Tudela e, infine, a Saragozza. Nel suo peregrinare si separò via via da parecchi suoi discepoli, che designò come pastori di varie città, dove aveva piantato la Chiesa e il culto divino. In quelle regioni fece tanti e così straordinari miracoli che non devono sembrare incredibili quelli che si sanno, essendo ben più numerosi quelli che si ignorano. Il frutto che raccolse fu immenso, tenuto conto del tempo in cui vi dimorò. È stato un errore dire o pensare che convertì poche persone, perché ovunque andò stabilì la comunità, ordinando tanti vescovi per il governo dei figli che aveva generato in Cristo.

327. Per terminare questo capitolo avverto che in molteplici maniere ho conosciuto le teorie opposte degli storici ecclesiastici su quanto sto scrivendo, cioè l'uscita degli apostoli da Gerusalemme allo scopo di evangelizzare, la distribuzione tra loro delle parti del mondo, la composizione del simbolo, la partenza di Giacomo e la sua uccisione. Riguardo a tutti questi avvenimenti ho compreso che dissentono considerevolmente nell'attribuire ad essi una datazione e nell'accordarli con i libri canonici. Il Signore, però, non mi ha comandato di chiarire questi ed altri dubbi, né di comporre queste controversie; anzi, fin dal principio ho riferito che egli mi ha ingiunto di stendere il presente racconto senza opinioni, affinché non le mescoli con la verità. Quando ciò che affermo è conseguente al testo sacro, non contrasta in niente con esso e corrisponde alla dignità della materia che tratto, non posso dare maggiore autorità alla narrazione, e neppure pretenderà di più la pietà cattolica. Potrà anche capitare che per tale strada si risolvano alcuni punti dibattuti, e questo lo faranno coloro che sono dotti e letterati.

Insegnamento della Regina del cielo

328. Mia eletta, la meraviglia che hai qui esposto, cioè il mio innalzamento al trono regale di Dio perché egli potesse parlare con me dei decreti della sua provvidenza, è così particolare e grande che supera le facoltà dei viatori; solamente in patria, nella visione beatifica, essi capiranno siffatto mistero con speciale gaudio accidentale. Questa grazia eccezionale fu in qualche modo effetto e compenso dell'ardore con cui amavo ed amo il sommo Bene e dell'umiltà con cui mi confessavo sua ancella; furono queste virtù a sollevarmi lassù mentre vivevo nella carne. Allora, voglio che tu penetri profondamente un arcano che senz'altro fu uno dei più sublimi operati in me e uno di quelli che dettero più motivo di ammirazione ai ministri superni e ai santi. Bisogna che tu trasformi la cognizione che ne hai in una vigilantissima sollecitudine e in accesi desideri di imitarmi in ciò per cui meritai tali favori.

329. Intendi dunque che non una volta sola, ma molte, fui elevata fino alla sede della Trinità nel periodo che trascorse tra la venuta dello Spirito e il giorno nel quale fui assunta, dopo il mio trapasso, per gioire perennemente. In quello che ti resta da dichiarare della mia vita, afferrerai altri segreti al riguardo; però, per quanto mi fu concesso dalla destra dell'Altissimo, ricevetti abbondantissimi doni, nelle diverse maniere che erano possibili alla sua potenza infinita e alla capacità che egli mi conferì per l'ineffabile e quasi immensa partecipazione delle sue perfezioni. Talora, elargendomeli, il Padre proclamava: «Sposa mia, il tuo affetto e la tua fedeltà, superiore a quella di tutti gli altri, ci vincolano e ci danno la pienezza di compiacimento che bramiamo. Ascendi presso di noi, per essere assorta nell'abisso della nostra divinità ed avere qui il quarto posto, nei limiti permessi a una semplice creatura. Prendi possesso della nostra gloria, i cui tesori mettiamo nelle tue mani. Tuoi sono il cielo, la terra e i mari; godi nella tua esistenza peritura dei privilegi della beatitudine al di sopra di ogni altro. Ti servano tutte le nazioni e tutti gli esseri, ti obbediscano le potestà e i supremi serafini, e tutte le nostre ricchezze siano in comune con te. Apprendi le decisioni della nostra sapienza ed abbi parte in esse, dato che sei assolutamente retta e irreprensibile. Addentrati nelle spiegazioni di quello che determiniamo con equità; il tuo volere sia uno con il nostro, ed uno il motivo in ciò che stabiliamo per la nostra Chiesa».

330. Con questa benignità tanto ineffabile quanto singolare indirizzava la mia volontà per conformarla alla sua, affinché nella comunità ecclesiale non si facesse niente se non per mia disposizione, e questa fosse quella di lui stesso, le cui ragioni e convenienze conoscevo nel suo eterno consiglio. In esso vidi che per legge universale io non potevo sostenere tutte le pene di ognuno, principalmente degli apostoli; ma la mia aspirazione, benché irrealizzabile, non fu una deviazione dal beneplacito dell'eccelso sovrano, che la suscitò in me come indizio e testimonianza del mio amore sconfinato, dal momento che anelavo a questo appunto per il Signore stesso, che ha tanta tenerezza verso gli uomini. Io ero sincera e il mio cuore era pronto per quello che chiedevo; perciò egli lo gradì e mi premiò come se l'avessi eseguito, giacché mi causò molto dolore non poter soffrire per ciascuno. Da questo nasceva in me la compassione che avevo dei martiri e dei tormenti con i quali furono uccisi i Dodici e gli altri, poiché in tutti e con tutti ero afflitta e tribolata, e in un certo modo morivo con loro. Tale fu la mia affezione per i miei figli! E questa adesso, tranne che per il patire, è la medesima, anche se essi non sanno fin dove li obblighi la mia carità per esserne grati in misura adeguata.

331. Questi inesprimibili benefici mi furono accordati mentre stavo accanto al mio Gesù, rapita in estasi, e mi dilettavo nelle sue prerogative ed eccellenze, per quanto potevano essere comunicate ad una semplice creatura. I disegni celesti erano manifestati innanzitutto all'umanità santissima di Cristo, nell'ordine mirabile che essa ha con la divinità alla quale è congiunta nel Verbo. Subito, tramite lui, erano trasmessi a me in un'altra maniera. L'unione della sua umanità con la persona del Verbo, infatti, è immediata, sostanziale e intrinseca, e quindi la partecipazione della divinità e dei suoi decreti è corrispondente e proporzionata; per me, invece, veniva seguito un altro ordine, stupendo e senza esempi, che aveva luogo in un essere non divino, ma somigliante all'umanità santissima e, dopo di essa, il più vicino a Dio stesso. Non potrai comprendere facilmente ciò, ma i beati lo hanno fatto ognuno nel grado di scienza a lui spettante, e tutti hanno inteso la mia conformità con il mio Unigenito, e pure la differenza. Questo li mosse e li muove ancora a comporre nuovi cantici a onore e lode dell'Onnipotente, perché fu uno dei più grandi prodigi che il suo braccio vigoroso fece in me.

332. Affinché tu dilati maggiormente le tue energie e quelle della grazia in desideri e sentimenti pii, anche se questi riguardano quanto non puoi mettere in pratica, voglio svelarti un'altra cosa. Quando io scoprivo gli effetti della redenzione nella giustificazione delle anime, e gli aiuti che erano infusi ad esse per mondarle ed elevarle per mezzo della contrizione o del battesimo e di altri sacramenti, ne avevo stima fino a provarne quasi invidia. Non avevo colpe delle quali purificarmi e dunque questo non mi poteva essere concesso come ai peccatori, ma, poiché piansi il male che avevano compiuto più di tutti loro e mi mostrai riconoscente a sua Maestà per la sua liberale misericordia, ottenni più di quello che era necessario per la salvezza dell'intera discendenza di Adamo. Sino a tal punto l'Altissimo si riteneva impegnato dalle mie opere e tale fu la virtù che egli dette loro perché trovassero favore presso di lui!

333. Considera quanto tu mi sia debitrice, ora che ti ho illuminato e istruito su realtà tanto venerabili; non tenere oziosi i tuoi talenti e non fare andare perduti tanti beni. Vieni dietro a me attraverso l'imitazione perfetta dei miei atti. Per infervorarti di più nell'amore di Dio, tieni continuamente a mente la brama che il Maestro ed io avevamo della beatitudine dei credenti e le nostre lacrime per la rovina definitiva che molti si procurano da soli con una falsa ed ingannevole allegrezza. Devi contraddistinguerti ed esercitarti parecchio in tale zelo, come sposa fedelissima di colui che per questo si abbandonò alla morte di croce, e come figlia e discepola mia; infatti, se la forza di un simile ardore non mi privò della vita fu perché questa mi fu conservata miracolosamente, ed essa mi meritò di avere un posto nel trono e nel consesso della Trinità. Se tu, amica, sarai così diligente nel modellarti su di me e così attenta nell'obbedirmi come io esigo da te, ti assicuro che sarai partecipe dei doni che io feci al mio servo Giacomo e che ti assisterò nei travagli e ti guiderò, secondo quello che ti ho promesso ripetutamente; inoltre, il Signore con te sarà tanto generoso che supererà ogni tua attesa.

Augustinus
12-10-05, 14:35
Libro VII, Cap. 17, §§ 334-364

CAPITOLO 17

Maria beatissima manifesta a Giovanni una nuova persecuzione disposta da Lucifero contro la Chiesa e, su proposta dell'Apostolo, decide di partire per Efeso; quindi, visita Giacomo a Saragozza, come le è ordinato da suo Figlio in un'apparizione.

334. Negli Atti si menziona la violenta persecuzione che dopo la lapidazione di Stefano si scatenò per istigazione del serpente fino alla conversione di Paolo; l'ho illustrata nei capitoli dodicesimo e quattordicesimo della presente parte, ma quello che ho raccontato successivamente fa capire che egli non si riposò né si dette per vinto, insorgendo ancora contro i credenti e contro Maria. Ciò che ci è riferito circa la carcerazione di Pietro e di Giacomo, ordinata da Erode, sarebbe sufficiente per farci dedurre che si trattò di un altro tentativo di eliminazione dei seguaci di Gesù, anche se non fosse dichiarato espressamente che furono contemporaneamente inviate delle truppe per tormentarne alcuni. Affinché si intenda meglio quanto si è affermato e quanto si affermerà più avanti, torno ad avvertire che tutto questo era architettato e suscitato dai demoni, che irretivano gli oppressori. La provvidenza divina in certi periodi ne concedeva loro il permesso e in altri lo revocava, precipitandoli nelle profondità, come al momento della trasformazione che avvenne in Saulo e in altre occasioni; quindi, la comunità primitiva, come è stato in ogni secolo, a volte era nella tranquillità, mentre altre volte, terminate queste tregue, veniva molestata e afflitta.

335. Erano convenienti sia la calma, perché nuovi discepoli si unissero agli altri, sia l'ostilità contro di loro, perché acquistassero meriti e fossero provati, e così Dio nella sua saggezza le alternava e continua a farlo. Per tali ragioni, quando il giovane di Tarso divenne cristiano ci furono numerosi mesi di quiete, nei quali satana e i suoi stettero soggiogati negli abissi. Luca ne parla dicendo che la Chiesa era in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa, e cresceva nel timore del Signore e nella consolazione dello Spirito. Ciò si verificò prima della visita dell'Apostolo a Gerusalemme, anche se questa viene fatta precedere per dare un ordine alla narrazione, come capita frequentemente pure nei Vangeli, che sono soliti fare alcune anticipazioni per completare il tema che stanno affrontando; infatti, non riportano in forma di annali tutti gli eventi della loro storia, benché nell'essenziale osservino la successione temporale.

336. Premesso questo e ricollegandomi a quello che ho esposto sul conciliabolo che fu tenuto dopo i fatti accaduti sulla via di Damasco, informo che esso si protrasse abbastanza a lungo e i principi delle tenebre scelsero svariati espedienti per distruggere la fede e cercare di far cadere la Vergine dallo stato sublime in cui la immaginavano collocata, sebbene al riguardo ignorassero infinitamente più di quanto conoscevano. Passati quei giorni, risalirono per mettere in atto i consigli di malvagità che avevano escogitato. A capo di tutti uscì Lucifero ed è degno di attenzione considerare che il suo furore era tale che per questa impresa portò con sé più di due terzi dei suoi ministri. Senza dubbio, avrebbe lasciato spopolato il suo regno caliginoso, se la sua stessa perfidia non lo avesse obbligato a farne rimanere alcuni per angustiare i dannati; infatti, oltre al fuoco eterno al quale sono destinati dalla giustizia celeste, e che non poteva mancare, non consentì che questi fossero privi della loro vista e compagnia, affinché non avessero un piccolo respiro in loro assenza. A tal fine, quelle caverne non sono mai vuote e non viene risparmiato un simile flagello agli infelici che le abitano, nonostante che la cruentissima bestia abbia tanta avidità della rovina dei mortali. Così empio, feroce e inumano padrone servono gli sciagurati peccatori!

337. L’ira del maligno era arrivata al culmine e ad un punto inconcepibile, per quello che stava succedendo dopo la passione del Redentore, per l'eccellenza della Signora e per la sua protezione, da lui sperimentata in Stefano, in Paolo e in altri casi. Perciò, pose la sua sede nella città santa per muovere personalmente l'attacco contro i più vigorosi e per dirigere da lì tutti i suoi squadroni, che sono ben disciplinati soltanto nel far guerra per la nostra perdizione, mentre per il resto stanno immersi nello scompiglio e nella confusione. L'Altissimo, però, non dette ad essi licenza completa di compiere quello che la loro invidia bramava, giacché altrimenti in breve avrebbero sconvolto il mondo: pose dei limiti, così che facessero solo quanto era opportuno perché la comunità ecclesiale si fondasse sul sangue dei martiri, radicandosi più saldamente, e nelle tribolazioni si manifestassero con più evidenza la sapienza e la virtù del timoniere di quella navicella. Immediatamente il serpente impose ai suoi di girare per l'intero pianeta allo scopo di scoprire dove fossero i credenti e dove si predicasse Cristo, dandogli poi ragguaglio di tutto. Si stabilì il più lontano possibile dai luoghi consacrati dai misteri del nostro Salvatore, poiché essi erano per lui terribili e in proporzione della loro vicinanza era indebolito e schiacciato dalla forza divina; hanno tuttora questo potere e lo avranno sino alla fine. È davvero motivo di intenso dolore che oggi siano in balìa dei pagani a causa delle nostre colpe! Fortunati quei pochi che godono di questo privilegio, come i figli di san Francesco, nostro padre e restauratore della Chiesa!

338. Il drago ricevette una relazione sulla condizione di tutti i posti dove era annunciato Gesù e su quella dei battezzati. Impartì ad alcuni dei suoi l'ordine di attendere assiduamente a opprimerli, inviandoli in numero maggiore o minore secondo la differenza che c'era tra gli apostoli, i discepoli e i comuni fedeli. Ingiunse ad altri di andare e venire per rendergli conto di quanto avveniva e per trasmettere le sue disposizioni. Indicò, inoltre, degli uomini increduli, cattivi e dai costumi depravati, affinché li irritassero, provocassero e riempissero di collera e gelosia contro i seguaci del Signore. Tra costoro ci furono il re Erode e molti giudei, per il loro odio verso colui che avevano crocifisso e il cui nome volevano cancellare dalla terra dei viventi; accanto ad essi, si valse anche di vari gentili, particolarmente ciechi e attaccati all'idolatria. Tra gli uni e gli altri investigò con diligenza quali fossero i peggiori, per farli strumenti della sua iniquità. In tale maniera avviò la persecuzione, e sempre ha usato quest'arte diabolica per annientare l'efficacia e il frutto del nostro riscatto. Fece strage tra i primi cristiani, angariandoli in parecchi modi che non sono scritti e risaputi, anche se pure ai nuovi santi accadde all'incirca ciò che nella lettera agli Ebrei viene riferito a quelli antichi'. Oltre che con questi patimenti esteriori, affliggeva i giusti con tentazioni, suggestioni e illusioni, come fa ancora con tutti coloro che desiderano camminare per i sentieri della legge di Dio e mettersi sulle orme del nostro Maestro. Finché siamo quaggiù non possiamo avere notizia di tutto quello che pose in opera per estinguere la Chiesa ai suoi inizi, come neppure di quello che fa adesso con lo stesso intento.

339. Nulla, però, restò celato alla prudentissima Principessa, che nella chiarezza della sua eminente scienza penetrava tutti i suoi oscuri segreti. Le percosse e le ferite quando ci trovano preparati non fanno in noi grande impressione, ed ella era ben istruita sulle future sofferenze dei devoti, così che nessuna le poteva giungere inaspettata; tuttavia esse, colpendoli, straziavano anche il suo cuore, nel quale teneva tutti racchiusi con amore sviscerato di pietosissima madre, e l'afflizione corrispondeva alla sua quasi immensa carità. Spesso la sua vita sarebbe venuta meno se, come ho ripetuto varie volte, non le fosse stata preservata miracolosamente. In ogni anima retta e perfetta nell'ardore per l'Onnipotente avrebbe prodotto rilevanti effetti la conoscenza dello sdegno e della malizia di tanti demoni astuti e vigilanti contro poche persone semplici, modeste, di natura fragile e piene di miserie. Con questa cognizione la Vergine avrebbe dimenticato qualunque sollecitudine per se stessa e le proprie angustie, se ne avesse avute, per dedicarsi a procurare rimedio e conforto ai suoi piccoli. Moltiplicava per loro le invocazioni, i sospiri, le lacrime e le attenzioni; dava a tutti degli ottimi consigli, esortandoli e ammonendoli per prepararli e incoraggiarli. Sovente comandava con autorità agli avversari e strappava alle loro grinfie innumerevoli creature che essi ingannavano e pervertivano, liberandole dalla seconda morte. In altre circostanze impediva tremende crudeltà e insidie tramate contro i servitori di sua Maestà, perché Lucifero macchinò di uccidere subito i Dodici, come aveva provato a fare per mezzo di Saulo, e quindi gli altri discepoli che proclamavano la fede.

340. La nostra Signora, per niente sconvolta dalle sue premurose preoccupazioni, conservava interiormente somma pace e tranquillità, e all'esterno imperturbabilità e compostezza regale; tuttavia, con tali pensieri e tale compassione, le intime pene le conferivano un aspetto piuttosto triste se confrontato con il suo solito amabile contegno. Siccome Giovanni provvedeva a lei con considerevole cura e dipendenza filiale come aquila assai perspicace, il lieve mutamento sul suo volto non poté sfuggirgli. Se ne addolorò profondamente e, dopo aver meditato, andò a implorare luce per non errare: «Sovrano immenso e redentore del mondo, confesso che vi sono molto debitore per quanto mi avete donato, senza mio merito e soltanto per vostra benignità, dandomi per madre quella stessa che è veramente madre vostra, avendovi concepito, partorito e nutrito al suo petto. Un simile beneficio mi ha reso felice e mi ha arricchito del più prezioso tesoro del cielo e della terra. Ella, però, è rimasta sola e povera per la vostra mancanza, che non possono compensare tutti gli angeli e gli uomini insieme, e tanto meno questo vile verme e vostro schiavo. In questo momento vedo alquanto mesta colei nella quale vi siete incarnato e che è l'allegrezza del vostro popolo. Aspiro a consolarla, ma ne sono incapace; la ragione e l'affetto mi spronano, mentre la riverenza e la mia debolezza mi arrestano. Concedetemi l'energia necessaria e illuminatemi su ciò che io debba fare per compiacere voi ed essere utile a lei».

341. Dopo questa orazione, egli fu a lungo dubbioso sull'opportunità di chiedere a Maria beatissima la causa del suo abbattimento: da una parte lo bramava con dolcezza e dall'altra non ardiva per timore santo e per riguardo; così, anche se per tre volte si fece animo e giunse fino alla porta della stanza dove ella stava, la timidezza lo trattenne dall'entrare. La Regina dell'umiltà, sapendo quanto accadeva in costui e quanto egli faceva, per il rispetto che ne aveva come sacerdote si alzò dalla preghiera e uscì a domandargli: «Signore, che cosa ordinate alla vostra ancella?». Ho già affermato che ella chiamava signori i ministri del suo Unigenito. L'Evangelista, sollevato e aiutato da questo favore, sebbene non senza una certa ritrosia, disse: «La ragione e il desiderio di prodigarmi per voi mi hanno obbligato a riflettere sulla vostra tristezza e a giudicare che abbiate qualche afflizione, dalla quale anelo di trovarvi alleggerita».

