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Visualizza Versione Completa : 1 ^ commissione di studio - STORIA & CULTURA



Templares
12-02-05, 14:28
Coordinatore ItalianHawk83

Templares
12-02-05, 14:32
In Origine postato da templares
Coordinatore ItalianHawk83

Il lavoro di questa commissione è delicatissimo. Auspico pertanto la partecipazione di tutti, e il pronto ritorno del Coordinatore ItalianHawk83

Italianhawk83
12-02-05, 20:45
Vi confermo telegraficamente il mio ritorno e la mia piena operatività nel giro di pochi giorni. Chiedo venia per l'assenza causata dalla preparazione di un esame particolarmente lungo e faticoso.

Saluti conservatori

Templares
14-02-05, 17:52
Alfredo Mantovano (deputatato di AN, membro di Alleanza Cattolica)

Coloro che, prima o poi, pervengono al parlamento, o si esprimavano già in politichese, o lo imparano subito. Trovate politici antipolitichese, come Berlusconi, per natura "politically incorrect", è difficile. Ma non impossibile. Chi legge il recentissimo libro di Alfredo Mantovano (introdotto da Giuliano Ferrara e prefato da Gianfranco Fini) potrà averne una prova,

Magistrato entrato in politica, deputato di An dal 1996 e ora sottosegretario agli interni, il salentino Mantovano ha scritto, sotto forma di bloc-notes, una difesa del pensiero conservatore.

Conservatore? Ma non è una parola proibita? Mantovano non si tira indietro. Non solo egli ritiene che il pensiero conservatore sia nel giusto, ma anche che oggi solo il recupero dei valori della tradizione consente a una democrazia in crisi come la nostra di non divenire una "democrazia totalitaria". Tutti, oggi, parlano di riforme. Ma le vere riforme può farle solo un coservatore. La riforma è un aggiornamento della tradizione, altrimenti è utopia. Tradizione, dal latino "tradere", significa portare avanti.

Proprio la crisi dell'utopia, per anni usata dai comunisti e dai loro fratelli separati come una clava per distruggere tutta la tradizione, richiede oggi riforme concrete, che solo il pensiero conservatore, insieme idealistico e realistico, può operare. Non certo la sinistra, che non avendo più una idendità si definisce "riformista", ma ostacola poi tutte le riforme, per difendere il vuoto di valori proddotto dalla sua rivoluzione culturale.

Essere di sinistra, oggi, significa non avere più valori, neppure utopici come quelli gramsciani del passato. Significa divendere il vuoto presente di ogni valore. E, soprattutto, offendere i valori della tradzione per esempio con l'aborto, l'eutanasia, la manipolazione genetica. Mantovano è due volte di destra. Lo è in quanto membro di Alleanza Cattolica, movimento conservatore che non ha mai ceduto ai balletti dei preti progressisti e delle comunità disgregative della tradizione ecclesiale. E lo è in quanto deputato di An, che nella Casa delle libertà intende portare il messaggio della destra, anche per evitare che il centro-destra divenga un centro moderato. Due alleanze diverse, dato che per ogni autentico conservatore è fondamentale che religione e politica siano distinte.

Mantovano nulla ha in comune con quelle tendenze presenti anche nella destra di antiamericanismo viscerale, che finiscono per unire uomini di valore partiti bene, come Franco Cardini e Massimo Fini, alle proteste dei no-global. Propio in questi giorni è nata una rivista intitolata "Alfa e Omega" (Edizioni Segno), che esprime questa tendenza di destra oltranzista e riconosce in Cardini il suo principale "maitre à penser". In essa tutti i movimenti cristiani che guardano all'America sono accusati di "infatuazione americana",

Mantovano sa bene che l'America non solo ci ha salvato dal nazismo e dal comunismo, ma oggi è l'unico baluardo contro il terrorismo islamico, che la sinistra condanna a parole, ma blandisce nei fatti. Non, dunque, il laicismo integralista alla Chirac, l'iconoclasta che, proibisce nella scuola i simboli religiosi di appartenenza, ma quella laicità che riscopre le sue radici nella disitnzione (non seprarazione) tra Dio e Cesare.

Proprio come stanno facendo negli USA i sempre più numerosi neoconservatori (neo-com e teocon), che hanno in comune il recupero del fondamentalismo religioso della democrazia. Questa corrente, dopo gli anni del "liberal" Carter, ha appoggiato la "rivoluzione conservatrice" di Reagan e Bush: «Un'America che non contrappone libertà e verità; desiderosa di ordine come stile di vita fondato su poche leggi; aperta all'altro, soprattuitto se perseguitato e sofferente; ancorata a principi essenziali ma saldi; orgogliosa di far sventolare la sua bandiera».

Templares
14-02-05, 17:57
Affari di famiglia

Il conservatorismo è fusionismo. Sempre


di Marco Respinti


Negli Stati Uniti d’America il termine “conservatorismo” è stato usato con consapevolezza non solo polemica a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso. La stampa definì infatti “nuovi conservatori” alcuni uomini di pensiero che decisero di ripercorrere, e quindi anche di difendere, ancorché in ordine sparso, un modo di essere americani diverso da quello allora imperante.

Era l’indomani della tragedia della Seconda guerra mondiale e di quella tragedia nella tragedia che furono i suoi eccidi, non esclusi quelli causati dalla bomba atomica. Una catastrofe enorme giunta a coronamento di un impegno militare indispensabile eppure controverso e sofferto, che si consumò ai danni per esempio di quel movimento trasversale di opinione radunatosi attorno all’America First Committee per rivendicare una tradizione politica americana di libertà concrete. Dietro tutto questo svettava poi la presidenza del Democratico Franklin D. Roosevelt, la più lunga e buia stagione dello statalismo nordamericano che, forte di un patto scellerato fra istituzioni politicizzate, sindacati, industria grande e pesante, e concentrazioni economiche, è stato polemicamente definito “fascismo” USA. Il danno peggiore del rooseveltismo fu la sostanziale destabilizzazione di quelle libertà costituzionali che sono nerbo e linfa dell’american way of life, rivendicazione orgogliosa della tradizione giuridica medioevale britannica in alternativa al modello illuministico francese da cui sono scaturiti il Terrore giacobino e le ideologie. Roosevelt, però – a capo del Paese per 13 anni –, non fece che portare a compimento un ben più vasto e antico processo d’involuzione culturale e politica che aveva conosciuto una tappa fondamentale nella “mondializzazione” del modello americano e nella “sinistrizzazione” del Partito Democratico operate dal presidente Democratico Thomas Woodrow Wilson, ma che pure in verità risaliva esso stesso ad altro.

Fu infatti con la Guerra cosiddetta civile (1861-1865), con la presidenza di Abraham Lincoln – il quale tenne a battesimo una nuova interpretazione, progressistica, della nazione statunitense – e con il periodo definito della “Ricostruzione” postbellica (1865-1877) che gli Stati Uniti presero a incamminarsi decisamente lungo un sentiero alternativo a quello della continuità con il Founding.
Sorpresi, attoniti e spesso sconcertati, gli statunitensi che invece ancora prestavano attenzione e mostravano fedeltà al lumicino, pur solo fumigante, del Founding si fecero dunque conservatori. Conservatori, cioè, dell’identità culturale fissata nella fondazione della nazione, poi sviluppata, coerentemente con essa, nel corso della storia nazionale, quindi continuata in modo carsico dopo le grandi cesure sopra evocate, ma soprattutto erede di una cultura più antica e profonda, addirittura bimillenaria, forgiata in quella sintesi fra monoteismo ebraico, filosofia greca e diritto romano che si operò nei secoli della Cristianità cosiddetta medioevale.

Negli USA, il movimento conservatore iniziò come una rivolta tesa a riappropriarsi di ciò che una rivoluzione aveva indebitamente sottratto all’ethos del Paese. Dunque enfatizzando una a una le cure di cui necessitavano le diverse ferite prodotte da quella rivoluzione. Si distillò in “scuole” di pensiero, ma oggi la prospettiva storica aiuta a considerarle, più sapidamente, quali articolazioni in “special interest group” di una “famiglia” unita.
Al cuore della nascita del movimento vi fu però certamente quel The Conservative Mind: FromBurke to Santayana (poi From Burke to Eliot) che lo storico delle idee Russell Kirk pubblicò nel 1953 ricostruendo i tratti portanti di quella colossale “rivendicazione” culturale (ne ha parlato sul “Dom” del 21 giugno 2003 lo stesso Lee Edwards che di nuovo ospitiamo in queste pagine) e di cui nel 1974 descrisse l’ascendenza attraverso Le radici dell’ordine americano: la tradizione europea nei valori del nuovo mondo (trad. it. Mondadori, Milano 1996).

Di questa “patristica” del movimento racconta ora le origini l’ampio e documentato studio In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda (Le Lettere, Firenze 2004, pp.298, E20,00) di Antonio Donno, professore di Storia dell’America del Nord nell’Università di Lecce, il primo vero strumento di analisi scientifica disponibile in Italia su questo tema. Ne emerge con chiarezza la natura eminentemente fusionista della “rivendicazione” della Destra americana.


da "Il Domenicale"

Templares
14-02-05, 17:59
CONSERVATORISMO USA


3 aprile 2004



Alle origini del conservatorismo statunitense

Antonio Donno, dell’Università di Lecce, pubblica per i tipi della fiorentina Le lettere il primo studio italiano sulle origini della Destra nordamericana contemporanea, In nome della libertà. Conservatorismo e guerra fredda.
Ne anticipiamo alcuni punti focali, che illustrano la realtà fusionista di un movimento vasto e profondo, capace di condizionare la vita politica di un Paese. La storia esemplare di National Review e il pensiero di Felix Morley


di Antonio Donno



Nel suo libro di memorie Henry Regnery, il maggiore editore conservatore del dopoguerra negli Stati Uniti, descrive William Buckley come un individualista piuttosto che come un conservatore. In effetti, nel suo famoso e discusso God and Man at Yale il cuore del libro è dedicato alla morte dell’individuo nell’Università di Yale, presa come simbolo del sistema universitario americano. Scriveva Regnery: «Ora sarebbe difficile concepire il movimento conservatore senza Buckley», riconoscendo al giornalista e scrittore americano una coerenza intellettuale che aveva rappresentato per molti decenni una guida per il movimento conservatore. In realtà, benché Buckley sia stato uno scrittore di prodigiosa prolificità, il libro che lo rese famoso perché scosse l’establishment liberal americano fu proprio God and Man at Yale del 1951. Quando parlava della morte dell’individuo a Yale, Buckley intendeva che il libero pensiero era stato soppresso; dietro il paravento di quella formula magica che era la “libertà accademica”, in realtà si celava il monopolio della cultura e dell’insegnamento da parte dell’ortodossia liberal di ascendenza newdealista. Per usare un termine odierno, era il trionfo della politicalcorrectness. [...] Così, Yale, da bastione delle tradizioni politiche americane fondate sul “governo limitato” e dei principi dell’individualismo e del Cristianesimo, s’era trasformata, dietro la cortina fumogena della “libertà accademica”, nella punta di diamante della filosofia collettivistica.[...]

Il caso dell’Università di Yale rivelava, secondo l’analisi di Buckley, la resa del liberalismo americano nei confronti del comunismo. [...]
Tale retroterra era la causa di un confronto debole e contraddittorio verso il totalitarismo comunista. Per risvegliare le coscienze americane, nel novembre del 1955, Buckley fondò «The National Review», che divenne subito il centro del dibattito conservatore per molti anni. L’opposizione al comunismo interno ed internazionale, le politiche della guerra fredda e l’uso politico dell’anticomunismo furono i temi più importanti nei primi anni di vita della rivista.
Non tutti i collaboratori avevano le stesse idee di Buckley, il quale sosteneva l’impoliticità del nuclear first strike e del rifiuto di qualsiasi negoziato con Mosca che invece Frank Meyer […] e L. Brent Bozell caldeggiavano. Dal canto suo, Whittaker Chambers, l’autore del famoso Witness (1952), affermava che l’uso della forza contro l’Unione Sovietica era inappropriato e considerava «[...] la lotta tra l’Est e l’Ovest fondamentalmente spirituale», tanto che la superiorità del comunismo egli la ravvisava, appunto, sul piano spirituale ed ideologico piuttosto che su quello strettamente militare. Come si vede da questi brevi esempi, se l’anticomunismo era senz’altro un forte terreno comune d’analisi del ruolo internazionale degli Stati Uniti, le opinioni divergevano su quale dovesse essere la migliore politica di contrasto dell’espansionismo comunista. Da questo punto di vista, «The National Review» fu un prezioso strumento di confronto tra i conservatori tradizionalisti e i liberali classici, gli esponenti del Old Right e i libertarians.

[Russell] Kirk, [Richard M. Weaver] e altri esponenti della tradizione conservatrice dettero il loro contributo fin dall’inizio; accanto a loro, John Chamberlain, [Frank] Chodorov, [Wilhelm] Röpke, Max Eastman e Frank Meyer. Un nutrito gruppo di ex comunisti ed ex trotskisti partecipò molto attivamente alla battaglia della rivista: lo stesso Meyer, James Burnham, Willmoore Kendall, William Schlamm, ed altri. In sostanza, la rivista rappresentò quel momento di incontro e di confronto tra le varie anime del conservatorismo americano che il clima politico e culturale del decennio di Eisenhower favoriva. [...]

Sulle riviste del conservatorismo americano del tempo, in particolare «Faith and Freedom» e «The Freedom», la polemica era molto vivace. Sia [Murray N.] Rothbard che Chodorov, da posizioni libertarian e isolazioniste, insistevano che Mosca non rappresentava un pericolo, che la sua espansione nell’Europa orientale era un segno di debolezza e che la politica di contrasto e di riarmo di Washington mascherava la volontà di ingigantire i poteri dello Stato: «Il reale nemico, essi dichiaravano strenuamente, era lo Stato, di cui il comunismo era soltanto una variante». Da parte loro, interventisti come Schlamm e William Henry Chamberlin sostenevano che «il comunismo era inerentemente espansionista, totalitario, inaffidabile e “incurabilmente aggressivo”: il fine sovietico era la conquista del mondo».

Contro il perfettismo
[...] Secondo Buckley, questi erano i caratteri distintivi della filosofia dei liberals: «Sono uomini e donne che tendono a credere che l’essere umano sia perfettibile e che si possa prevedere il progresso sociale, e che lo strumento per raggiungere ambedue gli obiettivi sia la ragione; che le verità siano transitorie e determinate empiricamente; che l’eguaglianza sia desiderabile ed ottenibile per mezzo dell’azione dello Stato; che le differenze sociali ed individuali, se non sono razionali, sono reprensibili e dovrebbero essere eliminate scientificamente; che tutti i popoli e le società dovrebbero impegnarsi ad organizzarsi sulla base di paradigmi razionali e scientifici». Il messaggio liberal aveva una carica pedagogica tipica dell’indottrinamento, sosteneva Buckley [...]. L’atteggiamento liberal verso il conservatorismo era un atteggiamento di negazione dell’esistenza stessa o della consistenza intellettuale del conservatorismo, o, in alternativa, di valutazione del conservatorismo stesso come di una patologia o di una forza politica oscurantista. Buckley riproponeva i principi basilari del pensiero conservatore: «Libertà, individualismo, senso della comunità, santità della famiglia, supremazia della coscienza, visione spirituale della vita».

Felix Morley e i valori USA
Giornalista e saggista, Felix Morley dedicò la sua attività al problema del federalismo come decentramento di poteri e, conseguentemente, come migliore difesa delle libertà individuali. Da questo punto di vista, egli appuntò la sua riflessione sul processo di concentrazione dei poteri durante gli anni del New Deal, intesa come sostanziale violazione dei principi della tradizione politica liberale americana e delle sue radici nella filosofia giudaico-cristiana. In bilico tra l’individualismo liberale e il comunitarismo conservatore, Morley ha lasciato una serie di pregevoli contributi su queste tematiche fondamentali, intrecciandole spesso con i problemi contingenti della politica estera americana, della lotta al comunismo e della guerra fredda, e del futuro del federalismo americano in un’epoca di statalismo, nella forma del totalitarismo comunista come in quella delle cosiddette economie “miste” dell’Europa occidentale.

Come molti degli scrittori della tradizione liberale e conservatrice americana, anche Morley si impegnò a ricostruire e riattualizzare le “radici dell’ordine americano”, per usare il titolo del famoso libro di Kirk, eredità della Dichiarazione d’Indipendenza e del processo formativo della Costituzione americana. I primi anni della guerra fredda, in cui lo statalismo del New Deal rappresentava il pericolo del radicamento di una filosofia pubblica contraria alla tradizione individualistica americana, videro la pubblicazione di numerose opere che tendevano a riportare in primo piano i valori del liberalismo individualistico americano come indicazione della possibile, auspicabile ripresa di un cammino interrotto. Così, nel 1949, Morley pubblicò un ampio studio sulla storia della Repubblica americana come repubblica liberale fondata sui diritti naturali dell’individuo e, nello stesso tempo, sui principi religiosi giudaico-cristiani.

La libertà economica, cioè lo sviluppo del capitalismo, fu il cardine, nell’analisi di Morley, della libertà americana; ma il New Deal rappresentò una svolta drammatica nella storia della libertà americana: «Immediatamente, durante la sua prima amministrazione, Roosevelt mostrò tacitamente la sua intenzione di distruggere la libertà economica negli Stati Uniti, sostenendo allo stesso modo di Karl Marx, sebbene più obliquamente, che questa condizione era più un male che un bene». Nella tradizione liberale americana, aggiungeva Morley, la vita dell’individuo è affidata per la gran parte alla sua discrezione, «relativamente poco è verboten, [...] con il risultato che l’individuo in America ha la libertà di sviluppare la propria filosofia della vita in un modo che appare addirittura temerario a coloro che sono educati nella tradizione statalistica, cioè, in sostanza, agli europei. Morley è chiaro al proposito: «La lezione fondamentale delle rivoluzioni necessita d’essere appresa nuovamente. È la concentrazione del potere politico, che ha per scopo di liberare gli uomini dall’oppressione, che quasi invariabilmente finisce in un’oppressione grande quanto quella che è stata eliminata, o persino più grande». [...] La sua originalità, rispetto all’impianto tradizionale delle idee della Old Right, consiste nell’aver coniugato con una certa efficacia la centralità della tradizione individualistica americana con la conduzione della politica estera lungo tutto l’arco della storia degli Stati Uniti; e, di conseguenza, nell’aver evidenziato il riflesso negativo che le politiche statalistiche del New Deal avevano avuto sull’atteggiamento americano durante la guerra e nel dopoguerra.

The Foreign Policy of the United States, del 1951, poneva in risalto queste contraddizioni e legava le considerazioni sulla politica estera americana ai principi costituzionali ed alla tradizione politica americani. La prima, importante notazione di Morley riguardava la conduzione bipartisan della politica estera americana, giudicata «[...] fallace, dannosa per l’economia e l’efficienza produttiva, contraria ad ogni principio di base della forma americana di governo, e direttamente responsabile di tutti i più gravi errori commessi nel campo della politica estera». [...]

Non solo. Morley condannava senza mezzi termini l’entrata in guerra degli Stati Uniti ed ogni impegno internazionale americano nel dopoguerra. La ratifica del Patto Atlantico da parte del Senato, il 21 luglio 1949, aveva segnato, per Morley, «il completo rovesciamento della politica estera tradizionale americana», che s’era sempre fondata «[sul] non-intervento e [sull’] automatico riconoscimento di ogni governo stabile». Questa politica s’era poi definita nel tempo come una politica di neutralità. Ora, il ribaltamento di questa consolidata politica estera aveva condotto a delle gravi conseguenze che Morley riassumeva in sette punti: 1) la caduta di qualsiasi precauzione contro i disegni espansivi del Cremlino; 2) l’insistenza sulla resa incondizionata della Germania, che aveva creato un vuoto politico al centro dell’Europa a vantaggio dei sovietici; 3) l’accondiscendenza verso l’espansione dell’Unione Sovietica nel centro dell’Europa più ricca e produttiva; 4) la decisione di isolare Berlino e Vienna da ogni contatto con le zone controllate dagli occidentali; 5) il varo del Piano Morgenthau che intendeva ridurre la Germania ad uno Stato agricolo; 6) la frammentazione dell’economia giapponese, al fine di ridurne la capacità di ripresa produttiva; 7) il “permesso” concesso a Mosca di occupare e comunistizzare la Corea al di sotto del 38° parallelo. A ciò si doveva aggiungere la stolta politica di condanna di alcuni regimi decisamente anti-comunisti, come quello di Franco in Spagna, sbrigativamente definiti fascisti prima da Marshall, poi da Acheson. [...]

Con la critica al concetto di “volontà generale” di Rousseau Morley giungeva al cuore del problema: «La minaccia fondamentale, dal punto di vista individualistico, è la teoria della volontà generale». Per Morley, come per altri scrittori di quegli anni, la promozione del benessere individuale era la base del benessere generale, «ma la teoria della volontà generale era completamente rigettata e ripudiata, non solo con l’istituzione di un governo con i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario ben bilanciati tra di loro, come sosteneva Montesquieu, ma anche con l’attribuzione di poteri ben delimitati ed elencati da affidare al governo centrale in quanto tale». È questo il tema centrale dell’opera più importante di Morley, Freedom and Federalism (1959), in cui l’autore parte dalla considerazione delle radici cristiane della nazione americana per poi esaminare i principi-cardine dell’ordine americano, tutti fondati su una struttura politica bilanciata, «[...] volta a proteggere le minoranze contro la maggioranza, fino all’estrema minoranza, quella costituita da un solo uomo, l’individuo». L’insieme degli individui in quanto tali dà vita al governo, locale e nazionale, attribuendo ad esso ben precisi e delimitati compiti: «Gli uomini che scrissero la Costituzione erano pienamente consapevoli che in questo tentativo di conciliare Ordine e Libertà essi stavano manovrando tra Scilla e Cariddi». Morley si muoveva tra il pensiero di Kirk e l’individualismo libertarian, ma comunque contro il trionfo dello “Stato onnipotente” fondato sulla cosiddetta volontà generale, il concetto roussoviano che trovò la sua massima realizzazione teorica in Marx; ecco perché Morley sosteneva che gli Stati Uniti non fossero una democrazia politica nel senso statalista inteso dalla nozione di “volontà generale” di Rousseau: «L’essenza della Costituzione è, naturalmente, il sistema federale che vi è incardinato. Ogni provvedimento di legge è basato sul concetto di questi Stati Uniti. Essi non possono fondersi in un singolo Stato finché vige la Costituzione. E così, per tutti coloro che rispettano la Costituzione, i Diritti degli Stati sono un dato fondamentale, mentre la democrazia politica non lo è affatto».

Promesse per il futuro
Con la vittoria di Ronald Reagan nelle elezioni presidenziali del 1980 il movimento conservatore americano giungeva al suo primo grande successo politico dopo più di trent’anni di impegno e di lotta.
In Reagan gli elettori conservatori videro finalmente l’incarnazione delle loro aspirazioni e dei loro programmi, anche se è difficile dire se «essi sapessero o meno che le idee politiche di Reagan avevano le loro radici nell’ideologia degli anni ’40 e ’50 [...]»1. Che essi ne fossero o meno consapevoli, è una questione di non grande rilevanza: il trionfo di Reagan riportava il conservatorismo americano sugli scudi, dopo anni di dure battaglie per emergere sulla scena politica, vincere l’apatia degli elettori e sconfiggere l’arroganza liberal. [...]
Al di là delle divisioni filosofiche che sono state messe in rilievo in questo lavoro, è indiscutibile che il collante che unì nei decenni del dopoguerra le varie anime del conservatorismo americano fu l’anti-statalismo. [...] Per quanto il Partito Repubblicano, ai tempi di Eisenhower, non rappresentasse compiutamente le idee conservatrici (anzi Eisenhower proseguì in buona parte le politiche del Welfare State), i conservatori americani non avevano che nel Grand Old Party il loro punto di riferimento politico-elettorale.

Il turning point fu la candidatura di Barry Goldwater alle elezioni presidenziali del 1964. Nonostante la secca sconfitta, si verificò un caso abbastanza raro nella storia dei partiti politici dell’Occidente: innervato da una forte militanza conservatrice, il Partito Repubblicano iniziò una formidabile rimonta che portò prima all’elezione di Nixon e poi, soprattutto, a quella di Reagan nel 1980. E, se Nixon non rappresentò le istanze conservatrici se non in minima misura, Reagan, al contrario, fu l’uomo vincente dei conservatori. [...]
Quando il Cremlino mostrò il suo vero volto, il “progressismo” comunista apparve ai liberals ed all’opinione pubblica americana come un inganno. E lo statalismo comunista si palesò per ciò che era sempre stato, lo “Stato onnipotente”, totalitario, esattamente ciò che i conservatori avevano sempre sostenuto. Così, lo statalismo liberal non fu più una coperta ideologica sufficiente per giustificare lo statalismo “progressista” sovietico. Fu questo il punto di partenza della rimonta conservatrice. La vittoria schiacciante di Eisenhower e il declino del Partito Democratico ebbero un effetto tonificante per il movimento conservatore: la ripresa fu lenta e, in taluni momenti, contraddittoria, ma efficace nel lungo periodo.

L’elezione di George W. Bush conferma, per ora, questa tendenza.


da "Il Domenicale" [/B][/QUOTE]

Templares
14-02-05, 18:04
Il pensiero conservatore statunitense

" brano estrapolato dal pezzo "Neocon, paleo, libertarian... Il movimento ha bisogno di tutti" di Lee Edwards (Distinguished Fellow in Conservative
Thought presso The Heritage Foundation, Washington)


In cosa credono allora i conservatori oggi? Negli stessi princìpi che li hanno, che ci hanno guidati per 30, 50, 225 anni. Ossia:
– in 99 casi su cento, per prendere le decisioni più efficaci in campo economico è meglio affidarsi al settore privato che non a quello statale;
– il governo serve meglio coloro che governa quando i suoi poteri sono limitati;
– assieme alla libertà, i singoli sono tenuti a esercitare la responsabilità;
– esiste un ordine morale oggettivo;
– la forza militare è garanzia efficace della pace;
– gli Stati Uniti non dovrebbero esitare mai nell’usare la propria potenza e la propria capacità d’influenza per dare al mondo un volto amico verso gl’interessi e i valori appunto statunitensi.

Il movimento conservatore, insomma, è oggi vivo e vegeto e diffusissimo nel Paese.
Il potere di trasformazione che esso ha esercitato negli ultimi decenni è innegabile. Alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso sembrava che il futuro riservasse al mondo solo il dominio incontrastato del socialismo, e che despoti quali Stalin e Mao Zedong potessero essere solamente contrastati, mai vinti. Gli anni Novanta hanno invece visto il crollo del comunismo e la diffusione nel mondo sia della democrazia liberale sia della libertà di mercato, e questo grazie alla leadership di conservatori carismatici come Ronald Reagan e Margaret Thatcher.

Egualmente profondo è stato l’impatto esercitato dal conservatorismo moderno in patria, negli Stati Uniti. Chi si riconosce figlio di una tradizione antica almeno quanto la fondazione di questa nostra repubblica nutre forti sospetti nei confronti dello statalismo, coltivando in sé quel diffuso atteggiamento mentale che negli Stati Uniti è reso dal motto «leave us alone», “lasciateci in pace”.
Per iniziativa dei conservatori, diversi fra i principali indicatori culturali del Paese – per esempio il tasso della violenza criminale, la quantità dei cittadini che dipendono da programmi di assistenza sociale, il numero dei suicidi giovanili e il livello della povertà infantile – si sono drasticamente ridotti. Addirittura si è modificato significativamente l’atteggiamento pubblico nei confronti dell’aborto, in particolare dell’abominevole pratica dell’aborto a nascita parziale.
Nel 1947 lo storico liberal Arthur M. Schlesinger jr. scrisse: «[s]embra che negli Stati Uniti non esista alcun ostacolo interno in grado di fermare l’avanzata graduale di quel socialismo che si sta attuando grazie a una serie di “nuovi corsi” politici». Cinque decenni dopo, l’opinionista conservatore George F. Will poteva invece sottolineare come il nostro tempo abbia visto il «crollo intellettuale del socialismo».

La costante politica che lega fra loro questi cinquant’anni è stata la nascita della Destra, il cui itinerario verso la conquista del potere e della supremazia nel Paese è stato spesso interrotto dalla morte dei suoi leader, da sconfitte elettorali disatrose, dal costante disaccordo interno sui mezzi da utilizzare e sugli scopi da perseguire, e dalla persistente ostilità dell’establishment progressista. Grazie però al potere delle idee – unitamente all’impagabile principio della libertà ordinata –, nonché alla seminagione e all’applicazione efficaci di quelle stesse idee, il movimento conservatore è divenuto uno dei giocatori più importanti, e spesso quello dominante, sul campo della politica e dell’economia nazionali.
Mi sia peraltro concesso d’introdurre qui un distinguo importante. Quello conservatore è un movimento politico indipendente e non è strutturalmente legato ad alcun partito. Non siamo, insomma, gli animaletti da compagnia di alcun uomo politico, per quanto potente o influente questi sia. Detto senza giri di parole, noi conservatori non siamo in vendita.

Il nostro movimento è invece totalmente dedito alla preservazione di realtà permanenti quali la libertà, la fede e la famiglia. Il nostro occhio resta fisso alla Stella polare della nostra Costituzione federale. E siccome siamo rimasti fedeli ai nostri princìpi, noi conservatori abbiamo molto da celebrare ogni 4 luglio, giorno della festa nazionale.
Nel 1776, scrivendo alla moglie Abigail, John Adams osservò che l’anniversario della nostra indipendenza dovrebbe essere sempre celebrato in grande stile: «con pomposità e parate pubbliche [...] con spettacoli e giochi [....] con gare sportive e salve di cannone e rintocchi di campane [...] con fuochi di artificio e illuminazioni, da un estremo all’altro del continente, e come oggi così per sempre». Fu proprio il 4 luglio 1776 – ha osservato Reagan – che ebbe infatti inizio una delle maggiori avventure della storia, allorché a Filadelfia un drappello di patrioti decise d’impegnare la propria vita, le proprie fortune e il proprio sacro onore per la causa della libertà e dell’indipendenza.

Guidati dalla fede profonda in Dio e da una insaziabile sete di libertà, gli Stati Uniti hanno quindi conosciuto ogni genere di prosperità per oltre due secoli. Lungo il tragitto, i nostri avi e predecessori hanno patito prove terribili: i rigori invernali nell’accampamento di Valley Forge durante la Guerra d’indipendenza, il crogiuolo di una guerra civile, due conflitti mondiali, una grande depressione e una Guerra fredda durata 40 anni. Ma alla fine hanno trionfato.
Oggi ci troviamo impegnati in un conflitto nuovo e diverso, la Guerra contro il Terrore, in cui il nemico complotta segretamente e colpisce improvvisamente. Eppure sapremo superare questo scoglio così come già abbiamo fatto in precedenza: grazie alla fede, alla determinazione e alla fiducia reciproca che ci contraddistingue.
L’arma segreta degli Stati Uniti è infatti questa: «noi il popolo», le parole con cui si apre la Costituzione.

Come già ebbe ad affermare Reagan, è la fiducia nella nostra gente ciò che ha mantenuto vivo lo spirito della guerra d’indipendenza nordamericana, uno spirito che c’incoraggia a sognare e a osare, ad assumerci rischi grandi così come a sopportare sacrifici enormi a vantaggio del bene comune. Lo spirito cioè di George Washington, di Thomas Jefferson e di James Madison; di Robert A. Taft e di Barry M. Goldwater; di Phyllis Schlafly e di Clare Booth Luce; di Russell Kirk e di Richard M. Weaver; di William F. Buckley jr. e di Rush Limbaugh; di Robert Kreible, di Henry Salvatori e di Richard Scaife. E questo solo per nominare alcuni dei maggiori fra i filosofi, i divulgatori, gli uomini politici e i mecenati che hanno svolto ruoli decisivi nella crescita del movimento conservatore statunitense nello scorso mezzo secolo.

da "Il Domenicale"

Templares
14-02-05, 18:08
Posto questo brano perchè riassume in breve i cardini del pensiero conservatore. Credo possa esserci di aiuto.



La filosofia politica del neopresidente Usa George Bush
Il nuovo conservatore è “compassionevole”
di Achille Lega

È in politica interna che un nuovo presidente americano deve sin dall’inizio imprimere il proprio personale sigillo “ideologico”. Il repubblicano George Walker Bush non si è sottratto a quest’obbligo.
Cosciente delle attese fra amici e nemici il “conservatore compassionevole” autodefinizione di un centrista moderato si è mosso subito con insolita rapidità. In meno di due settimane dall’insediamento ha lanciato chiari segnali della propria rotta in campo sociale.
PIÙ ISTRUZIONE E BENEFICENZA
Un serrato fuoco di fila che ha sorpreso: al primo posto, riforma legislativa dell’istruzione di base in difficoltà; blocco immediato dei finanziamenti federali, confermati da Clinton, alle organizzazioni private americane pro aborto operanti all’estero; fondi governativi più accessibili per le “charities” (istituzioni di beneficenza) di natura religiosa, quale che sia, impegnate nell’assistenza ai poveri e agli esclusi; riforma della legge federale a favore dei disabili; rilancio dell’AmeriCorps, l’organizzazione volontaria nazionale al servizio delle comunità locali; nuove iniziative per i figli dei detenuti, programmi di riabilitazione prerilascio per gli stessi detenuti; doposcuola e piani di alfabetizzazione per i figli della povertà e dell’abbandono.
MENO TASSE
Anche il suo progetto di massicci tagli fiscali lungo l’arco di un decennio - pari a oltre un trilione di dollari (1,6), in lire più di un milione di miliardi -, che ha sollevato tante polemiche e consensi, contempla specifici risvolti sociali come un credito fiscale per le donazioni in beneficenza, una deduzione generale per chi non dettaglia questi contributi, una riduzione della cosiddetta “penalità matrimoniale” che colpisce i coniugi percettori di due redditi. Per quanto ancora incompleto, il piano di drastico alleggerimento fiscale a tappe - ora più realizzabile in Parlamento visto il quasi alt del lungo boom economico americano - prevederà, ha detto il consigliere economico Lawrence Lindsey, un aumento dei tagli nel primo anno e la retroattività per alcuni di essi. Il “tetto” però rimane invariato.
La filosofia del conservatorismo “compassionevole” e cioè socialmente sensibile che emerge dal primo pacchetto di decisioni, proposte o iniziative sembra corrispondere anche all’appello con il quale il 20 gennaio, a Capitol Hill, il neopresidente ha concluso il suo breve discorso d’insediamento: «Vi chiedo di essere cittadini. Cittadini, non spettatori. Cittadini, non sudditi. Cittadini responsabili, che costruiscono comunità di servizio e una nazione di carattere». L’enfasi è così spostata, rispetto alla tradizione più “statalista” all’interno della pur divisa galassia democratica, dal pubblico al privato.
Questo comporta in parallelo un nuovo movimento verso i poteri locali del “pendolo” federalista americano che oscilla ciclicamente fra Washington e gli Stati e gli enti locali.
Una riprova delle oscillazioni viene dalle proposte in materia di istruzione che conferiscono più fondi nazionali agli Stati, e quindi alle scuole e ai distretti scolastici, semplificando nel contempo le normative federali ma esigendo in contropartita dai destinatari di rispondere in termini di qualità dei risultati, anche con la competizione fra istituti.
PIÙ EDUCAZIONE
Come ultima scelta dovrebbe essere possibile, in situazioni scolastiche irrecuperabili, utilizzare fondi federali (non si parla apertamente di voucher, buoni scuola) per far studiare i figli in scuole private, laiche o religiose. In realtà, osserva il settimanale inglese The Economist (27.1.01), nella cornice federale il disastrato sistema scolastico pubblico è così decentrato - 14.800 distretti autonomi - e i finanziamenti centrali equivalgono soltanto al 7% della spesa totale per l’istruzione che imporre standard qualitativi nazionali risulta pressoché impossibile. Ma la decisione di Bush di concentrarsi sull’educazione è “una mossa politica sensata”. Anche se avrà contro il potente sindacato degli insegnanti legato ai democratici. L’equilibrio fra necessario impulso federale e rispetto dei poteri locali, di fronte ai troppi fallimenti della scuola pubblica con i relativi enormi costi sociali per i ceti deboli, è comunque un’altra dimostrazione della duttilità politica messa in campo da Bush junior. A quale “filosofia” si richiama dunque questo presidente?
PENSIERO CRISTIANO
Saldamente ancorato ai valori e alle tradizioni dell’America in senso ampio cristiana (appartiene alla Chiesa metodista, confessione evangelica riformista nata nel ’700 dalla Chiesa protestante anglicana e fondatrice fra l’altro dell’esercito della salvezza), George W. è politicamente influenzato dall’importante pensiero “comunitario” elaborato negli Usa. È stato il Washington Post Service a illustrare i legami del presidente con il movimento culturale che fa capo a personalità accademiche note anche in Italia, come Amitai Etzioni, docente alla George Washington University, e Robert Putnam di Harvard. Il sociologo Putnam, autore di un importante studio sulle regioni italiane (“La tradizione civica nelle Regioni italiane”, Mondadori 1993), è stato consultato dallo staff di Bush per la stesura del discorso inaugurale.
Non a caso infatti, osserva Etzioni, il testo era punteggiato di termini come “civility” (cortesia, educazione), responsabilità, comunità.
«Il nostro pubblico interesse aveva detto il presidente dipende dal carattere in privato, dal dovere civico, dai legami famigliari e dall’equità di fondo, dagli innumerevoli e non celebrati atti di gentilezza che indirizzano la nostra libertà».
VALORI COMUNITARI
Al comunitarismo in parte si era rivolto anche Clinton chiamando fra i suoi consiglieri William Galston dell’Università del Maryland, esponente del movimento. Ma con il “clintonismo” serpeggiava un conflitto. I comunitari infatti sostengono che l’individualismo estremo (diritti contro doveri) stia minando l’America e vada quindi corretto con il riconoscimento degli interessi della comunità. Anche in questo senso il pendolo della “heartland” americana, il cuore del Paese, si sposta di nuovo verso i “valori e la moralità” che, si pensa, possono essere meglio promossi dalle comunità di base organizzate. Noi diremmo, dai corpi sociali intermedi, dalla genuina società civile. «Abbiamo bisogno osserva Putnam di collegarci l’uno con l’altro. Dobbiamo spostarci un po’ di più verso la comunità nell’equilibrio fra comunità e l’individuo». E Bush, appunto, ha portato alla Casa Bianca esperti in “communitybuilding”, la costruzione o ricostruzione di un tessuto sociale autonomo, laddove si è perduto. Per gli americani può essere un ritorno alle origini.


di Achille Lega (La Padania)

Templares
14-02-05, 18:21
Neocon, paleocon, tradizionalisti e liberisti
IL FOGLIO, 10 Gennaio 2004
Il neoconservatorismo è diventato l'argomento del giorno. Ma esiste davvero? E se esiste, che cos'è? Che cosa c'è esattamente di "nuovo" nel neoconservatorismo, e in che modo si differenzia da altre correnti del pensiero conservatore americano? Qual è l'influenza politica esercitata oggi dal neoconservatorismo? E' a quest'ultima domanda che tutti vorrebbero dare una risposta. Eppure, non si può valutare l'influenza del neoconservatorismo sulla Casa Bianca di Bush se non si è prima raggiunta una corretta comprensione di ciò che è, e di come si distingue dal vecchio conservatorismo.
Fino a poco tempo fa, si pensava che la forza del neoconservatorismo si fosse esaurita. Pochi intellettuali si definivano ancora "neocon", e quest'etichetta non compariva quasi mai nei dibattiti politici o nei media. I due più autorevoli esponenti del neoconservatorismo avevano entrambi dichiarato che la definizione aveva perso il suo significato e la sua utilità. Nel suo libro "Neoconservatism: The Autobiography of an Idea", pubblicato nel 1995, Irving Kristol poneva questa domanda: "Dove sta oggi il neoconservatorismo?", e dava questa risposta: "E' chiaro che ciò che si può a ragione definire l'impulso neoconservatore è stato un fenomeno generazionale, ora in gran parte riassorbito in un conservatorismo più ampio e di vasta portata". Un anno dopo, in un discorso all'American Enterprise Institute, Norman Podhoretz ha dichiarato con enfasi che "il neoconservatorismo è morto".
Nel corso dell'ultimo anno, tuttavia, e soprattutto nei mesi che hanno preceduto la guerra in Iraq, la definizione di neoconservatorismo è rientrata sulla scena delle nostre discussioni pubbliche e politiche. "Sono i neocon il cervello che opera dietro la decisione di rovesciare Saddam presa da Bush", ha scritto Jacob Heilbrunn sul Los Angeles Times, aggiungendo: "senza di loro non si parlerebbe così tanto di guerra". I neocon sono anzi diventati l'obiettivo preferito delle critiche della sinistra e della destra pacifiste. Sebbene John Judis e Patrick Buchanan possano avere ben poco in comune, e sebbene Christopher Mattews e Paul Craig Roberts non abbiano la stessa opinione quasi su nulla, tutti concordano sul fatto che la guerra in Iraq sia stata in qualche modo il frutto dell'ideologia neoconservatrice. E l'interesse suscitato dal neoconservatorismo non è affatto diminuito: "I Neocon in prima linea" titolava un recente articolo di Newsweek; "I Neocon assumono il controllo" era il titolo di un altro pubblicato sul New York Review of Books. L'aspirante presidente Howard Dean ha dichiarato in campagna elettorale che il presidente Bush "è stato preso prigioniero dai neoconservatori che gli stanno attorno".
All'inizio ho avuto la tentazione di considerare il ritorno del neoconservatorismo come un semplice spauracchio agitato dalla sinistra, o come una sorta di etichetta conveniente, usata dai giornalisti per sottolineare le evidenti spaccature all'interno dell'Amministrazione Bush. Entrambe le spiegazioni hanno un certo merito; tuttavia bisogna osservare che il neoconservatorismo non è mai del tutto scomparso, come viene spesso affermato. Il neoconservatorismo potrebbe rappresentare non un fenomeno generazionale ma soltanto una delle varie correnti fondamentali che animano il conservatorismo nel suo complesso. La definizione di neoconservatori è stata applicata a uno specifico gruppo di intellettuali che si sono spostati da una visione politica di tipo neo-liberal negli anni Sessanta e Settanta a quella poi nota con il nome di neoconservatorismo. Ma ora sembra che esso rappresenti, almeno in America, una naturale risposta del conservatorismo alla modernità; una risposta dotata di proprie qualità, formulata con un proprio stile, con tutte le sue forze e le sue debolezze.
Gli elementi fondamentali del neoconservatorismo appaiono nel modo più chiaro se confrontati con quelli dei suoi due principali rivali all'interno del mondo conservatore: il liberismo e il tradizionalismo (non mi dilungherò sui conservatori religiosi e sugli straussiani, dato che sono spesso alleati con i neocon e hanno contribuito alla formazione del neoconservatorismo). Queste tre tradizioni conservatrici (tradizionalismo, liberismo, neoconservatorismo) hanno radici storiche e filosofiche ben distinte. Esprimendoci in termini generali, i tradizionalisti hanno il proprio modello in Edmund Burke, i liberisti in Friedrich Hayek e i neocon in Alexis de Tocqueville. Tuttavia, ognuna di esse ha origine anche in qualcosa di più profondo ed elementare. Nessuno di noi può sottrarsi al proprio personale giudizio sulla moderna vita americana: sulle sue possibilità e sui suoi limiti, se sia rispettosa della dignità umana oppure alienante e corrotta. Chi disprezza una buona parte della nostra vita moderna, aggrappandosi agli antichi costumi ereditati dal passato, propende per il tradizionalismo. Altri, che festeggiano le nuove libertà e le nuove tecnologie, scelgono il liberismo. E chi vede nella modernità ideali e principi ammirevoli, ma anche tendenze preoccupanti, opta per il neoconservatorismo.

continua.......................................... .......................

Templares
14-02-05, 18:23
I Tradizionalisti (Neo-Cons)

Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, alcuni straordinari pensatori cercarono di adattare alla vita pubblica americana il conservatorismo tradizionalista à la Burke. Vennero presto definiti i "nuovi conservatori". Il più autorevole era Russel Kirk, autore, nel 1953, del best-seller "The Conservative Mind". Un modo senza dubbio troppo semplicistico, ma per i nostri scopi comunque sufficiente, di caratterizzare l'opera di Kirk sarebbe quello di dire che ha avviato una svolta tra i conservatori americani, allontanandoli da una filosofia borghese ispirata a Locke e avvicinandoli ad una moderatamente aristocratica ispirata a Burke. Nel periodo precedente la Seconda guerra mondiale un tipico "conservatore" americano era infatti un liberal del XIX secolo: un fedele sostenitore del laissez-faire, dello sviluppo scientifico e, più in generale, del progresso. La rinascita di Burke che Kirk ha contribuito a rilanciare negli anni cinquanta ha fornito al conservatorismo americano una voce molto diversa. Non sarebbe stato più disposto ad accettare di essere il partito del "big business" o un difensore della società borghese. I tradizionalisti si unirono a Burke nel suo lamento che "l'èra della cavalleria è finita" e nella sua denuncia del "nuovo dominante impero dei lumi e della ragione".
Per i "nuovi conservatori" il problema era rappresentato innanzitutto dalla moderna rapacità degli uomini, come dimostra questo brano tratto dall'opera classica di Kirk: "Lo spettacolo moderno di foreste scomparse e terre desertificate, di petrolio sprecato inutilmente, di debiti nazionali lasciati ad accumulare senza alcuna preoccupazione fino a livelli incontrollabili, di continue revisioni del diritto positivo, è una prova evidente dei danni che un'èra priva di qualsiasi venerazione causa a se stessa e a quelle future". Nella romantica descrizione che Kirk fa della cittadina di Beaconsfield, dove fu sepolto Burke, la difficoltà del tradizionalismo ad adattarsi alla moderna società di massa appare con grande evidenza: "Ben poco è cambiato qui: le solide case vecchie di quattro secoli, la piccola e pulita locanda, le grandi querce e le tranquille vie sono ancora le stesse dei tempi di Burke, anche se le villette e i nuovi sobborghi urbani di Londra affondano già i propri denti in Buckinghamshire e le piccole industrie stiano invadendo le città della zona. A Stoke Poges, a sole poche miglia di distanza, un enorme e orribile complesso edilizio di oppressiva monotonia si appoggia direttamente al muro del camposanto della chiesa principale. Ma la Città Vecchia di Beaconsfield è soltanto un'isola dell'antica Inghilterra nel mare industriale e proletario dell'umanità".
Il progetto di Kirk non si indirizzava alla politica pubblica, ma era uno sforzo di definizione filosofica e di rinascita culturale. Prendendo Burke a suo modello, Kirk voleva spiegare al pubblico americano che cosa significava essere un conservatore e pensare in modo conservatore. Nel libro "The Conservative Mind" analizzò un'ampia serie di pensatori conservatori, da John Adams a Tocqueville e da Disraeli a Henry Adams. Era passato molto tempo da quando si insegnava ancora agli americani di studiare con serietà questi pensatori, e i numerosi scritti di Kirk hanno trasformato il panorama del conservatorismo americano. Nei suoi primi anni di attività, la rivista National Review è stata profondamente influenzata da modelli di pensiero tradizionalista, e per un certo periodo lo stesso Kirk vi collaborò. Il motto della rivista, scritto da William F. Buckley nel 1955, era una chiamata alle armi di ispirazione neo-burkeana, in cui si dichiarava che National Review "si alza in piedi di fronte alla storia, e grida: stop".
Il desiderio di fermarsi, riflettere, riconsiderare e magari tornare indietro resta vivo all'interno dei circoli conservatori. Lo si può osservare nella difesa della famiglia tradizionale, nel rispetto delle antiche virtù e della sensibilità religiosa. Sul terreno pratico, appare evidente nell'idea tradizionalista che il governo federale abbia usurpato le prerogative delle comunità locali. Questi conservatori guardano con nostalgia ad un'America di piccole città e comunità strettamente legate, e diventano sempre più critici nei confronti di ciò che considerano il "conservatorismo del big government" sponsorizzato dal Presidente Bush.

continua..................................

Templares
14-02-05, 18:24
I Paleoconservatori

Questo è il momento adatto per fare una breve digressione e dire qualche parola sui paleoconservatori, come sono stati definiti. Comunemente considerati gli eredi di Kirk e dei tradizionalisti, i paleoconservatori in realtà non sono d'accordo con quelli che Kirk definisce gli autentici principi conservatori. Non sono conservatori, quanto piuttosto reazionari o pseudo-radicali. Si può affermare con sicurezza che i paleocon disprezzano gran parte del moderno stile di vita americano e desidererebbero di superare in qualche modo gli attuali schemi del dibattito politico americano.
I paleoconservatori sono rimasti praticamente sconosciuti al pubblico fino agli anni Novanta, quando Patrick Buchanan si è fatto campione di molte loro idee nel suo tentativo di dare nuova forma al partito repubblicano. L'obiettivo di Buchanan non era quello di restaurare un più antico ideale conservatore, bensì di avviare una riforma della destra. Nel 2000, ha mostrato chiaramente le sue intenzioni radicali uscendo dal partito repubblicano e presentandosi come candidato della Riforma. "Con questa campagna elettorale", ha dichiarato, "intendo ridefinire il significato della parola conservatore". Il conservatorismo à la Buchanan è, nel settore della politica economica, contro la liberalizzazione del commercio e contro la globalizzazione; in quello della politica sociale, contro l'immigrazione e per la protezione del diritto alla vita; in quello della politica estera, isolazionista. Tuttavia, nonostante le sue rigide posizioni sul diritto alla vita e i suoi frequenti richiami religiosi, Buchanan è stato rifiutato tanto dalla leadership quanto dalla base del conservatorismo religioso. Può anche avere dichiarato una "guerra religiosa" per il cuore e l'anima della nazione, ma i conservatori religiosi non lo hanno appoggiato. Nelle primarie repubblicane si sono schierati con il presidente Bush nel 1992 e con il senatore Robert Dole nel 1996, benché fosse ben noto che nessuno dei due appoggiava particolarmente l'agenda politica della destra religiosa. I mezzi di informazione in larga misura non si accorsero dell'importanza di queste alleanze, che danneggiarono notevolmente le prospettive elettorali di Buchanan. Il programma politico dei paleocon, a quanto sembra, è più idealista e donchisciottesco di quanto sembri a prima vista, e la destra religiosa è più borghese di quanto si creda comunemente.
Lo stesso termine di paleoconservatori è fuorviante. A differenza dei tradizionalisti, i paleocon sostengono che siamo ormai irrevocabilmente tagliati fuori da una tradizione viva e sostenibile. A loro giudizio, i veleni della modernità hanno corroso gli antichi usi e costumi, e il progetto di conservazione elaborato dal conservatorismo non è altro che una scintillante illusione. Sono quindi partiti alla ricerca di nuovi dèi. Thomas Fleming, direttore della rivista paleocon Chronicles: A Magazine of American Culture, si è rivolto alla sociobiologia, alla teoria evolutiva e all'antropologia, modelli niente affatto tradizionali tra i conservatori. Paul Gottfried, altro autorevole teorico paleocon, ha cercato una soluzione nella filosofia di Carl Schmitt e in altre ideologie storiciste. Samuel Francis, editorialista politico di Chronicles, ha invocato una "opposizione radicale al regime". Nel frattempo, Gottfried, nel suo libro "The Search for Historical Meaning", ha parlato con simpatia di un ritorno agli "eroi spirituali che elevano la civiltà illuminando con la loro luce il terreno dell'essere". In un altro suo libro, "The Conservative Movement", Gottfried ha riassunto così la posizione dei paleocon: "Sollevano questioni che sia i neoconservatori sia la sinistra vorrebbero lasciare chiuse nell'armadio, come, ad esempio, quelle sull'opportunità dell'uguaglianza sociale e politica, sull'utilità della riflessione sui diritti umani e sulla base genetica dell'intelligenza. In tutti questi assalti ai sentimenti di pietà liberal e neoconservatori, i paleocon rivelano una passione iconoclasta che non ha quasi mai caratterizzato gli intellettuali della destra post-bellica. Il loro animo è ispirato più da Nietzsche che dal neo-tomismo; e, come Nietzsche, vanno in cerca di idoli democratici, guidati dal disprezzo nei confronti di tutto ciò che considerano indegno della vita umana".

continua.......................................... .

Templares
14-02-05, 18:24
I Liberisti
A differenza dei paleoconservatori e dei tradizionalisti, i liberisti si trovano perfettamente a loro agio nel mondo di oggi. Si fondano su John Locke, Adam Smith, John Stuart Mill, e pensatori sociali del XX secolo come Friedrich Hayek. Lo spirito dei liberisti non è né rivolto al passato né a un utopico futuro. E' progressista, e aspira ad un'estensione sempre maggiore della libertà economica e della scelta individuale. I liberisti si oppongono praticamente a ogni forma di regolamentazione, nel settore del mercato come nel campo della morale.
Si può discutere sul fatto se il liberismo sia davvero una variante del pensiero conservatore. Hayek ha scritto un saggio per spiegare perché non era un conservatore, e Milton Friedman ha sempre ribadito di essere un liberal del XIX secolo, e non un conservatore. Ma ormai non ha più senso abbandonarsi a giochetti semantici e a polemiche su etichette e definizioni. Dagli anni Cinquanta ad oggi, il liberismo ha costituito una importante e influente (se non la più influente) corrente di pensiero della destra, che ha profondamente inciso sulla formazione della politica repubblicana e dell'ideologia conservatrice nel suo complesso.
L'influenza del liberismo è evidente in modo particolare nell'opposizione conservatrice al Big Government. E qui l'importanza degli scritti di Hayek, soprattutto del suo bestseller del 1944 "The Road to Serfdom", è decisiva. Il libro fu scritto per rispondere all'ascesa dei totalitarismi nazista e sovietico, ma anche alla crescente popolarità della pianificazione economica e del pensiero socialista, che caratterizzava in quegli anni tutta l'Europa. Hayek suonava l'allarme: "Abbiamo gradualmente rinunciato a quella libertà negli affari economici senza la quale non è mai esistita, nel passato, la libertà personale e politica". Il suo obiettivo principale era il socialismo, ma le sue argomentazioni avevano portata più ampia. Nelle prefazioni scritte per questo libro nel 1956 e nel 1976, Hayek ha sostenuto che anche i Welfare States degli Usa e dell'Europa occidentale, in continua espansione, avrebbero necessariamente portato al tramonto della libertà. Lo stesso concetto di "benessere generale" era sospetto ad Hayek, e in "The Road to Serfdom" lo ha denunciato come una nuvola di fumo dietro alla quale marcia il totalitarismo.
Anche i tradizionalisti considerano con molto scetticismo il moderno Welfare State. Ma è la forma meno romantica, più analitica e politicamente orientata della critica liberista che oggi domina nei think tank di Washington, come quelli del Cato Institute, dell'American Enterprise Institute e della Heritage Foundation. Predomina la loro preoccupazione per l'efficienza economica e la libertà individuale, e non il desiderio dei tradizionalisti di preservare lo spirito morale della vita di una cittadina. Nel 1994, Newt Gingrich è stato eletto Presidente della Camera dei Deputati grazie soprattutto alla sua campagna liberista per tenere sotto controllo l'autorità regolamentativa del governo e le sue spese. E' stato il più grande trionfo politico del liberismo. Il preambolo del "Contratto con l'America" impegnava il partito repubblicano a porre "fine ad un governo che è troppo esteso, troppo intrusivo e troppo generoso con il denaro pubblico". Nel suo discorso inaugurale come presidente della Camera, Gingrich ha consigliato agli altri membri del Congresso di "imparare dal settore privato: dalla Ford, dalla Ibm, dalla Microsoft". Qui possiamo rintracciare una causa della storia d'amore tra i tradizionalisti e le nuove tecnologie: vorrebbero modernizzare il governo per mezzo della tecnologia informatica e promuovere la ricerca della felicità umana per mezzo della biotecnologia. (1. continua)
Adam Wolfson
© The Public Interest - Il Foglio
(traduzione di Aldo Piccato)

UgoDePayens
15-02-05, 12:05
Di carne al fuoco ne abbiamo già messa tanta... Penso che arrivare ad una sintesi debba anche significare fare una scelta, e se possibile tenderei ad evidenziare le DIFFERENZE tra conservatorismo e liberalismo.
Come ben evidenziato nell'ultimo intervento di templares ALCUNI punti in comune non mancano, però...

Templares
15-02-05, 12:54
In Origine postato da UgoDePayens
Di carne al fuoco ne abbiamo già messa tanta... Penso che arrivare ad una sintesi debba anche significare fare una scelta, e se possibile tenderei ad evidenziare le DIFFERENZE tra conservatorismo e liberalismo.
Come ben evidenziato nell'ultimo intervento di templares ALCUNI punti in comune non mancano, però...

Ho cercato di fare un quadro del conservatorismo statunitense.
Credo anch'io sia ora di chiudere il cerchio, il problema è che bisogna conoscere la linea degli altri, e finchè non si fanno vivi................

Templares
15-02-05, 13:10
In Origine postato da UgoDePayens
Di carne al fuoco ne abbiamo già messa tanta... Penso che arrivare ad una sintesi debba anche significare fare una scelta, e se possibile tenderei ad evidenziare le DIFFERENZE tra conservatorismo e liberalismo.
Come ben evidenziato nell'ultimo intervento di templares ALCUNI punti in comune non mancano, però...


Le differenze sono molto ma molto rilevanti, già lo sono negli States figuriamoci in Italia.

Italianhawk83
15-02-05, 13:12
Eccomi, pronto ad assumere la guida della prima commissione: rilevo con soddisfazione che templares ha già fornito un importante contributo al quale vorrei affiancarmi delineando un quadro generale dell'universo conservatore che intendiamo approfondire.

Lo farò nel post successivo, prescindendo da documenti preesistenti ed elaborando una sintesi personale per poter essere il più chiaro possibile, a vantaggio di chi si imbattesse per la prima volta in questo nobile filone di pensiero.
Comincia l'avventura...

Templares
15-02-05, 13:15
In Origine postato da Italianhawk83
Eccomi, pronto ad assumere la guida della prima commissione: rilevo con soddisfazione che templares ha già fornito un importante contributo al quale vorrei affiancarmi delineando un quadro generale dell'universo conservatore che intendiamo approfondire.

Lo farò nel post successivo, prescindendo da documenti preesistenti ed elaborando una sintesi personale per poter essere il più chiaro possibile, a vantaggio di chi si imbattesse per la prima volta in questo nobile filone di pensiero.
Comincia l'avventura...


Così mi piaci. Giorgio leggerò i tuoi interventi tra circa trenta minuti, spero di trovarti ancora in linea (adesso ho da fare).
A dopo.

Italianhawk83
15-02-05, 13:32
Cari Amici,
il titolo del mex mi sembra già sufficientemente significativo. Perchè? Perchè mi sono guardato bene dell'utilizzare la classica intestazione "come sono diventato un..." giacchè Conservatori si nasce e - perdonatemi la banalità citazionistica - io modestamente "LO NACQUI".

Voglio affrancarmi da tediose e pedanti giaculatorie, cercherò pertanto di essere estremamente chiaro e diretto.

Come "LO NACQUI"? Punto primo, per potersi accostare ad un filone di pensiero così trascurato (nella specificità del Belpaese) è assolutamente necessario che il "Sacro Fuoco" della politica bruci con ardore perlomeno doppio rispetto a coloro che - dai 14\15 anni - cominciano a proclamarsi fieramente "falciomartellati" o "fascistoni". E' evidente - e più che giusto - che quell'età non conosca quei complessi meccansimi politici che inducono alla ragionevolezza permettendo l'abbandono di posizioni velleitariamente radicali (magari ragionassero tutti così, piantandola di votare Rifondazione a 20 anni...).

continua...

Italianhawk83
15-02-05, 14:02
Quindi...o da una parte o dall'altra, possibilmente alla perfieria del corretto raziocinare: o rossi\rossissimi, filo-canna, pro-rivoluzione di quel proletariato ch'ei fu, "inkefiahti" dalla testa ai piedi (nb. forse l'80% dei giovani "pseudo-interessati" al fenomeno politico) o neri\nerissimi, "dagli al negro e all'ebreo" e impiastriccia di fasci e svastiche pure tua nonna...

Scusate la divagazione poetica ma credo che fornisca un quadro sostanzialmente realistico di quell'universo giovanile al più disinteressato da una politica che l'odierno sbarbatello sente difficile e distante dai propri interessi. Nel 2005 o ci nasci con quel "Sacro Fuoco", altrimenti è del tutto normale che continuerai a fregartene di ciò che accade in Parlamento e nelle varie sezioni partitiche. E' logico: capisco perfettamente questi ragazzi che non possono essere conquistati da una politica che si è fatta mera tecnocrazia, grigia gestione del potere. I movimenti giovanilli "d'apparato" (Sinistra giovanile, Azione giovani...) fanno letteralmente piangere e dovrebbero essere sciolti possibilmente domani (non più tardi) stante la loro trasformazione in ricettacoli di "poltroncine" che fungano da trampolino per assicurarsi un cantuccio nel partito dei "grandi".

Chi la spunta in questo quadro? Chi continua a sparare "fregnacce" estremiste pur avendo la bellezza di 50\60\70 anni: vedi i cari Bertinotti, Flores D'Arcais, Asor Rosa e compagni. Sono soltanto loro che continuano a fare opera di proselitismo tra giovincelli in cerca - più che legittimamente - di slogan di fuoco e parole d'ordine facili da masticare.

Il vecchio movimento sessantottino si è aggiornato: ha smesso la divisa partecipativa, proletaria e femminista per indossare i panni - altrettanto sdruciti (e falliti) - della contestazione noglobal, terzomondista e antiamericana drappeggiata - nel segno della continuità - dagli stessi vessilli filocastristi, pro-arabi e antisemiti.

continua...

Templares
15-02-05, 17:57
Credo che da questa commissione debba venir fuori una triplice relazione:
Conservatori in Italia
Conservatori in USA
Conservatori nel Regno Unito

Trattandosi di "commissione di studio" a mio avviso è in questo che lo studio deve sfociare.

Italianhawk83
15-02-05, 18:38
All'estrema "destra" non si registra nulla di analogo al rinnovato radicalismo sinistrorso. Perchè? Per ragioni storiche anzitutto quindi di natura strettamente politica. In Italia la "santa inquisizione antifascista" continua a operare con molto più zelo che altrove, ergo da queste parti non potremo mai avere una realtà simile - ad esempio - al Front National francese forte di un dato percentuale costantemente doppio-cifrato. La situazione mi addolora ben poco giacchè potrei definirmi in tutta franchezza antifascista ma non posso affatto tollerare quell'odiosa forma di doppiopesismo in ragione della quale il nostalgico stalinista continuerà ad essere protetto e cccolato a differenza dell'incamiciato nero costretto a strisciare nei bassifondi della legittimazione politica.

Cosa pretendo? Semplicemente uniformità di trattamento tra due forme di radicalismo parimenti deprecabili.

Ma veniamo a noi: chiedo venia per la prolissità dell'introduzione ma non potevo farne assolutamente a meno.
Quanti sono al giorno d'oggi gli ardimentosi che nel Belpaese hanno il coraggio di definirsi "conservatori"?. Beh la bellezza di quindici\sedici a fronte di parecchie milionate di indigeni. Scherzi a parte, ora c'è Bush, ora ci sono quei neoconservatori di cui tutti si riempiono la bocca, ora c'è Sharon, ora ci sono punti di riferimento variamente riconducibili all'universo conservatore che godono di fama assoluta diversamente dal deserto che mi si spalancava davanti allorquando (avevo ancora bavaglino e ciucciotto) maturai la consapevolezza che solo e soltanto l'etichetta conservatrice potesse rappresentarmi dal punto di vista umano e politico.

E qui giungiamo al punto focale della discussione: chi decide di indossare questa "divisa" accetta di abbracciare una "weltanshaung", ossia una "visione del mondo" ancor prima che una dottrina politica tout-court. Ben inteso, un PIANO DEL MONDO e non già un' IDEOLOGIA giacchè il rigido contrasto di ogni sistema ideologico è tra i principali imperativi di un Vero Conservatore.

continua...

Italianhawk83
15-02-05, 19:04
Un Vero Conservatore è anzitutto un realista che rifugge l'ideologia consapevole che essa sia sempre e comunque foriera di immani tragedie a partire dalla sua prima declinazione moderna - l'infame Rivoluzione francese - fino alle sue ultimi varianti novecentesche tutte parimenti fallimentari e sanguinarie: nazismo, comunismo e fascismo.

Chi scrive decide pertanto, alla "veneranda" età di 14 anni, di abbracciare l'impopolare causa conservatrice essendo perfettamente consapevole di quante difficoltà fosse costretto a fronteggiare. Motivo numero uno, perchè si smarcava dalla castrante dicotomia giovanilistica comunismo\fascismo, optando per una variante politica assai più complessa da sostenere alla luce dei puerili strumenti intellettuali in possesso di un quattordicenne.
Motivo numero due: perchè mi andavo a scegliere una scuola di pensiero assolutamente priva di rappresentanza in Italia. Solo ora, come anticipavo precedentemente in termini più banali, si registra nel Belpaese un gran fiorire di inchieste sul multiforme panorama "conservative" promosse da quotidiani, riviste, blog, ma prima che tutto ciò accadesse, l'unica voce che cercasse di far breccia in quest'italica destra "rossa" e socialista era il solo Marco Respinti.

continua...

india9001
16-02-05, 10:54
TEMPLARES ottima fruizione di documenti... ma post troppo lunghi... non esageriamo ragazzi xké tanto nn li legge nessuno così.

Templares
16-02-05, 13:18
In Origine postato da india9001
TEMPLARES ottima fruizione di documenti... ma post troppo lunghi... non esageriamo ragazzi xké tanto nn li legge nessuno così.


Da questa commissione deve venir fuori una relazione. I miei messaggi erano volti all'analisi del movimento conservatore statunitense.
Spero che i concetti fondamentali possano al più presto essere riassunti, (questo soprattutto per ItalianHawk) in modo da terminare i lavori e elaborare il manifesto storico-culturale del nostro movimento.

Templares
16-02-05, 13:25
Bisognerebbe postare qualcosa anche sulla storia della corrente Theo-Cons, io non ho trovato molto materiale. Chi ne abbia è pregato di postarlo.

india9001
16-02-05, 15:57
In Origine postato da templares
Alfredo Mantovano (deputatato di AN, membro di Alleanza Cattolica)

Coloro che, prima o poi, pervengono al parlamento, o si esprimavano già in politichese, o lo imparano subito. Trovate politici antipolitichese, come Berlusconi, per natura "politically incorrect", è difficile. Ma non impossibile. Chi legge il recentissimo libro di Alfredo Mantovano (introdotto da Giuliano Ferrara e prefato da Gianfranco Fini) potrà averne una prova,

Magistrato entrato in politica, deputato di An dal 1996 e ora sottosegretario agli interni, il salentino Mantovano ha scritto, sotto forma di bloc-notes, una difesa del pensiero conservatore.

Conservatore? Ma non è una parola proibita? Mantovano non si tira indietro. Non solo egli ritiene che il pensiero conservatore sia nel giusto, ma anche che oggi solo il recupero dei valori della tradizione consente a una democrazia in crisi come la nostra di non divenire una "democrazia totalitaria". Tutti, oggi, parlano di riforme. Ma le vere riforme può farle solo un coservatore. La riforma è un aggiornamento della tradizione, altrimenti è utopia. Tradizione, dal latino "tradere", significa portare avanti.

Proprio la crisi dell'utopia, per anni usata dai comunisti e dai loro fratelli separati come una clava per distruggere tutta la tradizione, richiede oggi riforme concrete, che solo il pensiero conservatore, insieme idealistico e realistico, può operare. Non certo la sinistra, che non avendo più una idendità si definisce "riformista", ma ostacola poi tutte le riforme, per difendere il vuoto di valori proddotto dalla sua rivoluzione culturale.

Essere di sinistra, oggi, significa non avere più valori, neppure utopici come quelli gramsciani del passato. Significa divendere il vuoto presente di ogni valore. E, soprattutto, offendere i valori della tradzione per esempio con l'aborto, l'eutanasia, la manipolazione genetica. Mantovano è due volte di destra. Lo è in quanto membro di Alleanza Cattolica, movimento conservatore che non ha mai ceduto ai balletti dei preti progressisti e delle comunità disgregative della tradizione ecclesiale. E lo è in quanto deputato di An, che nella Casa delle libertà intende portare il messaggio della destra, anche per evitare che il centro-destra divenga un centro moderato. Due alleanze diverse, dato che per ogni autentico conservatore è fondamentale che religione e politica siano distinte.