342. Non si diffuse in altre parole, ma ella conobbe che agognava interrogarla sulle sue sollecitudini e, prontissima nell'obbedire, rispose a ciò prima ancora che egli lo palesasse, stimandolo suo superiore. Si rivolse così a Gesù: «Dio e figlio mio, al vostro posto mi avete lasciato questo giovane, affinché mi accompagni e mi assista, ed io l'ho ricevuto come mio prelato e come colui che mi deve dirigere; quindi, intendo essergli docile ed adempiere la sua volontà, qualora mi sia nota, perché la vostra serva si regoli sempre secondo le vostre disposizioni. Datemi licenza di esaudirlo rivelandogli i miei affanni». Avvertì immediatamene il "fiat" divino e, postasi in ginocchio ai piedi di Giovanni, si fece benedire da lui e gli baciò la mano. Ottenuto il permesso di esprimersi, parlò in questo modo: «Signore, la mia sofferenza ha una motivazione: mi sono state manifestate le tribolazioni che sovrastano i credenti e le persecuzioni che essi, e soprattutto il collegio apostolico, dovranno patire. Ho potuto osservare che per organizzare ed eseguire tale malvagità il drago infernale è salito dalle caverne degli abissi con moltissime legioni, piene di implacabile furore per distruggere il corpo della Chiesa. Gerusalemme sarà turbata per prima e più delle altre città, in essa ammazzeranno uno dei Dodici e prenderanno e maltratteranno altri per opera del diavolo. Sono affranta per la pietà che sento e per la resistenza che i nemici faranno alla magnificazione del nome dell'Altissimo e al rimedio delle anime».

343. A questo avviso egli restò sconcertato, ma, confortato dalla grazia, replicò: «Madre e signora mia, la vostra sapienza non ignora che dai travagli l'Onnipotente trarrà ampio profitto per i fedeli e che li sosterrà in essi. Noi apostoli siamo preparati a sacrificare le nostre vite per chi offrì la sua per l'intero genere umano. Ci sono stati elargiti doni enormi e non è giusto che siano oziosi e sterili in noi. Quando eravamo bambini alla scuola del nostro Maestro, ci comportavamo da bambini; ma, allorché egli ci ha arricchito con il suo Spirito ed ha acceso in noi la fiamma del suo amore, abbiamo perso la codardìa e vogliamo percorrere il sentiero della croce, che egli ci ha indicato con l'insegnamento e con l'esempio. Siamo consci che la comunità ecclesiale si deve piantare e conservare con il sangue dei suoi ministri e dei suoi membri. Invocate l'Eterno per noi, poiché con la virtù celeste e la vostra protezione trionferemo sui nostri avversari a sua gloria. Se in questo luogo, però, l'oppressione sarà più dura, mi pare che non sia consigliabile che l'aspettiate qui, affinché la rabbia dei demoni per mezzo della malizia dei mortali non tenti qualche offesa contro il tabernacolo del Verbo».

344. La Vergine, per la tenerezza e la compassione verso i cristiani, era priva di paura e incline a rimanere lì, per consolare e incoraggiare tutti in quel frangente; ma non comunicò questa aspirazione perché, pur essendo così santa, essa proveniva dal suo giudizio. Cedette all'umiltà e all'obbedienza che prestava a colui che riteneva suo superiore e, arrendendosi senza ribattere, lo ringraziò per il valore con cui bramava i tormenti e il supplizio per il Redentore. Quanto all'andarsene, lo invitò a decidere come pensasse meglio, perché si sarebbe sottomessa da suddita e avrebbe supplicato il Creatore di guidarlo con la sua luce affinché scegliesse quello che gli era più gradito e che più lo esaltava. Di fronte a questo abbandono, che riprende la nostra condotta e ci è di modello, egli decretò di trasferirsi a Efeso, in Asia minore, e lo propose: «Madre, per allontanarci da qui ed avere altrove occasione di impegnarci per l'onore del vostro Unigenito, mi sembra opportuno che ci ritiriamo a Efeso, dove conseguirete quei risultati che non spero qui. Mi piacerebbe essere uno di quelli che stanno presso il trono della Trinità per attendere degnamente a voi nel tragitto, ma sono un misero verme della terra; il Salvatore, però, sarà con noi e lo avrete ovunque propizio come Dio e figlio vostro».

345. La partenza fu fissata per quando tutto fosse stato sistemato in città e ciascuno fosse stato avvertito di quello che era necessario. Maria entrò nel suo oratorio, dove fece la seguente implorazione: «Supremo sovrano, io, vile ancella, mi prostro davanti alla vostra presenza regale e con tutta me stessa vi scongiuro di dirigermi e di indirizzare al vostro maggiore beneplacito il viaggio che intraprenderò per fare la volontà del vostro discepolo, che sarà sicuramente la vostra. Non è ragionevole che questa schiava, a voi tanto debitrice, faccia un passo che non sia per rendervi omaggio. Accogliete la mia richiesta, perché io compia quello che è perfetto». Egli le disse: «Sposa e colomba mia, ho deciso che vi spostiate da un'altra parte per mio compiacimento. Assecondate Giovanni e stabilitevi a Efeso, dove, tramite voi e la vostra assistenza, al momento adatto mostrerò la mia clemenza verso alcuni». La prudente Principessa fu così sollevata e informata dei suoi disegni; quindi, gli domandò la benedizione e la licenza di fare i preparativi per la data in cui l'Evangelista avrebbe determinato di mettersi in cammino. Piena del fuoco della carità bruciava nel desiderio del bene degli abitanti di quella località, perché sua Maestà le aveva dato speranza che da essi si sarebbe ricavato un frutto di suo gusto.

346. Tutta la sua sollecitudine era tesa alla crescita e alla dilatazione della Chiesa, al conforto dei credenti e alla difesa di questi ultimi dal serpente nella persecuzione e nelle insidie che approntava. Nel suo incomparabile ardore, prima di lasciare Gerusalemme dispose molte cose come le fu possibile da se stessa e con l'intervento degli angeli, allo scopo di prevenire tutto quello che le parve conveniente per la sua assenza, perché allora non le era noto quanto sarebbe restata distante. La più grande diligenza che poté impiegare fu la sua continua ed efficace orazione affinché Gesù con il vigore infinito del suo braccio custodisse i suoi e schiacciasse la superbia di Lucifero, dissipando le scelleratezze che questi nella sua astuzia fabbricava contro di lui. Ella era al corrente che il primo dei Dodici a spargere il suo sangue per la fede sarebbe stato Giacomo; per questo e per l'affetto che gli portava, intercedette soprattutto per lui.

347. Mentre era intenta in tali preghiere, a quattro giorni dalla partenza, sentì nel suo castissimo cuore degli effetti dolcissimi, come le succedeva altre volte quando le stava per venire concesso qualche dono singolare. Queste opere nello stile della Scrittura si chiamano parole del Signore, e ad esse la Maestra della scienza rispose: «Mio Re, che cosa mi comandate di fare? Che cosa volete da me? Parlate, perché la vostra serva vi ascolta». Mentre replicava ciò, vide Cristo scendere in persona dall'empireo a visitarla su un seggio di ineffabile splendore, scortato da innumerevoli spiriti celesti di tutti gli ordini, e fare con questa magnificenza il suo ingresso nella stanza. La religiosa e modesta Vergine lo adorò con somma venerazione, procedente dal suo purissimo intimo. Subito egli affermò: «Madre mia, dalla quale ricevetti la natura umana per riscattare il mondo, sono attento alle vostre suppliche, sante e accette ai miei occhi. Sosterrò la mia Chiesa e ne sarò il padre e il protettore, affinché non sia vinta e le porte degli inferi non prevalgano contro di essa'. Sapete già che per la mia esaltazione bisogna che gli apostoli si affatichino con il mio aiuto e infine vengano dietro a me sulla via della croce e della morte che io ho patito per la redenzione; il primo che mi imiterà su di essa sarà Giacomo, mio servitore fedele, che qui subirà il martirio. Perché egli torni, come anche per altri considerevoli fini, è mio volere che andiate immediatamente da lui in Spagna, dove sta predicando. Recatevi a Saragozza e invitatelo a rientrare, ma solo dopo avere eretto là un edificio sacro a voi dedicato; in esso sarete invocata per quel paese, ad onore mio e di tutta la Trinità».

348. Ella accolse queste indicazioni con nuovo godimento e, con degna sottomissione e riconoscenza, riprese: «Mio vero sovrano, la vostra volontà si adempia in me per sempre e tutti vi celebrino senza termine per le meraviglie che nella vostra immensa misericordia realizzate per coloro che vi seguono. Mi faccio voce di ciascuno nel lodarvi e nel ringraziarvi per esse. Permettetemi di promettere in vostro nome che la vostra destra onnipotente darà speciale soccorso nel tempio di cui chiedete la costruzione, e che esso sarà parte della mia eredità a vantaggio di chiunque lì si rivolgerà a voi e a me, come mediatrice presso la vostra clemenza».

349. Il Salvatore continuò: «Mia carissima, nella quale incessantemente mi compiaccio, vi do la mia parola regale che guarderò con particolare benevolenza e riempirò di larghe benedizioni quelli che con riverenza e devozione verso di voi in quel luogo mi imploreranno per vostro tramite. Ho deposto nelle vostre mani tutti i miei tesori; fate le mie veci e avete la mia autorità, per cui potete arricchire e distinguere quel santuario e garantire in esso il vostro favore, poiché esaudirò i vostri desideri, a me tanto graditi». Appena ella ebbe reso grazie per tale assicurazione, per ordine di sua Maestà moltissimi degli esseri superni che lo accompagnavano formarono un trono con una fulgida nube e ve la posero come signora dell'universo; gli altri risalirono con lui, dopo che l'ebbe benedetta, mentre, sorretta dai serafini, insieme ai suoi mille custodi e agli altri, si dirigeva in anima e corpo verso Saragozza. Anche se il viaggio avrebbe potuto essere brevissimo, il suo Unigenito stabilì che si eseguisse in modo tale che essi le intonassero con leggiadra armonia inni di giubilo.

350. Alcuni attaccavano l"'Ave Maria", altri "Salve, sancta Parens" e "Salve Regina", altri ancora il "Regina coeli", alternandosi gli uni agli altri con una consonanza tanto ben concertata che ci è impossibile immaginarla. Ella, allora, riferendo quel tributo all'Autore che glielo accordava, con umiltà proporzionata all'altezza del beneficio ripeteva: «Santo, santo, santo, Dio sabaoth, abbi pietà della misera progenie di Eva. Tua è la gloria e tua è la potenza. Tu solo sei il Santo e il Signore degli eserciti e dell'intero creato». Essi, quindi, rispondevano a questi cantici tanto amabili per l'Eterno, e così arrivarono a destinazione quando era già prossima la mezzanotte.

351. Il felicissimo Giacomo era fuori della città, vicino al muro presso la riva del fiume Ebro, e per mettersi in orazione si era discostato un po' dai suoi discepoli. Qualcuno di essi dormiva, qualcun altro pregava come il suo maestro, ma nessuno si aspettava la novità che stava sopravvenendo. Per questo, la processione angelica con la musica si allungò alquanto, in maniera tale che ognuno la potesse udire. Chi era nel sonno si risvegliò e tutti furono colmati di soavità interiore e di stupore, con una consolazione divina che si impossessò di loro e li lasciò come muti, attoniti e tra lacrime di gioia. Videro una luce sfolgorante, come se fosse stato mezzogiorno, benché essa fosse solo in un certo spazio a forma di grossa sfera, non dappertutto. Assorti in questa meraviglia e in questo gaudio, stettero immobili finché l'Apostolo non li chiamò. Attraverso simili effetti, furono preparati ad essere attenti al sublime mistero che sarebbe stato rivelato loro. Il trono fu posto davanti a Giacomo, che era in profonda contemplazione e più degli altri sentiva il suono e percepiva il bagliore. Gli spiriti celesti avevano con sé una piccola colonna di marmo o di diaspro e avevano fatto in un altro materiale una raffigurazione della Vergine, che alcuni tenevano con sommo ossequio; avevano approntato tutto ciò in quella notte, con il potere con cui operano nelle cose alle quali si estende la loro forza.

352. La Madre stava sulla nuvola, circondata dai vari cori, ciascuno dei quali aveva mirabile bellezza, anche se ella superava tutti in tutto. Da lì si manifestò al fortunato Apostolo, che prostratosi la riverì intensamente, osservando pure quello che veniva trasportato. Ella, per conto di Gesù, gli parlò: «Figlio mio, ministro dell'Altissimo, siate benedetto dalla sua destra; egli vi regga e vi palesi l'allegrezza del suo volto». Tutti gli angeli esclamarono: «Amen». Proseguì: «L'eccelso Re ha prescelto questo posto affinché in esso gli innalziate un tempio, dove sotto il titolo del mio nome il suo sia magnificato e dove i suoi tesori siano comunicati con abbondanza; egli darà libero corso alle sue antiche misericordie a vantaggio dei credenti e questi per mezzo della mia intercessione le otterranno, se le domanderanno con autentica confidenza e pia devozione. Da parte sua prometto loro enormi favori e la mia protezione, perché questa deve essere mia abitazione e mia eredità. In testimonianza di ciò, questo pilastro con sopra la mia immagine resterà qui e durerà con la santa fede sino alla fine dei tempi. Darete senza indugio inizio ai lavori e dopo avergli reso tale servizio partirete per Gerusalemme, poiché il Salvatore vuole che gli sacrifichiate la vostra vita là dove egli consegnò la sua per il riscatto degli uomini».

353. Concluse il discorso comandando ai custodi di collocare la colonna e la raffigurazione nel punto in cui si trovano ancora oggi, cosa che fu fatta all'istante. Subito dopo, essi confessarono quel luogo come casa di Dio, porta del cielo,,, terra consacrata per la sua esaltazione e per l'invocazione di Maria; lo fecero con Giacomo che, in attestazione di questo, si inginocchiò e celebrò con inni insieme a loro la dedicazione della prima chiesa fondata dopo la redenzione, e intitolata alla Regina. Questa fu la felice origine del santuario di "Nuestra Senora del Pilar", cioè del pilastro, in Saragozza, che a ragione si dice camera angelica, dimora dell'Unigenito e della sua castissima genitrice, degna della venerazione di tutti e garanzia certa e ferma dei benefici che i nostri peccati non giungeranno a demeritare. Mi pare che il nostro grande patrono, il secondo Giacobbe, abbia dato ad esso un principio più glorioso di quello che il primo dette al suo di Betel quando, andando pellegrino in Mesopotamia, eresse la pietra che eppure segnò la posizione del futuro tempio di Salomone. Là in sogno questi scorse in figura e in ombra la scala mistica con gli angeli, ma qui il nostro Giacobbe scorse la scala vera del cielo con gli occhi del corpo, e un numero più elevato di messaggeri superni. Là fu alzata la stele per una costruzione sacra che avrebbe dovuto essere distrutta parecchie volte e avere termine dopo alcuni secoli, ma qui, nella stabilità della colonna, l'edificio, la fede e il culto divino furono assicurati per tutta la durata del mondo, ascendendo e discendendo gli spiriti dalle altezze con le preghiere dei cristiani e gli incomparabili doni che la Principessa distribuisce a coloro che vanno a implorarla ed onorarla.

354. Il nostro Apostolo la ringraziò e la supplicò di difendere in modo speciale la Spagna, e soprattutto quel luogo a lei consacrato. Ella si impegnò riguardo a tutto e, impartitagli di nuovo la sua benedizione, fu riportata al cenacolo nella medesima maniera. Su sua richiesta, il Signore dispose che presso il santuario rimanesse un custode, che da quel giorno persevera in tale ministero e così farà fino a quando vi staranno il pilastro e l'immagine. Perciò, come tutti i cattolici riconoscono con meraviglia, esso si è mantenuto intatto per più di milleseicento anni, tra la perfidia dei giudei, l'idolatria dei romani, l'eresia degli ariani e la barbara furia dei mori e dei pagani; e l'ammirazione sarebbe maggiore se fossero note le macchinazioni escogitate in ogni epoca dall'inferno per abbatterlo per mano di tutti costoro. Non mi trattengo a riferire questi avvenimenti, perché non è necessario ed essi non appartengono al mio intento; basti asserire che Lucifero ha sovente tentato di farlo per mezzo di tutti questi nemici del supremo sovrano, e sempre l'angelo l'ha fermato.

355. Avviso, però, di due cose che mi sono state svelate. Innanzitutto, le promesse di Gesù e di sua Madre circa la conservazione di quel tempio, benché sembrino assolute, hanno implicita una condizione, come accade per molte altre della Bibbia che concernono elargizioni particolari: la nostra condotta non deve disobbligare sua Maestà, privandoci di quanto ci offre. Egli non lo spiega né dichiara poiché riserva nel segreto della sua equità il peso delle mancanze per le quali ciò può succedere, e affinché siamo avvertiti che quello che ci dà non ci è concesso perché lo usiamo contro di lui e pecchiamo confidando nella sua liberalità; infatti, non c'è alcuna offesa che ce ne renda altrettanto indegni. Di tali e tante macchie possono coprirsi questi regni che arriviamo a perdere la grazia eccezionale del patrocinio della Signora!

356. Non meno importante è prendere atto che i demoni, sapendo tutto questo, hanno provato e provano ad introdurre nell'illustre località e nei suoi abitanti vizi peggiori che nelle altre, specialmente quelli che oltraggiano maggiormente la purezza della Vergine, e inoltre con più efficacia e astuzia. Il serpente mira a due fini esecrabili: se può, ottenere che l'Onnipotente sia sciolto dall'impegno di salvaguardare il santuario, conseguendo per questa strada quello che per vie diverse finora non ha potuto; se non ci riesce, almeno impedire nelle anime la devozione per esso e gli immensi doni che Maria intende accordare lì a chi li domanderà nel modo conveniente. Satana e i suoi hanno ben chiaro che chi vive a Saragozza e nelle vicinanze le deve più di chi sta in differenti province della cristianità, perché ha dentro le mura la fonte dei favori che gli altri vengono a cercare da lontano. Se con il possesso di un simile tesoro fossero più cattivi e trascurassero la benignità e la clemenza che nessuno era in grado di guadagnare, questa ingratitudine verso l'Altissimo e la Regina beatissima sarebbe meritevole di sdegno più grande e di un castigo più grave della giustizia celeste. Confesso con gioia a coloro che leggeranno la presente Storia che, avendola scritta a solo due giornate di distanza, stimo per me fortunatissima questa prossimità e ho profondo affetto per quel luogo sacro, per il debito che tutti comprenderanno che io ho con la mia Maestra. Ne ho uno anche con la pietà di tale città ed in contraccambio di ciò vorrei richiamare alla memoria di quanti vi risiedono, con voce penetrante e forte, la cordiale ed intima venerazione cui sono tenuti, nonché quello che con essa possono conquistare e al contrario con la dimenticanza e la poca attenzione possono lasciarsi sfuggire. Si considerino, dunque, più beneficati e vincolati degli altri, apprezzino la loro ricchezza, ne godano felicemente e non facciano del propiziatorio di Dio una casa inutile e ordinaria; infatti, così muterebbero in tribunale di giudizio quell'edificio che fu stabilito come tribunale di misericordia.

357. Finita la visione, Giacomo fece venire a sé i discepoli, che erano assorti per la musica e lo splendore anche se non scorgevano né udivano niente, e li informò di quanto era opportuno affinché lo aiutassero nella costruzione, alla quale pose mano con ogni zelo. Prima di andarsene, con l'assistenza degli spiriti superni completò la piccola cappella dove stanno l'immagine e la colonna. Pian piano, poi, i cattolici hanno innalzato il sontuoso tempio e il resto che adorna quel santuario tanto famoso. Per il momento Giovanni non ebbe notizia di tale apparizione, né la Principessa gliela manifestò, perché non faceva parte della fede universale della Chiesa e per questo era da lei custodita nel proprio petto; tuttavia, ella ne rivelò a lui e agli altri evangelisti alcune più eccellenti, poiché necessarie all'istruzione dei credenti. San Giacomo, però, al suo rimpatrio attraversò Efeso e dette ragguaglio al fratello di quello che gli era capitato mentre peregrinava in Spagna, parlandogli delle due occasioni in cui aveva avuto il privilegio di contemplare la nostra sovrana, di ciò che era accaduto nella seconda e di ciò che aveva eretto. Dalla relazione che questi fece tanti degli apostoli e degli altri furono messi al corrente del miracolo, ed egli stesso in seguito lo comunicò loro in Gerusalemme per confermarli nella riverenza verso di lei e nella fiducia nella sua mediazione. Così fu, perché coloro ai quali esso fu annunciato cominciarono ad invocarla nelle tribolazioni e nei bisogni, ed ella soccorse molti, anzi tutti, in vari frangenti e pericoli.

358. Questo prodigio si verificò all'inizio del quaranta dopo Cristo, la notte tra il due e il tre gennaio. Dal principio della missione di Giacomo erano trascorsi quattro anni, quattro mesi e dieci giorni. Egli era partito il venti agosto del trentacinque e, dopo la visita della Signora appena riportata, spese un anno, due mesi e ventitré giorni nell'opera di edificazione, nel rientro e nella predicazione; morì, poi, il venticinque marzo dell'anno quarantunesimo dalla redenzione. La Vergine, quando gli si mostrò in Saragozza, aveva cinquantaquattro anni, tre mesi e ventiquattro giorni e si mise in viaggio verso Efeso il quarto giorno dal suo ritorno al cenacolo. Quindi, quel santuario le fu dedicato assai prima del suo insigne transito, come si capirà meglio allorché al termine di questa Vita farò sapere quando esso avvenne e l'età che ella aveva allora; passarono, infatti, più anni di quanti se ne assegnano comunemente. In Spagna ella era già ossequiata pubblicamente e con solennità in diversi templi, che erano subito sorti ad imitazione di quello del Pilar.