Mantovano nulla ha in comune con quelle tendenze presenti anche nella destra di antiamericanismo viscerale, che finiscono per unire uomini di valore partiti bene, come Franco Cardini e Massimo Fini, alle proteste dei no-global. Propio in questi giorni è nata una rivista intitolata "Alfa e Omega" (Edizioni Segno), che esprime questa tendenza di destra oltranzista e riconosce in Cardini il suo principale "maitre à penser". In essa tutti i movimenti cristiani che guardano all'America sono accusati di "infatuazione americana",

Mantovano sa bene che l'America non solo ci ha salvato dal nazismo e dal comunismo, ma oggi è l'unico baluardo contro il terrorismo islamico, che la sinistra condanna a parole, ma blandisce nei fatti. Non, dunque, il laicismo integralista alla Chirac, l'iconoclasta che, proibisce nella scuola i simboli religiosi di appartenenza, ma quella laicità che riscopre le sue radici nella disitnzione (non seprarazione) tra Dio e Cesare.

Proprio come stanno facendo negli USA i sempre più numerosi neoconservatori (neo-com e teocon), che hanno in comune il recupero del fondamentalismo religioso della democrazia. Questa corrente, dopo gli anni del "liberal" Carter, ha appoggiato la "rivoluzione conservatrice" di Reagan e Bush: «Un'America che non contrappone libertà e verità; desiderosa di ordine come stile di vita fondato su poche leggi; aperta all'altro, soprattuitto se perseguitato e sofferente; ancorata a principi essenziali ma saldi; orgogliosa di far sventolare la sua bandiera».

SAREBBE INTERESSANTE Vedere quanto costa ed eventualmente contattare la casa editrice per chiedere se ci fanno uno sconto se ne compriamo un tot d copie... uno a testa magari.

Ciao

Templares
16-02-05, 18:39
Giorgio ma perchè posti i messaggi ad ore di distanza? Sto aspettando il tuo messaggio e mi fai impazzire così.............
Sarebbe opportuno preparare un sunto-relazione su cui discutere passo per passo.
P.S.Abbi pietà di me posta i messaggi vicini uno all'altro (in ordine di tempo).....

Italianhawk83
17-02-05, 19:39
Caro Salvatore,
il problema è che preparo seduta stante i singoli interventi; non si tratta di un unico articolo che ho scelto di postare a puntate.

Purtroppo il tempo libero scarseggia: magari cercherò di completarlo in un'unica soluzione pubblicandolo effettivamente per vari mex.

Italianhawk83
18-02-05, 12:29
E' proprio leggendo i suoi articoli sul "Secolo d'Italia" e su "Percorsi" di Malgieri che nasce il mio interesse nei confronti del conservatorismo, precedentemente alimentato da un'attenzione sorta per puro spirito provocatorio: sui nostri cari libri di testo, al più campioni di faziosità scopertamente palese, le famigerate "forze conservatrici" erano le classiche avanguardie oscurantiste pronte a tarpare qualsiasi forma d' "illuminato" cambiamento promosso dalle "angeliche schiere" progressiste.

Da imberbe divoratore di politica - quale son sempre stato - e a differenza di tanti amici convinti di studiare il "Verbo" giacchè del tutto inconsapevoli, mi rendo facilmente conto che la verità Vera - quella storica - non potesse essere così palesemente "schierata". E da inguaribile "politically incorrect" comincio a simpatizzare per questi "tipacci" che - stando a fonti decisamente più obiettive - non potevano che essere del tutto diversi dal ritratto caricaturale tracciato sulle pagine della "pravda" di turno.

continua...

Italianhawk83
18-02-05, 12:30
Inizia così il lungo viaggio culturale alla scoperta di quest'universo politico, condito da una marea di letture che spaziavano dal quotidiano al periodico passando per la scarsa pubblicistica libraria (italiana of course). Tutto nasce appunto dalla rubrica del mercoledì ospitata dal quotidiano di Alleanza Nazionale, intitolata significativamente "Il Vero Conservatore" e curata da Respinti che - giocando di sponda con lo spazio ("Lotta per la Sopravvivenza") concessogli il sabato - discetta di Russell Kirk (soprattutto), pontifica il (trascuratissimo) George W. Bush pre-11settembre lodandone le misure di segno palesemente conservatore e filo-cristiano, denuncia le tragiche storture di natura bioetica (vedi l'esaltazione di quell'infame filosofia relativistica tesa a nullificare la tragicità dell'aborto, a svilire la coppia naturale, ad incoraggiare il "far west" pseudo-scientifico dimentico dei più elementari diritti naturali) infiocchettate da straordinarie conquiste "civili".

Da qui passo a "Percorsi", il mensile di approfondimento politico diretto da Gennaro Malgieri (da poco alla guida dell' "Indipendente") da sempre sensibile nei confronti della tematica conservatrice. Il periodico si distingue - siamo attorno al '97/'98 - per la pubblicazione di inchieste di finissimo spessore politico-culturale, perdipiù amplificato dalla natura del tutto "eretica" delle stesse: ricordo uno splendido numero interamente dedicato alla rivoluzione partenopea, un approfondimento sul conservatorismo nordamericano, un articolo illuminante che illustrava l'urgenza di dar sfogo alla diffusione del pensiero e del modus operandi proprio di quel "Conservative Mind" illustrato da Russell Kirk.

continua...

Italianhawk83
18-02-05, 12:31
Fin qui siamo alla scarsissima pubblicistica da edicola, ma non ci si poteva certo esaltare facendo una capatina in libreria. Tra i testi variamente riconducibile al filone conservatore ricordo "Le radici dell'ordine americano" di Kirk, "Il manifesto" di Prezzolini, "Rivoluzione blu" scritto da Respinti, Torriero, Cannella e Di Lello, "Edmund Burke, le radici del conservatorismo" di Pedrizzi e poco altro. Ma considerata la vibrante passione personale mi rendo conto ben presto che la mera "speculazione filosofica" non poteva certo bastarmi e cerco pertanto di "passare all'azione" attraverso l'avvicinamento a realtà associazionistiche in qualche modo contigue al panorama conservatore. E chi mi vado a trovare? L'unico partito - Alleanza Nazionale - esplicitamente "destro" che potesse soddisfare la mia smaniosa voglia di Destra ma assai distante dalla sensibilità che vado cercando e un'associazione - Alleanza Cattolica - di cui ammiro la vocazione tradizional-conservatrice e occidentalista ma non già la preponderanza - più che coerente dato il nome - del dato religioso su quello politico-culturale.

Non mi resta che limitarmi a sognare la nascita di un soggetto associazionistico che ora - finalmente - pur nel chiuso di un sito Internet inizia a prendere forma. Tra il "deserto" che ho appena descritto e la "benedizione" del Movimento Conservatore di POL si colloca l'inizio - lungamente atteso - di quel processo di scoperta dell'universo conservatore da parte di numerosi periodici, giornalisti, maitre à penser, politici e - viva Dio - semplici simpatizzanti.
Dalla rubrichetta del solo Respinti, oggi chi fosse interessato a saperne di più su conservatorismo e dintorni può contare sul "Foglio" di Ferrara, "Liberal" di Adornato, "Il Domenicale" di Crespi, "Ideazione" (sempre più interessante) di Mennitti, su una marea di blog internettiani, qualche sito e - sul versante strettamente politico - sull'attenzione dimostrata in tal senso da - tra gli altri - Alfredo Mantovano (su tutti), Adolfo Urso, Riccardo Pedrizzi.

continua...

Italianhawk83
18-02-05, 12:32
Ergo, il Movimento Conservatore di POL nasce su un giaciglio ben più comodo di quanto non fosse qualche anno fa quando ero costretto a "coricarmi" su tavolacci ruvidi e freddi. Questo felicissimo esperimento di aggregazione di "navigatori" intenzionati a diffondere il credo "burkiano" può avere un grandissimo futuro, ricco di gioie e soddisfazioni a patto che si lavori con impegno e dedizione (che credo non manchino).

Allo stato attuale è del tutto trascurabile che visibilità e relativo potenziale di "reclutamento" siano ancora scarsi. Perchè quandanche l'esclusivo utilizzo di Internet non ci permettesse di allargare il nostro "bacino di utenza" per quanto auspichiamo, è certo che il salto nel "mondo reale" - magari attraverso la costituzione di un'associazione - deve essere una tappa assolutamente obbligatoria se non vorremo continuare fino a sessanta anni a suonarcela e cantarcela tra noi quattro. E non bisogna dimenticare - in un lasso di tempo assai più vicino - che la realizzazione di un sito completamente nostro ci consentirà di essere molto più visibili di quanto non ci sia permesso attualmente nel "sottoforum" di un portale generalista (ne approfitto al contempo per segnalare l'opportunità dell'attivazione di un blog parallelo al sito che ci dia l'opportunità di tessere una fitta rete di cooperazione tra i numerosissimi blogger che la pensano come noi - magari puntando a cooptarne qualcuno).

continua...

Italianhawk83
18-02-05, 12:35
Ma torniamo al movimento e alla commissione che dovrò coordinare. Quali sono le nostre finalità? Anzitutto è fondamentale puntualizzare l'estrema importanza del presente organismo che si occuperà di definire storia e caratteristiche della scuola di pensiero che intendiamo approfondire. Lo è ancor più nella misura in cui lo scenario politico e culturale italiano non si limita ad ignorare il profondo "vissuto" conservatore ma si spinge - per assoluta ignoranza appunto - a deformarne il senso. In altri termini: come si reagisce normalmente quando si evoca l'etichetta conservatrice? Se va bene ci tocca sentire che è stata sempre sinonimo di immobilismo, reazionarismo storico e difesa del privilegio sociale di pochi arricchiti; al peggio ci vediamo sottrarre la nostra amata "bandiera" da chi intende - e sono una marea - appiccicarla in forma denigratoria e insultante alla peggior sinistra definita appunto "conservatrice" nella sua deteriore - ed errata - interpretazione immobilista.

continua...

Italianhawk83
18-02-05, 12:36
Non credo francamente sia possibile (e non mi piacerebbe) - come prospettato da Salvatore - condurre la ricerca secondo le tre direttrici evocate e rappresentate segnatamente dalla tradizione conservatrice italiana, inglese ed americana. Questo perchè - e credo che a tutti sia più che evidente - in termini percentuali troveremmo una mole di documentazione pari al 5% per quanto concerne il panorama italiano (giusto qualche finto conservatore liberale appartenente alla "destra" storica e diversi reazionari alla Monaldo Leopardi), al 20% sulla Thatcher e compari inglesi e al 75% sull'elefantiaco "conservative movement" americano. Per evitare palesi sproporzioni ritengo pertanto sia più giusto condurre un'analisi molto più dinamica e meno vincolata sull'intero pensiero conservatore che muova da Edmund Burke e arrivi fino a George W.Bush. In termini più generali, dovremo preoccuparci di dar voce a tutte le "anime" del movimento, nessuna esclusa, a patto che ne facciano parte a pieno titolo.

Sì dunque a "old" e "new right", a "paleo", "theo" e "neoconservatives", alla "moral majority" e alla "christian coalition"; no a liberali e libertari, no a quei "neocon" italici che finiscono per flirtare con Pannella e Capezzone (e sono in tanti, ve lo garantisco, soprattutto nei vari blog filoamericani). Non dimentichiamoci di quelle sparute personalità italiane sostanzialmente definibili conservatrici come Arturo Michelini, Giuseppe Prezzolini e pochi altri e - ultimo ma non ultimo - concludiamo con una vera e propria "ciliegina" culturale (alla quale personalmente tengo in maniera particolare avendo oltretutto curato l'argomento in sede universitaria) rappresentata dall'analisi della Destra israeliana (che meravigliosa eresia per lorsignori sinistrorsi e filopalestinesi!!!), per quanto assai difficile per ciò che attiene al reperimento di documenti in italiano.

continua...

Italianhawk83
18-02-05, 12:37
Infine una nota di carattere organizzativo (e qui mi rivolgo agli esperti di POL per quanto concerne la sua fattibilità): se è oggettivamente impossibile dare ordine "tematico" ai post che si succederanno (e vi anticipo che sono contrario all'ipotesi di occuparci di un'area per volta - prima paleoconservatorismo, poi neoconservatorismo, ecc...- perchè sarebbe assurdo dichiarare "chiusa" l'indagine di un dato settore per la gran quantità di documenti che vorremmo continuare a postare anche dopo lo "stop"), ritengo del tutto necessario che di tanto in tanto si cancellino dei post per copiarli e incollarli accanto agli altri di comune matrice, sì da riordinare periodicamente il lavoro della commissione.

Con la speranza di essere riconosciuto quale "guida" all'altezza del compito affidatomi (di certo lo assumo con grande entusiasmo visto il personale precedente internettiano rappresentato dalla creazione di "conservatoritaliani.org"), auguro buon lavoro a tutti gli amici conservatori.

Italianhawk

ps.
ora credo che deporrò la penna per non svenire causa intolleranza da abuso di inchiostro virtuale

THE END

A voi la parola!

Templares
18-02-05, 12:49
In Origine postato da Italianhawk83
Non credo francamente sia possibile (e non mi piacerebbe) - come prospettato da Salvatore - condurre la ricerca secondo le tre direttrici evocate e rappresentate segnatamente dalla tradizione conservatrice italiana, inglese ed americana. Questo perchè - e credo che a tutti sia più che evidente - in termini percentuali troveremmo una mole di documentazione pari al 5% per quanto concerne il panorama italiano (giusto qualche finto conservatore liberale appartenente alla "destra" storica e diversi reazionari alla Monaldo Leopardi), al 20% sulla Thatcher e compari inglesi e al 75% sull'elefantiaco "conservative movement" americano. Per evitare palesi sproporzioni ritengo pertanto sia più giusto condurre un'analisi molto più dinamica e meno vincolata sull'intero pensiero conservatore che muova da Edmund Burke e arrivi fino a George W.Bush. In termini più generali, dovremo preoccuparci di dar voce a tutte le "anime" del movimento, nessuna esclusa, a patto che ne facciano parte a pieno titolo.

Sì dunque a "old" e "new right", a "paleo", "theo" e "neoconservatives", alla "moral majority" e alla "christian coalition"; no a liberali e libertari, no a quei "neocon" italici che finiscono per flirtare con Pannella e Capezzone (e sono in tanti, ve lo garantisco, soprattutto nei vari blog filoamericani). Non dimentichiamoci di quelle sparute personalità italiane sostanzialmente definibili conservatrici come Arturo Michelini, Giuseppe Prezzolini e pochi altri e - ultimo ma non ultimo - concludiamo con una vera e propria "ciliegina" culturale (alla quale personalmente tengo in maniera particolare avendo oltretutto curato l'argomento in sede universitaria) rappresentata dall'analisi della Destra israeliana (che meravigliosa eresia per lorsignori sinistrorsi e filopalestinesi!!!), per quanto assai difficile per ciò che attiene al reperimento di documenti in italiano.

continua...


Mi trovo d'accordo con te. La mia era semplicemente una proposta di lavoro. Ovvio che la coordinazione della commissione spetta a te, pertanto sarai tu a strutturarne i lavori. La tua relazione iniziale è stata ottima. Ora resta il duro compito di realizzare una relazione riassuntiva che analizzi il pensiero conservatore (come hai detto tu partendo da Burke fino a Bush, facendo tappa anche sul conservatorismo anglosassone e le personalità conservatrici italiane).
Ok?

Templares
21-02-05, 13:47
Mi pare che il lavoro di questa commissione si sia arenato. Giorgio tutto ok?
Io credo che se (in veste di coordinatore) posti una relazione riassuntiva finale (come ho fatto io nella seconda commissione) i lavori possano ritenersi anche conclusi.
Aspetto tua risposta.

UgoDePayens
21-02-05, 19:48
Penso che un riassunto sia assolutamente necessario.
Poi potremo valutare la pubblicazione dell'intero intervento di Giorgio sul sito in lavorazione, o se lui preferisce pubblicarlo sul suo soltanto...

Italianhawk83
22-02-05, 10:35
Salva, posto di seguito la sintesi che giustamente mi chiedi, ma - quanto alla conclusione dei lavori - spero che tu alluda alla fine dell' "inizio" dell'attività della commissione.

Perché se si ha fretta di chiudere i primi due organismi attivati, beh si riveda urgentemente il criterio finora utilizzato permettendo (e non mi sembra che si possa fare diversamente) il lavoro contestuale di tutte le commissioni.

Il criterio è troppo contraddittorio e se il suo fine era quello di ridurre la potenziale confusione che si potrebbe ingenerare, si cerchi di non aprire nuovi 3d a valanga e ci si concentri soprattutto sulle commissioni (si veda la sezione del mio intervento dedicata a finalità e organizzazione).

Ho speso tempo ed energie per dar vita a questa relazione: fino a queso momento non ho visto nessuna replica di contenuto che mi aspettavo, ma la sintesi non vi offre più alibi. :)

Aspetto di conoscere il vostro parere anche se mi farebbe molto piacere che - con assoluta calma (sono consapevole della sua prolissità) - mi comunicaste le vostre impressioni in merito a TUTTO l'intervento, la cui parte iniziale credo sia abbastanza interessante per ciò che attiene al "deserto" conservatore che per lungo tempo sono stato costretto a fronteggiare.

Italianhawk83
22-02-05, 10:53
(premessa: la sintesi non poteva essere assolutamente più corta stante la sua iniziale enormità)

Cari Amici,
il titolo del mex mi sembra già sufficientemente significativo. Perchè? Perchè mi sono guardato bene dell'utilizzare la classica intestazione "come sono diventato un..." giacchè Conservatori si nasce e - perdonatemi la banalità citazionistica - io modestamente "LO NACQUI".


E' leggendo gli articoli di Marco Respinti sul "Secolo d'Italia" e su "Percorsi" di Malgieri che nasce il mio interesse nei confronti del conservatorismo, precedentemente alimentato da un'attenzione sorta per puro spirito provocatorio: sui nostri cari libri di testo, al più campioni di faziosità scopertamente palese, le famigerate "forze conservatrici" erano le classiche avanguardie oscurantiste pronte a tarpare qualsiasi forma d' "illuminato" cambiamento promosso dalle "angeliche schiere" progressiste.

Il Movimento Conservatore di POL nasce su un giaciglio ben più comodo di quanto non fosse qualche anno fa quando ero costretto a "coricarmi" su tavolacci ruvidi e freddi. Questo felicissimo esperimento di aggregazione di "navigatori" intenzionati a diffondere il credo "burkiano" può avere un grandissimo futuro, ricco di gioie e soddisfazioni a patto che si lavori con impegno e dedizione (che credo non manchino).

Allo stato attuale è del tutto trascurabile che visibilità e relativo potenziale di "reclutamento" siano ancora scarsi. Perchè quandanche l'esclusivo utilizzo di Internet non ci permettesse di allargare il nostro "bacino di utenza" per quanto auspichiamo, è certo che il salto nel "mondo reale" - magari attraverso la costituzione di un'associazione - deve essere una tappa assolutamente obbligatoria se non vorremo continuare fino a sessanta anni a suonarcela e cantarcela tra noi quattro. E non bisogna dimenticare - in un lasso di tempo assai più vicino - che la realizzazione di un sito completamente nostro ci consentirà di essere molto più visibili di quanto non ci sia permesso attualmente nel "sottoforum" di un portale generalista (ne approfitto al contempo per segnalare l'opportunità dell'attivazione di un blog parallelo al sito che ci dia l'opportunità di tessere una fitta rete di cooperazione tra i numerosissimi blogger che la pensano come noi - magari puntando a cooptarne qualcuno).

Ma torniamo al movimento e alla commissione che dovrò coordinare. Quali sono le nostre finalità? Anzitutto è fondamentale puntualizzare l'estrema importanza del presente organismo che si occuperà di definire storia e caratteristiche della scuola di pensiero che intendiamo approfondire.

Non credo francamente sia possibile (e non mi piacerebbe) - come prospettato da Salvatore - condurre la ricerca secondo le tre direttrici evocate e rappresentate segnatamente dalla tradizione conservatrice italiana, inglese ed americana. Questo perchè - e credo che a tutti sia più che evidente - in termini percentuali troveremmo una mole di documentazione pari al 5% per quanto concerne il panorama italiano (giusto qualche finto conservatore liberale appartenente alla "destra" storica e diversi reazionari alla Monaldo Leopardi), al 20% sulla Thatcher e compari inglesi e al 75% sull'elefantiaco "conservative movement" americano. Per evitare palesi sproporzioni ritengo pertanto sia più giusto condurre un'analisi molto più dinamica e meno vincolata sull'intero pensiero conservatore che muova da Edmund Burke e arrivi fino a George W.Bush. In termini più generali, dovremo preoccuparci di dar voce a tutte le "anime" del movimento, nessuna esclusa, a patto che ne facciano parte a pieno titolo.

Sì dunque a "old" e "new right", a "paleo", "theo" e "neoconservatives", alla "moral majority" e alla "christian coalition"; no a liberali e libertari, no a quei "neocon" italici che finiscono per flirtare con Pannella e Capezzone (e sono in tanti, ve lo garantisco, soprattutto nei vari blog filoamericani). Non dimentichiamoci di quelle sparute personalità italiane sostanzialmente definibili conservatrici come Arturo Michelini, Giuseppe Prezzolini e pochi altri e - ultimo ma non ultimo - concludiamo con una vera e propria "ciliegina" culturale (alla quale personalmente tengo in maniera particolare avendo oltretutto curato l'argomento in sede universitaria) rappresentata dall'analisi della Destra israeliana (che meravigliosa eresia per lorsignori sinistrorsi e filopalestinesi!!!), per quanto assai difficile per ciò che attiene al reperimento di documenti in italiano.

Infine una nota di carattere organizzativo (e qui mi rivolgo agli esperti di POL per quanto concerne la sua fattibilità): se è oggettivamente impossibile dare ordine "tematico" ai post che si succederanno (e vi anticipo che sono contrario all'ipotesi di occuparci di un'area per volta - prima paleoconservatorismo, poi neoconservatorismo, ecc...- perchè sarebbe assurdo dichiarare "chiusa" l'indagine di un dato settore per la gran quantità di documenti che vorremmo continuare a postare anche dopo lo "stop"), ritengo del tutto necessario che di tanto in tanto si cancellino dei post per copiarli e incollarli accanto agli altri di comune matrice, sì da riordinare periodicamente il lavoro della commissione.

Con la speranza di essere riconosciuto quale "guida" all'altezza del compito affidatomi (di certo lo assumo con grande entusiasmo visto il personale precedente internettiano rappresentato dalla creazione di "conservatoritaliani.org"), auguro buon lavoro a tutti gli amici conservatori.

Italianhawk

A voi la parola!

Templares
22-02-05, 12:49
Giorgio sono d'accordo con te quasi su tutto, tranne che sul fatto che presto bisogna arrivare ad una relazione da mettere ai voti sul conservatorismo (ciò non vuol dire che la relazione non possa essere successivamente aggiornata o modificata).
Dobbiamo lavorare in maniera serrata, a tempo pieno se possibile.
Tutti riconosciamo te come indiscusso conoscitore del fenomeno conservatore e pertanto ti invitiamo a prendere in pugno la situazione e a darci dentro. Dopo la relazione introduttiva iniziamo ad elaborare un relazione analitica? Comincia allora Giorgio?

Maria Vittoria
23-02-05, 14:52
Essere conservatore oggi, in Italia, credo significhi proporre di usare il latino come lingua legislativa viva, di riferimento anche per il resto del mondo: l'anima della filosofia politica deve essere (io credo), la certezza che molte sono le tradizioni, una è la cultura d'Occidente.

LIBERAMENTE
23-02-05, 17:27
In Origine postato da MariaVittoria C
Essere conservatore oggi, in Italia, credo significhi proporre di usare il latino come lingua legislativa viva, di riferimento anche per il resto del mondo: l'anima della filosofia politica deve essere (io credo), la certezza che molte sono le tradizioni, una è la cultura d'Occidente.

Da dove spunti? Sei nuova ? Carina st'idea del latino.. Già non si capisce un cavolo se le leggi sono scritte in "itagliano", pensa tu in latino..
Comunque benvenuta nel forum dei conservatori dall'unico non conservatore del forum..

MESSAGGIO PRIVATO PER CLAUDIA
Cla, non ti preoccupà, non c'è trippa per gatti..

Maria Vittoria
24-02-05, 15:05
L'idea di studiare la lingua latina secondo il suo divenire storico, e di usarla in Europa per alcune definizioni "legislative" si basa sul modo classico di concepire l'evoluzione :
"in saecula saeculorum" = nelle generazioni dei secoli.
Ben diversa la diffusa traduzione inglese:
"in saecula saeculorum"=forever and ever
La prima accezione rimanda alla capacità di trasmettere valori da una generazione all'altra, con la consapevolezza di un divenire storicizzato, di una memoria che, senza cadere in giudizi fatti "col senno di poi", cerca di migliorare la realtà.
La traduzione inglese è simile al modo, in voga adesso, di non-studiare-storia in Inghilterra: senza abituare alla progressione nel tempo, si abituano ad esaminare solo alcuni episodi, come fossero in parallelo.
Dunque propongo di definire conservatore chi approva il metodo classico, conservatorista chi pensa opportuno promuovere l'egoismo generazionale in auge presso gli inglesi.

Templares
24-02-05, 17:36
In Origine postato da MariaVittoria C
L'idea di studiare la lingua latina secondo il suo divenire storico, e di usarla in Europa per alcune definizioni "legislative" si basa sul modo classico di concepire l'evoluzione :
"in saecula saeculorum" = nelle generazioni dei secoli.
Ben diversa la diffusa traduzione inglese:
"in saecula saeculorum"=forever and ever
La prima accezione rimanda alla capacità di trasmettere valori da una generazione all'altra, con la consapevolezza di un divenire storicizzato, di una memoria che, senza cadere in giudizi fatti "col senno di poi", cerca di migliorare la realtà.
La traduzione inglese è simile al modo, in voga adesso, di non-studiare-storia in Inghilterra: senza abituare alla progressione nel tempo, si abituano ad esaminare solo alcuni episodi, come fossero in parallelo.
Dunque propongo di definire conservatore chi approva il metodo classico, conservatorista chi pensa opportuno promuovere l'egoismo generazionale in auge presso gli inglesi.

La tua analisi è sicuramente appropriata. Credo che in molti stati, compreso il nostro, lo studio della storia sia spesso trascurato e sicuramente non esaltato quanto meriterebbe di essere. Onestamente sono un appassionato degli studi classici, e ritengo che proprio dalla "storia classica" possa trarsi grandissimo insegnamento.
Latino e greco li farei studiare già a partire dalle scuole medie (ovvio se avessi voce in parola, il che non è da escludere tra 30-40 anni), ritenendole lingue a contrario di quanti molti pensano tuttora vive ed essenziali ( ad esempio negli studi giuridici e medici oltre che in quelli umanistici). Vado fiero di aver studiato al Liceo Classico, che mi ha fornito una preparazione (da molti criticata erroneamente) tale da affrontare gli studi universitari senza eccessive preoccupazioni.

Italianhawk83
01-03-05, 13:10
Amici,
fornisco di seguito sommarie linee direttive concernenti le aree d'interesse di cui si dovrà occupare la presente commisisone (coerentemente a quanto esposto nella relazione introduttiva):

1) Conservatorismo USA: piuttosto che muovere dagli inizi del '900 è molto più opportuno condurre la nostra ricerca a partire dalla pubblicazione (1953) di "Conservative Mind" di Russell Kirk e dalla candidatura del senatore dell'Arizona Barry Goldwater alle presidenziali del '64 contro Lyndon Johnson. Occorre partire in sostanza da quando il fulcro del partito dell'elefante si sposta significativamente a destra dando realmente vita a quel vasto "conservative movement" del quale le personalità di cui sopra possono essere considerate le forze primigenie. Da Kirk a G.W. Bush dunque passando per tutte le anime del vastissimo aggregato: paleo, neo e theocon; moral majority e christian coalition; falchi e colombe.

2) Conservatorismo UK: la figura alla quale dobbiamo dare maggior rilievo è certamente rappresentata dal Padre del moderno pensiero conservatore, ossia quell' Edmund Burke autore delle "Riflessioni sulla Rivoluzione francese" che denuncia le tragiche storture della parentesi transalpina. Grande risalto ovviamente alla "Lady di ferro" Margaret Thatcher con eventuali riferimenti ad altri leader "tory".

(Ragazzi, importante puntualizzazione: su Churchill - ad esempio- potremmo trovare una sterminata mole di documentazione, ma mi limiterei ad un accenno se non ad una totale omissione giacchè non dobbiamo certo proporci di realizzare una TRECCANI del pensiero conservatore ma piuttosto focalizzare la nostra attenzione su quelle personalità che hanno dato un apporto dottrinario e non già semplicemente "storico" al movimento. In che senso? Nel senso che su Churchill troveremmo pagine e pagine sulla sua resistenza anti-hitleriana (che, per quanto importante, ci farebbe finire fuori binario); sulla Thatcher, al contrario, ci sarebbe tantissimo da dire sulla sua "rivoluzione conservatrice" in senso anti-statalista e neoliberista. In sintesi: realizziamo una RIGOROSA SELEZIONE dei nostri punti di riferimento non limitandoci ad una tediosa rassegna di tutti gli esponenti; ciò vale ovviamente per tutti i campi d'interesse e non solo per lo scenario inglese).

continua in un secondo e conclusivo messaggio...

Templares
01-03-05, 17:20
In Origine postato da Italianhawk83
Amici,
fornisco di seguito sommarie linee direttive concernenti le aree d'interesse di cui si dovrà occupare la presente commisisone (coerentemente a quanto esposto nella relazione introduttiva):

1) Conservatorismo USA: piuttosto che muovere dagli inizi del '900 è molto più opportuno condurre la nostra ricerca a partire dalla pubblicazione (1953) di "Conservative Mind" di Russell Kirk e dalla candidatura del senatore dell'Arizona Barry Goldwater alle presidenziali del '64 contro Lyndon Johnson. Occorre partire in sostanza da quando il fulcro del partito dell'elefante si sposta significativamente a destra dando realmente vita a quel vasto "conservative movement" del quale le personalità di cui sopra possono essere considerate le forze primigenie. Da Kirk a G.W. Bush dunque passando per tutte le anime del vastissimo aggregato: paleo, neo e theocon; moral majority e christian coalition; falchi e colombe.

2) Conservatorismo UK: la figura alla quale dobbiamo dare maggior rilievo è certamente rappresentata dal Padre del moderno pensiero conservatore, ossia quell' Edmund Burke autore delle "Riflessioni sulla Rivoluzione francese" che denuncia le tragiche storture della parentesi transalpina. Grande risalto ovviamente alla "Lady di ferro" Margaret Thatcher con eventuali riferimenti ad altri leader "tory".

(Ragazzi, importante puntualizzazione: su Churchill - ad esempio- potremmo trovare una sterminata mole di documentazione, ma mi limiterei ad un accenno se non ad una totale omissione giacchè non dobbiamo certo proporci di realizzare una TRECCANI del pensiero conservatore ma piuttosto focalizzare la nostra attenzione su quelle personalità che hanno dato un apporto dottrinario e non già semplicemente "storico" al movimento. In che senso? Nel senso che su Churchill troveremmo pagine e pagine sulla sua resistenza anti-hitleriana (e, per quanto importante, ci fa finire fuori binario); sulla Thatcher, al contrario, ci sarebbe tantissimo da dire sulla sua "rivoluzione conservatrice" in senso anti-statalista e neoliberista. In sintesi: realizziamo una RIGOROSA SELEZIONE dei nostri punti di riferimento non limitandoci ad una tediosa rassegna di tutti gli esponenti; ciò vale ovviamente per tutti i campi d'interesse e non solo per lo scenario inglese).

continua in un secondo e conclusivo messaggio...



La tua relazione analitica è esattamente quello che speravo fosse. Attendo il secondo e ultimo messaggio.

Italianhawk83
01-03-05, 17:25
3) Destra israeliana (pur nella consapevolezza della grande difficoltà del reperimento di materiale in italiano): da Jabotinsky a Sharon, passando per Begin, Shamir e Netanyahu. Aggiungiamoci qualcosa che controbilanci la disinformazione sinistrorsa di segno filopalestinese ed antisemita.

4) Singole personalità italiane: Giuseppe Prezzolini, Arturo Michelini...

5) Tradizionalismo cattolico, occidentalista e controrivoluzionario (agli antipodi dall'opposto ramo tradizionalista - esoterico e orientalista - incarnato da Evola e Guenon che ripudiamo): Luigi Gedda, Attilio Mordini e le diverse aree d'interesse di Alleanza Cattolica.

Buon lavoro.

ps
evitiamo mappazze in inglese che - inutile illudersi - nessuno (io per primo) leggerebbe.

Templares
01-03-05, 17:32
In Origine postato da Italianhawk83
3) Destra israeliana (pur nella consapevolezza della grande difficoltà del reperimento di materiale in italiano): da Jabotinsky a Sharon, passando per Begin, Shamir e Netanyahu. Aggiungiamoci qualcosa che controbilanci la disinformazione sinistrorsa di segno filopalestinese ed antisemita.

4) Singole personalità italiane: Giuseppe Prezzolini, Arturo Michelini...

5) Tradizionalismo cattolico e occidentalista (agli antipodi dall'opposto ramo tradizionalista - esoterico e orientalista - incarnato da Evola e Guenon che ripudiamo): Luigi Gedda, Attilio Mordini e le diverse aree d'interesse di Alleanza Cattolica.

Buon lavoro.

ps
evitiamo mappazze in inglese che - inutile illudersi - nessuno (io per primo) leggerebbe.


Ricevuto. :cool:

Italianhawk83
01-03-05, 18:09
Amici,
comincio con una delle poche inchieste sulla Destra israeliana ahimè condotta dal Manifesto: prendetela pertanto con beneficio di inventario anche se lo spirito cronachistico travalica il classico approccio fazioso e fuorviante. E' - tutto sommato - un buon documento: buona lettura!

LA DESTRA ISRAELIANA
Paolo Di Motoli _

Per comprendere le idee che ispirano il Likud, maggiore partito di destra in Israele, bisogna analizzare le divisioni sorte in seno al movimento sionista negli anni del Mandato inglese. Nel settembre 1922 il governo britannico divise in due la Palestina, creando dal niente una nuova entità territoriale ad Est del fiume Giordano, la Transgiordania. La neo-costituita Società delle Nazioni il 24 luglio 1922 ratificò, di fatto, la nuova mappa geopolitica del Vicino Oriente, approvando l’istituzione Mandataria. Francia e Gran Bretagna avrebbero amministrato i territori assegnati dal Mandato, dovendo favorirne l’autogoverno per il futuro.
Alcuni esponenti del movimento sionista rimasero profondamente delusi. La Palestina ‘storica’ rimaneva, secondo alcuni di loro, quella precedente la divisione ‘artificialmente’ operata da Churchill e corrispondente oggi ad un territorio che comprenderebbe Israele, Cisgiordania occupata e regno di Giordania.
La politica dell’esecutivo sionista dell’epoca, guidata dal liberale Chaim Weizmann, moderato e pragmatico, era volta ad ottenere dai britannici la costituzione del «focolare ebraico», come promesso dalla Dichiarazione Balfour del 1917. I metodi per arrivare a questo obiettivo erano la pressione diplomatica e la colonizzazione della Palestina, operata con «piccoli passi».
L’ascesa di Jabotinsky In contrasto radicale con il moderatismo di Weizmann e dell’esecutivo sionista un giovane ucraino di Odessa, di nome Vladimir Zeev Jabotinsky, fondò a Parigi nel 1925 un movimento politico denominato Unione dei sionisti revisionisti. Il manifesto del partito parlava di «revisione» della politica sionista dell’epoca, per un ritorno alla vera matrice herzliana del sionismo. La revisione quindi intendeva ritornare allo spirito del fondatore stesso del sionismo, Theodor Herzl, il cui spirito, secondo Jabotinsky, era tradito da Weizmann.
Quello che la maggioranza dei sionisti dell’epoca si ostinava a non rivendicare era la costituzione di uno Stato ebraico, proprio come prescritto dal famoso libro di Herzl, Der Judenstaat. Le ragioni della mancata richiesta di uno Stato ebraico, che avverrà ufficialmente solo nel 1942, erano probabilmente tattiche. I sionisti non intendevano mettere in difficoltà i britannici e inasprire i rapporti con gli arabi di Palestina, già protagonisti di aggressioni violente ai danni della comunità ebraica palestinese.
I capisaldi del pensiero del giovane letterato e giornalista Jabotinsky erano sostanzialmente quattro: a. la costituzione di una maggioranza ebraica in Palestina, necessaria a garantire uno Stato ebraico su ambedue le rive del fiume Giordano; b. il primato dell’idea nazionale su qualsiasi altro principio, con il rigetto delle divisioni di classe operate dai socialisti; c. il primato della politica sul metodo pratico inventato da Weizmann, che voleva comprare la Palestina «dunam per dunam». Primato della politica significava ottenere dagli inglesi un «regime di colonizzazione» tale da permettere di costituire sulla Palestina storica lo Stato di Israele; d. la necessità per gli ebrei di provvedere autonomamente alla loro autodifesa con la costituzione di legioni militari ebraiche.
Nazionalismo risorgimentale e nazionalismo organicista Il pensiero di Jabotinsky era un intreccio di nazionalismo risorgimentale, ispirato dal razionalismo della Rivoluzione francese, e nazionalismo organicista, che vedeva la nazione come un organismo vivente, un fine morale presente in ogni individuo centrato sulla razza. Il laboratorio della nazione in fieri era il movimento giovanile Betar, che educava i giovani ebrei al rispetto della tradizione, alla disciplina, all’ordine, con una totale abnegazione verso l’ideale nazionale. Il Betar, fondato a Riga da giovani simpatizzanti di Jabotinsky nel 1923, era la metafora della nazione ebraica: e l’adesione ad esso era puramente volontaristica. Il Betar doveva essere secondo il leader ucraino come una macchina dotata di movimenti sincronizzati, un’orchestra con i suoi molteplici elementi, o la scacchiera, dove ogni pedina svolgeva il proprio compito in armonia con le altre.

continua...

Italianhawk83
01-03-05, 18:11
Nel pensiero nazionalista jabotinskiano convivevano due aspetti classici del nazionalismo, uno ‘scandaloso’, basato sul determinismo razziale tipico del nazionalismo organicista del Novecento, e l’altro di tipo volontaristico, affine a quello mazziniano. Questo pensiero oscillante ha spesso contribuito ad un dibattito storiografico sulla sua figura, che di volta in volta ne ha messo in luce gli aspetti liberali o autoritari ed estremi, avvicinandolo al fascismo.
Il partito dei sionisti revisionisti è stato protagonista in Palestina di durissimi scontri con il filone maggioritario del sionismo, ispirato ad un socialismo nazionale e volontaristico. Gli scioperi del potente sindacato Histadruth venivano boicottati dagli uomini di Jabotinsky, che sostituivano gli scioperanti provocando violente reazioni.
Il rifiuto della lotta di classe e il primato della nazione portarono Jabotinsky a postulare uno Stato di Israele, in cui i conflitti sociali fossero regolati dallo Stato tramite un Arbitrato nazionale. Lo Stato di Jabotinsky era ‘liberale’, poiché rispettava entro certi limiti la proprietà privata; ma era anche corporativo, con una Camera delle professioni, che si affiancasse al Parlamento politico, separando così la sfera economica da quella politica.
Questa concezione dello Stato, insieme alla partecipazione di giovani simpatizzanti di Jabotinsky alla scuola marittima di Civitavecchia nell’Italia di Mussolini, indussero esponenti del sionismo socialista a vedere in lui un leader di tipo fascista. Il pessimismo antropologico e il realismo politico, di cui era dotato, resero le sue analisi sulla situazione palestinese molto più lucide di quelle di molti esponenti del sionismo laburista e spirituale. Jabotinsky aveva visto con chiarezza il nazionalismo arabo.
Vi erano due diritti contrapposti in Palestina e l’unica soluzione per il leader revisionista non era nemmeno troppo implicita: la guerra. Era inutile lo scambio culturale, il rapporto reciproco con l’altra etnia, lo studio dell’arabo nel circoscritto contesto palestinese. Gli arabi non si sarebbero mai accontentati di diventare una minoranza o di dividere la terra, che consideravano di loro proprietà, con un popolo diverso.
La sue giovanili infatuazioni per il nazionalismo ucraino, ferocemente anticomunista e antisemita, e per quello polacco di Pilsudsky, lo resero odioso agli esponenti dell’ebraismo progressista. Jabotinsky non apprezzò mai le accuse di fascismo che Ben Gurion e altri militanti sionisti di sinistra gli mossero, preferendo definirsi un liberale rispettoso della democrazia e dei valori borghesi del XIX secolo.
L’abbandono nel 1931 del Congresso sionista per il rigetto di una mozione che definiva lo scopo del sionismo come la costituzione di uno stato di Israele sulle due rive del Giordano, creò una spaccatura che avrebbe pesato a lungo nei rapporti tra la sinistra sionista e la destra rappresentata dai revisionisti.

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Italianhawk83
01-03-05, 18:13
Jabotinsky ebbe l’idea di fondare nel 1935 una Nuova organizzazione sionista in concorrenza con quella storica, ormai guidata dal partito di ispirazione socialista Mapai di Ben Gurion.
Le istituzioni dunque raddoppiarono, con la costituzione di due eserciti clandestini, l’Irgun di Jabotinsky e l’Haganà egemonizzata dai socialisti, e di due sindacati, l’Histadruth per i socialisti e l’Histadruth nazionale per i revisionisti.
Per quanto riguarda l’attività militare bisogna segnalare gli atti di violenza terroristica sui civili arabi operati dall’Irgun, che inasprirono ancora di più i rapporti con la maggioranza dei sionisti guidata ormai saldamente dal futuro primo ministro di Israele Ben Gurion.
Il filo-fascismo delle minoranze massimaliste Le ali estreme del sionismo revisionista erano intrise di nichilismo rivoluzionario, ispirato dal terrorismo russo di Volontà del popolo, nato dalla spaccatura del Partito socialista rivoluzionario di Russia, che organizzò l’uccisione dello zar Alessandro II. Questi sionisti massimalisti organizzarono una scissione dall’Irgun, dando origine nel 1940 al Gruppo Stern o Lehi, acronimo di Loamei Herut Israel (Combattenti per la libertà di Israele).
Il Lehi era un movimento militare, intriso di idee rivoluzionarie antiborghesi e di simpatie fasciste. Il capo del movimento, Avraham Stern, propugnava alleanze ‘pericolose’. In nome della guerra contro gli inglesi per liberare la Palestina dal dominio coloniale, il piccolo ma agguerrito movimento tentò addirittura una improbabile alleanza con i nazisti. Il ‘contatto’ venne preso per il Lehi da Naftali Lubentchik, che nel 1941 ebbe un colloquio con due uomini del Terzo Reich, Rudolf Rozer e Otto Von Hentig, responsabile del dipartimento per l’Oriente del ministero per gli Affari esteri. Venne stilato anche un documento, che esponeva la «comunità di interessi tra il movimento e le potenze totalitarie europee per la creazione di un nuovo ordine europeo», e che annunciava «la fondazione di uno Stato storico ebraico su una base nazionale e totalitaria, legato con un trattato al Reich tedesco», volto a rafforzare la posizione della Germania nel Vicino Oriente. Le trattative con i nazisti si interruppero quando gli alleati catturarono, nel giugno del 1941, Lubentchik nell’ufficio dei servizi segreti a Damasco. La morte di Stern, ucciso dalla polizia britannica nel febbraio del 1942, segnò il tramonto della fase ‘messianica’ del movimento, che avrebbe elaborato in seguito una linea politica influenzata dal mito dell’Unione Sovietica, vincitrice della guerra e potenza anticoloniale e antiborghese.
Ma il gruppo Lehi viene ricordato anche per l’assassinio di lord Moyne, ministro residente britannico al Cairo, avvenuto il 6 novembre del 1944, e per quello del conte Folke von Bernadotte, mediatore delle Nazioni Unite in Palestina, ‘colpevole’, secondo il Lehi, di aver proposto una spartizione della Palestina sfavorevole agli ebrei. Il gruppo di comando era in questi anni nelle mani di una specie di triumvirato composto da Yitzak Yzernitzky, detto Shamir, Israel Sheib e Yellin Mor, poi diventato pacifista.

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Italianhawk83
01-03-05, 18:14
La morte di Vladimir Zeev Jabotinsky nel 1940 liberò in qualche modo tutti gli istinti più militaristici dei suoi uomini. Si inaugurava l’epoca del Sionismo militare, rivolto contro gli inglesi e i nemici arabi. Il ceto politico dei sionisti revisionisti venne in qualche modo scavalcato da quello militare, proveniente dall’Irgun, il cui comandate fu Menahem Begin dal 1944, e dal Lehi.
La Polonia fu il grande serbatoio di militanti per l’Irgun e per i revisionisti in generale, forse perché l’ebraismo proveniente da quelle zone era stato maggiormente vessato. Si sbaglierebbe però nel proiettare su tutto il sionismo le infatuazioni del revisionismo jabotinskiano – o peggio del radicalismo del gruppetto militare del Lehi –, data la natura essenzialmente socialista della maggioranza dei consessi sionisti.
Il migliore risultato elettorale ottenuto dalla Destra sionista furono i 52 deputati su 254 del 17° Congresso sionista del luglio 1931. Dopo quella data i risultati peggiorarono anche a causa di scissioni, nate da contrasti relativi alla costituzione della Nuova organizzazione sionista voluta da Jabotinsky.
Begin fonda Herut il maggiore partito della destra israeliana L’eredità politica del revisionismo di Jabotinsky venne raccolta dopo la fondazione dello Stato di Israele da Menahem Begin, il vecchio comandante dell’Irgun, che nell’ottobre del 1948 fondò il partito Herut (in ebraico «libertà»).
In Herut erano confluite tutte le anime del revisionismo, comprese le più radicali. Tra i protagonisti del massimalismo bisogna segnalare i due ucraini Abba Ahimeir e il poeta Uri Zvi Greenberg, che dopo la prima guerra mondiale erano stati i creatori di un piccolo gruppo massimalista, chiamato Birionim (briganti), di orientamento chiaramente fascista, in cui militò anche Ben Zion Netanyahu, padre del futuro primo ministro. Ahimeir stesso era un grande ammiratore di Mussolini e nel 1928 aveva pubblicato sul giornale «Doar Hayom» le Cronache di un fascista.
Tutte queste infatuazioni gettano una luce inquietante sull’ala destra del sionismo, ma vanno lette e inserite nello spirito del tempo, in cui i fascismi avevano esercitato una considerevole influenza.
Herut aveva notevoli svantaggi rispetto ai laburisti. Questi, infatti, avevano diretto e dirigevano ancora tutte le principali istituzioni sioniste, come l’Agenzia ebraica, che si occupava degli immigrati ebrei nel nuovo paese; il sindacato Histadruth, che, nonostante la scissione, raccoglieva l’85% dei lavoratori ebrei di Israele; e Tsahal, l’esercito in cui erano confluiti l’Haganà, che era il principale gruppo egemonizzato dalla sinistra, l’Irgun di Begin e il Lehi di Shamir.

continua...

Italianhawk83
01-03-05, 18:16
Il 25 gennaio del 1949 si tennero le elezioni e la percentuale di voti ottenuta da Herut fu dell’11,5%. Il risultato deluse molto le aspettative di Begin, che pensava di contare su un elettorato molto più consistente. I voti presi consentirono al partito di ottenere solo 14 dei 120 seggi della Knesset, il parlamento israeliano. Il Mapai di Ben Gurion prese 46 seggi, la sinistra radicale del Mapam espressione dei Kibbutzim 19, il blocco dei Sionisti religiosi 16.
Il maggiore partito di governo della sinistra era all’epoca il Mapai di Ben Gurion, diventato primo ministro. Le accuse di Begin al suo avversario erano quelle di aver instaurato un regime di partito unico, che egemonizzava tutte le istituzioni e la società. La formula dei governi di sinistra che governarono Israele, inventata da Ben Gurion, era : «Senza Maki (il Partito comunista israeliano) e senza Herut». Il disprezzo tra i due leader era tale che Ben Gurion si rifiutava di chiamare per nome il fondatore di Herut rivolgendosi sempre «al vicino del deputato Bader».
Herut era un blocco nazionalista e liberale, che chiedeva la nazionalizzazione delle industrie di base, un sistema di sicurezza sociale non legato al sindacato socialista Histadrut e una tassazione progressiva, che garantisse però la libertà di impresa. Nei suoi programmi si notavano riferimenti alla tradizione religiosa e l’attenzione al rispetto dello Shabbath, in aperto contrasto con il laicismo di Jabotinsky. Herut si dichiarava contemporaneamente anticomunista e antifascista. L’intento di Begin era quello di rappresentare l’elettorato delle classi medie non legate agli ideali del socialismo sionista, sicuramente più numeroso dei 50.000 che avevano votato per Herut.
In Parlamento Begin accuserà il governo di essersi piegato servilmente agli inglesi e ai giordani, firmando accordi che riconoscevano la sovranità araba su una parte della patria ebraica. Questa visione territoriale dello Stato di Israele era figlia della vecchia idea jabotinskiana di Stato ebraico. Esisteva una clausola dello statuto di Herut, che continuava a vedere Israele come uno Stato, che avrebbe dovuto estendersi su «ambedue le rive del Giordano».
In questo periodo Begin scrisse la sua versione della ribellione ebraica contro gli inglesi degli anni ‘40, dal titolo La rivolta. Il libro era in sostanza una glorificazione dell’operato dell’Irgun, di cui veniva evidenziato il carattere di esercito di liberazione nazionale, in contrasto con l’immagine di gruppo terrorista fornita dai media internazionali, dagli inglesi e dalla sinistra israeliana. Visitò anche piccoli gruppi che avevano sostenuto i Sionisti revisionisti in Europa, negli Stati Uniti e in America latina, dove ebbe un curioso incontro con Juan Perón.
Le elezioni del 1951 segnarono una netta flessione elettorale per il partito di Begin, che prese il 6,6% dei voti. La protesta e lo scontento per il regime di austerità imposto dalla difficile situazione economica venne intercettato dai Sionisti generali, di orientamento liberale, che erano il partito di Weizmann, vecchio presidente dell’Organizzazione sionistica e primo presidente dello Stato di Israele. I Sionisti generali avevano preso 20 seggi, contro i 7 delle elezioni precedenti, diventando il primo partito della destra e superando largamente Herut.

continua...

Italianhawk83
01-03-05, 18:18
Migliaia di profughi ebrei, provenienti dai poco accoglienti paesi arabi e dall’Europa, vennero accolti negli anni ‘50 in Israele. I campi di raccolta erano poveri e tutto veniva razionato. Ben Gurion pensò che fosse venuto il momento di ottenere riparazioni dalla Repubblica federale tedesca del cancelliere Adenauer. Il dibattito in Parlamento e nel paese fu a dir poco infuocato e l’opposizione alle riparazioni, con cui non si poteva ripagare il sangue ebraico era trasversale. Gli oppositori erano il Mapam e alcuni esponenti del Mapai ma il partito più intransigente fu proprio Herut. Begin dichiarò alla Knesset: «Non c’è un tedesco che non abbia ucciso uno dei nostri padri! Ogni tedesco è un nazista! […] Adenauer è un assassino!». Mentre gli scontri imperversavano fuori del Parlamento, Begin dichiarò che la sinistra voleva far tornare tutti nei campi di concentramento e per la sua virulenza venne sospeso dall’aula. I voti favorevoli alla trattativa sulle «riparazioni di guerra» tedesche furono 61 contro 50.
Le riparazioni, così violentemente osteggiate da Herut, consentirono allo Stato di Israele di dotarsi di infrastrutture fondamentali per la sua crescita futura. Herut rimase isolato dalla politica israeliana e Begin utilizzò questo periodo per scrivere le memorie della sua prigionia nelle carceri di Stalin, intitolate Notti bianche. Il leader di Herut, inoltre, fece nuovi viaggi non solo in Europa e in America, ma anche in Africa, dove incontrò il primo ministro sudafricano Daniel Malal, che pure si era rifiutato di aiutare i rifugiati ebrei durante la Shoà.
Le elezioni del 26 luglio 1955 segnarono un miglioramento elettorale del partito di Begin, che passò da 8 seggi a 15, recuperando i voti persi a favore dei Sionisti generali, che videro la loro rappresentanza ridotta a 13 seggi.
La lotta di questi anni per rappresentare gli ebrei sefarditi provenienti dal Marocco, che venivano fatti entrare in Israele in maniera selettiva, non sembrava dare i frutti sperati. Herut voleva aiutare i sefarditi ad entrare in massa in Israele, senza distinzione di età e sesso. Questi ebrei provenienti da Libia, Tunisia, Marocco e Algeria, assiepati in miseri campi di passaggio, in attesa di una sistemazione definitiva, rappresentavano l’83% dei nuovi entrati in Israele. I sefarditi, considerati da molti cittadini di serie B, in contrasto con la leadership rappresentata dagli ashkenaziti europei, erano vero e proprio materiale ‘infiammabile’, che gli esperti del governo vicini a Ben Gurion temevano potesse essere strumentalizzato dai comunisti o da Herut.
Le elezioni del 3 novembre 1959 segnarono un nuovo miglioramento elettorale, portando Herut a 17 seggi e consolidando l’immagine di primo partito dell’opposizione.
Begin si diede da fare per migliorare la propria immagine, evitando plateali comizi dai balconi e campagne elettorali condotte a bordo di Cadillac, seguite da cortei di biciclette, che davano un’immagine forse un po’ sudamericana e populista della sua persona. Le elezioni anticipate del 1961 confermarono a Herut i 17 seggi che, paragonati ai 59 ottenuti dal blocco delle sinistre, rimanevano esigui.
Senza cambiamenti significativi la destra non avrebbe mai governato Israele; per ovviare a questa difficoltà elettorale del suo partito, Begin aveva iniziato difficili trattative con i Sionisti generali per la presentazione di liste comuni già nel 1955. L’obiettivo era quello di unire la destra radicale e quella moderata in una coalizione, dove Herut avrebbe ceduto la politica estera e la difesa agli esponenti moderati della coalizione. Le concezioni economiche e sociali dei due partiti erano vicine. Gli interessi dei piccoli artigiani, dei commercianti e delle classi medie erano difesi sia dai Sionisti generali sia da Herut e comune era stata l’opposizione all’indicizzazione dei prezzi e dei salari voluta dalla sinistra.

continua...

Italianhawk83
01-03-05, 18:19
Il problema di Herut restava quello dei confini di Israele e, per venire incontro alla moderazione dei Sionisti generali sulla questione, Begin modificò nel 1955 la piattaforma geopolitica del partito. L’unità di Eretz Israel sulle due rive del Giordano era diventata un principio e non più un obiettivo da raggiungere. Questo era il massimo delle concessioni che Begin era disposto a fare ai suoi interlocutori liberali.
Il primo ministro laburista Levi Eshkol accolse, infine, la richiesta di Herut di accogliere in Israele le spoglie di Jabotinsky. Ben Gurion, infatti, aveva sempre rifiutato il simbolico gesto di riconciliazione nei confronti del fondatore del revisionismo.
Nell’aprile del 1965 ci fu l’importante svolta politica. I Sionisti generali, diventati nel frattempo Partito liberale, si allearono con Herut dando origine alla coalizione denominata Gahal. Gli elementi più moderati dei liberali diedero vita a una scissione, rifiutando l’alleanza con il poco presentabile partito di Begin. I deputati del Gahal – dopo le elezioni del novembre 1965 – erano 26, meno dei 36 ottenuti dalle due formazioni separate nel 1961. La via era ormai aperta per la ‘nuova destra israeliana’. I liberali contribuirono a stemperare la tradizionale rabbia antisindacale dei seguaci di Begin, placando così l’ostilità dell’Histadrut. L’aumentare della tensione, che sfociò nella Guerra dei Sei giorni, favorì l’entrata di Begin e di un esponente liberale in un governo di unità nazionale con la sinistra, come ministri senza portafoglio. Begin stesso durante la crisi che precedette la guerra propose la conquista delle alture del Golan e della Città vecchia di Gerusalemme. Le elezioni del 1969 confermarono i 26 seggi per un partito, che con rigore ideologico vedeva i territori conquistati come terra liberata facente parte di Eretz Israel.
Nasce il Likud Su iniziativa del generale Ariel Sharon, che tentò invano di farsi nominare capo di Stato maggiore, venne inaugurato per le elezioni del 1973 il nuovo polo di destra: il Likud, che comprendeva i liberali, in cui era entrato Sharon, Herut, seguaci di Ben Gurion decisi a spostarsi a destra, un gruppo di intellettuali che aveva dato vita al Movimento per il grande Israele, e altri dissidenti della destra decisi ad entrare nella coalizione. Il risultato delle elezioni portò al Likud 39 seggi contro i 51 del blocco laburista. La febbre nazionalista aveva ormai coinvolto anche la sinistra, che nelle sue frange più centriste coltivava disegni di aperta colonizzazione dei territori occupati con la guerra del 1967. La guerra dello Yom Kippur stava per esplodere.

continua...

Italianhawk83
01-03-05, 18:25
Il 1977 è l’anno della svolta per la politica israeliana. Il Likud guidato da Menahem Begin, diventato «un patriota amante della pace», vince le elezioni di maggio e il vecchio comandante dell’Irgun diventa primo ministro. Il voto degli ebrei sefarditi elegge il polacco Begin come legittimo rappresentante del settore di società ebraica più discriminato e più povero. Il paradosso è dato dal fatto che il partito di Begin è in maggioranza composto da polacchi, molto distanti per tradizioni e cultura dai fratelli provenienti dai paesi arabi. I seggi guadagnati dagli uomini di Begin sono 43 contro i 32 della sinistra. Il Likud venne votato dal 33,4% degli israeliani. Altri due seggi per lo schieramento di destra vennero dal nuovo partito di Ariel Sharon, Shlomzion: il generale, infatti, aveva rotto con il Partito liberale creandosi una sorta di partito personale. La campagna elettorale del Likud venne impostata sulla riconosciuta onestà di Begin, in contrapposizione alla corruzione della sinistra al governo da 29 anni. Artefice della campagna lo stratega Ezer Weizmann, futuro presidente di Israele, responsabile della propaganda per la destra. L’immagine di moderazione era stata favorita dal silenzio sul progetto di costituzione del Grande Israele, principio mai abbandonato da Begin e dai suoi uomini. Il partito di centro Dash, che aveva impostato una campagna sulle riforme istituzionali, guadagnò 15 seggi sottraendoli alla sinistra, che ne perse ben 19.
Il discorso di investitura di Begin parlava di svolta per Israele, paragonabile a quella che ci fu quando Jabotinsky chiese la proclamazione dello Stato ebraico come obiettivo del sionismo. Due giorni dopo Begin inaugurava la sinagoga di Kaddoum, costruita in un campo militare in Cisgiordania dai coloni del Gush emunim (Blocco della fede). Il ministero degli Affari esteri venne affidato a Moshe Dayan, per segnare una sorta di continuità con il potere del passato, mentre al generale Sharon venne affidato il ministero dell’Agricoltura. I territori occupati per volontà di Begin sarebbero stati chiamati da quel momento «territori liberati» o Giudea e Samaria, il nome biblico della Cisgiordania. Iniziava così la grande colonizzazione ‘ideologica’ dei territori occupati nel 1967, principale problema per ogni trattativa di pace con gli arabi. La mentalità del primo ministro, la cui elezione era per il «Time» un chiaro esempio di come «il terrorismo paga e Arafat ne sarà incoraggiato», era quella della vittima. La vittima agisce sempre per difendersi e mai per opprimere. Il timore di un secondo Olocausto, perpetrato ai danni degli ebrei dal ‘nuovo Hitler’ Arafat, guiderà ossessivamente la condotta politica del vecchio capo dell’Irgun.
Tra i risultati positivi del governo Begin si segnala la pace con l’Egitto e il ritiro totale dal Sinai occupato, che si contrapponeva ad un parallelo non-dialogo con i palestinesi e l’Olp. La colonizzazione e l’influenza dei partiti religiosi sul governo crebbe a dismisura. Tra il 1977 e il 1981, su impulso del ministro Sharon, vennero impiantate 64 nuove colonie agricole in Cisgiordania.
I risultati economici furono disastrosi, con l’incremento spaventoso dell’inflazione e l’abbassamento delle tasse «senza copertura», che peserà notevolmente sul bilancio dello Stato. La città di Gerusalemme venne proclamata da una sorta di legge costituzionale «Capitale eterna» dello Stato ebraico, mentre le alture del Golan prese ai siriani vennero annesse al territorio israeliano con il via libera alla colonizzazione intensa.
Alle elezioni del giugno 1981 Begin venne rieletto e il Likud prese 48 seggi contro i 47 dei laburisti. Begin venne proclamato dai sefarditi «re di Israele», e il suo seguito nei quartieri popolari era enorme, tanto che i candidati laburisti – espressione del potere ashkenazita – vennero presi a sassate. L’esiguo vantaggio sui laburisti rendeva necessario per il Likud l’appoggio di Tehiya, partito ultranazionalista guidato da Geulla Cohen, una fanatica sostenitrice della colonizzazione. Iniziava la guerra al Libano e l’inflazione superava il 400%! Begin lasciò il governo in seguito ai drammatici avvenimenti libanesi e alle imponenti manifestazioni pacifiste. La strada per la destra era ormai aperta, sarebbero seguiti negli anni governi di unità nazionale guidati a turno dalla sinistra e dal Likud, con il ritorno sulla scena di un personaggio oscuro e contestato come Shamir. A lui sarebbe succeduto ‘l’americano’ Benyamin (Bibi) Netanyahu, il modernizzatore del Likud.
Il voto degli immigrati russi degli anni ‘90 premierà il dinamismo liberista di Netanyahu, modificando ancora una volta il serbatoio elettorale della destra israeliana. Il governo del Likud del 1996-1999 si segnalerà per l’ondata di privatizzazioni, volte a realizzare una ‘rivoluzione thatcheriana’ in Israele, scatenando le resistenze del sindacato e dei lavoratori del settore pubblico, che portarono circa 700.000 persone al memorabile sciopero del 28 settembre 1997.

FINE

ps.
Dalla lunghezza potete dedurre che si tratta di un vero e proprio approfondimento e non già un semplice articolo giornalistico: vi assicuro che ne vale assolutamente la pena leggerlo tutto per avere un'idea globale della storia della Destra israeliana.

Templares
01-03-05, 18:28
In Origine postato da Italianhawk83
Il 1977 è l’anno della svolta per la politica israeliana. Il Likud guidato da Menahem Begin, diventato «un patriota amante della pace», vince le elezioni di maggio e il vecchio comandante dell’Irgun diventa primo ministro. Il voto degli ebrei sefarditi elegge il polacco Begin come legittimo rappresentante del settore di società ebraica più discriminato e più povero. Il paradosso è dato dal fatto che il partito di Begin è in maggioranza composto da polacchi, molto distanti per tradizioni e cultura dai fratelli provenienti dai paesi arabi. I seggi guadagnati dagli uomini di Begin sono 43 contro i 32 della sinistra. Il Likud venne votato dal 33,4% degli israeliani. Altri due seggi per lo schieramento di destra vennero dal nuovo partito di Ariel Sharon, Shlomzion: il generale, infatti, aveva rotto con il Partito liberale creandosi una sorta di partito personale. La campagna elettorale del Likud venne impostata sulla riconosciuta onestà di Begin, in contrapposizione alla corruzione della sinistra al governo da 29 anni. Artefice della campagna lo stratega Ezer Weizmann, futuro presidente di Israele, responsabile della propaganda per la destra. L’immagine di moderazione era stata favorita dal silenzio sul progetto di costituzione del Grande Israele, principio mai abbandonato da Begin e dai suoi uomini. Il partito di centro Dash, che aveva impostato una campagna sulle riforme istituzionali, guadagnò 15 seggi sottraendoli alla sinistra, che ne perse ben 19.
Il discorso di investitura di Begin parlava di svolta per Israele, paragonabile a quella che ci fu quando Jabotinsky chiese la proclamazione dello Stato ebraico come obiettivo del sionismo. Due giorni dopo Begin inaugurava la sinagoga di Kaddoum, costruita in un campo militare in Cisgiordania dai coloni del Gush emunim (Blocco della fede). Il ministero degli Affari esteri venne affidato a Moshe Dayan, per segnare una sorta di continuità con il potere del passato, mentre al generale Sharon venne affidato il ministero dell’Agricoltura. I territori occupati per volontà di Begin sarebbero stati chiamati da quel momento «territori liberati» o Giudea e Samaria, il nome biblico della Cisgiordania. Iniziava così la grande colonizzazione ‘ideologica’ dei territori occupati nel 1967, principale problema per ogni trattativa di pace con gli arabi. La mentalità del primo ministro, la cui elezione era per il «Time» un chiaro esempio di come «il terrorismo paga e Arafat ne sarà incoraggiato», era quella della vittima. La vittima agisce sempre per difendersi e mai per opprimere. Il timore di un secondo Olocausto, perpetrato ai danni degli ebrei dal ‘nuovo Hitler’ Arafat, guiderà ossessivamente la condotta politica del vecchio capo dell’Irgun.
Tra i risultati positivi del governo Begin si segnala la pace con l’Egitto e il ritiro totale dal Sinai occupato, che si contrapponeva ad un parallelo non-dialogo con i palestinesi e l’Olp. La colonizzazione e l’influenza dei partiti religiosi sul governo crebbe a dismisura. Tra il 1977 e il 1981, su impulso del ministro Sharon, vennero impiantate 64 nuove colonie agricole in Cisgiordania.
I risultati economici furono disastrosi, con l’incremento spaventoso dell’inflazione e l’abbassamento delle tasse «senza copertura», che peserà notevolmente sul bilancio dello Stato. La città di Gerusalemme venne proclamata da una sorta di legge costituzionale «Capitale eterna» dello Stato ebraico, mentre le alture del Golan prese ai siriani vennero annesse al territorio israeliano con il via libera alla colonizzazione intensa.
Alle elezioni del giugno 1981 Begin venne rieletto e il Likud prese 48 seggi contro i 47 dei laburisti. Begin venne proclamato dai sefarditi «re di Israele», e il suo seguito nei quartieri popolari era enorme, tanto che i candidati laburisti – espressione del potere ashkenazita – vennero presi a sassate. L’esiguo vantaggio sui laburisti rendeva necessario per il Likud l’appoggio di Tehiya, partito ultranazionalista guidato da Geulla Cohen, una fanatica sostenitrice della colonizzazione. Iniziava la guerra al Libano e l’inflazione superava il 400%! Begin lasciò il governo in seguito ai drammatici avvenimenti libanesi e alle imponenti manifestazioni pacifiste. La strada per la destra era ormai aperta, sarebbero seguiti negli anni governi di unità nazionale guidati a turno dalla sinistra e dal Likud, con il ritorno sulla scena di un personaggio oscuro e contestato come Shamir. A lui sarebbe succeduto ‘l’americano’ Benyamin (Bibi) Netanyahu, il modernizzatore del Likud.
Il voto degli immigrati russi degli anni ‘90 premierà il dinamismo liberista di Netanyahu, modificando ancora una volta il serbatoio elettorale della destra israeliana. Il governo del Likud del 1996-1999 si segnalerà per l’ondata di privatizzazioni, volte a realizzare una ‘rivoluzione thatcheriana’ in Israele, scatenando le resistenze del sindacato e dei lavoratori del settore pubblico, che portarono circa 700.000 persone al memorabile sciopero del 28 settembre 1997.

FINE

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Dalla lunghezza potete dedurre che si tratta di un vero e proprio approfondimento e non già un semplice articolo giornalistico: vi assicuro che ne vale assolutamente la pena leggerlo tutto per avere un'idea globale della storia della Destra israeliana.




Una mole di documenti incredibile..... Giorgio stavolta ti sei superato. E che dire della desta israeliana dopo del 1997?
Ovvio che questo approfondimento già me lo immagino nella sezione Storia e Cultura del nostro futuro sito. Complimenti Giorgio.

Maria Vittoria
01-03-05, 18:37
Complimenti per il contributo, tutto da studiare, e proporre ad amici.

Italianhawk83
01-03-05, 18:39
Grazie mille salvatore!
A proposito, posto di seguito il profilo su Kirk di Marco Respinti già pubblicato in un 3d a parte da Michele.

Ovviamente non posso ometterlo proprio qui, all'interno della commissione: non credo che Michele abbia problemi se lo cancellassi. Puoi farlo cortesemente?

Italianhawk83
01-03-05, 18:45
Russell Amos Kirk (1918-1994)
di Marco Respinti

1. Dall’agnosticismo al diritto naturale

Russell Amos Kirk nasce a Plymouth, nello Stato del Michigan, nel Settentrione degli Stati Uniti d’America, il 19 ottobre 1918, da una famiglia di origini puritane i cui antenati provenivano dalla Scozia. Privo in gioventù di una religiosità positiva, nell’ambiente familiare viene educato a una moralità naturale, tipica della provincia nordamericana. Dal 1936 al 1940 frequenta il Michigan State College of Agriculture and Applied Science di East Lansing, diplomandosi in Storia. Dal 1940 al 1941 studia alla Duke University, di Durham, nel North Carolina, conseguendo il titolo di master of Arts sempre in Storia. La tesi dedicata allo "statista-piantatore" della Virginia John Randolph (1773-1833) viene pubblicata nel 1951 con il titolo Randolph of Roanoke: A Study in Conservative Thought: è la prima opera di Kirk. Nel dicembre del 1941 entra nell’esercito e presta servizio militare fino al 1945. Nel desolato deserto di sale dello Stato dello Utah, dov’è dislocato, si dedica allo studio della filosofia stoica classica. Kirk affina così la propria sensibilità conservatrice, abbandonando le prime infatuazioni libertarian e conquistando un concetto di libertà inteso soprattutto in senso morale, come trionfo sulle passioni disordinate. Così passa a concepire anche l’ordine e l’autorità come condizioni dell’autentica libertà personale.