359. Questo regno ottenne su tutti gli altri la palma nel culto di Maria e, mentre ella era ancora sulla terra, si segnalò nel celebrarla e nell'implorarla più di quanto essi abbiano fatto dopo la sua definitiva salita al cielo; ciò lo nobilita al di sopra di quello che si potrà mai proclamare. Ho afferrato che, in ricompensa di questa vecchia e diffusa devozione, ella lo ha tanto impreziosito di sue immagini comparse e di santuari a lei intitolati, in numero maggiore che negli altri. Con tali favori ha voluto rendersi qui più familiare, offrendo il suo patrocinio con tante chiese, venendoci incontro in ogni provincia affinché la riconosciamo come nostra madre e protettrice e intendiamo che ci affida la difesa del suo onore e la dilatazione della sua gloria per tutto il mondo.

360. Prego, supplico umilmente e ammonisco tutti gli spagnoli perché risveglino la memoria, ravvivino la fede, risuscitino il primitivo fervore stimandosi più tenuti degli altri al suo servizio, abbiano in singolare considerazione il santuario di Saragozza, attribuendogli la preminenza sugli altri in quanto origine della loro pietà verso costei. Tutti i lettori credano che ricevemmo le nostre antiche fortune e grandezze per lei e per la sua venerazione; ora esse sono in tanta rovina e quasi perdute a motivo della nostra negligenza, con la quale ci attiriamo l'abbandono che stiamo sperimentando, e se desideriamo un rimedio per simili calamità lo troveremo solo con il suo potente intervento, obbligandola a questo con nuove dimostrazioni. Poiché il mirabile beneficio dell'essere cattolici e gli altri che ho riferito ci sono venuti per mezzo del nostro patrono Giacomo, si rinnovino anche gli appelli a lui, affinché per sua intercessione Dio ripeta le sue meraviglie.

Insegnamento della Regina del cielo

361. Carissima, sei già stata avvertita che non senza mistero nel corso di questa Storia ti ho sovente illuminato sui segreti, sui consigli e sui tradimenti orditi dall'inferno contro gli uomini, nonché sulla furiosa rabbia e vigilanza con cui esso si sforza in ciò, senza trascurare alcuna opportunità e senza lasciare pietra che non muova né sentiero, stato o persona a cui non tenda molti lacci nei quali vada a cadere; e i più insidiosi, perché più occulti, li dispiega contro chi aspira con sollecitudine alla salvezza eterna e all'amicizia con il Signore. Oltre a questi avvisi generali, ti sono stati palesati spesso i conciliaboli e le macchinazioni che tiene e dispone contro di te.

362. Per i figli della Chiesa è importantissimo uscire dall'ignoranza nella quale vivono così inevitabili minacce, senza avere cognizione che la mancanza di luce su di esse è castigo del primo peccato, e in seguito, quando potrebbero meritarla, ne diventano sempre più indegni con quelli propri. In tal modo parecchi degli stessi cristiani vanno avanti dimentichi, come se non ci fossero demoni a perseguitarli ed ingannarli, e se talora riflettono su questo lo fanno superficialmente e di passaggio, tornando immediatamente alla propria sventatezza, che in tanti non è causa di meno che delle pene perenni. Se in tutti i tempi e i luoghi, in tutte le opere e le circostanze, Lucifero trama contro di essi, sarebbe doveroso che non facessero nessun passo senza chiedere l'aiuto divino per vedere il pericolo e non inciamparvi. Siccome, però, a questo proposito è tanto profonda la smemoratezza dei discendenti di Adamo, fanno appena qualcosa senza essere feriti dal serpente e dal veleno che egli sparge dalla sua bocca. Quindi, accumulano colpe su colpe e vizi su vizi, irritando con essi la giustizia celeste e divenendo incapaci di ottenere misericordia.

363. Poiché ti è noto che l'ira e l'attenzione degli astuti nemici sono maggiori contro di te, tra queste trappole abbile anche tu contro di loro con grazia così abbondante e continua come conviene per vincerli. Medita su quello che feci allorché scoprii la loro intenzione di combattere me e l'intera comunità ecclesiale: moltiplicai le orazioni, le lacrime e i sospiri. Inoltre, dato che si volevano valere di Erode e dei giudei di Gerusalemme, anche se avrei potuto restare con meno timore in città e mi sentivo incline a ciò, me ne andai per dare esempio di cautela e di obbedienza: di cautela, allontanandomi dai rischi; di obbedienza, facendomi governare dagli ordini di Giovanni. Tu non sei forte e sei esposta a cose peggiori rispetto alle altre creature; per di più, sei mia discepola ed hai i miei atti e il mio comportamento come modello sul quale regolarti. Dunque, appena distingui una minaccia, discostatene e, se ce ne sarà bisogno, troncagli ogni via, cominciando da quello cui sei più sensibile. Appoggiati costantemente sul volere dei tuoi superiori, come guida sicura e colonna solida per non cascare. Indaga bene se sotto un'apparente pietà siano nascosti dei tranelli, e bada di non fare danno alla tua anima per guadagnare altri. Non fidarti del tuo dettame, benché ti sembri buono e retto; non avere mai difficoltà nell'essere docile, perché io per sottomissione uscii a peregrinare con molti disagi e incomodi.

364. Conferma anche il proposito di ricalcare con perfezione le mie orme per proseguire quello che rimane della narrazione e scriverlo nel tuo cuore. Corri per la strada dell'umiltà e dell'obbedienza dietro l'odore della mia vita e delle mie virtù; infatti, se mi ascolterai - come da te bramo e tanto frequentemente ti ripeto -, ti assisterò nelle tue necessità e tribolazioni e il mio Unigenito adempirà in te la sua volontà come spera, prima che tu sia giunta alla conclusione. Avranno, così, effetto le promesse che hai inteso molte volte da noi e sarai benedetta dalla sua destra onnipotente. Magnifica ed esalta l'Altissimo per il favore che fece al mio servo Giacomo in Saragozza e per il tempio che lì mi edificò prima del mio transito, nonché per quanto ancora ti ho rivelato di questo prodigio e perché quel santuario fu il primo, e di sommo compiacimento per la beatissima Trinità.

Augustinus
12-10-08, 07:25
http://www.cattolicesimo.com/ImmSacre/poussin15.jpg http://img291.imageshack.us/img291/3235/poussinparisam1990p46pilar4xt.jpg http://images.bridgeman.co.uk/cgi-bin/bridgemanImage.cgi/600.XIR.3314420.7055475/240954.JPG http://cartelfr.louvre.fr/pub/fr/image/1293_p0005948.001.jpg Nicholas Poussin, La Venuta della Vergine a S. Giacomo ed ai suoi otto compagni, 1628-30, musée du Louvre, Parigi

Augustinus
12-10-08, 07:27
http://www.flg.es/fotos/2000/2329.jpg Ramón Bayeu, Vergine del Pilar, 1780 circa, museo Lázaro Galdiano. Madrid

http://americanart.si.edu/images/1996/1996.91.8_1a.jpg José Campeche y Jordan, Nostra Signora del Pilar, XVIII sec., Smithsonian American Art Museum, Washington

Augustinus
12-10-08, 07:29
http://img521.imageshack.us/img521/672/trevisaniqz1.jpg http://img381.imageshack.us/img381/2053/trevisaniny2to6.jpg

Augustinus
12-10-08, 07:32
http://farm1.static.flickr.com/93/272357075_cd10076746_o.jpg Statua processionale della Vergine del Pilar, saragozza

Augustinus
12-10-08, 08:05
Nuestra Señora Del Pilar

"Our Lady of the Pillar", a celebrated church and shrine, at Saragossa, Spain, containing a miraculous image of the Blessed Virgin, which is the object of very special devotion throughout the kingdom. The image, which is placed on a marble pillar, whence the name of the church, was crowned in 1905 with a crown designed by the Marquis of Griñi, and valued at 450,000 pesetas (£18,750, 1910). The present spacious church in Baroque style was begun in 1681. According to an ancient Spanish tradition, given in the Roman Breviary (for 12 October, Ad. mat., lect. vi), the original shrine was built by St. James the Apostle at the wish of the Blessed Virgin, who appeared to him as he was praying by the banks of the Ebro at Saragossa. There has been much discussion as the truth of the tradition. Mgr L. Duchesne denies, as did Baronius, the coming of St. James to Spain, and reproduces arguments founded on the writings of the Twelfth Ecumenical Council, discovered by Loaisa, but rejected as spurious by the Jesuit academician Fita and many others. Those who defend the tradition adduce the testimony of St. Jerome (PL XXIV, 373) and that of the Mozarabic Office. The oldest written testimony of devotion to the Blessed Virgin in Saragossa usually quoted is that of Pedro Librana (1155). Fita has published data of two Christian tombs at Saragossa, dating from Roman days, on which the Assumption of the Blessed Virgin is represented.

Fonte: The Catholic Encyclopedia, vol. XII, New York, 1911 (http://www.newadvent.org/cathen/12083b.htm)

Augustinus
12-10-08, 08:13
Pilar, El

La advocación de la Virgen del Pilar, por lo singular de su tradición —vinculada a los orígenes del cristianismo en España— y por diversas vicisitudes históricas, ha llegado a adquirir dimensiones españolas e hispánicas marianas de primera magnitud. Sin embargo, esta devoción desde sus orígenes ha constituido uno de los principales elementos integrantes no sólo de la religiosidad aragonesa, sino incluso de su propia identidad. Y del mismo modo que la esencia aragonesa no puede reducirse a los más destacados y tradicionales rasgos en que a menudo se le identifica (el Pilar, la jota, el Ebro, la literatura costumbrista, etc.), tampoco sería posible una aproximación en profundidad a la personalidad de los aragoneses ignorando o infravalorando estos componentes tradicionales. De ahí la amplitud y variedad de perspectivas con que aquí se aborda el tema pilarista.

• Tradición e historia del templo. La advocación de Nuestra Señora del Pilar: El núcleo fundamental de la tradición pilarista consiste en que la Virgen María, desde Jerusalén, donde aún vivía antes de su Asunción, para confortar al Apóstol Santiago el Mayor en sus tareas de evangelización de Hispania, lo visitó milagrosamente en Cesaraugusta a orillas del río Ebro, donde se encontraba con los primeros convertidos. En recuerdo de aquel acontecimiento se levantó más tarde en aquel lugar una modesta capilla en honor de Nuestra Señora, venerando su imagen sobre un pilar o columna.

La primera consignación escrita que se conoce de esta tradición, ya adornada con otros detalles secundarios, data de finales del siglo XIII y se contiene al final de un códice de los Moralia in Job de Gregorio Magno, celosamente guardado en el archivo de la basílica. De la misma época, y conservado en el mismo archivo, es el documento en que aparece expresamente por vez primera la advocación concreta de «Santa María del Pilar». Se trata de una salvaguardia de los jurados de Zaragoza eximiendo de prendas a los peregrinos al santuario, fechada el 27-V-1299, que lleva pendiente el más antiguo sello de cera del Concejo que se conoce.

http://www.enciclopedia-aragonesa.com/img/grandes/30683.jpg Virgen del Pilar

http://www.enciclopedia-aragonesa.com/img/grandes/30682.jpg La virgen y la columna sin manto. Ofrenda del Real Zaragoza por la consecución de la Copa del Rey

—Edad Antigua (hasta el siglo XII): Pero la historia demuestra con documentos la existencia de un templo de Santa María muchos siglos atrás. Ya bajo el dominio musulmán de Zaragoza está atestiguado por fuentes históricas escritas. Tales son el testimonio del franco Aimoino, monje de Saint Germain des Pres en su Historia translationis Sancti Vincentii, escrita entre los años 870-88, en la que se cita la «ecclesia Beatae Mariae semper Virginis», donde el obispo cesaraugustano Senior mandó depositar las reliquias del Santo hacia el año 855 (Migne, P. L., 126, c. 1016); y el testamento del barcelonés Moción, hijo de Fruya, a quien, a la vuelta de su cautividad en Córdoba, sobreviene la muerte en febrero del año 986 en la Zaragoza musulmana, siendo la primera manda en su testamento 100 sueldos «ad Sancta Maria qui est sita in Çaragotia et ad Sanctas Massas qui sunt foris muros». El pergamino original del reconocimiento jurídico de este testamento, está fechado en Vallvidrera el 26-VI-987 y se conserva en el Archivo Diocesano de Barcelona. Y puesto que los musulmanes en España permitían que algunas iglesias existentes al tiempo de la invasión continuasen abiertas al culto para la población mozárabe, pero no la edificación de nuevos templos, hay que concluir que la iglesia de Santa María se remonta a la época visigótica.

Es muy significativo el título de «mater ecclesiarum eiusdem urbis» que el citado Aimoino da al templo de Santa María, que sugiere con respecto a las demás iglesias de la ciudad prioridad en la dignidad y tal vez en el tiempo.

En cuanto a la dignidad, parece seguro que fue la iglesia del obispo o catedral durante la dominación sarracena, mientras hubo prelado, y probable que ya lo fuese durante la época visigótica, en la que también las catedrales de Toledo y de Mérida estaban dedicadas a Santa María, recibiendo la última de ellas también el nombre de «Sancta Hierusalem». La especial vinculación del sepulcro de San Braulio con la iglesia de Santa María de Zaragoza sería una congruencia más para la hipótesis de su catedralidad en la época visigótica.

En cuanto a su antigüedad, en relación con los otros templos cristianos de la ciudad de Zaragoza, recordemos que en los orígenes del cristianismo la comunidad cristiana de Caesaraugusta, junto a las de Mérida, León y Astorga es la primera de las de Hispania de que tenemos referencia escrita explícita hacia el año 254 en la carta 67 del epistolario de San Cipriano; que su obispo Valerio estuvo presente en el Concilio de Elvira entre el 300 y 314; que ofrendó en las persecuciones romanas la sangre de su arcediano Vicente, Engracia y los XVIII mártires, cantados por Prudencio; que, después de la paz constantiniana, fue sede del Concilio antipriscialianista de 380, celebrado «in secretario» o sacristía de una iglesia de la ciudad; y que en concreto en la época visigótica existían en Zaragoza, además de la de Santa María, la basílica de los Mártires y la de San Vicente, cantadas en los poemas de San Eugenio de Toledo, y tal una en honor de San Millán y otra dedicada a San Félix.

—Edad Media (siglos XII-XV): La ciudad de Zaragoza fue reconquistada a los sarracenos el 18-XII-1118 por el rey de Aragón, Alfonso I, ayudado por tropas del sur de Francia. Pocos días antes, el 10-XII-1118, el Papa Gelasio II dirige la bula Litteras devotionis al ejército cristiano que sitiaba la ciudad, comunicándole la aceptación y consagración del obispo por ellos propuesto, Pedro de Librana, de origen francés, y concediendo indulgencias a los que murieren en el asedio, a los que en él combatiesen y a aquellos «qui praefatae urbis ecclesiae, a saracenis et moabitis dirutae, unde reficiatur, et clericis inde famulantibus, unde pascantur, aliquid donent vel donaverint». Que esta «ecclesia», por cuya restauración ofrece indulgencias el Pontífice, se refiere a la de Santa María aparece por la carta circular, con que el nuevo obispo, Pedro, una vez conquistada la ciudad, remite la bula papal, por medio del arcediano Miorrando «universis Ecclesiae fidelibus, archiepiscopis, episcopis, abbatibus, presbyteris, omnibus catholicae fidei cultoribus». Para su restauración y para alimento de sus clérigos pide el obispo limosna generosa. El contenido de esta carta manifiesta la fama general de que gozaba ya entonces la iglesia de Santa María y la conciencia de su antigüedad. En la circular se añadían a las indulgencias del Papa, las del propio obispo Pedro, las del arzobispo de Toledo, Bernardo; obispo de Huesca, Esteban; obispo de Calahorra, Sancho, y el cardenal Bosón, legado pontificio y las «omnium episcoporum Hispaniae». Una prueba bien clara de que la fama del templo de Santa María trasciende ya los límites ciudadanos y aun diocesanos.

http://www.enciclopedia-aragonesa.com/img/grandes/30684.jpg Camarín de la Virgen del Pilar

http://www.enciclopedia-aragonesa.com/img/grandes/TomoXIV343.jpg Talla del siglo XV de la Virgen del Pilar

En octubre de 1121 quedaba transformada en templo cristiano la mezquita mayor de Zaragoza y pasaba a ser la Seo o sede episcopal, con un cabildo secular al principio y muy pronto regular de San Agustín. Pero también en el templo de Santa María, reconstruido en estilo románico, se erige un cabildo de clérigos para atender su culto, al que en 1138 el obispo Bernardo impondrá la regla de San Agustín, decisión que confirmará el Papa Inocencio II en su bula Ad hoc universalis de 15-XII-1141, recibiendo bajo su protección a la iglesia y cabildo de Santa María.

A lo largo del siglo XII, seis bulas más, de los papas Eugenio III, Alejandro III y Celestino III, son expresión de la particular benevolencia de la Santa Sede al santuario mariano de Zaragoza. Lo mismo ocurre con los reyes de Aragón, conservándose privilegios reales de Ramón Berenguer IV (1142), y Alfonso II (1187, 1191, 1196), que fundó en el santuario una capellanía real y con rentas para que ardiese continuamente una lámpara ante Nuestra Señora, y fue recibido como canónigo honorario. Y también los monarcas de otras dinastías u otros reinos hispánicos se relacionan con el templo de Santa María. Así el rey de León, Alfonso VII en 1136 se trasladó "in ecclesiam Sanctae Mariae", donde fue recibido solemnemente por obispo y clero; y el rey Sancho II de Navarra en 1196 otorgó carta de protección a los bienes del santuario en su reino.

La generosidad de los obispos de Zaragoza, otorgando rentas y décimas de otras iglesias de la diócesis, y de los fieles se refleja en unos cuarenta documentos, conservados en el archivo , destacando entre las primeras donaciones (1135) la de doña Talesa , viuda de Gastón de Bearn , a quien el rey Alfonso otorgó el patronato de la iglesia de Santa María en la que ambos esposos fueron enterrados y a la que dejaron el precioso olifante de su museo. Para los peregrinos se funda el Hospital de Santa María, del que ya hay noticia en una donación de 1143.

En el siglo XIII el documento pontificio más importante es la bula Mirabilis Deus de Bonifacio VIII, de 12-VI-1296, por la que concede indulgencias a los que visiten la iglesia de Santa María en las fiestas de la Virgen, y del Espíritu Santo, Santiago, San Miguel, San Cristóbal y San Martín, que tenían altar propio en el templo.

Continúan también los reyes de Aragón en su trayectoria de protectores del santuario mariano, y así conservamos varios privilegios de Jaime I (1224, 1233, 1258) y su esposa doña Leonor (1224), Alfonso III (1289) y Jaime II (1294, 1299, 1302), que además erigió una capellanía real perpetua.

Ya hemos aludido a la salvaguardia municipal de 1299, en que aparece el nombre de Santa María del Pilar por vez primera y a la consignación por escrito en este siglo de la tradición de la Venida de la Virgen. Nace también en este siglo la Cofradía de Santa María la Mayor y del Pilar.

En el siglo XIV, el documento pontificio más importante es el firmado el 28-VI-1399 por el cardenal aragonés F. Pérez Calvillo en nombre de Benedicto XIII , preso en Aviñón, sin poder expedir bulas, por el que se conceden indulgencias si se visita ciertos días la "capella Beatae Mariae del Pilar, vulgariter nun-cupata, in claustro Ecclesiae Collegiatae Sanctae Mariae Maioris Caesaraugusta-nae institutae". Los reyes de Aragón, Pedro IV (1356, 1360) y Martín I (1399, 1408) se manifiestan decididos protectores del templo del Pilar; y comienza en 1390 la fundación de capellanías privadas.

En el siglo XV, el Papa hispano Calixto III, que por haber sido secretario del rey de Aragón, Alfonso V , conocía bien la historia del templo, otorga una de las bulas pilaristas más importantes, el 23-IX-1456, por recoger en ella la tradición "testante historia". Juan II de Aragón concede, como sus antecesores, protección y favor al Pilar en 1459 y autoriza a la Cofradía del Advenimiento de Nuestra Señora a recibir miembros por todo el reino, divulgando así la historia del santuario; ya anteriormente, su esposa, Blanca de Navarra fue objeto de una curación extraordinaria en 1433, atribuida a la Virgen del Pilar y fundó en Navarra una Cofradía de Nuestra Señora del Pilar, cuya divisa era una banda azul con un Pilar de oro esmaltado de blanco, con la leyenda "A ti me arrimo". Precisamente cuando el año 1435 se incendió la Santa Capilla, salvándose la sagrada imagen, fue la reina doña Blanca, junto con el arzobispo don Dalmau de Mur y la familia zaragozana de los Torrero, quienes costearon su restauración. Fernando II , el último rey de Aragón, que por su matrimonio con Isabel de Castilla forjó la unidad española, heredó la devoción de su padre a la Virgen del Pilar y de él conservamos varios documentos reales en favor de su templo (1481, 1497, 1504).

-EDAD MODERNA (siglos XVI-XVIII): A principios del siglo XVI, siendo arzobispo don Alonso de Aragón , hijo del Rey Católico, la iglesia grande, adosada a la Santa Capilla, se transforma en estilo gótico y durará hasta fines del XVII. Su aspecto exterior quedó plasmado en la Vista de la Ciudad de Zaragoza de 1646, hecha a petición del príncipe Baltasar Carlos por Juan B. Martínez del Mazo con intervención también de su suegro Diego Velázquez. Y la distribución interna de capillas de la iglesia mayor y del claustro de la Santa Capilla en el acta notarial de Juan Blasco de 2-X-1668, previa al derribo.

Los monarcas españoles de la Casa de Austria continuarán la trayectoria de los reyes de Aragón, otorgando licencia para recoger limosnas para el santuario incluso en los reinos de Valencia y Mallorca; visitaron todos desde Carlos I a Carlos II en sus estancias en Zaragoza el templo mariano, dejando ofrendas a Nuestra Señora, como los ángeles de plata de Felipe II donados en 1596 que todavía hacen guardia en el camarín; fue también este rey quien estableció una segunda capellanía real, que se unió a la del rey Jaime II. Singular testimonio de fervor pilarista dieron los hijos de Felipe IV , Baltasar Carlos -que ofrendó 1.600 ducados para el enrejado de la Santa Capilla- y Juan José de Austria , cuyo corazón, por voluntad propia, se enterró a los pies del Pilar. Se inicia con esta dinastía un epistolario familiar con el Cabildo del Santuario, encomendando a la intercesión de Santa María del Pilar las grandes empresas de la Monarquía. También los papas, uno de los cuales, Adriano VI, antes de su coronación, visitó el templo en su etapa zaragozana camino de Roma, continuaron y aún acrecentaron su protección a la iglesia y a su cabildo, que obtuvo de Clemente VII en 1530 exención de la jurisdicción episcopal, lo que le supuso algún conflicto con los arzobispos locales; y en el pleito con el Cabildo de la Seo sobre la catedralidad, las sentencias de la Rota Romana fueron siempre favorables al Pilar.

El 10-X-1613 acuerda el municipio zaragozano guardar como festivo el 12 de octubre. El Milagro de Calanda , de 1640, cuya Relación en latín y las principales lenguas occidentales circulan por toda Europa, hacen famosa la advocación de Nuestra Señora del Pilar en el mundo. El 27-V-1642 el municipio de Zaragoza proclama patrona de la ciudad a la Virgen del Pilar, patronazgo que en las Cortes de 1678 se extiende a todo el reino. La intervención de Carlos II obtiene del Papa Clemente X, el 11-II-1676, la bula de unión de los dos cabildos en uno solo para ambas catedrales, concentrándose enseguida los esfuerzos en la nueva fábrica del templo, que significará la demolición de la iglesia gótica, poniéndose la primera piedra el 25-VII-1681, enviando el rey Carlos II a su maestro de obras Francisco de Herrera que readaptó la traza de Felipe Sánchez, dando 4.200 pesos y aplicando a este fin las rentas de la encomienda de Alcañiz de la Orden de Calatrava.

En el siglo XVIII, la nueva dinastía borbónica continúa en la misma línea de devoción pilarista de la precedente, con visitas personales al santuario y generosidad en sus ayudas al templo. Su primer monarca, Felipe V , contribuyó a ellas con limosna personal de doscientos doblones, confirmó la gracia de la encomienda de Alcañiz y asignó dos beneficios de América para los procuradores de limosnas para el Pilar en aquellas tierras. En el nuevo templo inconcluido se hizo la traslación del Santísimo y de los restos de San Braulio al altar mayor el ll-X-1718. Y el 11-VIII-1723 el Papa Inocencio XIII satisfizo por fin el antiguo deseo del municipio, las antiguas Cortes de Aragón, el Cabildo y los reyes, al conceder oficio litúrgico propio de la Virgen del Pilar para el día 12 de octubre, que, en 1739, Clemente XII extendió a todos los dominios del Rey Católico.

Aun antes de terminar el grandioso templo concebido por Felipe Sánchez y Herrera, realizado entonces sólo a medias, se pensó en transformar radicalmente la misma Santa Capilla, que quedaba ahora encerrada en las naves del nuevo templo. La nueva Santa Capilla se realizó entre 1754-1765, bajo la dirección de Ventura Rodríguez, enviado por Fernando VI , quien ofreció 12.000 pesos, dando los infantes 3.420; aunque la obra fue sufragada casi íntegramente por el arzobispo Francisco Añoa.

-EDAD CONTEMPORÁNEA (siglos XIX y XX): Se abre el siglo XIX con la elevación en 1807, por parte del Papa Pío VII, de la fiesta del Pilar a rito doble de primera clase y con octava para todo el reino de Aragón, a petición de la Universidad, el Cabildo, los obispos y abades de Aragón y por la ciudad, que hizo grandes fiestas del 21 al 23 de noviembre. La gesta zaragozana en los Sitios durante la guerra de la Independencia , cuyo centro moral de resistencia había sido el santuario del Pilar, hizo resonar una vez más por toda España el nombre de esta advocación, de la que fueron devotos visitantes los reyes borbónicos de esta centuria Fernando VII , Isabel II y Alfonso XII , e incluso el fugaz y desarraigado Amadeo de Saboya .

Entre 1863 y 1872 se completa por fin el templo del Pilar concebido en el siglo XVII, acabando las capillas y cúpulas y sobre todo la gran cúpula central; alma de las obras fue el gran arzobispo cardenal García Gil , presidiendo el rey consorte Francisco de Asís hasta su exilio la Junta de Obras.

El siglo XX va a suponer en cuanto al templo la consolidación, entre 1901 y 1940, de sus cimientos amenazados por las filtraciones de Ebro, eficazmente realizada por el arquitecto Teodoro Ríos , y la terminación en 1961 de la última de las cuatro torres de los flancos. Pero sobre todo una auténtica eclosión de la devoción popular no sólo aragonesa sino española y americana. Señalaremos sólo alguna efemérides: 1902, nace la Corte de Honor; 1904, es declarado monumento nacional el templo; 1905, solemne coronación canónica y ofrenda de la corona por todos los fieles de España; 1908, Centenario de los Sitios con asistencia de Alfonso XIII , devoto personal de la Virgen del Pilar, bajo cuyo manto murió en su exilio romano en 1940; honores de capitán general a la Virgen; llegada de las banderas americanas; 1928, surgen los Caballeros del Pilar; 1940, celebración del Centenario de la Venida de la Virgen con gran profusión de escritos pilaristas y multiplicación de las peregrinaciones de todas las diócesis de España; 1948, 24 de junio, el Papa Pío XII otorga al templo del Pilar la categoría de Basílica; 1954, Congreso Nacional Mariano con centro en el Pilar y asistencia a su clausura del jefe del Estado, generalísimo Franco y su gobierno; 1979, VIII Congreso Mariológico y XV Mariano internacionales; y en la clausura del Año Teresiano, en 1982, la visita personal de Su Santidad el Papa Juan Pablo II, más tarde repetida. Recordamos para terminar los diversos patronazgos que acumula Nuestra Señora la Virgen del Pilar: sobre el Cuerpo de la Guardia Civil (1913), Cuerpo de Correos(1916), Cuerpo de Secretarios, Interventores y Depositarios de Administración Local (1928), Sociedad Mariológica (1940) y Consejo Superior de Misiones (1948).

• Asociaciones en torno al Pilar:

I.-Existieron a lo largo del tiempo, en Zaragoza y fuera de ella, muchas asociaciones vinculadas más o menos estrechamente con el Pilar. Citamos algunas.

-COFRADÍA DE SANTA MARÍA LA MAYOR Y DEL PILAR DE LA CIUDAD DE ZARAGOZA: La abundante documentación conservada, la designa siempre como "Insigne y Antiquísima". Consta documentalmente su existencia en 1297. Ubicada en la parroquia de Santa María la Mayor, vive su historia en total vinculación con el templo del Pilar, en el que tenían lugar sus actos de culto. Los cofrades pertenecían a un nivel social alto. Algunos son muy conocidos en la historia de Aragón, como Juan de Lanuza , Justicia de Aragón, Martín de Blancas, Jerónimo de Blancas , etc. Tiene su mayor esplendor en los siglos XVI y XVII.

-COFRADÍA DEL SANTO ADVENIMIENTO DE NUESTRA SEÑORA DEL PILAR, POSTERIORMENTE DE LA VIRGEN SANTA MARÍA DEL PILAR: Sus primeros estatutos conocidos datan de 1523, pero sin duda es más antigua. Agrupaba a personas de condición económica humilde". Tuvo gran vitalidad en el siglo XVI. A comienzos del XVII disminuyó notablemente su fuerza primitiva. Por eso, el Papa Clemente X, en su bula Pastoris Aeterni del 4-IX-1671, a instancias de D. Pedro Antonio de Aragón , duque de Segorbe, virrey y capitán general de Napóles, instituyó una nueva Cofradía de la Virgen, Santa María del Pilar. En 1682 se unió, por decreto del arzobispo D. Diego Castrillo, con la del Santo Advenimiento. Varias veces se modificaron sus estatutos, que en 18-III-1731 fueron definitivamente aprobados por el arzobispo D. Tomás Crespo de Agüero.

II.-Las asociaciones actuales son herederas del espíritu de las antiguas cofradías.

-COFRADÍA DEL SANTÍSIMO ROSARIO DE NUESTRA SEÑORA DEL PILAR: Ante el auge, devoción y esplendor del rezo del rosario en el Pilar que, desde mediados del siglo XVIII va dando forma a lo que constituirá el rosario general que con el tiempo será el "rosario de cristal", el Cabildo obtuvo de Roma el reconocimiento canónico de la Cofradía del Santísimo Rosario de Nuestra Señora del Pilar en 26-X-1887. Cuida hoy de la organización del "rosario de cristal" y tiene carácter marcadamente juvenil.

-CORTE DE HONOR A SANTA MARÍA DEL PILAR: Fue establecida en 21-XI-1902 por el arzobispo D. Juan Soldevila y Romero . Pretende la veneración de la Virgen bajo el título del Pilar y el aumento y propagación de su culto, mediante la oración continua de las asociadas ante la sagrada imagen. Permanentemente cuatro damas de la Corte de Honor oran ante el Pilar en turnos de media hora. En 1958 se fundó la sección de niñas, llamadas infantinas, que a los 16 años pasan a la categoría de damas. Tiene filiales extendidas por las tres provincias aragonesas, en la mayor parte de las ciudades de España, en Portugal, Italia, Holanda, en varios países hispanoamericanos y en Filipinas.

-CABALLEROS DE NUESTRA SEÑORA DEL PILAR: La asociación fue fundada en 2-II-1928 por el arzobispo D. Rigoberto Doménech y Valls , para agrupar a varones de cualquier estado y clase social que sientan devoción a la Virgen del Pilar. Dos de ellos, en turnos de media hora, hacen guardia permanente de oración en la Santa Capilla. Existe una sección de pajes a la que pertenecen los niños hasta los catorce años, en que pasan a caballeros. Los caballeros del Pilar están siempre presentes en los grandes acontecimientos de la basílica. Se han extendido por toda la geografía aragonesa y española en secciones filiales.

• Historia de la devoción:

La existencia de una antiquísima cofradía dedicada a Santa María la Mayor de Zaragoza está documentada desde 1286; es un testamento en forma de carta partida, conservado en el Archivo del Portillo. En él se hace referencia a esta institución religioso-benéfica -que habría de perdurar hasta el siglo XIX-, como muy antigua. Esto nos retrotrae si no a los tiempos de dominación musulmana, sí al menos a los años del obispo D. Pedro de Librana, a principios del siglo XII, años en los que el fervor cristiano se manifiesta en nuestra ciudad de forma bien concreta, con la edificación del templo románico del Salvador y el de Santa María, del que aún se conserva un singular tímpano. De estos años data la devoción del pueblo zaragozano a su Virgen y a su templo, al menos de una forma fehaciente y documentada. Devoción que popularmente se llamará de la Virgen del Pilar, aunque oficialmente se titule de Santa María la Mayor. Sin duda alguna, el progresivo aumento de la devoción mariana y pilarista se va traduciendo en la edificación de los sucesivos templos, el románico destruido por un incendio en 1434, el gótico de 1515, "templo suntuoso que hoy gozamos en esta ciudad. Es muy grande y muy capaz, arrimado por el un lado a la santa capilla o al claustro que está delante della, y por el otro a la grande y vistosa plaza que decimos de Nuestra Señora del Pilar" (Blasco de Lanuza).

El templo gótico, ornado con el bellísimo retablo de Forment y con el grandioso coro, de Moreto , Obray y Lobato , fue marco de muchas y espléndidas manifestaciones cultuales y de término de peregrinos que llegaban al Pilar a orar ante la imagen de Santa María y para los cuales existía un hospital, ya desde el siglo XII. Por este templo pasaron multitud de fieles de todos los rangos sociales, venidos de lugares tan distantes como el Japón, con objeto de visitar a la Virgen del Pilar en su "angelical capilla". Es el siglo XVI, siglo señalado por la presencia de ilustres visitantes, papas, cardenales, reyes y nobles de España. Los papas desde Roma van colmando de privilegios al santo templo del Pilar, en el que ven una fuente de espiritualidad cristiana; Paulo IV, en la bula confirmatoria de los privilegios otorgados por sus antecesores al templo, en 1558, dice: "Vobis et Ecclesiae vestrae, quae Ínter coeteras sub vocabulo B. Mariae Ecclesiae, prima B. Mariae de Pilan, nuncupata". Bajo estas concesiones, privilegios y visitas de personajes importantes, late una devoción popular, que lleva a las gentes al templo en busca de socorro, de consuelo, de ayuda y que hace que la capilla donde se venera la imagen de Santa María del Pilar, no permanezca nunca sin fieles devotos y sin luces que iluminen el Pilar. Esta devoción popular que nace del pueblo, que es cerrada en sí misma, que no está impuesta por la clase dominante, como otra lectura de las devociones populares ha hecho creer a algunos, es, sin duda el aspecto más importante de la enorme fuerza y vitalidad de la devoción a la Virgen en su templo zaragozano. Nunca fue, ni lo es, una devoción hecha de exquisiteces cultuales, litúrgicas o teológicas, sino una devoción construida con las lágrimas, las esperanzas y la fe del pueblo. Desde 1640, tras el celebérrimo milagro de Calanda, la devoción a la Virgen del Pilar adquiere caracteres cada vez más vigorosos y más universalistas. En el mundo entero se va conociendo esta devoción singular que evoca no una aparición de la Virgen sino una venida de la propia María cuando aún vive en Jerusalén. Tal es la fuerza y la extensión del culto y devoción al Pilar que el Cabildo de Zaragoza, la Ciudad, los reyes, estiman que es preciso levantar un nuevo templo más capaz y más a tono con los gustos y espíritu triunfal del barroco. En 1681, en el día de la festividad del Apóstol Santiago, se pondrá la primera piedra del suntuoso templo barroco que contemplamos hoy y que en el siglo XVIII se verá completado por el genio de Ventura Rodríguez, al edificar la Santa Capilla, y remodelar la decoración interior. A partir de esta fecha y hasta 1870, en que prácticamente se culmina la totalidad de la arquitectura, a excepción de las dos torres de la ribera, el templo servirá de marco a una devoción cada vez más pujante que el pueblo zaragozano y aragonés estimará como una de las características del alma aragonesa.

Ciertamente ha sido en los tiempos modernos, desde los primeros años del siglo XX, cuando la devoción al Pilar ha venido, ya no tan sólo creciendo, sino purificándose de inevitables adherencias que le restaban, a las veces, pureza teológica y mariana. En 1905, es coronada canónicamente la imagen de la Virgen del Pilar, se crea la Asociación de las Damas de la Corte de Honor y los Caballeros del Pilar, se celebra el Congreso Mariológico internacional de 1908, coincidiendo con el centenario de los Sitios y la devoción al Pilar va adquiriendo más peso, más profundidad teológica, de acuerdo también con una etapa nueva en el progreso y la cultura del país y de Aragón.

La devoción al Pilar de Zaragoza, tiene en la ciudad unas connotaciones por demás bellas y emotivas. En el Pilar se bautizan muchos zaragozanos, se unen en matrimonio cientos de parejas cada año. El Pilar es lugar de cita de muchos enamorados que después de ver a la Virgen continúan sus amores por nuestras calles y nuestras plazas. Al Pilar acuden los estudiantes en las mañanas de junio, cercanos ya los exámenes, y a la tardada acuden los que han convalecido de una enfermedad. Difícilmente puede hallarse en el mundo una devoción religiosa que se encarne en la vida, en los azares, en la existencia, como ésta que se tiene a la Virgen del Pilar, desde hace dos mil años, en Zaragoza.

• El culto a la Virgen del Pilar fuera de Zaragoza:

EN ESPAÑA: La devoción y culto a la Virgen del Pilar, fuera de Zaragoza no comienza a manifestarse de un modo terminante y extenso hasta el siglo XVI. Sin duda alguna la devoción estuvo en cierto modo clausurada hasta este siglo dentro de las murallas zaragozanas y más en concreto, dentro de los límites de la iglesia de Santa María la Mayor. A partir del XVI y sobre todo desde que el milagro obrado en la persona de Miguel Pellicer , crea un ambiente de entusiasmo religioso espectacular, la devoción a María del Pilar, se extiende rapidísimamente por las tierras aragonesas y españolas. En Aragón no existe prácticamente una iglesia parroquial de cierto relieve, o un convento o monasterio que no tenga una capilla o altar dedicado a la Virgen del Pilar. En algunas ocasiones, ocupa el tema central de grandes retablos, como en Tarazona, o sus remates, como ocurre con varios en la comarca de Daroca, que unen el misterio eucarístico de los Corporales, con el tema pilarista.

La devoción al Pilar, se extiende a toda la geografía española, pudiéndose afirmar que a finales del XIX, era rara la catedral española que no tuviera un altar dedicado a la Virgen del Pilar. Iglesias, conventos, colegios, clínicas, hospitales, instituciones de todo tipo, parroquias, barrios, hasta un número difícil de calcular repartidos en toda la geografía española, expresan de modo abrumador hasta qué punto ha calado esta forma de devoción mariana en España. Añádase a esto, el hecho, para muchos sorprendente, que hoy, cuando han pasado determinadas coordenadas sociopolíticas en nuestro país, al parecer más favorables para el nacimiento de estas expresiones religiosas, la devoción al Pilar, en España, sigue creciendo y manteniendo sus peculiaridades y fervor.

-EN EL EXTRANJERO: El culto a la Virgen del Pilar fuera de España adquirió una rápida y extensa difusión a partir de finales del XVI, pudiéndose decir que en el siglo XVII, eran escasas las áreas continentales donde no hubiera una imagen de la Virgen del Pilar. Misioneros, sacerdotes, religiosos, fundadores de congregaciones, personajes españoles, que especialmente en el siglo XVII, recorren el mundo hispánico, evangelizando, comerciando, creando colegios y universidades, santuarios y catedrales, dejan en gran número una imagen de Santa María como voto, recuerdo o testimonio. La influencia de Aragón en Europa, de España en Flandes, de la Iglesia en gran parte del mundo, facilita la expansión realmente universal de la devoción y culto a María bajo la advocación pilarista. De modo muy selectivo, y como muestra de la difusión de la Virgen del Pilar en el mundo, enumeramos algunos nombres donde se le da culto:

-África: Annobón, Anvan (Guinea), Alkararquibis (Marruecos), Asafo (Ghana), Bala (Guinea), Banapa (Guinea), Bátete, Benguela (Angola), Biapa, Cla-ret, Cabo San Juan, Honrubia (Guinea), Jarache (Marruecos), Katanga (Kenya), Ngokua (Guinea), Río Martín, Rubén Gheri (Rwanda), Santa Isabel, Tetuán, Villa Cisneros.