2. Al cuore della rinascita conservatrice statunitense

Lo studioso si dedica quindi all’attività della ricerca e della produzione culturali — si definisce un "uomo di lettere" indipendente —, divenendo ben presto uno degli autori più influenti e rispettati della cultura antiprogressista nordamericana. Dopo una disputa con i colleghi sugli standard accademici lascia l’incarico di assistente alla cattedra di storia della Civiltà al Michigan State College, ricoperto dal 1946 al 1953. Dal 1948 al 1952 studia per il dottorato in lettere presso l’antica università scozzese di St. Andrews, che, nel 1954, farà oggetto di un’opera. Pubblicata in versione rielaborata nel 1953, la tesi, The Conservative Mind: From Burke to Santayana — poi From Burke to Eliot — diviene un testo fondamentale della rinascita culturale conservatrice angloamericana.

Nel villaggio dei taglialegna di Mecosta, fondato da un suo avo nel Michigan centrale, Kirk abita la casa dei bisnonni e trasforma un vecchio edificio in una biblioteca ricchissima: Piety Hill diviene così meta di studenti e di studiosi, nonché sede di seminari residenziali. Rifuggendo il mondo caotico delle grandi città industriali per "tornare alle radici" — familiari e culturali —, lo studioso costruisce una comunità umana stabile — alternativa alla "mobilità" tipica di parte della società nordamericana —, il cui perno è la sua famiglia: nel 1964 sposa Annette Yvonne Cecile Courtemanche — attiva nel mondo cattolico e conservatore della Costa Orientale, che nel 1981 è nominata alla National Commission on Excellence in Education dal presidente Ronald Wilson Reagan —, dalla quale ha quattro figlie. Conoscenti, "spiriti magni" del conservatorismo angloamericano, visitatori europei o profughi di diversi paesi — dal Vietnam all’Etiopia dei regimi socialcomunisti — e pure un vagabondo trovano ospitalità presso i Kirk, spesso per anni.

3. Conversione al cattolicesimo e riscoperta di Edmund Burke

Il 1964 è anche l’anno del battesimo e dell’ingresso nella Chiesa cattolica. Sempre estraneo a tematiche professioni di ateismo, anche se in scritti giovanili la difesa del patrimonio culturale e spirituale dell’Occidente si alterna a critiche al cristianesimo — evidentemente contraddittorie —, lo studioso esce progressivamente da questa confusione grazie allo studio ma, soprattutto, alla frequentazione di persone e di personalità che ne influenzano la ricerca spirituale fino a determinarne la conversione.

Nel panorama assolutamente non monolitico del conservatorismo statunitense — più un network che una "scuola" —, Kirk diviene uno degli interpreti più coscienti, seri e fecondi del filone definito "tradizionalista", e fra i "tradizionalisti" enfatizza particolarmente il pensiero di Edmund Burke (1729-1797), primo critico della Rivoluzione francese, fondatore del conservatorismo anglosassone, nonché difensore della "libertà ordinata", della Cristianità e del diritto naturale secondo la concezione classica e cristiana. In The Conservative Mind Kirk descrive la bisecolare eredità filosofica burkeana presente nel mondo anglosassone e la propone al rinascente, ma acerbo, mondo della destra nordamericana contemporanea in un momento in cui molti sanno cosa non volere — il radicalismo, il progressismo e le ideologie di sinistra —, ma pochi possiedono una visione del mondo organicamente e positivamente alternativa. La rinascita burkeana degli anni 1950 — la riscoperta del diritto naturale e l’opposizione cosciente al relativismo, all’ideologismo e alle ideocrazie frutto del 1789 "francese" — ha in Kirk un protagonista e un promotore. E Burke — emblema di un patrimonio culturale e religioso plurisecolare — ricompone in un’unità le sparse membra della destra statunitense favorendo l’elaborazione di un pensiero contemporaneo non moderno.

Se il movimento conservatore nordamericano contemporaneo non coincide perfettamente con l’opera kirkiana, ne viene però animato in maniera intensa e duratura: lo testimoniano le trenta opere pubblicate in vita; le centinaia di saggi, di articoli e di recensioni; nonché le decine di simposi e di conferenze non solo in ambito anglosassone — Kirk è più volte anche in Italia —, come le serie svolte presso The Heritage Foundation di Washington e poi raccolte in The Politics of Prudence del 1993 e in Redeeming the Time, uscito postumo nel 1996.

4. Il "conservatorismo tradizionalista"

Lo studioso si occupa di storia, di critica sociale, di letteratura e di filosofia politica, ma pubblica anche racconti surreali, ghost story, favole e thriller più o meno "metafisici", nonché storie nate da esperienze di viaggio in America, in Europa e in Africa. Ma, pur intervenendo su diversi aspetti del dibattito culturale del suo paese, la produzione kirkiana si caratterizza come una ricerca nella storia delle idee nella prospettiva delle "realtà permanenti", formula con cui il poeta anglicano angloamericano Thomas Stearns Eliot (1888-1965) — amico e maestro di Kirk — indica la Philosophia perennis, i Novissimi e la Verità incarnata in Cristo. A Program for Conservatives, del 1954; Beyond the Dreams of Avarice: Essays of a Social Critic, del 1956; The Intemperate Professor, and Other Cultural Splenetics, del 1965; ed Enemies of the Permanent Things: Observations of Abnormity in Literature and Politics, del 1969, sono opere importantissime. Edmund Burke: A Genius Reconsidered, del 1967, ed Eliot and His Age: T. S. Eliot’s Moral Imagination in the Twentieth Century, del 1971, si pongono come le biografie intellettuali "dell’alfa e dell’omega" della forma mentis conservatrice, che lo studioso nordamericano insegue e descrive lungo le due sponde atlantiche del mondo culturale anglosassone. Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, del 1974 — l’unica opera tradotta in italiano —, The Conservative Constitution, del 1990, e America’s British Culture, del 1993, dipingono un grandioso affresco delle origini prossime e remote della nazione americana nonché della sua cultura, secondo linee interpretative del tutto antitetiche rispetto a quelle correnti, marcate da preconcetti illuministici e progressisti. E in queste opere trova adeguata illustrazione la Grande Tradizione occidentale — il patrimonio giuridico, letterario, metafisico e filosofico-politico classico, il monoteismo ebraico e il cristianesimo — che, già cuore dell’approccio burkeano alla storia, anima il "tradizionalismo" conservatore anglosassone.

Negli stessi volumi, inoltre, Kirk offre elementi di ricostruzione storica e di valutazione delle differenze fra la Guerra d’Indipendenza nordamericana (1775-1782) — erroneamente indicata nel linguaggio corrente come "Rivoluzione americana" — e — secondo l’espressione di Burke — la "Rivoluzione in Francia", la Rivoluzione del 1789, descrivendo la prima come sostanzialmente conservatrice e non animata dallo spirito anticristiano e sovversivo che, invece, caratterizza la seconda.

Contro le pedagogie progressiste Kirk scrive Academic Freedom: An Essay in Definition, del 1955, e Decadence and Renewal in Higher Learning: An Episodic History of American University and College since 1953, del 1978. Del 1989 è il manuale scolastico Economics: Work and Prosperity.

Collaboratore di periodici americani ed esteri, sul quindicinale National Review — dal primo numero nel novembre del 1955 fino al dicembre del 1980 — tiene la rubrica From the Academy, dedicata all’educazione. Nel 1957 fonda il trimestrale Modern Age — oggi il più importante periodico del conservatorismo culturale nordamericano —, cedendone ad altri la direzione due anni dopo; nel 1960 assume la direzione della fondazione The Educational Reviewer e in questa veste fonda e dirige il trimestrale The University Bookman, oggi diretto dalla moglie e dal genero Jeffrey O. Nelson; e dal 1962 al 1976 firma la rubrica periodica To the Point.

Dal 1988 dirige la collana The Library of Conservative Thought dell’editore Transaction, di New Brunswick nel New Jersey, pubblicando molti volumi di autori classici e opere nuove.

Senza mai assumere cariche politiche ufficiali, sostiene le candidature presidenziali di Robert A. Taft (1889-1953) — nel 1967 firma, con James McClellan, The Political Principles of Robert A. Taft —, di Barry M. Goldwater e di Reagan; è consigliere episodico di diversi presidenti statunitensi; e nel 1992 è presidente onorario della campagna elettorale di Patrick J. Buchanan — che esplicitamente si richiama alla dottrina sociale della Chiesa cattolica — per le elezioni primarie dello Stato del Michigan.

Kirk muore il 29 aprile 1994, indirizzando uno dei suoi ultimi pensieri a Papa Giovanni Paolo II. Da allora la sua eredità culturale viene coordinata da The Russell Kirk Center for Cultural Renewal, diretto dalla moglie Annette. Nel 1995 esce l’autobiografia postuma The Sword of Imagination: Memoirs of a Half-Century of Literary Conflict; le sue opere principali sono continuamente in edizione.

5. Un maestro

Interprete maggiore della tradizione anglosassone anti-illuministica e antiprogressista, lo studioso statunitense ha cercato di vivere in prima persona le idee e i princìpi d’ordine, di continuità e di devozione verso il passato per la costruzione di un futuro non utopistico, ma davvero a misura di uomo e possibilmente secondo il piano di Dio, la cui apologia trova spazio nelle tante pagine che egli ha vergato nel corso dei decenni. Ha cioè praticato quel conservatorismo tradizionalista di cui egli stesso è divenuto l’emblema, vivendolo oltre che scrivendone e inseguendone appassionatamente e minuziosamente tratti e tracce presso mille personaggi e in momenti storici diversi: questo è il lascito più significativo di Kirk, un uomo che — come pochi, anche fra i "buoni autori" — ha cercato innanzitutto di ridurre al minimo lo iato fra vita, cultura e — una volta avutala in dono — fede.

Per approfondire: dell’autore in italiano vedi l’opuscolo Stati Uniti e Francia: due rivoluzioni a confronto, trad. it., a mia cura e con un’introduzione di Mario Marcolla, Edizioni Centro Grafico Stampa, Bergamo 1995, e Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, con un epilogo di Frank Shakespeare Jr., trad. it., a cura e con introduzione mie, Mondadori, Milano 1996; nonché le interviste Le due anime dell’America, a cura di Marco Invernizzi, in Cristianità, anno XVII, n. 170, giugno 1989, pp. 9-11; Il pensiero conservatore americano, a mia cura, in Studi cattolici, anno XXXV, n. 368, ottobre 1991, pp. 699-702; e Dove vanno gli Stati Uniti? La politica estera nordamericana e il "Nuovo Ordine Mondiale", a mia cura, in Cristianità, anno XIX, n. 195-196, luglio-agosto 1991, pp. 12-16. Vedi elementi critici e interpretativi nel mio La figura e il pensiero di Russell Kirk, in AA. VV., "A voi il tempo, a noi l’eternità". Letterati e pensatori della controrivoluzione. Atti del Convegno Tradizionalista di Civitella del Tronto 1997, Controrivoluzione, Borgo San Lorenzo (Firenze) 1997, pp. 98-116.

Da "Voci per un Dizionario del Pensiero Forte" - Alleanza Cattolica

Italianhawk83
01-03-05, 18:48
Edmund Burke (1729-1797)
di Marco Respinti

1. La vita e le opere

Edmund Burke nasce a Dublino, in Irlanda, il 12 gennaio 1729 da padre anglicano e da madre cattolica: con il fratello Richard viene educato da anglicano perché possa, in futuro, intraprendere la carriera pubblica; la sorella, invece - com'era costume nell'Irlanda del tempo -, riceve un'educazione cattolica. Ma l'ambiente cattolico in cui de facto vive, gli studi coltivati e la stessa appartenenza etnica contribuiscono a creare in lui quello che è stato definito "stampo di pensiero cattolico". Dal 1743 al 1748 studia arti liberali al Trinity College di Dublino formandosi su autori classici greci e latini: Cicerone (106-43 a. C.) e Aristotele (384-322 a. C.) esercitano sul futuro parlamentare un'influenza profonda come maestri, rispettivamente, di retorica e di pensiero - lo stesso Burke verrà poi considerato uno dei massimi prosatori di lingua inglese - e di filosofia politica. Nel 1750, a Londra, studia diritto al Middle Temple: presto però, stanco del pragmatismo materialista e della metodologia meccanicista di cui è impregnato l'insegnamento, contrariando il padre, l'abbandona e si dà alla carriera letteraria.


Ma, con il tempo, il futuro statista acquisisce comunque una seria conoscenza del diritto europeo continentale e di quello britannico, dalla romanistica al Common Law. Estimatore e conoscitore del diritto naturale antico e moderno, approfondisce il pensiero di Cicerone e degli stoici latini, e, fra i moderni, quello di Richard Hooker (1553-1600), che considera come la massima fonte del diritto canonico dell'epoca della Riforma protestante. Questi, pastore anglicano autore di The Laws of Ecclesiastical Polity, detto "il Tommaso d'Aquino della Chiesa anglicana", continua, in parte e a certe condizioni, la tradizione filosofica scolastica nell'Inghilterra dopo lo scisma della prima metà del secolo XVI. Altra fonte importante della formazione e poi del pensiero burkiani è la catena dei grandi giuristi britannici, da sir Edward Coke (1552-1634) a sir William Blackstone (1732-1780) - autore dei Commentaries on the Law of England -, passando per i giurisperiti moderati, favorevoli all'incruenta "Gloriosa Rivoluzione" inglese del 1688. Peter J. Stanlis - uno dei massimi studiosi statunitensi viventi del pensiero burkiano - scrive: "È importante notare che la sua erudizione giuridica, comprendente le tradizioni del diritto naturale, del diritto delle genti, del Common Law inglese, del diritto penale e dei precedenti consuetudinari nel diritto positivo, ne imbevvero e ne informarono la filosofia politica, il senso dell'Europa come grande commonwealth di nazioni con un'eredità morale e giuridica comune e la fiducia nel cammino della tradizione lungo la storia".


Nel maggio del 1756 l'anglo-irlandese pubblica il primo scritto, anonimo: A Vindication of Natural Society, un pamphlet che deride la filosofia libertina e deista allora in voga. Il 12 marzo 1757 sposa Jane Nugent. Nell'aprile dello stesso anno dà alle stampe A Philosophical Inquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful. In quest'opera dedicata all'estetica, indaga le fondamenta psicologiche dell'arte e ricusa l'idea di esse come semplice prodotto di rigide regole teoretiche, anticipando aspetti importanti del pensiero filosofico della maturità. Nei mesi precedenti era apparso anche l'anonimo An Account of the European Settlements in America, testo forse redatto da Will Burke - un parente di Edmund -, nel quale sono stati individuati numerosi apporti del pensatore anglo-irlandese. L'opera ottiene un buon successo e contribuisce a incrementare l'attenzione britannica sull'America. In essa, l'anonimo autore simpatizza con l'idea di libertà politica espressa dalle Colonie britanniche, mettendo in guardia i propri compatrioti circa la pericolosità di certe misure commerciali troppo restrittive.


Il 9 febbraio 1758 Jane Burke dà alla luce il figlio Richard, che morirà nel 1794. Nel medesimo anno, Burke comincia a dirigere l'Annual Register, una corposa rassegna che, dal 1759, si occupa di storia, di politica e di letteratura, prima solo britanniche, poi anche europee continentali, e che egli dirige, anche collaborando, fino al 1765. Fra il 1758 e il 1759 scrive Essay towards an Abridgment of the English History - interrotto a re Giovanni Plantageneto, detto Senzaterra (1167-1216) -, un'opera pubblicata postuma nel 1811. In questo stesso periodo Burke inizia a frequentare Samuel Johnson (1709-1784), l'eminente letterato tory, cioè del "partito del re": nonostante la diversità delle loro opinioni politiche, fra i due intercorreranno profonde stima e amicizia.


Nel 1759 diviene segretario privato e assistente politico di William Gerard Hamilton (1729-1796), un suo coetaneo già attivo in Parlamento. La redazione dei Tracts Relative to the Laws against Popery in Ireland - scritti frammentari pubblicati postumi nel 1797 - risale all'autunno del 1761, durante un soggiorno irlandese. Dopo la separazione da Hamilton, il pensatore anglo-irlandese si lega a Charles Watson-Wentworth, secondo marchese di Rockingham (1730-1782), divenendone presto segretario. Questi, il 10 luglio 1765, viene nominato primo ministro da re Giorgio III di Hannover (1738-1820) benché il sovrano sia assai riluttante ad affidare l'incarico a un whig, cioè del "partito del Parlamento". Eletto nel medesimo anno alla Camera dei Comuni, Burke vi diviene presto la guida intellettuale e il portavoce della "corrente Rockingham" del partito whig, la quale, peraltro, ha solo brevi successi politici fra il 1765 e il 1766 e di nuovo, per pochi mesi, nel 1782.


Burke siede dunque nei banchi dell'opposizione per la maggior parte della propria carriera politica ed è durante questa seconda fase della sua esistenza che lo statista-pensatore pubblica le opere più note, fra cui Thoughts on the Causes of the Present Discontents nel 1770, Speech on the Conciliation with the Colonies nel 1775, Reflections on the Revolution in France nel 1790, Thoughts on the French Affairs e Appeal from the New to the Old Whigs nel 1791, nonché le Letters on a Regicide Peace, concluse nel 1796.

Il 9 luglio 1797 Burke muore nella sua casa di campagna di Beaconsfield, in Inghilterra.


2. Il pensiero politico-filosofico

Gran parte dell'attività pubblica burkiana è impegnata a difendere da un lato la Chiesa anglicana dagli attacchi dei "liberi pensatori" e dei riformisti protestanti radicali, dall'altro i cattolici e i dissenzienti protestanti, lesi nei propri diritti dalla politica assolutistica del governo londinese. Ratio di quest'azione politica non è un concetto "latitudinario" di libertà religiosa, ma una visione d'insieme della natura umana e dei rapporti fra lo Stato, i corpi sociali intermedi e i singoli individui minacciati dall'assolutismo moderno. Obiettivo di Burke è garantire uguali diritti a tutti i sudditi britannici, ovunque si trovino e qualunque fede religiosa professino: diritti concreti, acquisiti storicamente in virtù della secolare tradizione costituzionale e consuetudinaria britannica - i "benefici" -, e - a partire dal 1789 francese non a caso in aspra polemica, fra l'altro, con le "libertà inglesi" - contrapposti alle astrazioni illuministico-razionalistiche della Loi e del "diritto nuovo".


Lo statista diviene e rimane celebre per quattro "battaglie parlamentari". La prima, a tutela dei diritti costituzionali tradizionali dei coloni britannici in America, si oppone alla tassazione arbitraria, imposta dal governo londinese, e difende l'autentico significato della Costituzione "non scritta" britannica. Con lungimiranza, Burke si accorge della miccia che tale politica va innescando nella polveriera nordamericana e fa di tutto per allontanare lo spettro della perdita delle Colonie. Mai favorevole all'indipendenza che queste dichiarano nel 1776, una volta scoppiato il conflitto armato fra esse e la Corona britannica, egli giudica gli eventi come una "guerra civile" interna all'Impero - non una rivoluzione -, presto sanabile.


La seconda battaglia parlamentare è quella condotta contro l'amministrazione pubblica, che impedisce questa volta ai sudditi irlandesi di fruire dei diritti costituzionali britannici, anche se in tema di libertà religiosa Burke non riesce ad avere altrettanto parziale successo in difesa dei compatrioti cattolici.


In terzo luogo, lo statista chiede la messa in stato d'accusa di Warren Hastings (1732-1818), governatore generale dell'India britannica, per il suo malgoverno, ma non è ascoltato. La sua azione decisa comporta comunque qualche moderato successo e, soprattutto, è di monito - poco ascoltato - per il futuro. L'impero dove mai tramontava il sole crollerà infatti più per l'ottusità di certi suoi governanti che non per altre ragioni.


L'ultima tenzone parlamentare burkiana ha a tema la Rivoluzione francese. Nelle Reflections on the Revolution in France - una delle opere più commentate e influenti della storia inglese moderna, pubblicata poco dopo la "presa della Bastiglia", il 14 luglio 1789 -, l'uomo politico anglo-irlandese intuisce, analizzando le premesse filosofiche che aveva visto dipanarsi lungo i decenni precedenti, l'intero corso degli eventi rivoluzionari, dal regicidio alla dittatura militare napoleonica, stigmatizzandone la natura. Per lui, la Rivoluzione costituisce l'avvento della barbarie e della sovversione di ogni legge morale e di ogni consuetudine civile e politica.


Sull'interpretazione di tale evento, del resto, lo stesso partito whig si spacca, insanabilmente diviso fra i new whig liberali di Charles James Fox (1749-1806) e gli old whig guidati appunto da Burke, i quali finiscono per stringersi in lega politica con i tory di William Pitt il Giovane (1759-1806). Proprio alla difesa burkiana del "commonwealth cristiano d'Europa", a cui la Francia giacobina e atea si è sottratta e contro il quale essa combatte accanitamente - Burke afferma che, negli anni della Rivoluzione, la Francia autentica risiede all'estero -, si deve quell'appoggio parziale che, in alcuni momenti, il governo britannico fornisce alla causa contro-rivoluzionaria francese.


Il lume della filosofia politica burkiana è, infatti, la difesa dell'ethos classico-cristiano, fondamento della normatività che il pensatore ravvisa nelle consuetudini giuridiche e culturali del suo paese, parte della "società delle nazioni" cristiane europee. Il rapporto burkiano fra diritto naturale morale e istituzioni civili vede queste ultime come tentativo storico di incarnare il primo, secondo una logica che unisce morale personale e morale sociale. La "filosofia del pregiudizio" - ossia della tradizione e della consuetudine storica - è la grande arma del common sense britannico burkiano.


Secondo Russell Kirk (1918-1994) - uno dei "padri" della rinascita burkiana statunitense contemporanea -, il pensatore anglo-irlandese appartiene al "partito dell'ordine": egli, infatti, è figura rappresentativa di quel legittimismo patriottico britannico accorto, che unisce fedeltà e critica costruttiva, e che si riassume nell'espressione conservatrice "opposizione di Sua Maestà", antitetica a quella rivoluzionaria di "opposizione a Sua Maestà".


L'influenza di Burke si esercita su pensatori importanti come Joseph de Maistre (1753-1821) e su numerosi autori di area culturale anglosassone, francese e tedesca; ma, soprattutto, dà origine a quello che, nel mondo di lingua inglese, prende il nome tecnico di "pensiero conservatore", inteso come opposizione consapevole al mondo nato con il 1789 francese e con la filosofia rivoluzionaria che lo ha ispirato e mosso.


Burke, certo del prossimo successo dei giacobini anche in terra inglese, vuole che la località della propria inumazione sia tenuta segreta, per paura che i nemici possano un giorno giungere a dissacrare il luogo del riposo delle spoglie mortali del loro primo e radicale avversario.



Per approfondire: la critica più seria ed esaustiva sulla figura di Edmund Burke è pressoché esclusivamente in lingua inglese; in italiano vedi Scritti politici, a cura di Anna Martelloni, UTET, Torino 1963; Riflessioni sulla Rivoluzione Francese, con una prefazione di Domenico Fisichella, Ciarrapico, Roma 1984; Inchiesta sul Bello e sul Sublime, a cura di Giuseppe Sertoli e Goffredo Miglietta, 4a ed., Aestethica, Palermo 1992; Pensieri sull'attuale malcontento, a cura di Gabriella Galliano Passalacqua, ECIG, Genova 1987; e Difesa della società naturale, a cura di Ida Cappiello, Liberilibri, Macerata 1993.

Da "Voci per un Dizionario del Pensiero Forte" - Alleanza Cattolica

Italianhawk83
01-03-05, 18:53
La Vandea
di Renato Cirelli

1. Un fatto divenuto un simbolo

Il termine «Vandea», grazie alla storiografia filo-rivoluzionaria, è divenuto sinonimo di rivolta reazionaria e di resistenza contro l’affermarsi del progresso, che hanno come protagoniste popolazioni contadine ignoranti, sobillate da clero e nobili, che utilizzano il fanatismo religioso per scopi in realtà riconducibili ai loro interessi e privilegi di classe. Questa interpretazione non ha potuto essere adeguatamente controbilanciata dalla storiografia filo-vandeana, perché, a tutt’oggi, gli storici di parte rivoluzionaria hanno praticato l’occultamento dei fatti e imposto la damnatio memoriae nei confronti dei protagonisti, quindi anche dei valori che stanno all’origine della rivolta vandeana.

2. I motivi della rivolta

Il territorio indicato come Vandea Militare è situato nella Francia Occidentale, sulla costa atlantica, con un’estensione di circa 10.000 kmq e con una popolazione, all’epoca, di ottocentomila abitanti. Non si tratta di una regione povera e marginale, ma la sua ricchezza e la sua popolazione sono superiori alla media francese, così come la ricchezza e la popolazione francesi sono superiori alla media europea del tempo.


Gli abitanti della regione sono noti per l’attaccamento alle consuetudini e alle libertà locali, oltre che per un radicato sentimento religioso, segnato dalla predicazione di san Luigi Maria Grignion di Montfort (1673-1716), che aveva combattuto lo scetticismo del tempo soprattutto con la devozione mariana.


Alla fine del secolo XVIII l’Ovest, come tutta la Francia, patisce gli esiti di un processo di centralizzazione che si è sempre più sviluppato a partire dal regno di Luigi XIV di Borbone (1638-1715).


Il costo di questa politica è la causa principale della voracità statale in materia fiscale e una delle conseguenze del governo dei ministri illuministi, sì che fra il 1775 e il 1789 la pressione fiscale diventa sempre più sostenuta e male sopportata da tutti.


Quando, per avviare una riforma generale che affronti il problema fiscale e il deficit dello Stato, vengono convocati da re Luigi XVI di Borbone (1754-1793) gli Stati Generali l’assemblea costituita dai rappresentanti del clero, della nobiltà e della borghesia , anche dalla Vandea arrivano i cahiers de doléance, raccolte di rimostranze e di petizioni che esprimono, insieme a un profondo attaccamento alla monarchia, anche una serie di proteste contro il sistema di imposizione fiscale, i suoi abusi e la sua irrazionalità.


I vandeani auspicano, quindi, un rinnovamento e con questo spirito mandano a Parigi i loro rappresentanti, perché se ne facciano portavoce presso il sovrano. E la disillusione è tanto più cocente quanto più grande è stata la speranza.


Diventa sempre più chiaro, e non solo in Vandea, che a Parigi non si lavora alle sperate riforme, ma a emanare leggi destinate ad aumentare il potere coercitivo delle amministrazioni, a colpire la Chiesa e le tradizioni religiose del popolo in una inquietante accelerazione distruttiva.


La confisca e la vendita dei beni ecclesiastici, che avvantaggia solo borghesi e nobili, e l’introduzione della Costituzione Civile del Clero, nell’estate del 1790, creano un diffuso malcontento, al quale le autorità rispondono con insensibilità, con incapacità di governo e con una crescente repressione, che sfocia nell’irrimediabile frattura fra le popolazioni e i pubblici poteri.


Gli avvenimenti precipitano nel 1793. La rottura provocata dalla Costituzione Civile del Clero, che pone le basi di una rivolta di natura religiosa, si consuma con la notizia che il 21 gennaio 1793 re Luigi XVI è stato ghigliottinato, e si manifesta quando il Governo di Parigi ordina in tutta la Francia l’arruolamento di trecentomila uomini da mandare al fronte.


3. La guerra contro-rivoluzionaria

La rivolta scoppia perché la popolazione della Vandea rifiuta di abbandonare le case per andare a morire per una repubblica che considera illegittima, colpevole di perseguitare la religione, di aver assassinato il sovrano legittimo e di aver inasprito la crisi economica.


Già dal 1790, a causa delle tasse e in difesa dei sacerdoti detti «refrattari», cioè quelli che non avevano giurato fedeltà alla Costituzione, scoppiano un po’ dovunque tumulti e la Guardia Nazionale, più di una volta, non esita a sparare sulla folla.


Anche in altre regioni della Francia scoppiano rivolte, però ovunque la Repubblica le soffoca più o meno rapidamente, perché sono improvvisate, mancano di coordinamento e di decisione. Ma in Vandea, nel marzo del 1793, inizia un’insurrezione generale, annunciata dal suono delle campane a martello di tutte le chiese. Gli insorti si organizzano militarmente sulla base delle parrocchie e costituiscono un’Armata Cattolica e Reale di molte decine di migliaia di uomini, guidati da capi che essi stessi si sono scelti e che spesso, specie fra i nobili, sono restii a farsi coinvolgere.


Jacques Cathelineau (1759-1793), vetturino, è l’iniziatore della sollevazione e viene eletto primo generalissimo dell’Armata vandeana; muore in battaglia a trentaquattro anni. Il marchese Louis-Marie de Lescure (1766-1793) è un ufficiale che gli insorti liberano dalla prigionia, ed egli ne diviene un capo autorevole; quando muore in combattimento, a ventisette anni, gli viene trovato addosso il cilicio. Henri du Vergier de la Rochejaquelein (1772-1794) è eletto generalissimo a soli ventuno anni; Napoleone Bonaparte (1769-1821) ne esalterà il genio militare. Jean-Nicolas Stofflet (1753-1796), guardiacaccia, si rivela un formidabile tattico e non accetterà mai di arrendersi. François-Athanas de la Contrie (1763-1796), detto Charette, è un ufficiale di marina «costretto» a diventare un capo leggendario dagli insulti dei contadini che lo traggono da sotto il letto, dove si è nascosto per sottrarsi alle loro ricerche; muore fucilato. Vi è anche chi è prelevato a forza e portato in battaglia sulle spalle dei contadini. Fra le poche eccezioni vi è Antoine-Philippe de la Trémoille, principe di Talmont (1765-1794), che torna dall’esilio per mettersi alla testa della cavalleria, unico dei grandi signori di Francia a combattere e a morire con i vandeani.


Vittorie e sconfitte si alternano fino allo scacco di Nantes e alla sconfitta di Cholet, nell’autunno del 1793. L’Armata Cattolica e Reale decide, allora, di attraversare la Loira e di raggiungere il mare in Normandia, dove pensa di trovare la flotta inglese. Ma all’arrivo gli inglesi non vi sono e i vandeani, con le famiglie al seguito, ritornano sui propri passi, inseguiti dai repubblicani che li sconfiggono in una serie di scontri, che si risolvono in carneficine dove gli insorti, donne e bambini compresi, vengono sterminati a migliaia.


4. La repressione rivoluzionaria

Nel gennaio del 1794 la Repubblica ordina la distruzione totale della Vandea. Spedizioni militari punitive, dette «colonne infernali», attraversano la regione facendo terra bruciata e perpetrando il genocidio della popolazione, con una metodicità e con strumenti da «soluzione finale», che anticipano gli orrori del secolo XX; né mancano intenti di controllo demografico.


Parallelamente inizia la campagna di scristianizzazione del territorio e il Terrore rivoluzionario si abbatte sulle popolazioni con la più dura delle persecuzioni mentre gli imprigionati, i deportati in questo periodo viene inaugurata la colonia penale di Caienna, nella Guyana , le esecuzioni di ogni tipo sono in un numero imprecisato. Nel febbraio del 1794 la Vandea insorge ancora e conduce una spietata guerra di guerriglia, che mette la Repubblica alle corde. Finalmente, nel febbraio del 1795, a La Jaunnaye, i capi vandeani firmano una pace con la quale il Governo di Parigi s’impegna a riconoscere la libertà del culto cattolico, concede l’amnistia, un’indennità di risarcimento e, a quanto pare, in alcuni articoli segreti, s’impegna a consegnare ai vandeani il figlio di Luigi XVI, prigioniero nella Torre del Tempio di Parigi. Però, in seguito al mancato rispetto degli accordi, nel maggio del 1795 Charette e altri capi riprendono le armi, ma questa volta l’insurrezione non ha l’ampiezza della precedente, anche perché è grande la delusione per il mancato arrivo di un principe che si metta alla testa degli insorti; mancato arrivo di cui sono responsabili anche gli intrighi inglesi.


La guerriglia continua senza speranza fino alla cattura e alla fucilazione di Charette, nel marzo del 1796. Il tentativo di sbarco a Quiberon da parte di settecentocinquanta «emigrati» persone che hanno lasciato la Francia dopo gli avvenimenti del 1789 , molti dei quali ufficiali di marina cui l’Inghilterra ha promesso aiuto e appoggio militare, si conclude in un disastro. Traditi, cadono nelle mani dei repubblicani, che promettono loro la vita in cambio della resa e invece li fucilano; tutto finisce in una tragica Baia dei Porci ante litteram.


Con la morte di Charette si conclude l’epopea vandeana. Vi sarà un’altra insurrezione negli anni 1799 e 1800, guidata dai capi vandeani superstiti e da George Cadoudal (1771-1804) in Bretagna; poi ancora nel 1815, durante i Cento Giorni napoleonici; e, infine, l’ultimo episodio sarà la fallita insurrezione legittimista contro il governo liberale di Parigi nel 1832.


5. Il costo della guerra

Anni di guerra e di guerriglia spietata, ventuno battaglie campali, duecento prese e riprese di villaggi e di città, settecento scontri locali, centoventimila morti di parte vandeana, numerosissimi di parte repubblicana, la regione completamente devastata: queste sono le cifre impressionanti che molti cercano di nascondere.


Quella che Napoleone ha chiamato una lotta di giganti è una guerra popolare, cattolica e monarchica, che i vandeani hanno condotto diventando coscientemente un ostacolo all’affermazione del primo grande tentativo di repubblica rivoluzionaria e totalitaria della storia moderna. Per questo la Vandea ha pagato con un terribile genocidio, seguito dal silenzio di chi si riconosce nell’albero ideologico della Rivoluzione francese.


6. La vittoria dei vinti

Il riconoscimento dei sacerdoti fedeli a Roma, il ristabilimento del culto cattolico e infine, con tutti i suoi limiti, il Concordato Napoleonico del 1802 sono da molti ascritti a merito anche del sacrificio dei vandeani. Questa, in ultima analisi, può essere definita la grande vittoria dei vinti. Vinti in questo mondo, dal momento che molti di questi martiri sono stati elevati alla gloria degli altari dalla Chiesa.


Quindi, questa è la ragione per cui, fuori dal linguaggio corrente della storiografia, il termine «Vandea», al di là del suo contesto storico, ha valenza positiva, esempio e sinonimo di contrapposizione radicale ai princìpi rivoluzionari dell’epoca moderna, e difesa e proposizione dei valori sui quali si fonda la civiltà cristiana; perciò termine contro-rivoluzionario perché esprime non solo ostilità alla Rivoluzione in tutti i suoi aspetti, ma anche sostegno dei princìpi cristiani, che sono a essa radicalmente contrari.



Per approfondire: vedi un quadro generale della Rivoluzione francese, in Pierre Gaxotte (1895-1982), La Rivoluzione Francese, trad. it., Mondadori, Milano 1989; sulla Vandea in particolare, vedi la monografia di Reynald Secher, Il genocidio vandeano, prefazione di Jean Mayer, presentazione di Pierre Chaunu, trad. it., Effedieffe, Milano 1991; e lo straordinario documento di François Noël «Gracchus» Babeuf (1760-1797), La guerra della Vandea e il Sistema di Spopolamento, introduzione, presentazione, cronologia, bibliografia e note di R. Secher e Jean-Joël Brégeon, trad. it., Effedieffe, Milano 1991; per la «fortuna» del termine come categoria storica, vedi gli atti di un convegno tenuto in Vandea nel 1993, per ispirazione dello storico P. Chaunu, AA. VV., La Vandea, premessa di Sergio Romano, trad. it., Corbaccio, Milano 1995; per un’analisi delle interpretazioni del fenomeno «Rivoluzione francese», vedi Massimo Introvigne, Il sacro postmoderno. Chiesa, relativismo e nuova religiosità, Gribaudi, Milano 1996, pp. 24-59.

Da "Voci per un Dizionario del Pensiero Forte" - Alleanza Cattolica

Templares
01-03-05, 18:54
In Origine postato da MariaVittoria C
Complimenti per il contributo, tutto da studiare, e proporre ad amici.

Esatto. Ci siamo imposti di metterci a studiare per approfondire le nostre conoscenze, politiche e non solo. Giorgio in questa commissione sta facendo un lavoro eccezionale. E' un grande esempio per noi.

Per Giorgio. A volte sei un po "autoritario" e attenti al sistema nervoso :D :D :D , ma tutto sommato sei un grande:) :) :)
Grazie per l'impegno che quotidianamente dimostri.

Italianhawk83
01-03-05, 19:05
Salvatore, che dirti: grazie di cuore...

La passione che probabilmente dimostro è la diretta conseguenza dell'infinita attesa - lungamente frustrata e al fine fruttuosa - per la nascita di un "aggregato" conservatore.

Perciò attenti: se abbandonerete questa "meravigliosa barca" lungo il suo esaltante viaggio, contribuendo al suo affondamento, vi farò a pezzettini... :D

Maria Vittoria
01-03-05, 19:17
Io vivo a Bologna: una Città che, dal XV al XVIII secolo, si descriveva "in forma Navis Facta".
Anche se ignorante di politica conservatrice, assicuro la mia partecipazione, entusiasta, a questa navigazione!

Italianhawk83
01-03-05, 21:06
UN PENSATORE PER L'OCCIDENTE

Mezzo secolo di conservatorismo USA

Dieci lustri fa usciva la prima edizione di The Conservative Mind, 500 dense pagine che consacrano lo storico delle idee Russell Kirk padre indiscusso della Destra statunitense del secondo Novecento. Un itinerario culturale che da Edmund Burke – il primo critico della Rivoluzione di Francia del 1789 – giunge al filosofo scettico George Santayana. L’incontro con Thomas Stearns Eliot, di cui Kirk diviene discepolo e amico, porta all’ampliamento della filière ideale descritta nel testo. A cui plaudì anche il presidente Repubblicano Ronald W. Reagan.

Non esisteva alcun movimento conservatore quando The Conservative Mind fu pubblicato nella primavera del 1953. Vi era, al suo posto, una congerie incoerente e litigiosa di pensatori, di scrittori e di uomini politici, le cui differenze sembravano sopraffare le similitudini.
Fra i filosofi vi erano Friedrich A. von Hayek, un economista di orientamento liberale classico nato in Austria; Richard M. Weaver, un agrario “sudista” che insegnava inglese non alla Vanderbilt University di Nashville, in Tennessee – il simbolo della rinascita del Sud prima della Seconda guerra mondiale –, ma all’Università di Chicago; e Whittaker Chambers, una ex spia sovietica trasformatasi in fervente anticomunista .
Fra i divulgatori vi erano il commentatore radiofonico John T. Flynn, un irriducibile isolazionista del movimento “America First”; l’opinionista di Newsweek Raymond Moley, già consigliere supremo del presidente Democratico Franklin D. Roosevelt; e William F. Buckley jr., che nel suo best-seller God and Man at Yale si definì ripetutamente un individualista.
Fra i politici figuravano i nomi del senatore Robert A. Taft, Repubblicano dell’Ohio, che si definì un conservatore liberale; il senatore Joseph R. Mc Carthy, Repubblicano del Wisconsin; e Barry M. Goldwater dell’Arizona, che nella sua prima corsa per il Senato si definì un Repubblicano jeffersoniano.
Alla fine degli anni Quaranta e all’inizio del decennio successivo, i conservatori tradizionalisti come Weaver e i liberali classici alla Von Hayek erano convinti che i valori su cui si regge la civiltà fossero in pericolo, stante che il ruolo della persona e delle associazioni volontarie fra gli uomini era stato progressivamente minato dall’ampliarsi di strutture di potere arbitrario. La libertà di pensiero e di espressione era minacciata da minoranze assetate di potere e questa disastrosa evoluzione della vita sociale era sostenuta da una visione storica che negava ogni norma morale assoluta, che metteva in discussione la sovranità del diritto ( rule of law ) e che depotenziava la fiducia nella proprietà privata e nella competizione di mercato.
Esistevano alcuni segnali incoraggianti, però. Dal 1944, la newsletter settimanale Human Events veniva pubblicando saggi acuti e spesso battaglieri, firmati da alcuni degli autori conservatori e anticomunisti allora più significativi. Il quindicinale The Freeman era stato lanciato nel 1950, ma purtroppo s’impantanò in dispute interne di natura politica. Nel 1952 sorse l’Intercollegiate Society of Individualists, una organizzazione giovanile, che, nonostante la contraddizione con il nome che si era data, cominciò a raggruppare soci. Mancava, però, una dominante comune in questo calderone che accomunava indistintamente conservatori, liberali classici e anticomunisti. I conservatori, inoltre, avevano un nemico in più: il liberalismo liberal moderno, che giganteggiava così indisturbato e tanto universalmente acclamato da apparire invincibile. Davide si era scontrato con un solo Golia; dall’altra parte del campo di battaglia, ai conservatori si parava innanzi un intero esercito di Golia.

La riscossa nasce dal Sud
Poca meraviglia, dunque, che originariamente Weaver volesse intitolare il proprio libro dedicato alla ricostruzione degli errori dell’epoca moderna The Fearful Descent , “Lo spaventoso declino”. Il suo editore optò invece diversamente e, all’inizio del 1948, comparve Ideas Have Consequences .
Weaver vi sosteneva che il nominalismo, il razionalismo e il materialismo avevano inesorabilmente portato a quella che egli considerava la «dissoluzione» morale dell’Occidente. L’uomo si era allontanato dai princìpi primi e dalla vera sapienza, per abbracciare entusiasticamente l’egualitarismo sfrenato e il culto della massa. Il libro di Weaver era senza dubbio una lamentazione, eppure in positivo prospettava anche tre possibilità di riforma che avrebbero aiutato il genere umano a salvarsi dal flagello del modernismo: la difesa della proprietà privata; la purificazione e il rispetto della lingua; e la pietà verso la natura, quella degli uomini l’uno verso l’altro e specialmente quella verso il passato.
Ideas Have Consequences non passò inosservato. Liberali come Paul Tillich e Reinhold Niebuhr lo apprezzarono profondamente. Il filosofo conservatore Eliseo Vivas definì Weaver «un moralista ispirato» e lo scienziato della politica Willmoore Kendall nominò il suo autore «capitano della squadra antiprogressista». Ma un recensore irritato bollò Weaver, che era un protestante del Sud, con l’etichetta di «propagandista del ritorno al papato medioevale» e un altro ne denunciò l’opera come anello di una «catena reazionaria» prodotta dalla University of Chicago Press, di cui faceva parte anche Von Hayek. Un granello di verità, però, il giudizio di quest’ultimo critico lo conteneva. Malgrado tutte le differenze, sia il liberale classico Von Hayek sia il conservatore tradizionalista Weaver avevano individuato l’origine del declino dell’Occidente in alcune «perniciose» idee progressiste: il primo puntava l’indice contro la pianificazione economica, il secondo contro il relativismo morale. Von Hayek propose come alternativa la via della libertà personale, incastonata nel quadro di un governo minuziosamente limitato nelle proprie competenze. Weaver ribadiva invece che una società retta deve fondarsi su verità certe ed eterne.
I due autori e le loro opere rappresentavano la fusione, all’interno del conservatorismo statunitense, della corrente libertarian e di quella conservatrice, fusione che attorno agli anni Cinquanta cominciò a realizzarsi, ancorché in maniera disordinata, sotto la doppia minaccia dell’assistenzialismo in patria e del comunismo all’estero.
A quel punto, diversi altri eventi si combinarono nel modellare ulteriormente il movimento conservatore: la condanna dell’ex spia sovietica Alger Hiss, la pubblicazione del libro God and Man at Yale di Buckley e la comparsa del magistrale volume di memorie di Chambers, Witness .
Il caso di spionaggio Hiss-Chambers degli anni 1948-1950 fu un evento determinante per il conservatorismo statunitense, con i liberal lanciati nella difesa appassionata di Hiss – un rampollo di Harvard che essi consideravano uno dei loro – da una parte, e i conservatori schierati con Chambers, opinionista di Time , e con il suo campione al Congresso, Richard M. Nixon, dall’altra. Nel 1948, Chambers testimoniò controvoglia di fronte all’House Commitee on Un-American Activities, affermando che negli anni Trenta aveva conosciuto un giovane funzionario del Dipartimento di Stato di nome Alger Hiss, allorché, studente, divenne un agente dello spionaggio comunista. Hiss negò con forza l’accusa e denunciò Chambers per calunnie, costringendolo a produrre dei documenti governativi segreti che teneva nascosti in una zucca nella sua fattoria del Maryland. I documenti confermarono immancabilmente che durante gli anni del New Deal i due uomini avevano fatto entrambi parte dell’apparato spionistico sovietico. Dopo due controversi processi di risonanza nazionale, Hiss fu condannato per falsa testimonianza e venne tradotto in carcere per quattro anni. La Destra si sentì vendicata, la Sinistra violentata, realizzando che con Hiss era finita sotto processo l’intera generazione del New Deal. «È stato il caso Hiss – ha scritto lo storico George H. Nash – a forgiare la componente anticomunista del movimento conservatore che stava nascendo in quegli anni».

Gli Stati Uniti e la «morte di Dio»
God and Man at Yale fu uno dei libri più discussi del 1951. Dedicando – «in quest’ordine» – il volume a Dio, al Paese e all’Università Yale di New Haven in Connecticut, Buckley accusò l’ateneo di aver abbandonato sia il cristianesimo, sia la libera intrapresa, ovvero ciò che egli – mutuando l’espressione da Albert Jay Nock, acerrimo nemico dello Stato – chiamava «individualismo». Buckley sostenne che il corpo docente di Yale – e faceva i nomi –, il quale promuoveva l’ateismo e il socialismo, avrebbe dovuto essere licenziato. Buckley paragonava il darwinismo, il socialismo fabiano e il pragmatismo al marxismo e al nazionalsocialismo. In alternativa, proponeva John Locke, Adam Smith, Thomas Jefferson e Gesù, sostenendo che l’obiettivo primo dell’educazione fosse quello di rendere familiare agli studenti un corpo di verità vive di cui il cristianesimo e la libera intrapresa, ovvero l’individualismo, sono i fondamenti. Ma, osservava Buckley, «a Yale l’individualismo sta morendo e muore senza combattere».
Quando Chambers lo pubblicò nel 1952, Witness , un’autobiografia lunga 800 pagine, divenne immediatamente un best-seller e per ottime ragioni. Conteneva una drammatica storia di spie, di spionaggio e di tradimenti, corredata da un apocalittico grido di allarme circa la battaglia epica che si stava combattendo fra l’Occidente e i suoi nemici totalitari.
Agli occhi dei conservatori il libro risultò particolare ficcante, giacché asseriva – proprio come gli stessi conservatori stavano facendo da anni – che gli Stati Uniti si trovavano nel mezzo di una crisi profonda che trascendeva l’ora presente; che si trattava di una crisi di fede, ben oltre la politica o il potere; e che il laicismo ( secular liberalism ) era un nemico giurato degli Stati Uniti tanto quanto lo era il comunismo, giacché nelle sue radici il laicismo null’altro era se non una seconda forma di comunismo.
Ma dov’era la falange capace di opporsi al pericolo chiaro e distinto posto dal socialismo in patria e dal comunismo all’estero?
Il presidente Repubblicano Dwight D. Eisenhower, da poco eletto, aveva promesso che si sarebbe recato in Corea per negoziare la fine di quella guerra inconcludente. Trascorse poco tempo, però, e la Casa Bianca iniziò a cantare le lodi del repubblicanesimo moderno, approvando la creazione di una nuova entità federale di dimensione elefantiache, ossia il Dipartimento della Salute, dell’Educazione e del Welfare.

Un grido che viene dal cuore
Russell Kirk aveva solo 35 anni quando, nella primavera del 1953, comparve quella sua opera d’importanza capitale che è The Conservative Mind . A tutta prima, i liberal presero a scherzarci sopra, affermando che il titolo era un ossimoro, ma furono costretti a rivedere questo giudizio quando lessero il « cri de coeur eloquente, provocatorio e veemente» che Kirk lanciava a favore del conservatorismo.
Nell’opera, l’autore stila una ricognizione lunga 500 pagine dei maggiori pensatori conservatori vissuti nel secolo e mezzo precedenti, rivolgendo caustiche accuse contro tutte le panacee progressiste, dall’idea della perfezione umana all’egualitarismo economico.
The Conservative Mind non inizia con un gemito, ma con uno schianto: «“Il partito degli stupidi”: questa è la definizione che John Stuart Mill dà dei conservatori. Come altre massime che i liberali dell’Ottocento hanno creduto dovessero trionfare per sempre, in questo nostro tempo in cui le filosofie progressiste e radicali stanno disintegrandosi quel giudizio deve essere riveduto».
Ancora oggi, questo passaggio quasi mozza il fiato e certamente lo mozzò 50 anni fa, in un tempo in cui i conservatori ammettevano pubblicamente di essere la parte perdente. Ma non così Kirk, questo ardimentoso e giovane studioso statunitense, che nelle parole del suo editore, Henry Regnery, «aveva scoperto una grande verità e desiderava comunicarla agli altri». Ma cosa aveva scoperto Kirk?
Aveva scoperto che il conservatorismo nordamericano moderno riposa con sicurezza sul dire e sul fare di una galleria di eroi conservatori che parte dal secolo XVIII e che inizia con il fondatore della «vera scuola conservatrice», Edmund Burke. Burke, sottolinea lo storico delle idee, non costituisce però un esempio isolato: è il primo di un grandioso sodalizio di uomini politici, di poeti e di filosofi conservatori, tra i quali figurano Benjamin Disraeli e il cardinale John Henry Newman in Gran Bretagna, e, in America Settentrionale, la rimarchevole famiglia degli Adams, Nathaniel Hawthorne e Orestes A. Brownson. E non si trattava di pensatori e di scribacchini di secondo piano, ma di uomini raffinati e di principio che nei Paesi di appartenenza e nei secoli in cui vissero avevano fatto la differenza, sostenendo pubblicamente e mostrandosi fedeli ai princìpi primi.
Ma quali sono questi princìpi primi? Sin dal 1953, l’intrepido dottor Kirk asserì che l’essenza del conservatorismo è racchiusa in sei canoni.
1. È un intento divino a governare sia la società sia la coscienza degli uomini: «le questioni politiche – scrive Kirk – sono questioni religiose e morali».
2. La vita tradizionale è poliedrica e misteriosa, laddove la maggior parte dei sistemi radicali è invece caratterizzato dall’omologazione più rigida.
3. La società civile necessita di una suddivisione in ordini e in ceti: «l’unica vera eguaglianza è l’eguaglianza morale». 4. La proprietà e la libertà sono inseparabilmente connesse. 5. L’uomo deve controllare la propria volontà e i propri appetiti, sapendo che a dominarlo è più l’emozione che non la ragione.
6. «Mutamento e riforma non sono la medesima cosa»: le trasformazioni sociali debbono essere lente.
Prima ancora che i liberal riprendessero fiato, The New York Times recensì favorevolmente The Conservative Mind così come pure fece la rivista Time, nella cui redazione uno dei senior editor definì quella kirkiana l’opera più importante del secolo XX. In vero, delle prime 50 recensioni ottenute dal volume, 47 erano, sorprendentemente, positive. Prima di allora, nessuno scrittore conservatore moderno aveva ricevuto tante entusiastiche attenzioni. Il filosofo politico Robert A. Nisbet scrisse a Kirk dicendogli che con un solo libro aveva fatto l’impossibile: aveva mandato in frantumi «la cappa intellettuale che si oppone alla tradizione conservatrice statunitense».
Ma Kirk aveva fatto molto di più. Aveva reso il conservatorismo rispettabile sul piano intellettuale. Mai più sarebbe stato detto che i conservatori costituiscono il “partito degli stupidi”. Né che il conservatorismo si preoccupa solo del passato, restando indifferente al futuro.
Nell’ultimo capitolo del libro, The Promise of Conservatism (titolo che differenzia il suo autore dal pessimismo profondo che invece anima l’ex comunista Chambers e la sua accettazione stoica della sconfitta), Kirk sosteneva che gl’interessi principali del vero conservatorismo e della democrazia libertarian vecchio stile stavano per divenire gli stessi.

La politica della prudenza
Ventun’anni dopo The Conservative Mind , il dottor Kirk pubblicò The Roots of American Order (trad. it. Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del nuovo mondo ). Diciannove anni dopo quel volume e un anno prima della sua scomparsa, Kirk ha dato alle stampe The Politics of Prudence – tradotto in italiano con il titolo La prudenza come criterio politico , a cura di Anthony G. Costantini, Pio Colonnello e Pasquale Giustiniani (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002) –, una raccolta di testi di conferenze tenute presso The Heritage Foundation di Washington, la maggior parte delle quali indirizzate specificamente ai giovani conservatori.
In quel volume, Kirk difende la politica dettata dalla prudenza in opposizione a quella di matrice ideologica, sperando di persuadere le giovani generazioni «a schierarsi apertamente contro il fanatismo politico e a ogni costruzione utopistica».
Egli rifiuta la definizione d’ideologia che si trova nei dizionari – «scienza delle idee» –, sostenendo invece che si tratta di una «religione capovolta» che promette una salvezza collettiva da raggiungere sulla Terra attraverso rivoluzioni violente. Kirk rigetta l’ideologia anche perché rende impossibile i compromessi politici. La sua ristretta visione della realtà – diceva – produce la guerra civile e la distruzione delle buone istituzioni sociali.
Al contrario, la politica prudente si basa sul dato certo che la natura e le istituzioni umane sono imperfette e quindi che, in politica, la “virtù” aggressiva finisce solo per spargere sangue. Per l’uomo politico prudente, le strutture politiche ed economiche non vengono erette un giorno per essere demolite quello seguente, ma si sviluppano nei secoli «come se fossero organiche».
Mi è capitato di sedere fra il pubblico di molte di quelle conferenze e posso testimoniare come i giovani e le giovani presenti – che solitamente erano la maggioranza dell’uditorio – pendessero da ognuna delle parole che egli pronunciava.
Durante una di esse, il dottor Kirk offrì un decalogo che, a suo avviso, conteneva quelle che dovevano essere le priorità dei conservatori statunitensi in quella precisa stagione storica. Le differenze fra il credo degli anni Ottanta e i sei canoni di The Conservative Mind degli anni Cinquanta sono molto istruttive. Questi i dieci princìpi conservatori proposti allora.

Un nuovo decalogo
1. Il conservatore crede nell’esistenza di un ordine morale duraturo.
2. Il conservatore si conforma agli usi, alle convenzioni sociali e alla continuità storica. Nel cuore del conservatore c’è l’idea burkeana della necessità di cambiamenti prudenti, ma i cambiamenti che si rendono di volta in volta necessari debbono essere graduali e ponderati.
3.Il conservatore crede in ciò che può essere definito il principio di consuetudine ( principle of prescription ). Ovvero nelle realtà fondate e sanzionate da un uso del cui inizio si è addirittura perduta la memoria.
4. È il principio della prudenza a guidare i conservatori.
5. È il principio della poliedricità del reale che desta l’attenzione dei conservatori.
6. È il principio dell’imperfezione umana che tiene a freno i conservatori.
7. I conservatori sono persuasi che la libertà e la proprietà siano strettamente connesse.
8. I conservatori promuovono le associazioni volontarie fra gli uomini e combattono ogni collettivismo.
9. Il conservatore avverte il bisogno che al potere e alle passioni umane vengano imposte restrizioni prudenti.
10. Il conservatore non ingenuo sa che, in una società sana, conservazione e cambiamento debbono coesistere ed essere conciliati.

La vite e i tralci
Uno dei pensatori conservatori preferiti da Kirk era Brownson, che 150 anni fa disse ai propri studenti del Dartmouth College, di Hanover, nel New Hampshire: «Non cercate ciò che desidera la vostra giovane età, ma ciò di cui essa ha bisogno; non ciò che premia, ma ciò in assenza del quale la vostra giovane età non può essere salvata; e poi andate e fate; e abbiate la vostra ricompensa nella consapevolezza di aver fatto il vostro dovere».
Questo è esattamente ciò che Kirk ha fatto per tutta l’esistenza. Nella pagine finali di The Sword of Imagination: Memoirs of a Half-Century of Literary Conflict – la sua autobiografia pubblicata postuma nel 1995 –, Kirk ha scritto che nella vita ha cercato di raggiungere tre mete: conservare il patrimonio di ordine, di giustizia e di libertà giunto sino a lui, un ordine morale accettabile e la cultura ereditata dalla storia. Condurre un’esistenza di discreta indipendenza, vivendo del proprio, in modo da potere dire la verità e fare udire la propria voce. Sposarsi per amore e crescere dei figli che un giorno possano comprendere che il servizio a Dio è la perfetta libertà.
Per grazia di Dio e dei talenti di cui era dotato, Kirk ha raggiunto tutti e tre questi scopi, fornendo a noi tutti una raison d’être .
Qual è stata l’importanza avuta da Russell Kirk per l’intero movimento conservatore statunitense? Oggi non è possibile separare l’uno dall’altro più di quanto si possa dividere la vite dai tralci.
Riassumendo l’intero movimento conservatore statunitense, il giornalista George F. Will, Premio Pulitzer 1977, ha avuto occasione di sottolineare che prima di Ronald W. Reagan vi fu Barry M. Goldwater; e che prima di Barry M. Goldwater vi fu National Review ; e che prima di National Review vi fu Buckley, suo fondatore nel 1955.
Will non si è spinto oltre. Ma prima di Buckley vi fu Russell Kirk, un uomo capace di comprendere che le idee – come una volta ha detto Reagan – «davvero governano il mondo».
Il valore delle numerose opere che il dottor Kirk ci ha lasciato durerà nel tempo perché si tratta di opere dense d’idee e di virtù, idee e virtù che il mondo deve per forza possedere se ha una qualche intenzione di durare.

Lee Edwards

Da "Il Domenicale"

Italianhawk83
01-03-05, 21:08
La rivoluzione (permanente) dei neocon
di Marco Respinti

Hanno sostituito Karl Marx con Abraham Lincoln. E sono pronti a dominare il mondo
Chi sono, dunque, i “neoconservatori”, sbarcati oramai a grandi ondate – massmediatiche – dagli Stati Uniti d’America anche in Italia, soprattutto grosso modo dall’autunno scorso, ovvero in pendenza dell’attacco militare all’Irak? Il “neo” è rivelatore. Perché, infatti, distinguersi con tanta caparbietà cronolatrica se si trattasse solo di un passaggio di testimone generazionale?
La denominazione, che fu originariamente attribuita loro in sede giornalistica, è stata presto rivendicata con orgoglio dai protagonisti indiscussi del movimento ( in primis da Irving Kristol) come marchio distintivo. E la tradizione diversa da cui provengono rispetto alla “Old Right” è quella che si fonda su ben altri valori rispetto non tanto all’isolazionismo (che la “Old Right” postbellica di per sé non ha mai predicato in senso stretto), quanto all’idea che il mondo sia un enorme impero americano di cui gli Stati Uniti sono il centro e il resto una bidonville .
Provengono dalla galassia trotzkista i neoconservatori e dall’idea di rivoluzione permanente già caro alla Quarta Internazionale. Trotzkisti, certo, non lo sono più, ma il marchio di fabbrica è rimasto. Contro Lenin e contro Stalin (o contro i loro odierni epigoni), i neocon giocano non più Karl Marx, ma Thomas Jefferson. O meglio: la loro interpretazione (inclusiva, egualitarista) di Jefferson.

Fra Lincoln e Majakovskij
O, meglio ancora, Jefferson letto da Abraham Lincoln, il primo presidente Repubblicano degli Stati Uniti che il 19 novembre 1863 a Gettysburg – sul campo ancora fumante della tragica battaglia che segnò l’inizio della fine dell’“antico regime” statunitense – “cambiò” il Paese con una frase: gli USA sono «[...] una nuova nazione [...] votata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali». Un esperimento, dunque. Fino ad allora erano stati un’esperienza: l’unica luce, diceva il patriota Patrick Henry ai tempi del vero Jefferson, che può guidare il cammino con sicurezza.
Un esperimento di «religione politica» lo chiama Eric Voegelin, un «sacro esperimento»: gli USA «città sulla collina», pronti ad aspergere il mondo. L’idea puritana degli USA, insomma; che però non è mai stata l’idea americana degli USA, anzitutto perché minoritaria anche in origine, quindi perché temperata dal realismo della terra con cui contadini e pionieri si sono trovati ad aver a che fare nel Mondo Nuovo, diverso dai salotti e dalle accademie del Vecchio.
Ma l’idea puritana non stemperatasi nell’impatto con la diversa terra si è laicizzata sognando una terra diversa; e – le vie dell’illuminismo sono infinite – è giunta fino a Lincoln.
L’origine, remota quanto si vuole, dei neocon è tutta lì. Lincoln arruolato per una variante più borghese della Quarta Internazionale. L’astio espresso verso i neocon dai reduci della Terza Internazionale – comunisti (“neo”, “post” e “ri”) e deviazionisti social-nazionali (fascisti e nazionalsocialisti altrettanto “neo”, “post” e “ri”) – è la riedizione aggiornata di una rivalità d’inizio secolo XX.
Per i neoconservatori, dunque, la difesa degli Stati Uniti passa attraverso la Quarta Internazionale. La difesa di Stati Uniti-esperimento e non esperienza, dove gli USA sono la quintessenza dell’ avant-garde di un Occidente inteso come emancipazione dal bimillenario retaggio culturale europeo. Quegli USA fatti di turbine e di acciaio pesante che il poeta bolscevico Vladimir V. Majakovskij cantò estasiato e che ai tempi di Franklin D. Roosevelt – un mezzo eroe anche per molti neocon – resero il Paese nordamericano una sorta di Metropolis poco dissimile dall’ideale sovietico staliniano.
Non è automatico che l’Occidente sia la secolarizzazione dell’Europa: per i conservatori old style di principio non lo è, per i “neo” new line di fatto lo è.

Un po’ “neoisolazionisti”
All’occorrenza, poi, questa difesa di questi USA adopera il grimaldello dell’“americanizzazione” del mondo, laddove invece per i “vecchi” conservatori la difesa del mondo così come è (nella misura in cui il diritto naturale non è violato) resta l’unica garanzia di salvezza dell’Occidente, cioè dell’Europa e degli USA “europei”.
Il caso di una pubblicazione come il mensile Chronicles: A Magazine of American Culture – diretto a Rockford, nell’Illinois, da Thomas J. Fleming – è, a questo proposito, assolutamente da manuale. Irriducibilmente anti- neocon , terreno d’incontro fra libertarian e “paleoconservatori”, decisa a difendere l’idea di cristianità occidentale contro la marea islamica montante, contraria a ogni imperialismo tanto da sembrare risolutamente isolazionista, per bocca del suo direttore il periodico (nel numero di aprile scorso) definisce “neoisolazionisti” i neocon immemori dell’Europa che pretendono di fare da sé e di rifare il mondo.

Un po’ “teoconservatori”
Poco conta per i neocon di matrice trotzkista il dato religioso, specificamente cristiano. Esiste fra loro, è vero, una buona rappresentanza di cattolici, di sacerdoti di santa romana Chiesa, di riviste e di fondazioni apertamente cattoliche, addirittura un biografo di Papa Giovanni Paolo II (George Weigel) e un acuto stigmatizzatore delle persecuzioni anticattoliche del secolo XX qual è Robert Royal. Esiste fra loro, è vero, una buona rappresentanza del mondo protestante evangelicale (così traduce la sociologia delle religioni più accorta) – per loro si è addirittura adoperato il neologismo nel neologismo, coniando il termine theocon – che legge lo scontro fra Occidente e islam anche come annuncio dell’Armageddon prossimo venturo.
La questione però è: quanto contano, oltre a far numero e talvolta colore, i cattolici nell’universo neocon ? Non sono loro i “falchi” dell’Amministrazione Bush jr. E quanto agli evangelicali, danno il tono o solo il tonico?

Insomma distruttori
William Kristol, Richard Perle, Paul Wolfowitz, Elliott Abrams e Michael A. Ledeen assomigliano poco ai theocon . Più futuristi che conservatori, i neocon auspicano degli USA mai esistiti. La maggior parte degli americani, comprese ampie fasce di chi pure ne approva determinate scelte politiche (per esempio la guerra all’Irak), li appoggia e li approva per motivi più simili a quelli della Destra conservatrice anti neocon che per amore di neoconservatorismo. È un paradosso, ma è reale. Di certo c’è che pochi si sentono descritti dal Ledeen di The War Against the Terror Masters: Why It Happened. Where We Are Now. How We’ll Win (St. Martin’s Press, New York 2002):
«Distruzione creativa è il nostro secondo nome, sia dentro la nostra società sia fuori. Abbattiamo quotidianamente il vecchio ordine: negli affari, nella scienza, nella letteratura, nelle arti, nell’architettura, nel cinema, nella politica, nel diritto. I nostri nemici hanno sempre temuto questo vortice di energia e di creatività che ne minaccia le tradizioni [...]. Essi non possono sentirsi sicuri finché noi ci siamo, giacché la nostra stessa esistenza – la nostra esistenza, non la nostra politica – minaccia la loro legittimità. Debbono attaccare noi per sopravvivere loro, esattamente come noi dobbiamo distruggere loro per far progredire la nostra missione storica».

Orient-Express
L’ultimo nodo al pettine. Quanto è neocon oggi l’amministrazione Bush?
Patrick J. Buchanan è da una decina di anni la bête noir per eccellenza dei neocon . Ora co-dirige il quindicinale The American Conservative , flagello dei neocon . Recentemente (16 giugno) scrive che «oggi i neoconservatori vengono visti come separati e distinti dai lealisti di Bush, con obbedienze e programmi propri». Deboli perché solo «parassiti» del potere politico, in questo momento starebbero pagando il conto della loro hybris . Bush, dice Buchanan, ha infatti subito sgonfiato il “caso Damasco”. Può darsi che si sbagli. Ma se non fosse così?
Per difendere l’Occidente – l’unico luogo storico in cui la dignità dell’uomo è fondamento di civiltà – vale davvero la pena di puntare tutto solo sulla «distruzione creativa» dei Ledeen?
Ma ancora di più: e se Bush jr. avesse a disposizione solo il treno neocon per azioni politiche che sembrano imperialiste e che invece sono difensive, ovvero se il treno neocon di Bush portasse a bordo altri passeggeri? Si può fare come i Ledeen, cioè bombardare il convoglio prima di verificare i biglietti?
In fin dei conti, Teheran e Damasco sono ancora in piedi (anche se i loro legami con il terrorismo internazionale sono ancora tutti da smentire). Se dovessero venire investite dalla locomotiva neocon nel futuro più o meno prosismo, la risposta sarebbe che i Ledeen hanno gettato dal treno tutti gli altri viaggiatori. Oppure che, ancora una volta, l’unico treno capace di stare sul binario è quello neocon .
Certo, comincerebbe a stufare. Anche se occorre distinguere sempre fra la reazione naturale di un mondo sotto assedio e i suoi inquinatori. Il realismo non è una pia intenzione intellettuale. È una virtù. Anche cristiana.

Da "Il Domenicale"

Italianhawk83
02-03-05, 15:59
Amici,
sto adeguatamente selezionando il materiale pubblicato, scegliendo SOLO E SOLTANTO documenti che aiutino a definire il nostro profilo dottrinario e i punti di riferimento politico-culturali che adotteremo. Cosa significa? Che non vorrei affatto che la commisisone diventi un "cimitero" di articoli che nessuno leggerà per la loro indiscutibile lunghezza. Cosa chiedo? Che l'organismo non venga chiuso prima che gli iscritti abbiano preso SOSTANZIALE visione degli interventi.

Ragazzi, formulo solo un auspicio, in modo che il lavoro della commisione non sia completamente vano. Ovviare alla prolissità? Impossibile. Vi chiedo solo un minimo sforzo: magari trascurate per una settimana le vostre letture generaliste per concentrarvi - con l'approccio da "quotidiano" post-pranzo - sugli articoli postati in commissione.

Vi assicuro che sono INTERESSANTISSIMI, mai noiosi (rappresentano una sorta di "formulazione scientifica" di ciò che ci raccontiamo ogni giorno su neocon, USA, Israele...), e se li prendeste in seria considerazione - giacchè si tratta della tematica che intendiamo RAPPRESENTARE e dell'organismo che stabilirà la quintessenza delle ragioni che DIFENDEREMO - parleremmo tutti con maggiore cognizione di causa.

Italianhawk83
02-03-05, 16:05
Ragazzi,
posto di seguito gli articoli componenti il meraviglioso approfondimento dedicato al conservatorismo americano dal primo numero dell'anno della rivista di cultura politica "Ideazione" diretta da Pierluigi Mennitti.