-América Latina: Argentina: Buenos Aires, Córdoba, Corrientes, Chacabuco, Lujan, Mendoza,
Puebla del Pilar, Pilar (Buenos Aires), Rancyo, Río Cuarto (Córdoba), Rosario, San José de la Esquina, San Juan de Cuyo, San Miguel de Paraná, Santiago del Estero, San Fe, Tu-cumán. Bolivia: Cobija, La Paz, Sucre. Chile: Bis Bis, Concepción, Curizo, Linares, Osorno, Puerto Domínguez, San José de Mariquina, Santiago de Chile, Talca, Valparaíso. Colombia: Bogotá, Bu-caramanga, Cartagena, Choco, Dos Caminos, Manizales, Medellín, Monteagu-do, San Andrés, Zaragoza. Costa Rica: Alajuela, Zaragoza de los Perales. Cuba: La Habana, Santiago de Cuba, Vereda Nueva. Ecuador: Guapulo, Quito. El Salvador: San Vicente de Austria, San Vicente de Sorenga. Guatemala: Guatemala, Zaragoza. Méjico: Córdoba, Méjico, Montearagón, Monteagudo, Puebla de los Ángeles, Tacuba, Zaragoza, Xalapa (Veracruz). Panamá: Panamá. Paraguay: Villa del Pilar (Nembucu), Meló, Santa Pola de Asunción, Sarandi Grande. Perú: Arequipa, Cuzco, Huancabanba, Lima, Mocro del Pilar, Ocopa, Puerto Maldo-nado. Puerto Rico: Mayagues, Ponce, Río Piedras, San Juan, Yauco. Santo Domingo: Ciudad Trujillo, La Vega, Las Mercedes, Santo Domingo. Uruguay: Fray Ben-tos (Población de), Meló, Montevideo, Sanrandi Grande. Venezuela: Araure, Acarigua, Barinas, Poblado de Cabimas (Est. Zulio), Caracas, Cubagua (Isla de), Charallabe, Poblado del Pilar (Sucre), Barquisimeto, Los Robles, Machiques, Maracaibo, Margarita (Isla de), Río Claro. Brasil: Antonina (Curativa), Cápela del Pilar (Recife), Goyana, Itamaracá (Pernambuco), Jaquia de Praia (Alago-as), Jetiva (Victoria), Matriz de Gloria (Largo do Machado), Nova Lima (Bello Horizonte), Ouro Fino, Ouro Preto, Olinda, Pericuara (Sergipe), Pitanguy, Río de Janeiro, San José de Tocantis, San Juan del Rey (Minas), San Pablo, San Salvador (Bahía de),Taubaté.

-Norteamérica: Chicago, Nueva York, Santa Ana (California), Waco (Texas).

-Filipinas: Baguio, Baleno, Bulalacao, Cayagán (Isabela), Delemiro (Poblado de), Imis, Isabela, Jamaba, Libonga, Lipa, Mabulao (Mindoro), Mampona (Negras), Manila, Mila, Mina, Pilar (Sorsogbn), Pamplona, Prhan, San Fernando, Santa Teresa, Sibonga (Cebú), Sierrabullones (Bool), Sumigao (Mindanao), Tabularán, Tuguerao (Canayán), Villaviciosa, Vitali, Zamboanga.

-India: Ahmedabad (Misión de), Anand, Bombay, Goa, Malabar, Nadiad, Puttemplay (Malabar), Vinalaya.

-Indochina: Bui-Chu, Nghia-Chinh.

-Japón: Hiroshima, Imabari (I. Shikoku), Sophia, Tokio.

-Israel: Jerusalén.

-Europa: Alemania: Colonia, Fontilles (Colonia). Austria: Viena, Stams (Tirol). Bélgica: Hay, Santiago de Namur. Francia: Aube, Béziers, Biran, Bourdeaux, Colombey, Chamberley, Chartres, Lourdes, Montpellier, París, Pau, Pompierre de Lorena, Toulouse, Vital, Le Havre. Holanda: Rotterdam. Inglaterra: Londres. Italia: Bolonia, Catania, Firenza, Genova, Mesina, Napóles, Palermo, Parma, Reggio Calabria, Roma. Noruega: Oslo. Polonia: Czestochowa. Portugal: Braga, Braganza, Cortisada, Janhoso, Lisboa, Oporto, Toman. Suiza: Ginebra, Interlaken, Lucerna.

-LAS PEREGRINACIONES AL PILAR: Nada tiene de extraño que un santuario tan vivo como el del Pilar haya sido lugar de peregrinaciones desde tiempos muy remotos. Peregrinos ilustres de cuyo viaje y estancia en Zaragoza existen pruebas documentales fueron: el cardenal Ascoli, luego Papa Nicolás IV, 1299. San Vicente Ferrer, 1433. Doña Blanca de Navarra, 1410. Los Reyes Católicos, como peregrinos, 1481. El cardenal Mendoza, 1488. Carlos 1,1518. El Papa Adriano VI, 1522. Felipe II, 1582. San Luis Gonzaga, 1585. Los príncipes japoneses y su séquito, 1598, Hombres de iglesia, nobles y príncipes, únicos a los que les era permitido el lujo de viajar, visitaron el templo del Pilar a lo largo de los tiempos. Al llegar épocas más recientes, especialmente a partir de finales del siglo XIX, los peregrinos, ya con una tímida organización acuden al Pilar, de modo creciente. Es a partir de 1905, con motivo de la coronación canónica de la imagen de la Virgen del Pilar, cuando Zaragoza se va a ver permanentemente visitada por grupos de peregrinos que por todos los medios de transporte acudirán al Pilar, desde todos los puntos de España y del mundo. Las peregrinaciones marianas a Zaragoza, alcanzarán su punto álgido en dos ocasiones más recientes: con motivo de celebrarse el XIX centenario de la Venida de la Virgen, en 1940, en que España, realmente convulsionada tras tres años dramáticos de guerra civil, se volcó material y espiritualmente en el Pilar de Zaragoza, en un año singular para la vida del templo, y en 1979, con ocasión de celebrarse por disposición del Papa Pablo VI los Congresos Internacionales VIII Mariológico y XV Mariano, acontecimiento que congregó en Zaragoza a centenares de prelados y teólogos y a millares de peregrinos de toda España y de veintiocho naciones.

En Zaragoza, en la plaza del Pilar, nº20, funciona una Oficina de Peregrinaciones Marianas, para atender y acoger a los peregrinos que llegan al Pilar y que en cifras más bien minimizadas se aproximan a los dos millones de personas al año, sin contar naturalmente, las personas que visitan privadamente la basílica, los grupos de turistas que acuden al templo como una etapa de su itinerario, o los visitantes anuales de Aragón y de Zaragoza, que en forma de minúscula pero permanente peregrinación acuden al Pilar en número superior a los diez millones de personas por año.

• Arte:

En el lugar que la tradición asigna a la venida de Nuestra Señora del Pilar, se dice hubo una modesta capilla de adobe, que, seguramente, fue sustituida por una iglesia de estilo imperial-cristiano y que debió de ser reformada en varias ocasiones, pues, aun cuando se afirma que el culto no se interrumpió durante la dominación musulmana, parece que cuando Zaragoza fue reconquistada por los cristianos, estaba casi destruida y don Pedro de Librana la reconstruyó en el estilo cristiano europeo del momento, o sea el románico. De entonces queda un tímpano incrustado sobre el muro del templo que da hacia la plaza.

La iglesia románica sufrió ampliaciones y retoques hasta que un incendio la destruyó en 1434, y fue después cuando se edificó, todavía dentro de la tradición gótica y seguramente con tono mudéjar, la iglesia de Santa María la Mayor, cuyo aspecto se conoce bastante bien, pues se la describió por extenso en un documento de 1668, antes de demolerla para construir la iglesia que subsiste. Esta iglesia de Santa María ocupaba un solar más bien pequeño, cuya cabecera estaba donde ahora la capilla de San Juan; el ingreso principal sobre la plaza, era lateral y hacia el lado del río estaba el claustro, en el cual, entre otras capillas, la del Santo Pilar, justamente en el mismo lugar en que ahora están pilar e imagen. El edificio era indudablemente de ladrillo y de un estilo gótico mudéjar que además,por la disposición de planta y estructura, había de ser muy parecido al conjunto de la iglesia de San Pablo.

De aquella iglesia se han salvado elementos y obras artísticas importantes, unos todavía visibles en el templo actual, otros guardados en sacristías y museo. Entre esos elementos recordamos las preciosas puertas mudéjares que están en la sacristía mayor. También los fragmentos de retablo en alabastro, ahora en el claustro de San Carlos Borroneo. Muy importantes son las tres grandes sargas con la representación de la Venida y milagros de la Virgen, sin duda obras importantes en la pintura de la época en Aragón. Pero indudablemente las piezas capitales heredadas por el actual templo del Pilar son el gran retablo mayor, de Forment, obra grandiosa y de máxima importancia, y la sillería del coro, que es posiblemente una de las más espectaculares de cuantas se conservan en España, tanto por su riqueza escultórica y decorativa, como por la amplitud de su distribución en tres gradas. El conjunto se trabajó de 1544 a 1548 y la contrató para su ejecución el escultor Esteban de Obray, que tuvo como colaboradores a Juan Moreto y Nicolás Lobato. En la decoración alternan las tallas y labores de marquetería en maderas policromas; la decisión estilística renacentista e italianizante está bien claramente definida y es todavía difícil la adjudicación de intervenciones entre los coautores, ya que las puntualizaciones que habitualmente se repiten no me parecen demasiado ajustadas y no hay posibilidad de adjudicara un mismo autor unos relieves u otros, entre los cuales los hay más goticistas, frente a los que llegan hasta lo manierista -como la Resurrección de Cristo o la Piedad, ésta muy dramática de ejecución, más amplia y vigorosa y donde el italianismo y aun lo miguelangelesco están presentes. Moreto debió de llevar parte importante en la ejecución no sólo de lo decorativo, sino también en la realización de los relieves.

Procede también de la vieja iglesia la caja de órgano antigua, que en la última reforma del templo se amplió imitando su estilo. En cuanto a la reja de cerramiento del coro, es también la antigua, hecha en 1574 por Tomás Celma, pero reformada y completada con figuras al colocarla en el coro de la nueva iglesia.

Sin embargo, en la Historia del Arte Hispánico, en las pp. 160 y 161 del tomo IV, el marqués de Lozoya dice: "esta catedral inmensa, uno de los edificios más representativos del genio español de su tiempo... es... una de las creaciones más bellas de la arquitectura española". En estas pocas palabras caracteriza y valora este monumento reiteradamente incomprendido al cual, por otra parte, no han ayudado sus sucesivos remodelados y restauraciones.

A pesar de su aparente unidad es una sucesión de reajustes e intercambios entre proyectos e ideas diferentes, sujetos a reelaboración por distintos autores y en distintos momentos y épocas. Monumento singularísimo y magnífico, de dimensiones grandiosas, al que sólo empobrece el material en que está construido: ladrillo a cara vista en el exterior y estucos en el interior. Encontramos en él armonía de proporciones, gran amplitud espacial, severo ritmo de estructuras y, en resumen, gran claridad de disposición. Pero también contrastes decorativos, originalidad y pintoresquismo de masas y elementos, "capricho", aliado a monumentalidad.

Se ha reiterado su similitud de planta con la catedral de Valladolid, cosa que resulta aparentemente bastante clara, pero más que ese modelo directo hay que rebuscarlo en otras raíces. Ya en la iglesia vieja, al imaginar su gran retablo, se quiso emular y superar al de la catedral de La Seo y, ahora, al renovar la iglesia, que los devotos encuentran pequeña y envejecida, sin duda se quiere también emular y superar a la catedral dándole una disposición similar. Era ése el modelo del que se debía partir. Hay en el Pilar la misma disposición cuadriculada, análoga elevación entre las diferentes naves y la estructura general de un gran salón, encajado dentro de un cinturón de capillas entre contrafuertes. En una palabra: como si se quisiese hacer una versión moderna de la vieja catedral gótica. Pero aun partiendo y aceptándolo, el arranque de la catedral gótica, se llegó a la solución a través de complejos y lejanos caminos, en los que podría encontrarse una raíz oriental. Nos encontraríamos ante la nueva interpretación de una gran sala-mezquita, en disposición cuadriculada, con apoyos sosteniendo estructuras semiesféricas, todo de disposición claramente oriental, con raigambre bizanti-noide, que se acusará no sólo en la disposición y estructura, sino también en su silueta, que llegará a ser, con inusitada originalidad, detalle que caracterizará el personalismo paisajístico de la estampa urbana de la ciudad.

El templo actual ha ido surgiendo a través de muchos años, entre hundimientos, modificaciones, paros de obra por escaseces económicas o circunstancias políticas, y pasó a ser frase popular hablar de la "obra del Pilar" como algo interminable. Por eso no puede hablarse de un autor único, como habitualmente se hace, sino que es necesario ir analizando y conociendo el proceso de evolución de la obra y la intervención de sus diferentes artífices. Ni siquiera estamos aquí ante una obra proyectada por un artista y realizada después por otros ajustándose al proyecto original. En el Pilar encontramos varios nombres fundamentales, cuya obra de creación se interferirá, completará y desarrollará lo imaginado anteriormente, o lo reinterpretará dándole nueva orientación y personalidad. Esa marcha de la creación arquitectónica de la basílica del Pilar es lo que vamos a ver a continuación.

Es necesario partir de la evidencia de que la iglesia se había quedado pequeña en los momentos de la contrarreforma y ante la creciente devoción popular hacia Nuestra Señora del Pilar. Fue un devoto zaragozano, Juan de Marca, quien antes de 1638 promovió una decidida campaña pro construcción de templo nuevo e, incluso, fue acopiando materiales en la orilla del Ebro, junto a la vieja iglesia. El Cabildo prefirió mantenerse al margen en principio, pero luego pensó que tal como estaba el clima popular, aceptaba la dirección de las obras y la colaboración de los fieles. Era el año 1674.

Para encauzar la cuestión el Cabildo abrió un concurso de proyectos. Entre ellos uno de Andrés García recordaba claramente el templo de La Seo en su trazado y diseño de elementos, arcos y bóvedas, pero en cambio el de Felipe Sánchez era más decididamente moderno. Y éste fue el aceptado. Es, pues, Felipe Sánchez y no otro el inventor del arranque de la disposición en planta de la actual iglesia del Pilar. Se suele atribuir esa invención a Francisco de Herrera, pero es necesario matizar este aspecto. El Cabildo y la ciudad necesitaban de la aprobación regia, tanto por dignidad como por economía, y fue el rey quien designó como "maestro" de la obra a Francisco de Herrera, que vino a la ciudad engreído por la designación real. Fue en 1679 cuando Herrera llegó a Zaragoza y su estancia en la ciudad debió de ser bastante ingrata y confusa; las discusiones fueron continuas con el Cabildo y los maestros constructores zaragozanos. En definitiva, Herrera se limitó a reajustar el proyecto de Felipe Sánchez y su alzado y cambió de colocación la cúpula principal, pero respetó, prácticamente, toda la disposición de la planta con sus tres grandes naves, divididas en tramos, sobre pilares, tal como es aún la estructura sustentante actual. La primera piedra del nuevo edificio, que se construía hacia los pies de la vieja iglesia y sin demoler todavía ésta, fue colocada en el verano de 1681. Herrera volvió a Madrid muy pronto y Felipe Sánchez fue construyendo el edificio. Comienzan las diversas incidencias, alteraciones y paros de la obra, que va pasando por otras manos y alargándose en el tiempo.

Después de iniciadas las bóvedas de cañón que habrían de cubrir las larguísimas naves, se pudo apreciar la evidente monotonía del conjunto y quizás su poca esbeltez. Por ello el conde de Peralada dirige un escrito al Cabildo en octubre de 1725, en que propone una idea genial para resolver el sistema de techumbres. El conde de Peralada, que seguramente estaba orientado y quizás instigado por don Domingo Yarza, que era entonces artífice de la fábrica, propone la solución de la techumbre mediante cúpulas, tal como hoy la vemos. Se suprimieron lasbóvedas y se empezaron a construir nuevas medias naranjas en 1728. Cuando en 1730 se construyó la media naranja que cubre la Santa Capilla, se pudo pensar en la renovación de ese santo lugar, sin duda muy avejentado en aquel momento. Y entonces el Cabildo pide nueva ayuda económica y direccional a Madrid y, como consecuencia de esa petición, el rey Fernando VI envía a Ventura Rodríguez, que llegará a Zaragoza el 15-XII-1750.

Ventura Rodríguez encuentra el templo en situación un tanto caótica y no se limita al planteamiento de la nueva capilla de la Virgen, sino que llevó su trabajo de proyectista mucho más lejos, enfocando la reestructuración y coordinación de los distintos elementos del templo, llevándole sus propios gustos a una modificación total de la decoración interior y de la composición general del monumento. Es él, decididamente, quien implanta el aspecto que actualmente ofrece el Pilar. Se monda la decoración y se sustituyen muchos de sus elementos; se hace más sobria, menos recargada; es interesante ver un dibujo de don Ventura en el que nos presenta uno de los pilares tal como eran en el templo de Felipe Sánchez y Francisco Herrera, análogos, salvo el tamaño, a los que todavía pueden verse en la iglesia del Portillo de Zaragoza, y en el mismo dibujo presenta la decoración que él propone para los pilares, que se mantuvo hasta la última restauración en que todavía fueron más simplificados. Proyecta también las torres para los ángulos y las fachadas del monumento, dando así unidad al conjunto. Está bien claro, pues, el concepto total de la reforma de Ventura Rodríguez. Incluso abundando en ese mismo sentido total, el arquitecto planea un cambio del espacio de la nave central, retirando el retablo mayor de Forment, dejando diáfano el hueco ente los pilares que lo encuadran, para utilizar como retablo mayor el reverso de la Santa Capilla y se suprime también el coro colocado en el centro, para disponer sus sillas en torno a la exenta mesa de altar. Toda esta ambiciosa transformación está expuesta claramente en la maqueta conservada en el museo del templo; pero no debió de ser del agrado del Cabildo ni de los arquitectos que sucesivamente trabajaron allí, puesto que han llegado hasta nosotros el retablo y el coro en disposición conforme al sistema anterior. Tampoco fueron realizadas las fachadas del templo, proyectadas por don Ventura y sobre las cuales se ha imaginado, hasta cierto punto, el enriquecimiento de los severos muros de ladrillo, en la fachada que da a la plaza.

También imaginó las torres que habían de alzarse en los ángulos del templo, con lo cual se completaba el gran juego dinámico y polícromo de las cúpulas, once en total, en grupos de cinco, a los dos lados de la mayor, cubierta ésta por plancha metálica, pero las otras con tejados cerámicos policromos. Con todo eso se ve la importancia concedida a la silueta exterior del templo, que en sus cuatro ángulos alzaba sencillas partes bajas para cuatro torres, imaginadas por Ventura Rodríguez como gráciles y bajas, dinámicas, que encuadraban y limitaban el conjunto de las cúpulas, pero no restaban monumentalidad al predominio de la gran cúpula central y, así, sutiles masas y líneas en sube y baja, di-namizaban en forma irradiante el monumento, nuclearmente central y apiramidada. En definitiva una idea análoga a las de las stupas indias, en pura coincidencia ideológico-estética con monumentos occidentales como la cabecera de San Pedro de Roma.

Pero Ventura Rodríguez no sólo va a ser quien imprime su concepto actual al Pilar, sino que es, además, el autor de su parte sustancial: el tabernáculo o Santa Capilla. El camarín antiguo de la imagen se conservó en espera de su adaptación al nuevo templo y el arquitecto estudiará los problemas que plantea esa capilla y presentará la maqueta a que antes hice referencia. Aceptada, las obras se iniciaron en 1754 para concluirse en 1765. Rodríguez partió para su invención del barroco romano; no hay duda de que están claramente en su mente las soluciones, espacios y decoración de San Andrés del Quirinal y Santa María de las Victorias de Bernini, a los que complementa con ciertas ideas más dieciochescas, como por ejemplo los recortes o perforaciones del techo. Pero no cabe duda que complica la estructura con una disposición orientalizante, donde de nuevo encontramos lo bizantinoide y el recuerdo de Santa Sofía: La disposición del espacio se hará en forma de una cúpula oval sostenida y contrarrestada por cuatro cuartos de naranja, que dan a la capilla cierta disposición cruciforme de extremos redondeados, concepto éste que, dada la transparencia de los ingresos y lo perforado de la techumbre, consigue una disposición abierta y evanescente, centrada y con frontis, a la par dinámica y caprichosa sin dejar de ser clasicista. El realizador de la obra será José Ramírez, con su equipo, tanto para la construcción como para el decorado. El jaspe rojizo será el material seleccionado para muros y elementos sustentantes, completándose con bronce dorado en basas y capiteles; el mármol blanco se utilizará en las esculturas y relieves y en las partes altas para darle menos pesantez y más dinamismo, se sustituirá por estucos y madera imitando mármol. El conjunto es singularmente afortunado y una de las más hermosas obras de esa época en España.

Ese templete de la Santa Capilla se inscribe llenándolo, en el espacio del segundo tramo de la nave central, incrustándose entre los cuatro grandes pilares que sostienen la cúpula. Tres pórticos curvos, con entablamentos y frontones por el frontis y costados, le dan entrada y queda cerrado el muro frontero, que imita o repite sobre el muro opaco, la disposición columnaria del pórtico frontal y de entrada principal. Así ese muro que juega con la repetición de la estructura por-ticada es el que acoge los altares y logra la más original solución de la capilla, pues indudablemente el problema más grave que se le planteaba al arquitecto era el de resolver el lugar en que quedase encajada la venerada imagen, que no había que pensar en cambiar de lugar y aun cuando Rodríguez se dio cuenta de que esta imagen había sido equivocadamente girada, supo resolver muy bien el problema, colocándola en un altar lateral, que emparejaba con otro en el otro extremo y ambos flanqueaban el gran altar y grupo central. Así se organizaba, entre el altar lateral de la izquierda con el grupo de "convertidos" y el de la derecha con la santa imagen, el gran grupo espectacular, en el centro, de la Venida de María, realizada en mármol blanco sobre resplandores de bronce dorado, de manera que las figuras se inscriben aéreamente, avanzando hacia el contemplador, por entre las columnas adosadas de la estructura y queda en plano de altura y profundidad completamente distinto al de los altares laterales, dando al conjunto una dinámica espacial muy teatral, típicamente barroca. Para mejor enlace la Virgen vuelve su rostro hacia el altar de "convertidos", mientras su brazo indicador se mueve en dirección opuesta, señalando la imagen del Pilar; así, hábilmente, toda esta imaginería y decoración queda profundamente enlazada y trabada en un todo plástico único de arquitectura, escultura y decoración.

El autor de esos grupos escultóricos fue José Ramírez, realizando los medallones de la capilla sus colaboradores y el otro gran medallón de la parte posterior -elque había de servir según Rodríguez de altar mayor- es la obra monumental y noble de Carlos Salas.

La labor de Ventura Rodríguez está muy minuciosamente pensada y severamente diseñados todos sus detalles, puertas (practicables unas, simuladas otras),medallones, etc. La capilla tiene techumbre propia, que acusa sus formas estructurales, pero todo ello enriquecido por vaporosos relieves de nubes y grupos angélicos, por entre los que escapan molduras y paramentos y, como esta techumbre quedaba interior, se pudo jugar con una irradiación y taladro de sus elementos, perforándola con huecos curvilíneos, animadamente recortados y en que las volutas de las molduras se enroscan, dejando ver a través de esos vanos el gran espacio superior y las luminosas pinturas de la cúpula, que, por su entonación clara, se perciben como ramalazos de luz y espacio abierto.

Mientras se iba realizando la construcción y reformas del templo, tomaban forma provisional o definitiva algunas de sus capillas, entre las que forzoso es destacar la dedicada a San Antonio de Pa-dua, que es un conjunto barroco muy completo que engarza armoniosamente muros laterales y retablo, escultura y decoración, y en que también interviene el taller de José Ramírez y que, seguramente, fue quien planeó el conjunto. Imágenes destacables, pinturas y trípticos de indudable importancia, enriquecen el templo o se cobijan en las sacristías, solemne la mayor, pero muy acertada y armoniosa la llamada sacristía de la Virgen, estancia cuadrada de no muy grande planta que fue planeada también por Ventura Rodríguez.

Otro ambicioso empeño fue la decoración de los techos, mediante grandes composiciones pictóricas, como era normal en una obra de esta época y estilo. Pero la magnitud de la obra hizo que sólo una parte se haya decorado. Sobre la Santa Capilla están las hermosas pinturas de Antonio González Velázquez; pero después, Bayeu y sus seguidores iban a recibir encargo de decorar todos los techos en torno a la Santa Capilla. Mejores las de Francisco Bayeu que las de Ramón, pero indudablemente importantes todas ellas, si no fuesen ensombrecidas por la proximidad de la gran cúpula dedicada a María como Reina de los Mártires y la Adoración del nombre de Dios sobre la bóveda del Coreto, ambas composiciones realizadas por Goya .

Cuando Ventura Rodríguez terminaba su reforma y la Santa Capilla, todavía quedaban muchas cosas por añadir y así por ejemplo, en la década de 1860-70, se construirá la última gran cúpula, central, que se cubrió en su exterior con metal y fue decorada en su interior por varios pintores importantes del momento: Bernardino Montañés , Marcelino de Unceta , Abadías, Pescador y Lana.

Quedaba finalmente por resolver el problema de las torres; de las cuatro sólo una estaba, en parte, construida. Saltando por encima de la interpretación de Ventura Rodríguez, esa torre, ya iniciada, se esbeltizó y fue rematada con un chapitel de fundición, proyectado por Ricardo Magdalena. A imitación de ella se construyó una segunda por don José de Yarza y posteriormente se han alzado las otras dos que van en la parte del río, con cuyo conjunto, si bien se ha caracterizado la silueta del templo, ha cambiado sus valores volumétricos, al quedar el conjunto del edificio y cúpulas como hundido y dominado por la considerable altura de las cuatro torres de los ángulos, que han dado lugar a opiniones muy variadas y en algún caso humorísticas.

Ahora la atención de quien mira la fachada de la plaza se centra sobre un monumental retablo, obra importante del escultor Pablo Serrano , que hace en él una interpretación escultórica moderna del tema de la Aparición de la Virgen del Pilar.

• Bibliogr.: USÓN GARCÍA, Ricardo: La intervención de Ventura Rodríguez en el Pilar, Z., Colegio Oficial de Arquiectos, 1990.

• Música:

Se puede intuir la aportación de la música a la singular vida y actualidad de la iglesia del Pilar en los primeros siglos de su existencia, pero, por hoy, los primeros datos musicales que de la misma conocemos son del siglo XV, y corresponden a la construcción de unos nuevos órganos, y a las actividades musicales de algún canónigo, cosa no extraña en el Medievo, que se extienden hasta comienzos del siglo XVI. A partir de este momento los datos musicales proliferan: Maestros de Capilla : Juan García de Basurto , Melchor Robledo , Antón Vergara, Cristóbal Cortés en el siglo XVI, y al final del mismo Juan Pujol; en la segunda mitad del siglo XVII, Urbán de Vargas, Juan Marqués, José Ruiz Samaniego, José Alonso Torices, Juan Pérez Roldán, Diego de Cáseda y Zaldívar , Jerónimo Latorre, Miguel Ambiela; ya en el siglo XVIII, Joaquín Martínez de la Roca, Luis Serra, Bernardo Miralles, Cayetano Echevarría, Joaquín Lázaro, Manuel Álvarez, José Gil de Palomar y Vicente Fernández; en el XIX, Hilario Prádanos, Antonio Lozano y Francisco Agüeras; en el presente destacamos a Gregorio Arciniega.

Junto a los maestros de capilla, los organistas de la misma: en el siglo XVI, mosén Montaña, Pedro Ricardo, Martín Monje, muy famoso éste, y Juan Marco; en el XVII, Pedro Blasco, Juan Luis Lope, José Muniesa, Diego Xaraba y Bruna , Jerónimo Latorre y Joaquín Martínez de la Roca; en el XVIII, Tomás Soriano, Ramón Cuéllar ; en el XIX, Ramón Ferreñac y Valentín Melón; y en el XX, Francisco Agüeras y Gregorio Garcés Til.

El primer órgano que conocemos en esta iglesia es el construido en 1463 por el alemán Enrique de Colonia, tomado como modelo para el de la catedral de Huesca. Un nuevo órgano construirá, en 1537, Martín de Córdoba, que había de ser de "un ala tal como el que tiene en La Seo de Zaragoza, que fue del Arzobispo Don Alonso". Hernando de Córdoba "adreza" el órgano mayor y el de la claustra de esta iglesia. El famoso Guillaume de Lupe rehace dicho órgano mayor en 1595 conforme a los adelantos de la organería que había puesto en práctica en su reforma del órgano mayor de La Seo en 1577. Su hijo Gaudioso de Lupe trabaja en el mismo en 1602. Pero es la documentación "sobre la limpia del órgano" que hiciera, en 1657, José Sesma la que nos muestra la riqueza de diferentes órganos acumulados en esta iglesia: el órgano mayor, uno de un ala junto al mayor (tal vez el de Martín de Córdoba),una cadereta pegada a la baranda del órgano grande, y el mencionado de la claustra, además de algún otro colocado en algunas capillas de la iglesia. Damos un salto enorme hasta 1868 para constatar un trabajo de importancia del famoso organero Pedro Roques; órgano que, en las obras de consolidación del Pilar en los años 40, al cambiar la posición lateral izquierda del órgano mayor, encima del coro, y colocarlo al fondo de la nave central, se perdió por completo, siendo sustituido por uno nuevo de transmisión eléctrica construido por las casas Dourte y Organería Española. Respecto del órgano de la citada claustra, Gaudioso de Lupe construyó uno nuevo en 1610. Al ser reformada totalmente toda la iglesia se colocó uno nuevo en 1720 construido por Bartholomé Sánchez. Un órgano clásico, probablemente de Roques, fue llevado a Valencia para colocar en su lugar uno nuevo moderno.

Destacaremos en este panorama musical de la iglesia del Pilar sus ministriles polifónicos, conocidos desde 1574, si bien, por lo menos el bajón sonaba junto a las voces de la capilla de música desde hacía tiempo. En la fecha indicada se nos habla ya de los instrumentos "tenor" y "contrabajón". Los primeros, ministriles conocidos de la iglesia son Juan de Montoya y su hijo, que venían actuando en la ciudad por lo menos desde 1541. Una formación de ministriles polifónicos se comprometerá poco más tarde a servir con sus sones al Concejo de la ciudad, a la Diputación del Reino y a la iglesia del Pilar. Sus actuaciones eran continuamente elogiadas. Entre tantos músicos instrumentistas, hay que citar por lo menos a "los Clarnudis" Pedro, Juar; y Bernabé, a Melchor Rey y Andrés Brun. Los ministriles evolucionaron hacia las pequeñas y grandes orquestas que sirvieron a la polifonía sinfónica de los siglos XIX y comienzos del XX; tema todavía por estudiar.

El archivo musical conjunto de La Seo y del Pilar, perfectamente catalogado, que espera su publicación, da fe de la riqueza de la historia musical de esta iglesia. Para terminar subrayamos un aspecto musical que destaca en este templo: la iconografía musical con variada y espléndida representación: el retablo de Forment muestra en la parte central dos figuras musicales muy expresivas y esconde en los basamentos de su banco otras dos de gran belleza. La talla del coro, del siglo XVI, recoge numerosas tallas y bajorrelieves de gran riqueza musicológica, dentro del estilo neoclásico de sus figuras y representaciones. Goya en la extraordinaria alegoría de la Divinidad en la techumbre del coreto, ha dejado un conjunto de ángeles músicos de gran belleza. En la reconstrucción en el siglo XVIII de lo que hoy llamamos Santa Capilla, A. González Velázquez pinta al fresco diversas figuras musicales en su cúpula, mientras que para los medallones y pechinas de la cubierta interior Juan de León y José Ramírez labran putti y ángeles músicos de gran factura. También en la bóveda de la capilla lateral, dedicada a San Lorenzo, dejó Francisco Plano, en 1718, diversas figuras musicales. Y rematando toda esta rica iconografía musical, Ramón Stolz pintó en 1956 un grandioso fresco encima del actual coro mayor, representando el homenaje de la Música a la Divinidad, con numerosas y grandiosas figuras musicales.

• Bibliog.: CALAHORRA MARTÍNEZ, R: La Música en Zaragoza en los siglos XVI y XVII. II. Polifonistas. Ministriles; Institución "Fernando el Católico", Zaragoza, 1978. BOLOQUI LARRAYA, Belén: "Instrumentos musicales en la decoración escultórica de la Santa Capilla del Pilar de Zaragoza"; en Estado actual de los estudios sobre Aragón, vol. I, Huesca, diciembre 1979. Archivo Musical de la Santísima Virgen del Pilar; Selección de R. Borobia, Zaragoza, 1940.

• Bibliog.: MURILLO, D.: Fundación milagrosa de la Capilla Angélica; Barcelona, 1616. LÓPEZ, L.: Pilar de Zaragoza columna firmísima de la fe de España; Alcalá, 1649. FUERTES DE BIOTA, A.: Historia de Nuestra Señora del Pilar; Bruselas, 1656. AMADA, J. F. de: Compendio de los milagros de Nuestra Señora del Pilar; Zaragoza, 1680. Relación de la festiva celebridad con que se colocó la primera piedra en la nueva Fábrica del Templo de Nuestra Señora del Pilar; Zaragoza, 1681. URQUIOLA, L.: Sagrada Columna de España; Zaragoza, 1714. ARBIOL, A.: España feliz por la milagrosa venida de la Reina de los Ángeles; Zaragoza, 1718. HEBRERA, J. A.: Descripción histórico-panegírica de las demonstraciones festivas en la translación del Santísimo al nuevo gran templo de Nuestra Señora del Pilar; Zaragoza, 1719. ESCUDER, J. E: Relación histórica de las fiestas que Zaragoza dispuso con motivo del decreto de Inocencio XIII en que concede el oficio propio de Nuestra Señora del Pilar; Zaragoza, 1723. ARANAZ, J. de: El cetro de la fe ortodoxa; María Santísima en su templo angélico; Zaragoza, 1723. ARAMBURU, M. V.: Historia cronológica de la Capilla de Nuestra Señora del Pilar; Zaragoza, 1766. ZARAGOZA. L. de: Apología de la venida de Santiago a España y de la aparición a éste en Zaragoza de María Santísima; Pamplona, 1782. Nou-GUÉS Y SECAI.L, M.: Historia crítica y apologética de la Virgen del Pilar de Zaragoza; Madrid, 1862. MULLE DE LA CERDA, G.: El Templo del Pilar; Zaragoza, 1872. GASQUE Y VIDAL, E.: Crónica de las fiestas que ha celebrado Zaragoza en 1872 con motivo de la consagración de la Basílica del Pilar; Zaragoza, 1873. La Virgen del Pilar y su Templo, Crónica oficial de las nuevas obras; Zaragoza, 1902. FITA, E: "El Templo del Pilar y San Braulio de Zaragoza"; Boletín de la Real Academia de la Historia, 44 (1904), pp. 437 y ss. Álbum poético de la Virgen Santísima del Pilar; Zaragoza, 1908. GARCÍA VILLADA, Z.: Historia Eclesiástica de España; 1.1, Madrid, 1929, pp. 67-79. PÉREZ, N.: Apuntes históricos de la devoción a Nuestra Señora del Pilar; Zaragoza, 1930. AÍNA NAVAL, L.: El Pilar. La Tradición y la Historia; Zaragoza, 1939. GA-LINDO ROMEO, R: La Virgen del Pilar y España; Zaragoza, 1940. GASCÓN DE GOTOR, A.: El arte en el Templo del Pilar; Zaragoza, 1940. DEL ARCO, R.: El Templo de Nuestra Señora del Pilar en la Edad Media; Zaragoza, 1945. ABBAD RÍOS, E: La Seo y el Pilar de Zaragoza; s.l.s.a. DOMÉNECH Y VALLS, R.: La Virgen del Pilar; Zaragoza, 1955. CANTERA ORIVE, J.: La Virgen Santísima del Pilar, Bilbao, 1958. AÍNA NAVAL, L.: La Virgen del Pilar. Historia breve de su culto y templo; Zaragoza, 1969. TORRALBA SORIANO, E: El Pilar de Zaragoza; León, 1974. GRACIA GIMENO, J. A.: El Pilar. Historia, Arte, Espíritu; Zaragoza, 1978. GUTIÉRREZ LASANTA, E: Historia de la Virgen del Pilar; 8 vols., Zaragoza, 1971-79.

Fonte: Gran enciclopedia aragonesa (http://www.enciclopedia-aragonesa.com/voz.asp?voz_id=10191)

Holuxar
12-10-18, 23:43
12 OTTOBRE 2018: SAN SERAFINO, CONFESSORE; NOSTRA SIGNORA BEATA VERGINE MARIA SANTISSIMA DEL PILAR, REGINA DELLA HISPANIDAD…



«QUARTO ABEUNTE SAECULO.
EPISTOLA ENCICLICA
S. S. LEONE XIII
Ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi di Spagna, d’Italia e delle Americhe.
Il Papa Leone XIII. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione. (...)»
https://w2.vatican.va/content/leo-xiii/it/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_16071892_quarto-abeunte-saeculo.html



https://www.agerecontra.it/2018/10/colombo-e-uomo-nostro/


?Colombo è uomo nostro? - Centro Studi Giuseppe Federici (http://www.centrostudifederici.org/cristoforo-colombo-uomo-nostro/)
http://www.centrostudifederici.org/cristoforo-colombo-uomo-nostro/
«Centro studi Giuseppe Federici – Per una nuova insorgenza Comunicato n. 77/18 del 12 ottobre 2018, Nostra Signora del Pilar.
“Colombo è uomo nostro” Enciclica “Quarto Abeunte Saeculo” di Leone XIII, 16 luglio 1892.»
http://www.centrostudifederici.org/wp-content/uploads/2018/10/1010chriscolumbus01.jpg


Ottobre , mese del Santo Rosario - Centro Studi Giuseppe Federici (http://www.centrostudifederici.org/ottobre-mese-del-santo-rosario/)
http://www.centrostudifederici.org/ottobre-mese-del-santo-rosario/




San Serafino - Sodalitium (http://www.sodalitium.biz/san-serafino/)
http://www.sodalitium.biz/san-serafino/
“12 ottobre, San Serafino Confessore (Montegranaro, 1540 – Ascoli Piceno, 12 ottobre 1604).
“Ad Ascoli, nel Piceno, san Serafino Confessore, dell’Ordine dei Minori Cappuccini, illustre per la santità della vita e per l’umiltà. Dal Sommo Pontefice Clemente decimoterzo fu ascritto nel catalogo dei Santi”.
«Via, state cheto, state cheto, santino, perché non sono stato io, ma è stato questo Cristo e la tua fede che ti ha guarito! (E a chi lo mortificava): Ah, santino, santino, ti sia dato un pan bianco. Foss’io degno del purgatorio! Io son peccatore. Non ho nulla: ho soltanto il crocifisso e la corona; ma con questi spero di giovare ai frati e di farmi santo!»”
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http://tradidiaccepi.blogspot.com/