E' significamente intitolato "The Right (Italian) Nation" con evidente allusione a quella nazione che - stando a Destra - opera nel giusto.

Buona lettura

Italianhawk83
02-03-05, 16:06
Un’ambiziosa sfida culturale
di Pierluigi Mennitti

Cari lettori, nei giorni in cui avrete tra le mani questo numero della rivista, l’intera redazione di Ideazione sarà negli Stati Uniti per un viaggio di studio. Dieci giorni densi di incontri e appuntamenti, con l’obiettivo di studiare il fenomeno delle fondazioni americane, quei think-tank che generano l’intenso dibattito culturale che da sempre vivifica la vita e l’azione politica della più grande democrazia del pianeta. Fondazioni che producono riviste di differente periodicità, che attingono sostanza dai migliori cervelli delle università, che gemmano commentatori e analisti capaci di disegnare gli scenari nazionali e internazionali sui quotidiani più influenti (che non sono necessariamente quelli più famosi all’estero), che organizzano convegni e seminari per dibattere e rendere popolari i temi del momento e del futuro. Fondazioni, infine, che intrattengono un rapporto forte e proficuo con i partiti politici di riferimento: ne consigliano l’azione, ne discutono le linee, qualche volta ne determinano le scelte. Sempre li accompagnano nel difficile compito di capire gli interessi degli elettori in una società frammentata e diversificata, come quella statunitense. Che, fatta qualche debita proporzione, assomiglia molto alla nostra.

Quel che non assomiglia a noi, in apparenza, è proprio la fertilità dell’ambiente culturale che dovrebbe sostanziare la natura dei partiti, formarne la cultura politica, proiettarne l’azione verso l’incrocio con gli interessi del paese e dei suoi elettori. Eppure, la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica aveva, tra le varie opportunità, lasciato intravedere anche quella che i partiti abbandonassero l’elaborazione culturale interna, viziata di propaganda e autoreferenzialità, per affidarsi a una vagheggiata società civile del pensiero, capace di leggere la realtà con occhi meno legati agli interessi particolari della vita politica quotidiana. Fuori dalla routine (e dall’ansia) del collegio elettorale, la cultura politica italiana ha conosciuto, a partire dalla metà degli anni Novanta, la nascita di riviste, piccole case editrici, associazioni, istituti, fondazioni che hanno scelto di operare sul piano della cultura politica sposando la nuova impostazione bipolare del quadro istituzionale: scegliendo cioè di stare o di qua o di là dello schieramento politico.

La stessa nascita di Ideazione, nel 1994, è figlia di questa stagione, partita sull’onda della novità realizzata, nel centrodestra, da Forza Italia e poi sviluppatasi con il consolidamento di quell’area che oggi si chiama Casa delle Libertà e che raccoglie tradizioni come il liberalismo, il conservatorismo, il federalismo e il popolarismo, con una punta di nazionalismo e di populismo. Ne ha interpretato l’ansia di rinnovamento della scena politica, la voglia di riforme sul piano istituzionale e su quello economico per modernizzare il paese e assicurargli un futuro di crescita. Ha sviluppato una nuova idea dell’Italia e un dinamico ruolo in politica estera che fosse interprete della fine della Guerra Fredda e della vittoria strategica delle democrazie occidentali sul comunismo: giocare da protagonisti la sfida dell’allargamento europeo e, dopo l’11 settembre, affrontare a viso aperto la sfida del terrorismo islamista, al fianco degli Stati Uniti e della coalizione dei volenterosi, nonostante l’opposizione di una parte del paese e di alcuni partner europei. Non tutto quello che abbiamo elaborato, con la rivista bimestrale, poi con un’agile e pensosa casa editrice, poi con una fondazione, infine con un sito Internet di successo, si è tradotto in politiche di governo. Ma non è questo, certo, il rammarico più grosso: abbiamo sempre valutato come prezioso dono da difendere quell’autonomia di pensiero e di giudizio che ci ha permesso le critiche più feroci verso la nostra parte politica quando abbiamo giudicato che essa sbagliasse. E sappiamo che questa libertà, questa autonomia, comporta anche la reciproca possibilità di essere mandati a quel paese, magari in nome di una realpolitik che chi opera sul concreto terreno della politica è obbligato a tenere in considerazione. È il sale del confronto.

Il problema è, semmai, che da parte dei partiti il legame con il mondo delle idee e con i luoghi che queste idee elaborano, negli ultimi tempi si è allentato. E questo non va bene. Più il legame si affievolisce più i partiti si sclerotizzano nell’ordinaria amministrazione. Più i partiti si chiudono all’interno di un ghetto dorato, più tendono a privilegiare i percorsi viziosi del già sperimentato. Più si ritraggono dal confronto con le novità della società, più scambiano per interessi generali quelli loro particolari. Per fare un esempio recente, può capitare a un leader “rivoluzionario” come Silvio Berlusconi di scambiare per prioritaria l’esigenza della stabilità di governo rispetto a quella di una riforma decisiva (per l’Italia e per le sue stesse sorti elettorali) come la riduzione fiscale. È accaduto per pochi giorni, sino a quando la robusta protesta di commentatori, giornali, riviste, siti online, blog vicini al centrodestra (assieme a qualche sondaggio) ha fatto capire al premier che il taglio delle tasse era la ragione stessa della vittoria elettorale del 2001, uno dei punti qualificanti del programma di governo. Di più: l’atto che avrebbe simboleggiato i cinque anni di Berlusconi a Palazzo Chigi. Mantenere in vita un governo record solo nei giorni di durata invece che nelle riforme effettuate, non avrebbe giovato molto alla prossima campagna elettorale. Sfilatosi dal “teatrino della politica”, il Cavaliere ha ripreso in mano le forbici, ha agito e ha rilanciato la sua immagine, l’azione del governo e l’onda riformista, mettendo in difficoltà l’opposizione politica e sindacale che si è ritrovata a sfilare in corteo contro il fatto che i cittadini contassero qualche euro di più in tasca.

La sezione di apertura di questo numero, con il suo titolo “italo-americano” The Right (Italian) Nation, racconta proprio l’emergere di questa nazione giusta e destra che è nata, o rinata, ad Occidente. La sezione è divisa in due parti. La prima è la parte americana: si analizza come la cultura conservatrice sia riuscita, in un quarantennale percorso culturale e politico avviato da Berry Goldwater (al quale abbiamo voluto dedicare la copertina), sviluppato da Ronald Reagan e consolidato da George W. Bush, a bilanciare l’egemonia culturale liberal che aveva dominato la scena statunitense negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta del Novecento. È un percorso intrecciato del lavorìo di case editrici, riviste di cultura politica, periodici di battaglia, quotidiani popolari e locali, talk-radio, poi siti Internet, fino al successo di una tv all-news alternativa alla Cnn come la Fox-News e, novità dell’ultima campagna elettorale, l’esplosione del fenomeno dei blog. C’è stato bisogno di molto denaro e di grandi investimenti finanziari per realizzare tutto questo. La seconda parte è quella italiana: si tratta di capire come la vicenda americana possa essere d’esempio a quella italiana. Data per scontata l’impossibilità di replicare qui da noi il modello-Usa (non fosse altro per la scarsa dimestichezza dell’imprenditoria e della borghesia italiana a finanziare organizzazioni culturali), si deve riconoscere che quel lungo percorso non è stato solo foderato di dollari, ma anche di idee, fantasia, relazioni, determinazione, connessioni, volontà, consapevolezza culturale e politica. Tutti elementi che hanno costruito la Right Nation, magistralmente descritta dai due giornalisti britannici dell’Economist, John Micklethwait e Adrian Wooldridge.

In Italia, nell’ultimo decennio, tante sono le realtà culturali nate sul versante del centrodestra. La mappa che tracciamo proprio nella parte italiana della sezione, certamente parziale come capita ad ogni prima volta, racconta di una vivacità sorprendente, non sempre conosciuta, non sempre evidente. Esistono riviste di approfondimento, fondazioni che studiano ed elaborano strategie, giornali quotidiani con politiche editoriali differenti che si rivolgono a lettori diversi, istituti magari meno riconducibili a una definita area politica ma certamente legati a battaglie culturali comuni a quelle della Casa delle Libertà. C’è chi segue il filone liberal-conservatore e chi insegue le mille autonomie nel nome del federalismo; chi si richiama alla tradizione popolare e democristiana e chi lavora per il rinnovamento della destra ex-missina; chi riannoda le fila di un socialismo liberale e riformista, chi quello della gloriosa tradizione lib-lab, fino a chi insegue (la definizione è del Foglio) il trotskismo di destra sognando un’alternativa sociale al capitalismo, ovviamente “selvaggio”.

Insomma, il panorama è tutt’altro che desertico, e l’arcipelago che tanto s’invoca, a guardarlo bene, c’è già. Magari si tratta di monadi spesso isolate che dialogano poco tra di loro: ci si attarda nel vittimismo, non si pratica con la necessaria disinvoltura l’arte della comunicazione, indugiando talvolta su vecchi strumenti non più adeguati alla dispersione ricettiva della nostra società, e non si riesce a combattere davvero ad armi pari contro quel grande e invasivo progetto culturale transnazionale che è il politically correct. E tuttavia è questo il salto di qualità che dobbiamo impegnarci a compiere. Avviare un grande processo di integrazione dell’arcipelago, questo sì sul modello dell’esperienza statunitense, con la consapevolezza e l’orgoglio di rappresentare non una minoranza dell’ambìto salotto culturale del paese ma una solida maggioranza nei cuori e nelle menti della popolazione italiana. Le elezioni politiche dell’ultimo decennio, anche quella che nel 1996 portò al governo Romano Prodi, dimostrano che il centrodestra è in maggioranza. Oseremmo dire, addirittura più nelle idee che nelle urne. A chi nutre ancora ansie di legittimità, ricordiamo la sconsolata ammissione di Massimo D’Alema che tempo fa osservava come «l’Italia resti un paese sostanzialmente conservatore». A noi dunque il compito di rendere questa Right Nation italiana visibile e paritaria anche nel mondo dell’editoria, dell’informazione, dei media, dell’entertainment, delle arti e della cultura in generale. Servono entusiasmo e sfrontatezza ma anche qualità ed esperienza che si ottengono con il lavoro, l’umiltà e la pazienza. Serve un network di relazioni che metta in connessione i vari punti dell’arcipelago. Serve anche che qualcuno s’impegni mettendo mano al portafoglio, perché alla storia dei volontari crede solo l’ipocrisia statalista di Romano Prodi: e se alla borghesia italiana ritorna il gusto di qualche missione che aiuti il paese a guardare un po’ più lontano, allora chissà che questo viaggio negli Usa che ci apprestiamo a compiere non sia solo l’inizio di una grande avventura.

Da "Ideazione"

Italianhawk83
02-03-05, 16:08
Come tramonta una dittatura mediatica
intervista a Brian C. Anderson di Alessandro Gisotti


I conservatori possono vincere la battaglia culturale dei mass media. Anzi, negli Stati Uniti la stanno già vincendo. Era l’autunno 2003, quando Brian C. Anderson pubblicava sul trimestrale newyorkese City Journal un saggio incentrato su questa argomentazione. Articolo profetico, come le elezioni del 2 novembre scorso hanno dimostrato. City Journal non è una rivista qualsiasi. Peggy Noonan, già speech writer di Ronald Reagan, l’ha definita il miglior magazine d’America. Molte delle idee di Rudy Giuliani, quando era sindaco di New York, sono nate dalle pagine di City Journal. Dal canto suo, Anderson – una delle penne più brillanti della rivista – ha scritto anche per il New York Post, il Washington Times e The Public Interest. Ma soprattutto, è autore di South Park Conservatives, un libro sui media conservatori, in uscita negli Stati Uniti tra poche settimane. Brian C. Anderson ha accettato di confrontarsi con Ideazione sul tema rovente della sfida culturale tra liberal e conservatori americani.

L’osservatorio conservatore Media Research Center ritiene che la rielezione di Bush abbia dimostrato quanto irrilevanti siano diventati i mass media tradizionali. È d’accordo con quest’affermazione?
Forse dire irrilevante è un po’ troppo, ma non c’è dubbio che il potere dei mezzi di comunicazione tradizionali stia diminuendo. Ciò soprattutto grazie alla proliferazione di nuovi media (talk show radiofonici, Internet, televisioni via cavo e nuove case editrici), che stanno offrendo agli argomenti di destra una grande amplificazione culturale. Le ultime elezioni hanno visto i vecchi media liberal ingaggiare una strenua battaglia per disarcionare il presidente Bush. Uno sforzo che avrebbe potuto avere successo dieci anni fa. Ma non oggi.

In molti ritengono che, negli Stati Uniti, il monopolio della sinistra sui canali di informazione e comunicazione sia ormai giunto al termine. È possibile individuare l’inizio del processo che ha portato a tale risultato?

Il processo è iniziato con l’arrivo dei talk show radiofonici, circa 15 anni fa. Prima del 1987, la cosiddetta “dottrina dell’imparzialità” teneva i programmi politici lontani dalle frequenze radio. Era infatti necessario rispettare la regola dell’equal time: se avevi un talk show conservatore in onda, ne dovevi trasmettere pure uno liberal, anche se quest’ultimo non aveva alcun ascoltatore, come peraltro succedeva spesso. Le stazioni radio hanno risposto “non se ne fa niente”, meglio nessun talk show. Ronald Reagan eliminò la “dottrina dell’imparzialità”. Così, il mercato, gli ascoltatori hanno potuto decidere cosa volevano ascoltare. E scelsero programmi radiofonici conservatori. Arrivò il momento di Rush Limbaugh, che raggiunse 20 milioni di ascoltatori a settimana, e presto anche altre emittenti radiofoniche hanno cominciato a trasmettere i propri programmi conservatori. Oggi, i conduttori radiofonici di destra dominano il settore e sono incredibilmente influenti. Basti pensare che un americano su cinque afferma di informarsi prevalentemente attraverso l’ascolto della radio. Altra tappa è stata la nascita di Fox News nel 1996 e, poi, i web-log.

Proprio l’avvento del canale Fox News rappresenta uno degli eventi più visibili dell’ascesa dei media conservatori. Come spiega questo successo?

Fox ha successo non perché sia una tv conservatrice, ma perché presenta entrambe le posizioni – destra e sinistra – e lascia al telespettatore la possibilità di farsi una sua idea. Le altre emittenti televisive pretendono di essere oggettive, ma presentano in realtà solamente la visione liberal delle cose. Fox inoltre è decisamente all’avanguardia come produzione e si avvale di analisti brillanti. Infine, non ha paura di identificare se stessa come una tv americana.

Per molti conservatori, la cancellazione della miniserie della Cbs “The Reagans”, circa un anno fa, rappresenta un evento spartiacque nella battaglia culturale americana. Perché?

Il motivo, come sottolineo nel mio libro di prossima uscita South Park Conservatives, è che per la prima volta i nuovi media emergenti sono stati notati anche da un pubblico più ampio. La Cbs aveva programmato di trasmettere un documentario bugiardo, zeppo di distorsioni sulla famiglia Reagan. La “blogosfera” ne è venuta a conoscenza e una parte dello script della miniserie è stato pubblicato da Drudge Report (il sito web che fece esplodere il caso Monica Lewinski, ndr). A quel punto, le radio hanno iniziato una campagna, affinché Cbs non mandasse in onda la fiction o perlomeno la equilibrasse. Cbs ha dovuto fare marcia indietro. E tutti a commentare: «Che diavolo sta succedendo? Da quando i conservatori possono dire la loro su ciò che viene trasmesso?» La campagna presidenziale ha accelerato questo cambiamento.

Andrew Sullivan una volta ha dichiarato: «Penso di avere più facilità ad immettere un’idea nel dibattito nazionale attraverso il mio blog che con la rivista The New Republic. Secondo lei, Internet – in particolare la “blogosfera” – rappresenta un elemento chiave dell’indebolimento del dominio liberal sui media?

Sì, certamente. La “blogosfera”, per esempio, è riuscita a dimostrare la falsità dei documenti della Cbs sugli anni in cui il presidente Bush ha servito nella Guardia Nazionale. Siccome i grandi protagonisti del mondo dei media, tanto nella carta stampata quanto nella televisione, leggono tutti i blog, questi hanno raggiunto un potere che nessuno avrebbe mai immaginato solo pochi anni fa. D’altro canto, poiché i blog sono molti e attingono ad una varietà di conoscenze e professionalità, funzionano come una sorta di controllore collettivo della veridicità dei fatti. I mezzi di comunicazione sono perciò più attenti nel raccontare gli eventi. La “blogosfera” fa sì che i pregiudizi – sia di destra che di sinistra – siano meno accettabili.

Un altro colpo alla supremazia liberal è venuto dal settore editoriale. Quali sono i motivi del boom nelle vendite dei libri conservatori?

In realtà c’è sempre stata una domanda di questi libri. Tuttavia, pochi editori – dominati dagli scrittori liberal – avevano voglia di commissionarli. Il successo di Regnery Books, un editore conservatore che ha inanellato un best seller dopo l’altro, ha suonato la sveglia al mondo dell’editoria, dimostrando quanti soldi si possono guadagnare pubblicando libri di destra. Come ha detto l’editore Adam Bellow: «La razionalità degli affari ha battuto l’avversione ideologica». Inoltre, la nuova sfera mediatica – blog, talk radiofonici, Fox – ha dato agli editori un mezzo per pubblicizzare i libri conservatori senza dipendere dalle recensioni su New York Times Book Review o le comparse a Good Morning America.

È corretto affermare che l’11 settembre ha scosso definitivamente il panorama dei media americani?

Di primo impatto, direi di sì. Negli ultimi 12 mesi, però, abbiamo visto un odio davvero palpabile nei confronti di Bush, che ha portato alcuni media ad essere ancor più inclini ai pregiudizi. Altri, invece, soprattutto nel settore delle tv via cavo, hanno cercato di essere più equilibrati.

Esiste oggi negli Stati Uniti un circuito coordinato di mezzi di comunicazione di destra?

No, questa è una stupida fantasia della sinistra. C’è un circuito, ma non coordinato, che rappresenta semplicemente l’emergere, per la prima volta, di media che non sono ostili ai conservatori.

Da "Ideazione"

Italianhawk83
02-03-05, 16:10
Conservatori in libreria, la fine del tabù
di Cristina Missiroli

E' spuntata l’alba di una nuova era sulla New York un po’ snob e radical chic degli editori liberal. Un altro tabù è andato in frantumi. Libri che piacciono ai conservatori possono essere stampati. Autori di destra possono conquistare gli scaffali più in vista, invece di finire in un angolo della libreria. Saggi che sparano a zero sui democrats possono scalare le classifiche del New York Times. E lo fanno sempre più spesso.

Di più: pubblicare questi libri fa guadagnare un sacco di soldi. Non è più un affare che riguarda solo piccole case editrici un po’ polverose e fuori dai grandi circuiti di distribuzione. Ad un certo punto, alla fine degli anni Novanta, i colossi della carta stampata si sono resi conto che editori come Regnery e WND Books avevano cominciato a far soldi a palate, stampando libri che loro, tycoon delle librerie, non avrebbero mai e poi mai preso in considerazione. In altre parole: c’era un mercato grande quanto mezza America che continuavano ad ignorare. Per motivi puramente ideologici. Preso atto di ciò, i grandi editori hanno ingoiato il loro orgoglio, si sono turati il naso e hanno fatto l’impensabile: pubblicando libri conservatori. Insomma, in questi ultimi anni (soprattutto dopo lo shock dell’11 settembre 2001) anche i grandi editori americani hanno capito che vendere libri conservatori è diventato un business irrinunciabile. E si sono attrezzati.

Random House e Penguin, veri giganti dell’editoria newyorkese, sono stati i primi a farsi avanti. Acquisendo piccole case preesistenti e lanciando intere collane specializzate nella pubblicazione di titoli appetibili per i conservatori. Negli ultimi tempi i colossi dell’editoria hanno letteralmente rubato gli agenti specializzati che, negli anni passati, si erano formati nelle più piccole case editrici conservatrici.

Il risultato, del tutto impensabile una decina di anni fa, è evidente anche ai più distratti. Oggi è normale entrare in una qualsiasi libreria e trovare nei posti d’onore decine di libri non di sinistra ma patinati, ben curati, ben venduti. Certo le piccole librerie culto, gestite in proprio da librai liberal, continuano a fare un po’ di ostruzionismo. Ma posti di questo genere non rappresentano più il vettore principale che porta i libri sui comodini degli americani. Al contrario, le grandi catene come Barnes & Noble o Wal Mart (senza contare le librerie virtuali come Amazon.com) più impostate sul profitto che sull’ideologia, espongono fianco a fianco gli autori culto della sinistra e della destra. E incassano più che mai.
All’inizio degli anni Novanta il mondo era diverso. Almeno per gli scrittori conservatori. La casa editrice Regnery non si era ancora fatta un nome con l’attacco frontale a Clinton. Questo arriverà solo con il libro di Gary Aldrich’s Unlimited Access (1996) e con quello di Ann Coulter, High Crimes and Misdemeanors (1998).

Prima di allora gli scrittori conservatori seri, specialmente se newyorkesi, avevano un unico posto dove andare a bussare: il portone di The Free Press, guidata da Erwin A. Glikes, un ebreo nato in Belgio che si era posto come missione quella di costruire un porto piccolo ma sicuro per gli autori che credevano nel libero mercato e per i pensatori libertarian. Nel 1994 però Free Press fu acquistata dalla ben più potente Simon & Schuster. Glikes si licenziò e morì l’anno stesso. Di crepacuore dicono i suoi amici, presagendo la fine della sua creatura. The Free Press, infatti, virò visibilmente a sinistra quasi immediatamente. Stessa sorte grosso modo subì l’altra isola conservatrice, Basic Books, che più o meno nello stesso periodo diminuì fortemente la presenza di libri non liberal in catalogo. Lasciando Regnery praticamente da sola contro i colossi tutti schierati a sinistra.

Da Prima Forum a Crown

Ma esisteva un altro germoglio che avrebbe dato i suoi frutti. Nel 1984 Ben e Nancy Dominitz avevano fondato Prima Publishing con un capitale di appena ventimila dollari. La società crebbe in fretta. Nel 2000 la piccola casa editrice mise sul mercato 300 titoli per un fatturato di 100 milioni di dollari. Non si trattava solo di libri politici. La fortuna di Prima arrivò con i libri di cucina, guide per il fai-da-te e per videogiochi. Ma Dominitz, un ebreo che era arrivato negli Usa da Israele all’età di 13 anni e che si era fatto totalmente da sé, aveva il suo maggior interesse nella politica: cominciò a battere l’America in lungo e in largo e a pubblicare quelli che considerava giovani talenti del pensiero libertario e conservatore. Tutte quelle idee che gli editori principali snobbavano. La fine della Free Press e l’abdicazione di Basic Books lasciavano un spazio enorme. Così nel 1996, insieme a Steve Martin, Dominitz varò una collana completamente dedicata alla politica: Prima Forum.

Prima Forum si accaparrò qualche pezzo da novanta come William F. Buckley Jr., David Horowitz, Peter Collier e Paul Craig Roberts. Ma promosse anche nuovi talenti. Tra le stelle conservatrici lanciate da Prima Forum ci sono Patrick Glynn (God the Evidence); Thomas J. DiLorenzo (The Real Lincoln); e Tammy Bruce (The New Thought Police e The Death of Right and Wrong). Il colpaccio venne quando il procuratore Kenneth Starr decise di pubblicare on-line le prove raccolte contro Clinton nel 1998. Prima Forum arrivò in libreria con l’edizione rilegata dello Starr Report nel giro di due giorni: un vero salto mortale che le permise di bruciare tutti i suoi concorrenti.

Intanto l’intera casa editrice andava a gonfie vele. La Prima Games Division aveva conquistato circa il 50 per cento dell’intero mercato americano dell’editoria per computer e videogame. Troppo perché le grandi case editrici continuassero ad ignorarlo. Arrivò così “l’offerta che non si può rifiutare”. Dominitz vendette tutto il pacchetto a Random House nell’aprile del 2001. La divisione politica era, ovviamente, la meno interessante per Random House. E probabilmente Prima Forum sarebbe morta se non fosse stato per lo straordinario successo di un unico libro. Quando fu pubblicato nella prima edizione (era il 1999) il saggio di Yossef Bodansky’s, Bin Laden: The Man Who Declared War on America vendette solo diecimila copie. Poi arrivarono gli attacchi dell’11 settembre e all’improvviso tutti gli americani cominciarono a battere le librerie alla ricerca di informazioni su Osama. Prima ristampò il libro in paperback in una settimana e ne vendette quasi 270mila copie, restando cinque settimane nella lista dei best-seller del New York Times. Prima Forum era salva per il rotto della cuffia. Oggi, grazie allo straordinario successo di autori come Ann Coulter e Steve Ross, Prima vive ancora con il nuovo nome di Crown Forum.

Il fattore Coulter

In realtà, prima di diventare autori di primo piano, anche le star della Crown hanno avuto vita dura. L’onnipresente pasionaria conservatrice Ann Coulter ebbe il suo bel da fare per ottenere che il suo primo libro importante Slander: Liberal Lies About the American Right vedesse la luce. Gli editori liberal cercarono di strangolare Slander nella culla. Harper Collins, editore della Coulter, lo aveva messo in un cassetto. Il suo agente bussò a tutte le porte e ad una ad una le porte gli furono chiuse in faccia. Un redattore della Doubleday – ha raccontato più volte l’autrice – rifiutò il libro con la giustificazione che “non aiutava il dialogo nazionale”. Alla fine Crown Publishing decise di stamparlo. Grazie anche alle frequenti partecipazioni della Coulter nei talk show radio e tv, il libro vendette più di 400mila copie e rimase per venti settimane nella classifica dei libri più venduti del New York Times, otto delle quali saldamente piazzata al numero uno. Ann si tolse tutti i sassolini dalle scarpe. Ripete spesso che se fosse stata in Rupert Murdoch avrebbe licenziato quel redattore della Harper Collins che aveva rifiutato sdegnosamente il best seller numero uno dell’estate. E solo per motivi ideologici.

Non sappiamo se Murdoch abbia preso provvedimenti nei confronti di chi commise quell’errore. Di certo però la lezione di Slander deve aver funzionato se ora i grandi editori fanno la fila per accaparrarsi le stelle conservatrici. Ma ora che il mercato di destra fa tanta gola ai colossi, riusciranno a sopravvivere e ad aver un ruolo le case conservatrici? Regnery, Spence, Encounter Books, WND Books, NewsMax.com e le altre non possono certo competere con colossi in grado di sborsare assegni di anticipo generosi e garantire una distribuzione capillare ai loro autori. Le piccole case continueranno a svolgere il loro compito. Facendo quel che Prima Forum ha fatto negli ultimi anni: girare il paese alla ricerca di nuovi talenti, continuando a tastare il polso alla parte viva dell’America.
Consapevoli che ormai esiste un circuito dei media di destra pronto ad accogliere, lanciare e pubblicizzare nuovi personaggi e nuove star del mondo conservatore. Un circuito che ha avuto e di certo continuerà ad avere un ruolo fondamentale nella vendita dei libri. Le radio, le tv via cavo e Internet raggiungono quotidianamente milioni di potenziali lettori. Tanto da rendere sempre meno rilevanti i tradizionali metodi di promozione dei libri e delle idee. Un’intervista su Fox, sul circuito delle tv via cavo o persino una citazione nella homepage di Drudge Report valgono ormai persino di più di una buona recensione su un quotidiano importante.

Da "Ideazione"

Italianhawk83
02-03-05, 16:11
Dacci oggi la nostra destra quotidiana
di Stefano Magni


Autobombe, rapimenti, decapitazioni, guerriglia… Ma c’è almeno qualche buona notizia dall’Iraq? Sì, ci sono anche buone notizie: c’è quella di un popolo intero che si sta registrando per le sue prime libere elezioni, per esempio. Non sono notizie che si trovano spesso sul New York Times, o sul Washington Post, ma sul Wall Street Journal sì. Le riporta, settimanalmente, l’editorialista Arthur Chrenkoff. Mancano informazioni su ciò che accade quotidianamente in un regime chiuso come la Corea del Nord? Di solito, di quel paese si parla solo quando minaccia test nucleari. Però, cercando bene, si trovano anche notizie come quella dei dipinti “scomparsi” del Beneamato Kim Jong Il, con tanto di citazioni dalle proteste delle autorità che, senza timor di passare per ridicole, giudicano il gesto come «un folle tentativo di far scendere il sole dal cielo». Anche in questo caso, l’episodio è difficilmente rintracciabile in grandi quotidiani mainstream, ma sulla rivista News Max sì. E ancora, dove mai si può leggere un titolo come “Arafat: Tramonta un terrorista”? Su Front Page Magazine, dove analisti seri e documentatissimi non lesinano giudizi espliciti anche molto violenti nei toni.

Dietro l’America buonista, al di là di una stampa tradizionalmente liberal, oltre a cronisti d’assalto resi celebri dal cinema per aver incastrato il repubblicano “guerrafondaio” Richard Nixon e aver rischiato la vita per mostrare gli orrori compiuti (solo ed esclusivamente) dai dittatori di destra anti-sovietici, c’è anche un’altra stampa, aggressiva, curiosa e documentata: è la stampa conservatrice. Sono giornali e riviste, del tutto indipendenti o legate a think-tank (ma non a partiti politici o a istituzioni governative), lette da un’America che vuole informarsi, ma non fermarsi di fronte alla solita visione del mondo liberal. Il giornale più famoso fra questi è sicuramente il Wall Street Journal (WSJ), il grande quotidiano economico che è nato nel 1902 e non ha mai cambiato linea. «Nei nostri editoriali non abbiamo alcuna pretesa di essere al di sopra delle parti – scriveva sul WSJ nel 1951 l’editorialista premio Pulitzer William H. Grimes – i nostri commenti e le nostre interpretazioni provengono da un preciso punto di vista. Noi crediamo nell’individuo, nella sua volontà e nella sua decenza. Noi ci opponiamo a qualsiasi violazione dei diritti individuali, provengano esse da monopoli di imprese private, monopoli dei sindacati, o da un governo troppo invadente. La gente potrà anche dire che siamo conservatori o perfino reazionari. Non siamo molto interessati alle etichette, ma se proprio ne dovessimo scegliere una, diremmo che siamo radicali. Radicali tanto quanto la dottrina cristiana».

Il WSJ nacque e crebbe grazie al talento di editori quali Thomas Woodlock, che lo fondò, e Bernard Kilgore che, dal 1941 al 1967, portò la sua diffusione da 33.000 a più di 1 milione di copie vendute ogni giorno. Oggi è il quotidiano economico di riferimento in tutto il mondo, è il giornale statunitense più venduto in assoluto (circa 1 milione e 800 mila copie ogni giorno) con edizioni anche per l’Europa, l’Asia e l’America Latina. è un prodotto del libero mercato e non ha mai rinnegato quel sistema e i principi che lo sostengono: «I principi fissati in quell’anno-spartiacque che fu il 1776 dalla Dichiarazione di Indipendenza di Jefferson e dal Saggio sulla ricchezza delle Nazioni di Adam Smith”» – come si legge nella dichiarazione di intenti degli editorialisti del WSJ – «Così, lungo tutto il secolo scorso e in quello che verrà, il giornale è dalla parte del libero mercato, contro la tassazione predatoria e l’arbitrio dei re e degli altri collettivisti, per l’autonomia degli individui contro le dittature, le masse e anche la collera di maggioranze temporanee». E in effetti nel corso del secolo scorso il WSJ si è schierato più volte contro le idee stataliste dominanti del momento, persino contro la politica del New Deal di Roosevelt, di cui nessuno, oggi come oggi, osa criticare le idee.

Lotta contro lo statalismo, difesa dei valori tradizionali, lotta contro le tirannidi e contro le violenze rivoluzionarie all’estero sono state e sono le caratteristiche principali del moderno movimento conservatore americano e della stampa che gli dà voce. Sono riassunti tutti nella rivista National Review, in cui gli editoriali sono firmati da illustri membri di think-tank quali American Enterprise Insitute (come il liberale cattolico Michael Novak, i neoconservatori Michael Ledeen e David Frum), Hoover Institution (lo storico Victor Davis Hanson), Heritage Foundation (il liberale Ariel Cohen), Cato Institute (il libertario Dave Kopel), o outsider non convenzionali, come l’imprenditore e diplomatico di origine pachistana Ijaz Mansoor. La National Review, per questo, non è solo una rivista, ma un vero e proprio serbatoio di idee, creato apposta da William Buckley jr. quasi mezzo secolo fa per stimolare una rivoluzione conservatrice e cercare di fermare la marea intellettuale liberal: negli intenti del suo fondatore, la rivista non si sarebbe sottomessa, ma si sarebbe eretta «di fronte alla storia, gridando stop!». Benché i punti di vista espressi nel settimanale siano più di uno, la linea che emerge è prevalentemente quella dei neoconservatori. Per merito dell’esperienza nelle attività culturali, maturata nella sinistra da molti dei suoi membri, o dello slancio intellettuale di un movimento ancora molto giovane e molto creativo, i neoconservatori costituiscono il gruppo più piccolo e colto della destra americana, ma anche quello che, in termini assoluti, è più presente nel mercato delle idee. Per loro iniziativa è nata la famosissima rivista di analisi Commentary, protagonista assoluta del dibattito sulla Guerra Fredda durante la prima amministrazione Reagan (primi anni ’80), che ha lanciato firme divenute molto celebri anche in Italia, come Edward Luttwak.

William Kristol (figlio di Irving Kristol, il fondatore del movimento neoconservatore) e Fred Barnes hanno fondato e dirigono Weekly Standard, attualmente uno dei maggiori periodici di riferimento dell’opinione pubblica conservatrice; David Horowitz, un altro ex liberal passato al neoconservatorismo nei primi anni di vita del movimento, ha invece fondato la rivista Front Page Magazine, che nella sua edizione online pubblica notizie e commenti freschi, anche più volte al giorno, concentrandosi soprattutto sui problemi legati al terrorismo jihadista e al Medio Oriente, con commenti molto sinceri e senza compromessi di autori che altre riviste non hanno il coraggio di ospitare, prima fra tutte Ann Coulter, conservatrice a tutto tondo senza il “neo”. Lungi dall’essere un sito “di nicchia”, Front Page, in certi periodi ha raggiunto il record di 1.700.000 contatti al mese.