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«Sancti et Sanctae Dei, orate pro nobis.»
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“NOSTRA SIGNORA BEATA VERGINE MARIA SANTISSIMA DEL PILAR, REGINA DELLA HISPANIDAD
Doppio di I classe.
Paramenti bianchi.
Il Martirologio Romano oggi ricorda: «Cæsaraugustæ in Hispania Citeriori Tarraconensi (hodie Aragonia Hispaniæ), festum beatæ Mariæ Virginis de Columna, cœlestis apud Deum Hispaniarum patronæ, quae dum esset adhuc in via ex Epheso illic advenit ad Iacobum Maiorem Apostolum visitandum eiusque animum roborandum in Hispania evangelizanda. - A Saragozza nella Spagna Tarragonese (oggi Aragona di Spagna), la festa della Madonna del Pilar, patrona celeste delle Spagne, la quale, essendo ancora nello stato di viatrice, vi venne da Efeso per visitare l’Apostolo Giacomo il Maggiore e confortare il suo animo nell’opera dell’evangelizzazione della Spagna».
Il Pilar, che si conserva nella omonima chiesa di Saragozza, è quella colonnina di alabastro che la Vergine Santissima, ancora vivente in Efeso (o a Gerusalemme), consegnò all'Apostolo san Giacomo che evangelizzava le Spagna, apparendogli in bilocazione presso Saragozza, il 2 gennaio dell'anno 40. Poiché nel giorno della festa della Virgen del Pilar, 12 ottobre 1492, Cristoforo Colombo, agli ordini dei Re Cattolici delle Spagne, scopriva il Nuovo Mondo, aprendo la porta della Fede a una moltitudine di pagani, Pio XII stabilì la medesima Virgen del Pilar Patrona della Hispanidad.
• La festa «pilarica» del 12 ottobre è la giornata della hispanidad: la giornata della Spagna e di tutte le nazioni di lingua e cultura spagnola.
Il più antico santuario non solo della Spagna, ma probabilmente della cristianità tutta è quello della «Beata Vergine del Pilar» a Saragoza, che da secoli chiama milioni di pellegrini.
La tradizione vuole che la cappella primitiva venisse costruita da san Giacomo il Maggiore verso il 40 d.C. in memoria della prodigiosa apparizione della Vergine, giunta in bilocazione da Gerusalemme a Saragoza per confortare l’apostolo molto deluso dei risultati della sua predicazione. Il «Pilar» è la colonna di alabastro sulla quale la Madonna avrebbe posato i piedi.
Alcuni mistici, come la venerabile Maria d’Agreda, confermarono questa antica narrazione attraverso le loro visioni e rivelazioni.
Storicamente, comunque, è provato che la chiesa di «Sancta Maria intra muros» a Saragoza esisteva ancora prima dell’invasione araba, avvenuta nel 711. Il monaco Aimoinus, giunto in Spagna nell’anno 855 alla ricerca delle reliquie di san Vincenzo, scrisse che «la chiesa dedicata alla Vergine a Saragozza era la madre di tutte le chiese della città, e che san Vincenzo vi aveva esercitato le funzioni di diacono al tempo del vescovo Valerio». Nel 1118 Saragoza, liberata dal dominio musulmano, ritornò capitale del Regno di Aragona e nel 1294 «Santa Maria del Pilar» venne restaurata ed ampliata.
Al tempo dell’unificazione della Spagna, avvenuta nel XV secolo, per opera del re di Aragona Ferdinando il Cattolico e della regina Isabella di Castiglia, sua sposa, il culto della «Madonna del Pilar» si affermò in campo nazionale e con la scoperta dell’America il culto raggiunse anche il Nuovo Mondo. Nel 1492, infatti, avvenne la cacciata definitiva dei Saraceni dalla Spagna mentre Cristoforo Colombo si avviava, alla sua stessa insaputa, alla scoperta dell’America con le tre caravelle di cui una si chiamava proprio Santa Maria. Ma non basta, la terra del Nuovo Mondo venne trovata il 12 di ottobre, festa della Madonna del Pilar.
Nel 1640 un miracolo eccezionale. Un giovane di 17 anni, Miguel-Juan Pellicer di Calanda, conducendo un giorno un carro aggiogato a due muli, cadde dalla cavalcatura andando a finire sotto una ruota del carro che gli spezzò la tibia della gamba destra. Soccorso immediatamente si ritenne urgente l’amputazione della gamba stessa a circa quattro dita dalla rotula. Prima dell’operazione il giovane si era recato al Santuario del Pilar per fare le sue devozioni e ricevere i sacramenti; subito dopo l’intervento era ritornato a ringraziare la Madonna per averlo tenuto in vita. Non potendo più lavorare si unì agli altri mendicanti che domandavano l’elemosina fuori dalla chiesa; intanto, ogni volta che veniva rinnovato l’olio delle 77 lampade d’argento accese nella Cappella della Vergine, egli si strofinava con quell’olio la sua piaga, benché il medico avesse sconsigliato quel procedimento perché avrebbe ritardato la cicatrizzazione del moncherino. Miguel-Juan tornò a Calanda e con una gamba di legno ed una gruccia mendicò anche nei paesi limitrofi.
Il 29 marzo 1640 rientrò a casa e dopo aver invocato la Madonna del Pilar si addormentò. Al mattino, svegliandosi, si ritrovò con due gambe: la gamba destra, amputata da due anni e cinque mesi era segnata al polpaccio dalle stesse cicatrici presenti già prima dell’infortunio. Venne subito istituita una Commissione d’inchiesta, nominata dall’arcivescovo e nel corso di accurati accertamenti la gamba sepolta nel cimitero dell’ospedale non fu più trovata. La fama dell’eccezionale miracolo fu causa della realizzazione del grandioso Santuario attuale, iniziato nel 1681 e consacrato il 10 ottobre 1872.
All’inizio della navata centrale è situata la «Santa Cappella», dove si venera una piccola statua della Vergine con il Bambino del XIV secolo, la quale poggia i piedi sul «Pilar» ricoperto di bronzo e argento, e che viene rivestita con manti diversi a seconda dei tempi liturgici e delle circostanze. Tale immagine fu incoronata il 20 maggio 1905 con una corona tempestata da circa diecimila perle preziose e fu solennemente benedetta da papa san Pio X.
Il Museo del Pilar, custodito nella Sacristia de la Virgen è ricco di oggetti preziosi fra cui i manti della statua, che spesso sono stati richiesti da illustri moribondi che desideravano morire sotto il manto come avvenne per re Alfonso XIII, morto in esilio a Roma nel 1941.
Una devozione tutta speciale alla Madonna del Pilar di Saragozza appartenne al presbitero francese Guillaume-Jospeh Chaminade. (...) Nel 1797 venne arrestato e condannato all’esilio, fu così che decise di trasferirsi a Saragozza grazie all’intensa devozione che lo legava alla Madonna. Per vivere modellava statuette e il resto del tempo lo trascorreva in preghiera inginocchiato davanti all’immagine miracolosa della Vergine del Pilar. Proprio in una di tali meditazioni la Madonna lo illuminò sulla sua nuova missione: la fondazione, che avverrà nel 1817, di un nuovo Ordine religioso chiamato la «Società di Maria».
Autore: Cristina Siccardi
PROPRIUM MISSÆ PRO REGNIS HISPANIARUM
(Proprio della Messa per i Regni delle Spagne)”
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«NOVENA AL CUORE IMMACOLATO DI NOSTRA SIGNORA BEATA VERGINE MARIA SANTISSIMA DI FATIMA, REGINA DEL SACRATISSIMO ROSARIO
in occasione del 101° anniversario dell'ultima apparizione del Cuore Immacolato di Nostra Signora Beata Vergine Maria Santissima in cui avvenne il miracolo del sole.»
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«MESE DI OTTOBRE: MESE DEL SACRATISSIMO ROSARIO DI NOSTRA SIGNORA BEATA VERGINE MARIA SANTISSIMA.»
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«Carlo Di Pietro - Sursum Corda
12 ottobre, S. Vergine del Pilar, venerata a Saragozza, patrona della Spagna e di tutta l' 'Hispanidad".
Dalla bacheca di don Ugo Carandino.»
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«“Colombo è uomo nostro”. Enciclica Quarto Abeunte Saeculo di Leone XIII, 16/7/1892. Centro studi Giuseppe Federici - Per una nuova insorgenza - Comunicato n. 77/18 del 12 ottobre 2018, Nostra Signora del Pilar.»







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«Il 12 ottobre, già dedicato al Pilar di Saragozza, la Santissima nostra Signora è pure venerata sotto il titolo dell’Immacolata Concezione di Aparecida, la cui Effigie fu ripescata dal mare dai tre pescatori Domingos Garcia, Filipe Pedrosa e João Alves nel 1717. San Pio X nel 1904 decretò che la statua fosse solennemente e canonicamente incoronata. Pio XI, Pontefice Massimo, il 16 luglio 1930, la costituì e proclamò speciale Patrona del Brasile. Nossa Senhora da Conceição Aparecida è anche Generalissima dell'Esercito del Brasile.»
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“12 ottobre, si celebra la Festa del Pilar di Saragozza. Luogo miracolosissimo dove avvenne la prima apparizione mariana della storia (addirittura prima dell’Assunzione).
Himno de la Virgen del Pilar de Zaragoza:
Virgen Santa - Madre mía
luz hermosa - claro día
que la tierra - aragonesa
te dignaste visitar.
Este pueblo que te adora,
de tu amor favor implora
y te aclama y te bendice
abrazado a tu Pilar.
Pilar sagrado, faro esplendente,
rico presente de caridad.
Pilar bendito, trono de gloria,
tú a la victoria nos llevarás.
Cantad, cantad
himnos de honor y de alabanza
a la Virgen del Pilar."
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«Quando la Madonna del Pilar restituì la gamba a Miguel Juan Pellicer
https://www.radiospada.org/2018/10/quando-la-madonna-del-pilar-restitui-la-gamba-a-miguel-juan-pellicer/
Il 12 ottobre si festeggia Nostra Signora del Pilar (della Colonna), Patrona della Hispanidad.
Il 2 gennaio dell’anno 40 di Gesù Cristo, la Vergine Maria ancora in vita, apparve “en su carne mortal”all’Apostolo san Giacomo Maggiore presso Saragozza. Confortò Ella l’Apostolo del suo Figlio, deluso per lo scarso esito della sua predicazione, e gli consegnò una colonnina di alabastro che tuttora si venera presso la meravigliosa Basilica del Pilar a Saragozza, nella Camera Angelica (uno speciale Angelo presiede infatti alla sua custodia). La Madonna nel consegnare il Pilar promise: “L’eccelso Re ha prescelto questo posto affinché in esso gli innalzi un tempio, dove sotto il titolo del mio nome il suo sia magnificato e dove i suoi tesori siano comunicati con abbondanza; egli darà libero corso alle sue antiche misericordie a vantaggio dei credenti e questi per mezzo della mia intercessione le otterranno, se le domanderanno con autentica confidenza e pia devozione. Da parte sua prometto loro enormi favori e la mia protezione, perché questa deve essere mia abitazione e mia eredità. In testimonianza di ciò, questo Pilastro con sopra la mia immagine resterà qui e durerà con La Santa Fede sino alla fine dei tempii”. E la storia conferma questa promessa materna: grazie infinite e miracoli insigni si operarono e tuttora si operano! Tra questi portenti, eccelle senza alcun dubbio il miracolo di Calanda – ossia la gamba di Juan Miguel Pellicer, amputata nel 1637 e reintegrata il 29 marzo 1640 – il cui decreto di riconoscimento di seguito riportiamo per propagare la potenza della Madre di Dio e Madre nostra, Onnipotente per grazia.
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SENTENZA DELL’ARCIVESCOVO DI SARAGOZZA,
DON PEDRO APAOLAZA RAMIREZ,
DETTATA IL 27 APRILE DEL 1641,
CON LA QUALE SI DICHIARA MIRACOLOSA
E OTTENUTA PER INTERCESSIONE DI NOSTRA SIGNORA
DEL PILAR
LA RESTITUZIONE A MIGUEL JUAN PELLICER,
DI CALANDA, DELLA GAMBA DESTRA
AMPUTATA E SEPOLTA
DA DUE ANNI E CINQUE MESI.
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IN NOMINE DOMINI. AMEN
Sappiamo tutti che il giorno 27 aprile dell’anno 1641 dalla Nascita del Signore, nella città di Saragozza, innanzi all’Illustrissimo e Reverendissimo signor Don Pedro Apaolaza, per Grazia di Dio e della Sede Apostolica Arcivescovo di Saragozza, Consigliere del Re etc., in un processo e causa innanzi al suddetto Illustrissimo e Reverendissimo Arcivescovo, pendente, presso la Curia, ed avente per titolo “Processo degli Illustrissimi Signori Giurati del Consoglio e dell’Università della Città di Saragozza ai fini di accertare un miracolo”, su istanza e supplica dei dottori Felipe Bardaxì e Gil Fuster, dottori in utroque jure e di Miguel Ciprés, notaio causidico, persone nominate dai succitati Illustrissimi Signori Giurati e dal Consiglio di questa Città per istruire questo processo; il detto Illustrissimo e Reverendissimo Arcivescovo, mio Signore, ha redatto per iscritto, letto e promulgato una sentenza del seguente tenore:
CHRISTI AC BEATAE VIRGINIS MARIAE DE PILARI
NOMINIBUS INVOCATIS
Noi, Don Pedro de Apaolaza, per grazia di Dio e della Sede Apostolica Arcivescovo di Saragozza, Consigliere del Re etc., abbiamo preso visione di tutto il procedimento che si è svolto ad istanza degli Illustrissimi Signori Giurati del Consiglio e dell’Università di questa Città di Saragozza, prestando attenzione, indagando con diligenza e ricercando con maturità le questioni dal processo riguardate.
Consta dal suddetto processo che Dio Ottimo Massimo, che è glorioso nei Suoi Santi e meraviglioso nella Sua Maestà; le Cui ineffabili altezza e prudenza non hanno limiti, né possono essere circoscritte entro alcun termine, e che con il Suo retto giudizio dirige le realtà celesti e quelle terrene; e che, sebbene innalzi tutti i Suoi servi, li copra di grandi onori o li immetta nel possesso della beatitudine celeste, tuttavia, per dare a chi ne è degno ciò che ha meritato, innalza con maggiori onori, remunera con più ricchi premi chi riconosce più degno e chi è raccomandato dalla maggiore eccellenza dei meriti: volle che Colei che è esaltata sopra i cori degli Angeli, il cui trono è posto accanto a quello di Dio, e alla Cui destra è assisa vestita d’oro, cioè la Vergine Maria Sua Madre, fosse onorata con un miracolo avvenuto ai nostri giorni.
Risulta infatti che nell’Ospedale Generale di Santa Maria della Grazia, sito in questa città, a Miguel Juan Pellicer, nativo di Calanda, di questo Arcivescovado, a causa di un infortunio, fu recisa e amputata la gamba destra, poi affidata alla terra del cimitero del detto Ospedale due anni e vari mesi prima delle deposizioni dei detti testimoni, come dichiararono i testimoni 1, 5 e 7 in merito agli articoli 11 e 12.
Risulta anche, dalle dichiarazioni di cinque testimoni chiamati a deporre, e precisamente i testi 8, 9, 10, 12 e 13, in merito agli articoli 21 e 22, che la stessa notte in cui si dice che sia avvenuto il miracolo, che era uno degli ultimi giorni di marzo dell’anno scorso 1640, un’ora prima che il detto Juan Miguel Pellicer si ritirasse a dormire per terra, i detti testimoni videro la cicatrice della gamba tagliata e con le proprie mani la toccarono e la palparono.
Consta che, poco dopo che il citato Miguel Juan andò a coricarsi, i testi 8 e 13, che sono i genitori del detto Miguel, entrando nella stanza lo trovarono addormentato, con due gambe, e pieni di meraviglia gridarono per risvegliare il detto Miguel, e al loro urlo il testimone 12, che era rimasto fuori accanto al fuoco, ivi entrando trovò il detto Miguel che poco prima aveva visto con una sola gamba, con due gambe; e che, interrogato il detto Miguel dai suoi genitori su come ciò fosse potuto accadere, rispose che non lo sapeva.
Tuttavia [rispose] che non appena si fu adagiato sul suo giaciglio, preso da un sonno profondo, sognava di essere nella cappella della Vergine Maria del Pilar, e di ungersi con l’olio di una lampada, e credeva che ciò fosse avvenuto ad opera della Vergine, a cui si era affidato pienamente, e veramente di cuore, mentre si stava coricando. Ciò visto, il teste 12 (come afferma egli stesso in merito all’articolo 23) chiamò i testi 9 e 10, che erano i vicini (di casa) e che con lui e i genitori del detto Miguel avevano visto che questi aveva una sola gamba e gli avevano toccato la cicatrice della gamba amputata; costoro, tornando a casa di Miguel, lo videro con due gambe, e ne rimasero meravigliati, come essi stessi attestano nelle loro deposizioni sui detti articoli, dalle quali deposizioni degli otto testimoni risulta nel modo più assoluto sia la mancanza della gamba di Miguel, sia la sua reintegrazione.
Risulta anche l’identità della sua persona, attestata dalla maggior parte dei testi escussi in merito all’art. 29; nonché l’identità della gamba, che è la stessa che gli fu amputata, come si evince dai segni indicati dal detto Miguel e dai testimoni, e ritrovati sulla stessa gamba; come appare dalle deposizioni dei testimoni 8, 10, 13 sull’art. 24, e testimoni 5, 8, 11 e 13 sull’art. 30.
Consta anche dalla deposizione di numerosi testimoni che il giorni seguente vi fu un grande afflusso di popolo per vedere la gamba restituita in modo miracoloso al detto Miguel; e che per ringraziare Dio lo accompagnarono in chiesa, ove fu celebrato il Sacrificio della Messa in ringraziamento; e dove tutto il popolo vide il detto Miguel che camminava e che lodava Dio, che confessò i suoi peccati e che riceveva il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia; e che si riempirono di stupore e di meraviglia per ciò che gli era accaduto, perché riconoscevano che quegli era il giovane con una gamba sola che fino a poco tempo fa chiedeva l’elemosina; come si narra negli Atti degli Apostoli di quello storpio dalla nascita guarito miracolosamente da san Pietro.
Risultano inoltre, da numerose testimonianze in merito all’art. 6 e altri, la virtù e i buoni costumi dello stesso Miguel; la sua carità, tale che per aiutare i suoi genitori bisognosi si trasferì da questa città di Saragozza a Calanda; a cui giunse con grande fatica e ivi e per i luoghi d’intorno, raccoglieva elemosine per sostenere sé e i suoi genitori; e tutto ci dà ragione di un sì grande beneficio che il Signore gli ha concesso: poiché Dio dà la grazia agli umili.
Risulta, infine, l’affetto, la fede e la speranza del detto Miguel nei riguardi della Madre di Dio e Vergine del Pilar; come si evince dalla deposizione del medesimo sull’art. 9, ove afferma che, non appena giunto in questa città per ottenere la guarigione della sua gamba, si diresse nella chiesa di Santa Maria del Pilar, e lì confessò i suoi peccati e ricevette il salutare sacramento dell’Eucaristia prima di presentarsi all’Ospedale Generale per cercare di essere risanato. E in merito all’art. 11 afferma che, nel dolore e nei momenti dell’amputazione e della cauterizzazione della gamba, invocava sempre e con tutto il cuore la suddetta Vergine, si affidava a Lei e implorava il suo aiuto.
E, con riguardo all’art. 13, afferma che, induritasi un poco la cicatrice della ferita, ancor debole di forze tanto da non poter provvedere a se stesso, camminando con una gamba di legno, giunse, mosso dalla devozione alla Vergine a quel tempio del Pilar; e ringraziò per aver recuperato la salute, e offrì di nuovo alla Vergine se stesso e la sua vita.
E sull’art. 15, in modo conforme a quanto deposto dal primo teste, disse che, per il dolore che pativa nel moncone della gamba amputata, andava alla cappella della Vergine del Pilar e si ungeva con l’olio di una delle lampade lì presenti; e che, avendo riferito ciò al Professor Estanga, maestro chirurgo del detto Ospedale, primo teste in questo processo, questi gli rispose che tale unzione nuoceva alla guarigione della sua ferita per via dell’umidità dell’olio, fatta salva la fiducia in quanto poteva operare la Vergine; ma non per questo il detto Miguel smise di ungersi, ogni qualvolta gliene si offriva l’occasione.
E sebbene alcune delle surriportate cose si evincano dalla sola deposizione di Miguel , è tuttavia da reputare che siano degne di fede, perché depone su di un fatto proprio e non si tratta di una questione da cui può derivarne danno a qualcuno, ancor più quando si tratta di un miracolo, che, come tale, talora può essere provato anche mediante la testimonianza di una sola persona: circostanza che comunque non si dà in questo caso, in quanto il fatto, da cui risulta il miracolo, è provato da più testi concordi.
Da tutto ciò risulta che, nella questione qui trattata, sia possibile ritrovare tutti gli elementi che si richiedono per la natura e l’essenza di un vero miracolo. Si tratta invero di un fatto, opera di Dio su preghiera della Beata Vergine del Pilar a cui si affidò di cuore il detto Miguel Juan, che trascende l’ordine di tutta la natura creata. Questa non è in grado infatti di reintegrare una gamba recisa e amputata. Ed è anche per rafforzare la nostra fede, poiché, ancorché siamo (già) fedeli, la fede può aumentare, come dice San Luca nel cap. 17: “Adauge nobis fidem”, e san Marco nel cap. 9 “Credo, Domine, sed adiuva incredulitatem meam”. Ha predisposto (Dio) un simile fatto per accrescere la carità dei fedeli e per aumentare la devozione del popolo cristiano, perché si conservi nella stessa fede. E questo ancorché sia opinione di molti che non faccia parte dell’essenza del miracolo che questo produca un aumento di fede. E, infine, il fatto fu operato in un istante; invero, in un tempo così breve, come è stato dimostrato nel processo, il detto Miguel fu visto prima senza una gamba e poi con questa; quindi non si vede come si possa dubitare di ciò.
Ne a ciò osta quanto il detto Miguel e la maggior parte dei testimoni hanno deposto in merito all’art. 26, e cioè che il detto Miguel non fu in grado di rendere stabile immediatamente il suo piede. Aveva infatti i nervi e le dita dei piedi contratti e quasi inservibili, e non si sentiva il normale calore nella gamba, che appariva di colore cadaverico e non era né lunga né grossa quanto l’altra: tutte cose che sembrano ripugnare l’essenza del miracolo, sia perché non avvenne in un istante, sia perché una realtà così imperfetta non sembra poter venire da Dio, che non conosce opere imperfette.
Allora, a ciò si risponde che l’istantaneità fa parte del miracolo solo in quelle cose che la natura compie a poco a poco. È il caso, ad esempio, della guarigione di un febbricitante; che, per sapere se sia stata miracolosa, si può dire che non vi è altro segno che la sua istantaneità; infatti, la natura può ottenere ciò anche con il decorso del tempo, senza miracolo; e, nel dubbio, bisogna giudicarla una guarigione naturale, perché il miracolo deve essere oltre le possibilità di tutta la natura creata.
Ma quando la natura non può compiere un’operazione né in un istante né a poco a poco, allora, ancorché il fatto non sia avvenuto in un istante, lo si deve ritenere un miracolo, come nel nostro caso. È invero certo che la natura non può in alcun modo reintegrare nella sua pristina situazione chi è stato amputato di una gamba, poiché non si può ritornare dalla privazione all’originario stato di natura.
Pertanto, se fu visto il detto Miguel con una gamba sola, mentre ora ne ha due, ciò è avvenuto per miracolo, perché era naturalmente impossibile; e se non fu (subito) perfetto lo stato di salute della gamba reintegrata, ciò non ripugna alla essenza del miracolo, perché ciò che era miracoloso (e cioè la restituzione della gamba al detto Miguel) avvenne in modo perfetto ed istantaneo. Per quanto concerne le altre cose, ossia il calore, l’estensione e la scioltezza nello sforzo, il recupero delle energie e della forza, non era necessario che ciò avvenisse miracolosamente. Infatti, la natura può fare tutto ciò, e così, anche se non avvennero in un istante, non per questo si può dire che non vi sia stato un miracolo. Oppure si può dire che, anche se Dio onnipotente e misericordioso poteva restituire in un istante e in perfette condizioni la gamba, tuttavia, come dice la glossa al capitolo VIII di San Matteo (in realtà San Marco, ndr): Chi poteva essere guarito con una sola parola è sanato poco a poco (si parla del cieco nato) per rendere manifesta la profondità dell’umana cecità, che a malapena, e quasi con passi successivi, ritorna alla luce, e ci mostra la Sua Grazia, con la quale sostiene ogni aumento della nostra perfezione. Oppure diciamo che in questo caso non vi fu una successione di miracoli, ma una pluralità: infatti, così come nel cap. VIII di Matteo (Marco) Cristo Signore ha voluto con un solo miracolo ridare la vista in modo confuso al cieco, e con un altro miracolo volle perfezionare la vista di costui, affinché potesse vedere in modo chiaro, così che ciò che si poteva con un primo miracolo fu compiuto per mezzo di due miracoli; non diversamente nel nostro caso, Dio avrebbe ben potuto concedere nel medesimo istante al detto Miguel una perfetta guarigione; ma tuttavia volle con un miracolo restituirgli la gamba, ancorché debole e più corta dell’altra, e con un altro miracolo, dopo tre giorni, volle che alla gamba così reintegrata si estendesse il calore naturale, che i nervi e le dita si distendessero, e infine che divenisse uguale all’altra. Così che non vi fu una successione temporale di miracoli, ma una sorta di divisione, o di moltiplicazione del miracolo, di modo che ciò che poteva farsi con uno solo, fu compiuto con due o più di due; forse, per manifestare che era avvenuto su preghiera della Beata Vergine del Pilar, in quanto solo dopo che il detto Miguel andò a visitarla, la salute gli fu restituita nel pristino stato, mettendo così in evidenza la fede e devozione del detto Miguel, e così favorendo (anche) la nostra.
Né infine è di ostacolo il fatto che al detto Miguel sia rimasto qualche dolore, poiché non è contrario alla natura del miracolo se nella liberazione (dal male) appaia un dolore, o che questo rimanga in colui che è stato miracolosamente guarito: come ben si evince dal cap. IX di San Marco, ove lo spirito , a un comando del Signore, esce da una persona sorda e muta, gridando e scuotendola fortemente, tanto da ridurla a così mal partito da sembrare morta, e morti dicevano che fosse morta. Per cui, non è contrario all’essenza del miracolo né il fatto che in colui che è guarito rimanga una debolezza del corpo o di qualche suo membro, un gonfiore o un qualche indurimento; né che ciò avvenga anche per mezzo o con l’aiuto della natura, o con qualche medicina umana.
Perciò considerate tutte queste e altre cose, con il consiglio degli infrascritti illustrissimi Dottori sia di Sacra Teologia, sia di Diritto Pontificio, affermiamo, pronunziamo e definiamo che a Miguel Juan Pellicier, nativo di Calanda, di cui si è trattato in questo processo, fu restituita miracolosamente la gamba destra che in precedenza gli era stata amputata; e che non è stato un fatto operato dalla natura, ma opera mirabile e miracolosa; e che si deve giudicare e tenere per miracolo, concorrendo tutte le condizioni richieste dal Diritto perché si possa parlare di un vero prodigio. Pertanto lo ascriviamo tra i miracoli e come tale lo approviamo, dichiariamo e autorizziamo e così diciamo.
PETRUS, ARCHIEPISCOPUS
Don Antonio Xavierre, Priore di Santa Cristina
Dottor Virto de Vera, Arciprete di Saragozza
Dottor Diego Chueca, Canonico Magistrale di Saragozza
Dottor Martin Iribarne, Canonico Lettore di Saragozza
Dottor Felipe de Bardaxì, Professore primario di Sacri Canoni
Dottor Juan Perat, Canonico della Santa Chiesa Metropolitana e Vicario Generale e Ufficiale
Dottor Juan Plano del Frago, Ufficiale
Fra Bartolomè Foyas, Provinciale dell’Ordine di san Francesco
Dottor Domingo Cebriàn, Cattedratico Primario di Teologia
E questa definitiva sentenza, così emanata e promulgata, fu accettata, lodata e approvata dai sopra citati, lodati e approvati dottori Felipe de Bardaxì e Miguel Ciprès, a istanza e supplica dei quali, l’Illustrissimo e Reverendissimo Signore, l’Arcivescovo, concesse loro copia e lettere di notifica della suddetta sentenza. Con tutta e ognuna delle anzidette cose fu composto questo documento pubblico alla presenza di Bartolomè Claudio e di Francisco Aznar, sacerdoti residenti a Saragozza, chiamati e scelti come testimoni di tutto quanto sopra riportato
Firmato da me, notai ANTONIO ALBERTO ZAPORTA, domiciliato in Saragozza, e, per autorità apostolica, ovunque occorra pubblico ufficiale e del processo soprascritto, al quale fui presente, notaio attuario.
(A cura di Giuliano Zoroddu. Da Vittorio Messori, Il Miracolo, Milano, 2010 (I ed. 1998), pp. 247-254)»





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http://www.corriere.it/foto-gallery/cronache/15_ottobre_12/accadde-oggi-12-ottobre-e4c030f6-70a9-11e5-a92c-8007bcdc6c35.shtml
"Il 12 ottobre è l'anniversario della scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo. Il 3 agosto 1492 Colombo, nato a Genova nel 1451, lascia il porto spagnolo di Palos, con 3 barche: la Niña, la Pinta e la Santa Maria."


https://it.wikipedia.org/wiki/Cristoforo_Colombo
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/7/71/Monumento_a_Col%C3%B3n_%28Madrid%29_06.jpg
«Cominciai a navigare per mare ad un'età molto giovane, e ho continuato fino ad ora. Questa professione crea in me una curiosità circa i segreti del mondo. Durante gli anni della mia formazione, studiai testi di ogni genere: cosmografia, storie, cronache, filosofia e altre discipline. Attraverso questi scritti, la mano di nostro Signore aprì la mia mente alla possibilità di navigare fino alle Indie, e mi diede la volontà di tentare questo viaggio. Chi potrebbe dubitare che questo lampo di conoscenza non fosse l'opera dello Spirito santo?»
(Cristoforo Colombo, Libro delle profezie, 67).
“Cristoforo Colombo (in latino: Christophorus Columbus, in spagnolo: Cristóbal Colón, in portoghese: Cristóvão Colombo; Genova, fra il 26 agosto e il 31 ottobre 1451 – Valladolid, 20 maggio 1506) è stato un esploratore e navigatore italiano, cittadino della Repubblica di Genova prima e suddito del Regno di Castiglia poi. È stato tra i più importanti navigatori che presero parte al processo di esplorazione delle grandi scoperte geografiche a cavallo tra il XV e il XVI secolo. (...)
Secondo le poche testimonianze del suo aspetto aveva dei capelli biondi ardenti, carnagione chiara leggermente lentigginosa, alto più di 1,80 m, con occhi chiari, azzurri o grigi. All'esposizione mondiale di Colombo del 1893 vennero messi in mostra 71 suoi ritratti, rappresentanti Colombo con capelli rossi o biondi, che nella realtà diventarono brizzolati relativamente presto, occhi chiari e un colorito della pelle chiaro reso rosso dalla prolungata esposizione al sole.(...)"
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/14/Ridolfo_Ghirlandaio_Columbus.jpg





https://w2.vatican.va/content/leo-xiii/it/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_16071892_quarto-abeunte-saeculo.html
«QUARTO ABEUNTE SAECULO
EPISTOLA ENCICLICA
SI S.S. LEONE XIII
Ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi di Spagna, d’Italia e delle Americhe.
Il Papa Leone XIII. Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.
Allo spirare del quarto secolo dal giorno in cui, auspice Iddio, un uomo Ligure approdò, primo fra tutti, di là dell’Oceano Atlantico a lidi sconosciuti, i popoli sono lieti di celebrare con sentimenti di gratitudine la memoria di quel fatto, e di esaltarne l’autore. Certamente non si saprebbe trovare agevolmente un motivo più degno di questo d’infervorare gli animi e destare entusiasmo. Infatti, l’impresa in se stessa è la più grande e meravigliosa di quante mai se ne videro nell’ordine delle cose umane: e colui che la portò a compimento non è paragonabile che a pochi di quanti furono grandi per tempra d’animo e altezza d’ingegno. Un nuovo mondo sorse per merito suo dall’inesplorato grembo dell’Oceano: centinaia di migliaia di creature vennero dall’oblio e dalle tenebre a integrare la famiglia umana; dalla barbarie furono condotte alla mansuetudine ed alla civiltà: e quel che infinitamente più importa, da perdute che erano, furono rigenerate alla vita eterna mercé la partecipazione dei beni che Gesù Cristo procurò.
L’Europa, percossa allora dalla novità e dal miracolo dell’inatteso portento, a poco a poco si rese conto di quanto essa doveva a Colombo allorché le colonie stabilite in America, le comunicazioni incessanti, la reciprocità dei servizi e l’esplicarsi del commercio marittimo diedero impulso poderosissimo alle scienze naturali, alle ricchezze comuni, con incalcolabile valorizzazione del nome Europeo.
Fra così varie manifestazioni onorifiche e in questo concerto di rallegramenti non conviene che la Chiesa rimanga muta, dato che essa, secondo il suo costume e il suo carattere, approva volentieri e si sforza di promuovere tutto ciò che appare onesto e lodevole. Vero è che la Chiesa serba i suoi particolari e massimi onori all’eroismo delle più eminenti virtù morali in quanto ordinate alla salvezza eterna delle anime, ma non per questo misconosce né tiene in poco conto gli altri eroismi: ché anzi si compiacque sempre di tributare onore con grande volontà ai benemeriti della società civile, e a quanti vivono gloriosi nella memoria dei posteri. Infatti Iddio è bensì mirabile soprattutto nei suoi santi: ma il marchio del divino valore rifulge anche in coloro nei quali brilla una certa forza superiore d’animo e di mente, in quanto la luce del genio e la sublimità d’animo giungono agli uomini soltanto da Dio Padre e Creatore.
Ma oltre a queste ragioni di ordine generico, abbiamo motivi del tutto particolari di voler commemorare con riconoscenza l’immortale impresa. Infatti Colombo è uomo nostro. Per poco che si rifletta al precipuo scopo onde si condusse ad esplorare il mar tenebroso, e al modo che tenne, è fuor di dubbio che nel disegno e nella esecuzione dell’impresa ebbe parte principalissima la fede cattolica: in modo che in verità per questo titolo tutto il genere umano ha obbligo non lieve verso la Chiesa.
Impavidi e perseveranti esploratori di terre sconosciute e di più sconosciuti mari, prima e dopo di Cristoforo Colombo, se ne contano parecchi. Ed è giusto che la fama, memore delle opere benefiche, celebri il nome loro, in quanto riuscirono ad allargare i confini delle scienze e della civiltà, a crescere il pubblico benessere: e ciò non a lieve costo, ma a prezzo di faticosi sforzi di volontà e sovente di gravissimi pericoli.
C’è tuttavia gran differenza fra essi e l’uomo di cui parliamo. La nota caratteristica che distingue Colombo sta in questo, che nel solcare e risolcare gli spazi immensi dell’Oceano, egli mirava a cose maggiori e più alte degli altri. Non che egli non fosse spinto dal nobilissimo desiderio di conoscere, né di bene meritare della famiglia umana; non che egli disprezzasse la gloria, i cui stimoli di solito sono più acuti nel petto dei grandi, o che tenesse in poco conto la speranza di propri vantaggi; ma sopra tutte queste ragioni umane prevalse il lui il sentimento della religione dei padri suoi, dalla quale egli prese senza dubbio l’ispirazione e la volontà dell’impresa e spesso, nelle supreme difficoltà, trasse motivo di fermezza e di conforto. Risulta infatti che egli intese e volle intensamente questo: aprire la via al Vangelo attraverso nuove terre e nuovi mari.
Tale cosa può sembrare poco verosimile a coloro che, concentrando ogni loro pensiero entro i confini del mondo sensibile, rifiutano di credere che si possa guardare a cose più alte.
Ma, al contrario, a méta più eccelsa amano per lo più aspirare le anime veramente grandi, perché sono meglio disposte ai santi entusiasmi della fede divina. Colombo aveva certamente unito lo studio della natura allo zelo della pietà, e aveva profondamente formati mente e cuore secondo i princìpi della fede cattolica. Perciò, persuaso per argomenti astronomici e antiche tradizioni, che al di là del mondo conosciuto dovevano pure estendersi dalla parte d’occidente grandi spazi terrestri non ancora esplorati, immaginò popolazioni sterminate, avvolte in tenebre deplorevoli, perdute dietro cerimonie folli e superstizioni idolatriche. Riteneva estremamente penoso che si potesse vivere secondo consuetudini selvagge e costumi feroci; peggio ancora in quanto non conoscevano cose della massima importanza e ignoravano l’esistenza del solo vero Dio. Onde, pieno di tali pensieri, si prefisse più che altro di estendere in occidente il nome cristiano, i benefìci della carità cristiana, come risulta evidentemente da tutta la storia della scoperta. Infatti, quando ai re di Spagna, Ferdinando ed Isabella, propose la prima volta di voler assumere l’impresa, ne chiarì lo scopo spiegando che “la loro gloria vivrebbe imperitura ove consentissero di recare in sì remote contrade il nome e la dottrina di Gesù Cristo”. E non molto dopo, soddisfatto nelle proprie richieste, dichiara che egli “domanda al Signore di far sì che con la divina sua grazia i re [di Spagna] siano perseveranti nella volontà di propagare il Vangelo in nuove regioni e nuovi lidi”. A mezzo lettera chiede dei missionari al Pontefice Massimo Alessandro VI: “al fine — come egli stesso scrive — di diffondere in tutto il mondo, con l’aiuto di Dio, il sacrosanto nome di Gesù Cristo e il Vangelo”. Riteniamo dovesse sovrabbondare di giubileo allorché, reduce dal primo viaggio dalle Indie, scriveva da Lisbona a Raffaello Sanchez: “Doversi rendere a Dio grazie infinite per avergli largito sì prospero successo. Che Gesù Cristo s’allieti e trionfi qui sulla terra, come s’allieta e trionfa nei cieli, essendo prossima la salvezza di tanti popoli, il cui retaggio sino ad ora fu la perdizione”.
Che se a Ferdinando e ad Isabella egli suggerisce di non permettere se non a cristiani cattolici di navigare verso il nuovo mondo e avviare commerci con gli indigeni, la ragione è che “il disegno e l’esecuzione della sua impresa non ebbe altro scopo che l’incremento e l’onore della religione cristiana”.
E ciò comprese appieno Isabella, ella che assai meglio di ogni altro aveva saputo leggere nella mente del grande: è anzi fuor di dubbio che quella piissima regina, di mente virile e di animo eccelso, ebbe ella stessa il medesimo scopo. Aveva scritto infatti di Colombo che egli avrebbe affrontato coraggiosamente il vasto Oceano “al fine di compiere un’impresa di gran momento per la gloria di Dio”. E a Colombo medesimo, reduce dal secondo viaggio, scrive: “essere egregiamente impiegate le spese che ella aveva fatte per la spedizione delle Indie, e che farebbe ancora, in quanto ne seguirebbe la diffusione del cattolicesimo”.
Dall’altro canto, se si prescinde da un motivo superiore alle cose umane, donde avrebbe potuto egli attingere perseveranza e forza per affrontare e sostenere tutto ciò che fu obbligato a sopportare e a soffrire fino all’ultimo? Intendiamo le opposizioni dei dotti, i rifiuti da parte dei prìncipi, i rischi dell’Oceano in tempesta, le veglie incessanti, fino a smarrirne più d’una volta la vista; aggiungansi le battaglie coi selvaggi, i tradimenti di amici e compagni, le scellerate congiure, le perfidie degli invidiosi, le calunnie dei malevoli, le immeritate catene. All’enorme peso di tante sofferenze egli avrebbe dovuto senz’altro soccombere, se non lo avesse sostenuto la consapevolezza della nobilissima impresa, feconda di gloria alla cristianità, di salute a milioni d’anime.
Impresa, intorno alla quale fanno splendida luce gli avvenimenti successivi. Infatti Colombo scoprì l’America mentre una grave procella veniva addensandosi sulla Chiesa: sicché, per quanto è lecito a mente umana di congetturare dagli eventi le vie della divina Provvidenza, l’opera di quest’uomo, gloria della Liguria, sembra fosse particolarmente ordinata da Dio a ristoro dei danni che la cattolicità avrebbe poco dopo patito in Europa.
Chiamare gl’Indiani al cristianesimo era senza fallo opera e compito della Chiesa. La quale, fin dai primordi della scoperta, pose mano al suo ininterrotto compito d’amore, e continuò e continua tuttora a farlo, come ultimamente fino all’estrema Patagonia.
Nondimeno persuaso di dover precorrere e spianare la via all’evangelizzazione e tutto compreso da questo pensiero, Colombo coordinò ogni suo atto a tal fine, nulla quasi operando se non ispirandosi alla religione e alla pietà. Rammentiamo cose a tutti note, ma preziose a chi voglia penetrare ben addentro nella mente e nel cuore di lui. Costretto ad abbandonare, senza avere nulla concluso, il Portogallo e Genova e voltosi alla Spagna, fra le pareti di un monastero egli viene maturando l’alto disegno, confortato da un monaco Francescano. Dopo sette anni, giunto finalmente il giorno di imbarcarsi per l’Oceano, prima di partire si preoccupa di fare le cose necessarie per purificarsi l’anima: supplica la Regina del cielo che protegga l’impresa e guidi la rotta: e non comanda di sciogliere le vele se non dopo avere invocato la Santissima Trinità. Avanzatosi quindi in alto mare, fra l’infuriare dei marosi e il tulmutuare dell’equipaggio, mantiene inalterata la serenità del suo animo confidando in Dio. Attestano il suo proposito gli stessi nuovi nomi imposti alle nuove isole: in ciascuna di esse, appena postovi il piede, adora supplichevole Iddio onnipotente, e non ne prende possesso che in nome di Gesù Cristo. Dovunque approdi, il primo suo atto è di piantare sulla spiaggia la Croce: e dopo aver tante volte, al rombo dei flutti muggenti, inneggiato in alto mare al nome santissimo del Redentore, lo fa risuonare egli per primo nelle isole da lui scoperte: e perciò alla Spagnuola dà inizio alla costruzione di una chiesa cominciando le feste popolari con cerimonie religiose.
Ecco dunque ciò che Colombo intese e volle nell’avventurarsi, per tanto spazio di terra e di mare, in regioni inesplorate e incolte fino a quel giorno: esse però in fatto di civiltà, di notorietà e di forza salirono poi velocemente a quell’alto grado di progresso che ognuno vede.
La grandezza dell’avvenimento e la potenza e la varietà dei benefìci che ne derivarono impongono il ricordo grato e la glorificazione del personaggio. Ma è doveroso, innanzi tutto, riconoscere e venerare singolarmente gli alti decreti di quella mente eterna alla quale ubbidì, consapevole strumento, lo scopritore del nuovo mondo.
Per celebrare degnamente e in armonia con la verità storica le solennità Colombiane, è dunque opportuno che allo splendore delle pompe civili si accompagni la santità della religione. Per cui, come già al primo annuncio della scoperta furono rese a Dio immortale, provvidentissimo, pubbliche grazie prima di tutti dal Pontefice Massimo, così ora nel festeggiare la memoria dell’auspicatissimo evento stimiamo doversi fare la stessa cosa.
Perciò disponiamo che il giorno 12 ottobre, o la domenica susseguente, se così giudicherà opportuno l’Ordinario del luogo, nelle Chiese Cattedrali e collegiate di Spagna, d’Italia e delle Americhe, dopo l’ufficio del giorno, sia cantata solennemente la Messa de Sanctissima Trinitate.
Confidiamo che, oltre alle popolazioni sopra nominate, per iniziativa dei Vescovi si faccia la stessa cosa nelle altre, essendo conveniente che tutti concorrano a celebrare con pietà e riconoscenza un avvenimento che tornò utile a tutti.
Intanto come auspicio dei divini favori e pegno della Nostra paterna benevolenza a voi, Venerabili Fratelli, al clero e al popolo vostro impartiamo affettuosamente la Benedizione Apostolica.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 16 luglio 1892, anno decimoquinto del Nostro Pontificato.
LEONE PP. XIII»





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12 octobre : Saint Wilfrid, Évêque d'York (634-709) :: Ligue Saint Amédée (http://liguesaintamedee.ch/saint-du-jour/12-octobre-saint-wilfrid)
“12 octobre : Saint Wilfrid, Évêque d'York (634-709).”
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[I]AVE MARIA!!!
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Luca, Sursum Corda - Habemus Ad Dominum!!!