Ma le letture di “destra” non sono tutte e solo di commento. L’opinione pubblica conservatrice può anche leggere quotidiani generalisti che riflettono le sue idee. Se il New York Sun è l’ultimo nato, con le sua analisi raffinate e il gusto per le battaglie culturali, il più diffuso è il New York Post che, con il suo mezzo milione di copie vendute, si inserisce tra i venti giornali più letti d’America. Presenta una vasta gamma di notizie, anche se si concentra molto sulla cronaca di New York. Sempre restando a New York, un caso particolare è costituito dal trimestrale City Journal, nato come rivista di urbanistica (il New York Post sostenne che era «il giornale da cui Rudolph Giuliani trae le sue idee») e divenuto un altro punto di riferimento della cultura conservatrice.

Il più famoso quotidiano generalista conservatore, anche se relativamente giovane (c’è dal 1982) e poco diffuso (attorno alle 100.000 copie di tiratura), è comunque il Washington Times, diventato celebre perché era l’unico che sosteneva l’amministrazione Reagan contrapponendosi all’odio della stampa liberal della capitale. La sua linea editoriale è tuttora molto aggressiva, dato che viene riservato molto spazio alle inchieste e al giornalismo investigativo vero e proprio, sia nella cronaca interna che in quella internazionale. Ma per chi è appassionato di giornalismo d’assalto, la rivista di riferimento è senz’altro The American Spectator, il giornale che più di tutti si è scagliato a testa bassa contro Clinton durante lo scandalo Lewinsky. Letteralmente perseguitato dal dipartimento della Giustizia negli ultimi anni dell’amministrazione Clinton, il giornale era entrato in crisi, ma nel 2002 è ritornato in prima linea con nuovi scandali, in America e all’estero, da svelare e commentare con il suo linguaggio “irresponsabile”. Per chi ama proprio il gossip politico di alto livello, poi, il campione assoluto è il sito Internet del Drudge Report, che nel 2002 ha raggiunto il record di 1 miliardo e 400 milioni di contatti nel mondo. Tutto questo grazie ad Internet, la fonte del successo di un’altra rivista conservatrice: NewsMax.com, che aggiorna continuamente il suo sito con notizie fresche e commenti, anche più volte al giorno.

Non ci sono solo conservatori nella “destra” americana: ci sono anche i liberali classici e i libertari che con il loro liberismo integrale sono avversari ancor più duri della sinistra statalista. Le loro riviste di riferimento sono meno diffuse, ma ugualmente dinamiche. Fra gli ambienti minoritari si distinguono soprattutto gli oggettivisti, seguaci della filosofia individualista di Ayn Rand, che ai tempi della candidatura presidenziale del repubblicano Barry Goldwater (1964) erano una componente fondamentale della “destra” americana, mentre ora hanno una ridotta influenza sui repubblicani. Ai giorni nostri, la loro rivista più attiva è il The Intellectual Activist, fondata da Robert Tracinski, nota per le sue posizioni durissime contro il “processo di pace” nel Medio Oriente, le sue critiche feroci agli appeasers della politica americana (compresi alcuni che qui in Italia sono considerati “falchi”) e il sostegno di una linea di lotta intransigente contro le dittature che sponsorizzano il terrorismo, il tutto condito dalla satira d’assalto dei vignettisti Cox & Forkum, due tra i più popolari nel pubblico di destra. Per questi motivi la rivista può essere scambiata per la voce dei conservatori più estremi, ma non è così: nel momento in cui si parla di ricerca scientifica e di libertà personale, spunta l’anima individualista radicale, libertaria senza compromessi. Più pacata e dai toni accademici, sempre in ambito oggettivista, è la rivista Navigator, fondata per volontà del filosofo David Kelly. La rivista si occupa soprattutto di temi di filosofia politica, morale ed estetica, oltre a fornire un commento dell’attualità.

All’estremo opposto, invece, si schierano i paleo-conservatori (la Old Right che non ha accettato il rinnovamento del movimento conservatore e soprattutto condanna i neo-conservatori) e i paleo-libertari (quei libertari che trovano i loro compagni di strada troppo “libertini” e ritornano a valorizzare i valori tradizionali). Andando a vedere una rivista paleo-libertaria come il sito Anti-War.com del giornalista Justin Raimondo sembra di ritrovarsi in un sito pacifista dell’estrema sinistra e solo in un secondo momento ci si rende conto della diversità: è una rivista che sostiene fino in fondo il principio dell’isolazionismo. è soprattutto difendendo l’isolazionismo e condannando fino in fondo la politica estera dei neoconservatori, che i paleo-libertari e i paleo-conservatori attaccano frontalmente la linea dei repubblicani mainstream, accusati di essere dei falsi conservatori, o meglio dei liberal travestiti. Ma comunque questo è l’unico punto che i due gruppi hanno in comune, perché nelle riviste paleo-libertarie (una serie di pubblicazioni scientifiche legate soprattutto al Mises Institute, fra cui il Journal of Libertarian Studies) il bersaglio principale è lo Stato, che si dovrebbe ridurre fino al suo scioglimento in un mercato completamente libero, mentre nelle riviste paleo-conservatrici uno Stato forte è invocato per proteggere l’economia e le tradizioni americane. La rivista The American Conservative del politico ultra-conservatore Pat Buchanan e il settimanale culturale The Chronicles (legato al think-tank Rockford Institute) lanciano tali strali contro l’amministrazione repubblicana da far impallidire anche i liberal più estremisti.

Da "Ideazione"

Italianhawk83
02-03-05, 16:12
Fox News: quando Murdoch fa sul serio
di Paola Liberace

Uno spettro si aggira per l’America: vestito dei colori repubblicani, vaga tra i mezzi di comunicazione di massa, insidia le televisioni, minaccia da vicino il tradizionale liberal bias dei media statunitensi. Da qualche tempo, una tendenza conservatrice si è insinuata in questo terreno di prerogativa dell’America democratica, e sta rovesciando a proprio favore l’equilibrio costituito. Si tratta di un fenomeno comunicativo non episodico – vincente anche dal punto di vista del mercato – che si è insinuato nell’uniformità del mainstream Usa, contribuendo a bilanciare la situazione preesistente. Parlare di una tendenza democratica dei media è sembrato a lungo politically incorrect, almeno dai tempi di Agnew, il vice di Nixon che per primo, nel 1969, denunciò la parzialità dei mezzi di informazione. Tra il 2001 e il 2003 il numero di voci levate in questa direzione è significativamente cresciuto, grazie anche all’adesione di alcuni protagonisti dell’establishment giornalistico democratico: Bernard Goldberg – ex volto televisivo di Cbs e vincitore di un Emmy – ha pubblicato un best-seller, prendendo di mira la pretesa delle news imparziali (non a caso, il libro si chiama Bias). La presa di coscienza si è fatta via via più pervasiva, segno di un’esigenza culturale – prima ancora che politica o sociale – precorritrice di un cambio di rotta.

Da un lato sono sorti think-tank, istituti di ricerca e di vigilanza sui media, attenti all’influenza left-winged sui temi di interesse nazionale; dall’altro, sono emerse proposte alternative, programmi che ironizzano sulle idiosincrasie buoniste dei liberal, trasmissioni che aprono il credito alle opinioni conservatrici e coinvolgono ospiti repubblicani, fino ad allora vittime di un percepibile ostracismo. Per comprendere il cambiamento della televisione americana bisognerebbe cogliere la coincidenza con la felice congiuntura tecnologica che ha portato all’affermazione della cable Tv: un alveo ideale di sviluppo per le ritrovate simpatie di destra, la cui espansione viene da più parti associata alla disponibilità di nuovi mezzi di espressione. Il frutto più maturo di questa espansione, la Fox News di Rupert Murdoch, nasce nel 1996, in un contesto tutt’altro che facile. La terza televisione all news via cavo è destinata sin dal principio a una battaglia apparentemente impossibile contro il mostro sacro Cnn e contro Msnbc, il network nato dal “matrimonio” di Microsoft con la storica rete Nbc. A partire da allora, Fox News vede costantemente aumentare il numero dei suoi telespettatori, superando ampiamente gli ascolti delle concorrenti, e in alcune occasioni addirittura doppiando quelli ottenuti dalla Cnn.

Secondo Scott Collins, autore di un libro dedicato al nuovo corso dell’informazione statunitense (intitolato Crazy as a Fox), il riflesso degli eventi dell’11 settembre non basta a spiegare l’ascesa di Fox News: piuttosto, sono i suoi concorrenti a mancare di un’idea illuminante. Collins giunge a conclusioni interessanti: se fino dieci anni fa le reti televisive si limitavano a dare conto della politica – o almeno così dichiaravano – oggi concorrono attivamente alla costruzione del dibattito politico. Questa lettura viene confermata dal Pew Research Center, che titola la sua ricerca del giugno 2004 “News audiences increasingly politicised”.

In che modo Fox News ha contribuito a determinare una simile polarizzazione? Di fatto, la rete di NewsCorp ha definito nuove regole per l’informazione televisiva, ospitando confronti sentiti tra interlocutori di schieramenti diversi, e proponendo la discussione delle opinioni come protagonista della narrazione giornalistica. Con Fox News arriva un modo di fare televisione più immediato, non più celatamente schierato, senza false ritrosie nelle prese di posizione e per questo talvolta più rischioso. I protagonisti dell’informazione di Fox News sono sanguigni opinionisti, come Bill O’Reilly, e non compassati e (non sempre) ineccepibili anchorman. Oltre alla innegabile chiarezza, uno degli ingredienti del successo di Fox News sta nel fatto di aver dato voce a un’esigenza diffusa nell’audience americana, che negli ultimi quattro anni ha progressivamente perso fiducia nelle news televisive cosiddette “indipendenti”. Fox News risponde con un giornalismo che somiglia ben poco ai resoconti asettici e rigorosi da “primi della classe”. Invece di cedere all’elitismo – cui non di rado indulgono i pur documentatissimi reporter dei network – il canale ha dato ascolto ai sentimenti generalizzati negli ascoltatori, optando per scelte comunicative spesso forti. Anche i concorrenti hanno finito per seguire la strada segnata da Fox, afferma il giornalista Brian C. Anderson, introducendo nei palinsesti programmi di orientamento conservatore; come “Scarborough Country” della Msnbc, o il “Dennis Miller show” in onda su Cnbc.

Fox News fa tendenza: fomenta la discussione, lancia provocazioni, coltiva e diffonde una visione del tutto singolare. Di qui all’accusa di essere un mero mezzo di propaganda al servizio della destra, il passo è breve. Lo stesso slogan “Fair and balanced”, che Fox News ha registrato nel 1998, è diventato un modo di dire abituale non soltanto per gli spettatori, i reporter e i commentatori, ma anche per i detrattori del canale, che non trovano di meglio che citarlo in continuazione, sia pure per mostrarne il lato paradossale. In questi casi niente di peggio che controbattere a colpi di tribunale, specialmente se gli attacchi sono condotti sotto l’egida della satira: si rischia di far passare l’umorista di turno (nel caso specifico, Al Franken, autore di un libello intitolato Lies and the Lying Liars Who Tell Them: a Fair and Balanced Look at the Right) per un martire della libertà di espressione, oltre che di perdere la causa. Meglio lasciare che a ricorrere alle vie giudiziarie, in mancanza di altri argomenti, siano gli stessi contestatori. Nella seconda metà del 2004, i media activist democratici (tra cui l’associazione Fair – Fairness and Accuracy In Reporting), da tempo sul piede di guerra contro l’emittente di NewsCorp, hanno organizzato una vasta azione di protesta che prevede, tra l’altro, la distribuzione del battagliero documentario “Outfoxed” (“Raggirati”) di Robert Greenwald, e un procedimento legale contro l’utilizzo menzognero dello slogan “Fair and balanced”.

Fox News sa di non aver ragione di temere: la sequela di attacchi provenienti dai media ha notoriamente un effetto controproducente per gli stessi accusatori, perché garantisce visibilità alla vittima, suscitando nel pubblico la curiosità di conoscere l’oggetto di tanta acrimonia. Tutta pubblicità, insomma, che – lungi dal deprimere l’audience – ha contribuito al suo aumento, fino al 13 per cento in un anno. Ma non tutti i “suggerimenti” – sia pure involontari – degli oppositori vengono per nuocere: la forza di Fox News non sta nella fairness, né tantomeno nel balance, stretto parente dell’aspirazione inconfessata alla par condicio. Ciononostante, in questo slogan dalle origini in realtà più antiche, sopravvive in effigie il pudore di manifestare le proprie convinzioni, già encomiabilmente abbandonato dai reporter di Fox nell’esercizio della loro attività. Più importante di un’effigie resta dunque la chiara scelta di campo, che rappresenta insieme la ragione dell’opzione di milioni di telespettatori, e un antidoto formidabile contro la persuasione sotterranea. In un altro motto di Fox News, “We report, you decide”, c’è già tutto: la proposta di una versione dei fatti, che non pregiudica la capacità di discernimento degli spettatori, ma la rafforza continuando a distinguersi. Il senso dell’operazione condotta attraverso Fox News – non sempre replicata nelle omologhe emittenti dello stesso editore – sta in questo orgoglio di cultura conservatrice ritrovata, che non si affanna ancora ad inseguire i critici del liberal media bias, ma al contrario costringe i liberal stessi a fare i conti con un nuovo, eccentrico punto di vista._

Da "Ideazione"

Italianhawk83
02-03-05, 16:14
Benvenuti nella Right Nation
di Andrea Mancia


Questa è la storia di una rimonta. La storia di una lunga, difficile ed esaltante impresa in cui un manipolo di uomini, guidati da una visione del mondo e dalla tenace insofferenza nei confronti di una visione del mondo “altra”, è riuscito a bilanciare le sorti di un confronto politico epocale, conquistando la maggioranza delle menti e dei cuori nella più antica democrazia mondiale. Questa è la storia della Right Nation americana: dei suoi strateghi, generali e soldati.

«Viviamo, senza ombra di dubbio, negli anni dei liberal». Aveva ragione John Kenneth Galbraith quando, nel 1964, descriveva in questo modo lo stato dell’arte del dibattito culturale statunitense. Dopo la rivoluzione statalista di Franklin Delano Roosevelt e del suo New Deal, dopo la parentesi di governo dei moderati repubblicani di Dwight Eisenhower e gli anni del nuovo sogno americano di John Fitzgerald Kennedy, gli Stati Uniti si preparavano ad affrontare uno dei progetti di ingegneria sociale più mastodontici della loro storia, quel tentativo di costruzione della Great Society che – almeno nelle intenzioni dell’appena eletto presidente Lyndon Johnson – avrebbe dovuto debellare una volta per tutte le sacche di resistenza conservatrici che, nel cuore della Middle America, ancora si rifiutavano di essere sottomesse alla versione yankee della socialdemocrazia europea.

«Negli anni Sessanta – scrivono i due inviati dell’Economist, John Micklethwait e Adrian Woolridge, in The Right Nation: Conservative Power in Ameri-ca, che uscirà per Mondadori nella prossima primavera – i liberal americani sostennero la creazione di un welfare state in stile europeo [...] imposero restrizioni sulle armi da fuoco e cominciarono campagne per abolire le esecuzioni capitali, legalizzare l’aborto e introdurre, non solo l’eguaglianza razziale, ma una discriminazione positiva in favore delle minoranze (affirmative action); campagne che portarono i loro frutti nel corso degli anni Settanta. Le élite liberal di Boston e New York credevano di avere una buona chance per civilizzare quelli che qualcuno di loro chiamava yahoos». Ma gli yahoos (bruti, ignoranti), ci avvertono Micklethwait e Woolridge, si rifiutarono di essere domati. E il loro primo “ululato di rabbia”, come lo definiscono i due giornalisti dell’Economist, rispose al nome di Barry Goldwater.

Gli anni prima di Goldwater

A parte qualche scatto d’orgoglio, qualche isolato intellettuale e una serie di vittorie (mai sfruttate fino in fondo) nella diffusione dell’anticomunismo, il pensiero conservatore dal dopoguerra al 1964 è costellato di fallimenti. Ma proprio durante questi anni, paradossalmente, si crearono le condizioni necessarie per una sua rinascita. Pur riconquistando, nel 1952 con Dwight Eisenhower, la Casa Bianca e il controllo del Congresso, i repubblicani degli anni Cinquanta erano una realtà assai distante dagli ideali di quello che sarebbe diventato il movimento conservatore. Eisenhower, per dirla con un linguaggio contemporaneo, era un “rino” (republican in name only), che aveva scelto il Grand Old Party soltanto per comodità personale e tattica: Ike era favorevole al contenimento della “minaccia rossa”, non ad uno scontro frontale con essa; non cercò in alcun modo di scalfire il nocciolo duro del New Deal; era convinto che «la graduale espansione del governo federale» fosse il prezzo da pagare per la crescita del paese; non tentò mai di ridurre la pressione fiscale. Una differenza assai sfumata, insomma, rispetto agli anni dell’amministrazione Truman. Nell’arena del dibattito politico, i conservatori avevano dovuto accettare la sconfitta del senatore Robert Taft (Mr. Republican) ed assistere alla crescita d’influenza di Thomas Dewey, il “patrizio” governatore dello Stato di New York incarnazione di quel repubblicanesimo moderato che affondava le proprie radici nel New England e aveva perso ogni speranza di poter conquistare maggioranze stabili a ovest del Mississippi o a sud della linea Mason-Dixon. Dal 1940 al 1960 i “Dewey Republicans” conquistarono tutte le nomination del partito alle presidenziali, riuscirono spesso ad eleggere i governatori degli Stati più popolosi dell’unione, dalla Pennsylvania alla California, ed esercitavano un controllo quasi diretto su alcuni strategici centri di potere mediatico, come Time, Life e il New York Herald. Una supremazia che il destino rese completa con la morte di Mr. Republican durante il primo anno dell’amministrazione Eisenhower.

Nello stesso periodo, i liberal controllavano almeno otto settimanali a larga diffusione, mentre i conservatori dovevano accontentarsi di una esile newsletter come Human Events, lanciata nel 1944 con una tiratura appena superiore alle cento copie. Il mondo accademico era così ampiamente dominato dall’intellighenzia liberal che, si legge sempre in The Right Nation, una delle rare fondazioni conservatrici, il William Volker Fund, era costretta ad una ricerca disperata – e spesso infruttuosa – di studenti a cui elargire le proprie donazioni in denaro. Ma un fuoco stava covando sotto la cenere.

Da Hayek e Weaver a Friedman e Kirk

Alla Old Right americana non erano mancati, nel dopoguerra, intellettuali di grande peso ed impatto. Basterebbe fare i nomi di Albert J. Nock, con il suo sensazionale Our Enemy, the State o dell’esule russa Ayn Rand che, con i suoi romanzi e le sue intuizioni filosofiche, rappresentò una salutare boccata di aria fresca nello stantìo panorama culturale statunitense. Micklethwait e Woolridge, pur iscrivendolo ingiustamente nel filone della “destra paranoica”, ricordano anche Whittaker Chambers, ex-giornalista del Time ed ex-spia sovietica che con il suo The Witness (1952) fornì alla “maggioranza silenziosa” la testimonianza più importante della necessità di combattere, senza esitazioni o mezze misure, il pericolo comunista e l’espansionismo genocida dell’Unione Sovietica. Si trattava, però, di casi isolati. Come isolati, almeno all’inizio, furono due pensatori che in quegli anni lavoravano alla costruzione delle fondamenta culturali di quello che sarebbe diventato il moderno movimento conservatore.

Il primo, Friedrich August von Hayek – forse l’esponente di maggior livello della scuola austriaca di Carl Menger, Eugen von Boehm-Bawerk, Friedrich Wieser e Ludwig von Mises – sconvolse il mondo accademico ed editoriale statunitense nel 1944 con il suo Road to Serfdom (La via verso la schiavitù), che divenne un best-seller soprattutto dopo la pubblicazione di una versione “ridotta” a cura del Reader’s Digest. Hayek, che rappresentava l’anima incorruttibile di una destra liberale e quasi libertarian che non voleva piegarsi ai cedimenti della cultura liberal nei confronti del collettivismo marxista e socialista, influenzò profondamente intere generazioni di conservatori alla ricerca di un’identità: contribuì alla nascita, nel 1947, della Mount Pelerin Society; fu il “motore immobile” dietro alla crescita della Chicago School, formando una serie di brillanti economisti anti-keynesiani (un nome su tutti, Milton Friedman) che avrebbero costituito il nucleo fondante della rivoluzione liberista degli anni Ottanta; fu l’ispiratore economico e filosofico di Ronald Reagan in persona, come scoprì Lee Edwards nel 1967 quando notò nella biblioteca dell’ex-attore hollywoodiano alcune edizioni, pesantemente sottolineate, delle opere di Hayek e Mises.

Se von Hayek rappresentò l’anima del movimento più vicina al pensiero liberale classico, addirittura restìa a definirsi conservatrice (almeno in quegli anni), Richard Weaver fu un campione indiscusso del tradizionalismo capace, come ha scritto Alberto Mingardi su Ideazione nel maggio del 2003, «di parlare sia ai conservatori d’impianto tradizionalista sia ai libertari: due culture fra le quali egli cercò di gettare un ponte, in prima persona». «Weaver – ha detto Lee Edwards in una conferenza che si è tenuta lo scorso anno al Russell Kirk Center for Cultural Renewal di Mecosta, in Michigan – sosteneva che idee come il nominalismo, il razionalismo e il materialismo avevano inesorabilmente condotto a quella che lui chiamava la dissoluzione morale dell’Occidente. Weaver [...] offrì tre riforme che avrebbero potuto aiutare l’umanità a guarire dal flagello del modernismo: una difesa della proprietà privata, una purificazione del linguaggio e un’attitudine alla pietà verso la natura, gli altri individui e il passato».

Dalla “geremiade” lancinante di Weaver, il tradizionalismo americano riuscì a compiere un salto di qualità, potente ed inaspettato, nel 1953 con la pubblicazione del libro The Conservative Mind di Russel Kirk. «Kirk – ha scritto Marco Respinti nell’aprile di quest’anno su Il Domenicale, nel decennale della sua scomparsa – è stato il padre, l’anima e il cuore della rinascita del conservatorismo negli Stati Uniti d’America a metà degli anni Cinquanta, ovvero l’uomo che ha ridato dignità politica e cittadinanza a un termine allora desueto e sgradito all’orecchio dei più [...] colui che, ripercorrendo una storia lunga e complessa, ha battezzato “conservatorismo” quella forma mentis che [...] descrive la volontà caparbia e ostinata di chi prima di disfarsi del retaggio e del fardello della civiltà occidentale ci pensa bene e poi comunque rinuncia». Kirk si erge a difensore della tradizione americana, riserva “coloniale” dell’ethos europeo e della civiltà classica e giudeo-cristiana e diventa, sempre adoperando le parole di Respinti, «uno degli interpreti più coscienti, seri e fecondi del filone tradizionalista del conservatorismo statunitense».

Anche il filone liberale (con la “e”), liberista e libertario era pronto al salto di qualità. E proprio mentre Lyndon Johnson si trastullava con i suoi esperimenti di pianificazione economica, nel 1962 Milton Friedman pubblicava il suo capolavoro, Capitalism and Freedom, rompendo il decennale tabù accademico che dava per scontata la supremazia teorica degli economisti keynesiani. Per la prima volta, da tempi immemorabili, la destra americana aveva una base culturale abbastanza solida per presentarsi come un potenziale avversario del monopolio intellettuale liberal. Tutto quello che le serviva, ora, era un leader politico.

La vittoriosa sconfitta di Barry Goldwater

In The Right Nation, Micklethwait e Woolridge spiegano la rivoluzione conservatrice con tre fattori primari che si agitavano sotto le acque dell’America degli anni Cinquanta: «Il primo fu l’arrivo di un gruppo di “imprenditori intellettuali”. Il secondo era l’insofferenza crescente del Sud nei confronti del partito democratico. Il terzo era lo slittamento del centro di gravità americano verso l’Ovest. Queste tre forze trovarono una sintesi in Barry Goldwater». Pur non rinunciando del tutto a qualche venatura di snobismo europeo nel descriverne l’ascesa, i due giornalisti dell’Economist colgono il senso profondo della vicenda politica e culturale che portò alla nomination repubblicana del senatore dell’Arizona per la corsa alla Casa Bianca del 1964.

Dall’inizio degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta, si affacciarono prepotentemente sulla scena del dibattito politico statunitense una serie di think-tank conservatori (nel senso più ampio del termine) capaci di mettere a dura prova lo strapotere liberal nel campo della produzione e diffusione del pensiero.

Fondato nel 1943, l’American Enterprise Institute fu salvato dal fallimento, nel 1954, dalle brillanti intuizioni imprenditoriali di William Baroody, che trasformò l’AEI in un “brain trust” conservatore in grado di rivaleggiare con il mitico Brooking Institution. Insieme all’economista di Harvard, Glenn Campbell, Baroody arruolò anche Milton Friedman e Paul McCracken nel comitato scientifico della fondazione. E diede il via ad una rincorsa scientifica che, con il passare dei decenni, si sarebbe trasformata in un clamoroso sorpasso ai danni della sinistra.

Nel 1960, Campbell diventò il direttore dell’antico Hoover Institution (fondato nel 1919 a Stanford) a cui l’ex-presidente Herbert Hoover, dopo aver perso le elezioni nel 1932, aveva dato un’impronta più nettamente conservatrice. Nel 1955, William F. Buckley aveva fondato la rivista storica della destra Usa, quella National Review che ancora oggi rappresenta un importante punto di riferimento. L’obiettivo di Buckley era quello di trasformare il conservatorismo statunitense da un coacervo di dottrine locali (del Sud, del Midwest, dell’Ovest) a un vero movimento culturale nazionale. Nella rivista passarono firme come Joan Didion e Gary Wills, ma anche outsider come Whittaker Chambers. Buckley, in estrema sintesi, unificò le tre schegge principali del conservatorismo americano – il tradizionalismo, il libertarianism e l’anticomunismo – sotto la bandiera della National Review. Come ha scritto Antonio Donno, professore di Storia dell’America del Nord all’Università di Lecce, nello splendido libro In nome della libertà. Conservatorismo e guerra fredda, «Kirk, Weaver e altri esponenti della tradizione conservatrice dettero il loro contributo fin dall’inizio; accanto a loro, John Chamberlain, Frank Chodorov, Wilhelm Röpke, Max Eastman e Frank Meyer. Un nutrito gruppo di ex comunisti ed ex trotskisti partecipò molto attivamente alla battaglia della rivista: lo stesso Meyer, James Burnham, Willmoore Kendall, William Schlamm, ed altri. In sostanza, la rivista rappresentò un momento di incontro e di confronto tra le varie anime del conservatorismo americano».

Partendo da un ridottissimo budget di 100mila dollari, generosamente donati da suo padre, Buckley riuscì a portare la diffusione della rivista dalle 34mila copie del 1960 alle 90mila del 1964, trovando anche il tempo di fondare gli Young Americans for Freedom, un movimento giovanile che «si diffuse come un incendio attraverso il paese», surclassando per numero di iscritti gli Students for a Democratic Society.

A nulla sarebbe servito tutto questo fervore intellettuale, però, se la destra americana non avesse iniziato a lavorare anche sul terreno, impervio ed insidioso, della militanza politica. Fino agli anni di Goldwater, i “foot-soldiers” conservatori erano male organizzati e soprattutto divisi: repubblicani al nord-est e nel Midwest, democratici negli Stati del Sud. Con la candidatura alle presidenziali del senatore dell’Arizona partì la cosiddetta “southern strategy”: il tentativo di conquistare una maggioranza strutturale in Stati che tradizionalmente, dopo la guerra civile, avevano sempre votato per i democratici. Nel 1950, il Gop non aveva neppure un senatore eletto in uno stato del Sud e soltanto due congressmen su un totale di 105. E nel mezzo secolo precedente, i repubblicani avevano vinto un’ottantina scarsa di sfide per il Congresso su un totale di 2.565 (di cui la metà in un paio di distretti del Tennessee). Oggi, gli Stati a sud della linea Mason-Dixon sono il cuore della Bush Country: nel 2004 il presidente ha vinto l’85 per cento delle contee nella regione e i repubblicani hanno eletto 22 senatori su 26.

Micklethwait e Woolridge insistono molto sull’impatto della battaglia per i diritti civili nello sviluppo della “southern strategy” repubblicana. Ma se questo può parzialmente spiegare il successo del Grand Old Party al Sud, non dice granché sul secondo pilastro geografico dei Goldwater Republicans: il West, la terra di alcuni tra i più chiassosi ed originali supporter del senatore. «Qui nel West – disse una volta Goldwater – non siamo costantemente afflitti dalla paura di quello che potrebbe accadere nel futuro. Il rischio fa parte della vita umana». E nelle città in rapida espansione del Texas, del Nevada e dell’Arizona, o negli sterminati sobborghi californiani, trovò fiato e voce l’anima più libertaria ed individualista della destra americana. Il cuore di quella “leave-us-alone coalition” che, unita al Sud tradizionalista da un’alleanza sempre sul punto di esplodere (ma che i “nemici” comuni riescono sempre a ricompattare), garantisce alla Right Nation quell’inconfondibile aroma anti-establishment che ne esalta la forza rivoluzionaria e le permette, ad ogni generazione, di trovare ampi consensi nelle fasce più giovani della popolazione.

Barry Goldwater, grazie al lavoro dei propri foot-soldiers e alle idee innovative dei think-tank che lo sostenevano, riuscì a strappare la nomination per le presidenziali del 1964 a Nelson Rockfeller e alle élite aristocratiche che fino ad allora avevano dominato le dinamiche interne del partito repubblicano. Il suo progetto politico, spinto anche da un vento demografico che spingeva sempre più cittadini statunitensi verso il Sud e verso l’Ovest, era certamente troppo in anticipo sui ritmi della storia. Tanto che il candidato democratico Lyndon Johnson vinse comodamente la sfida per la Casa Bianca con oltre 15 milioni di voti di vantaggio, conquistando 44 Stati su 50. Ma la rivoluzione era appena iniziata.

La morte annunciata del liberalism

Se Richard Nixon, nella sconfitta di misura contro John Fitzgerald Kennedy del 1960, aveva potuto contare su 50mila supporter individuali, quattro anni più tardi Goldwater – sconfitto molto più nettamente da Johnson – era riuscito a radunare intorno a sé un esercito di quasi 4 milioni di volontari. Si trattava (ancora) di una minoranza, ma di una minoranza estremamente motivata e disciplinata, pronta a tralasciare ogni possibile diversità di vedute per lavorare verso un obiettivo comune. Quando Johnson, nel 1968, lasciò la Casa Bianca, i repubblicani avrebbero governato per 20 anni su 24.

Dal 1964 al 1980 la destra guadagnò terreno in ogni settore della vita pubblica, grazie anche alla singolare vocazione al suicidio di un mondo liberal che si spingeva sempre più a sinistra, distaccandosi velocemente dall’America mainstream, dalle sue idee e dalle sue aspirazioni. Della Great Society di Johnson abbiamo già detto, e non c’è molto da aggiungere per chi – come noi europei – ha assistito all’ascesa e poi al tracollo del mito del welfare state. Ma negli Stati Uniti ebbe un ruolo devastante anche la progressiva politicizzazione della Corte Suprema che, sentenza dopo sentenza, demolì le fondamenta stesse della società tradizionale americana. Fino al caso Roe vs Wade con cui, nel 1973, l’aborto venne considerato alla stregua di un metodo anti-concezionale per coppie particolarmente distratte.

Con la guerra in Vietnam, e l’esplosione incontrollata dei movimenti di contestazione, la sinistra radicale conquistò progressivamente il controllo del partito democratico. Il partito dei politicanti di origine irlandese e dei dixiecrats del Sud si trasformò, anno dopo anno, nel partito del “no alla guerra ad ogni costo”, delle femministe, delle black panthers e degli ambientalisti. In un partito che la maggioranza degli americani iniziò a percepire come fondamentalmente anti-americano.

Insieme all’anima moderata del movimento liberal, cominciò a morire anche il grande sogno post-marxista dei keynesiani, con la sua pretesa di controllare l’economia di mercato agendo astutamente su un paio di “leve” pubbliche. Gli Stati Uniti, come del resto tutto il mondo, conobbero l’incubo della stagflazione. E alla distruzione della famiglia tradizionale iniziarono ad accompagnarsi un disordine ed una criminalità sempre crescenti.

Richard Nixon, la falsa speranza

Se nel 1964 i cittadini americani convinti del ruolo positivo del governo della gestione dell’economia sfioravano il 62 per cento della popolazione, nel 1972 questo numero precipitò al 19. Ma proprio in questi anni la rivoluzione conservatrice venne frenata da un personaggio come Richard Nixon.

Nixon si presentò davanti all’elettorato americano nel 1968 come un conservatore. E sfruttando la voglia di rivincita della Right Nation, oltre alla scissione dixiecrat del governatore dell’Alabama, George Wallace, venne eletto alla Casa Bianca. Ma la sua amministrazione navigò con il timone spostato molto più a sinistra di quella di Eisenhower. Giocando sulla reazione della “maggioranza silenziosa” agli anni della contestazione, Nixon riuscì comunque ad ottenere una travolgente rielezione nel 1972, prima di essere travolto a sua volta dallo scandalo Watergate. Nel 1974, dopo le inutili dimissioni del vicepresidente Spiro Agnew, Nixon fu costretto ad arrendersi, lasciando ancora una volta il movimento conservatore sull’orlo del tracollo. Appena il 20 per cento degli americani si riconosceva ormai nel partito repubblicano. E per Richard Vignerie, il re conservatore del direct-mailing, entro una decina d’anni non ci sarebbe stata più di «una dozzina di repubblicani in tutto il paese». Vignerie, come gran parte dell’establishment liberal, sbagliò grossolanamente i propri calcoli. Perché ancora una volta, proprio durante i suoi anni più oscuri, il movimento conservatore trovò nelle proprie idee e nella propria compattezza organizzativa la forza per uscire dal tunnel in cui Nixon l’aveva cacciato.

Quei magnifici anni Settanta

Gli eccessi della sinistra, infatti, rappresentarono un’occasione d’oro che la destra non si lasciò sfuggire. Dal 1970 in poi, gli economisti della Chicago School vinsero più premi Nobel di chiunque altro (e trasformarono per sempre il sistema delle pensioni in Cile). La sensazione diffusa era che il vento intellettuale della nazione stesse cambiando. Una serie di pensatori liberal di New York e Boston, soprattutto di origine ebrea, si decisero finalmente ad abbandonare una sinistra sterile sia sotto il profilo ideale che sotto quello scientifico, per abbracciare – a modo proprio – la grande famiglia conservatrice. Irving Kristol, Daniel Bell, Seymour Martin Lipset e Nathan Glazer furono, fra gli altri, i “fondatori” di quello che più tardi venne etichettato come movimento dei neo-conservatori. Provenendo dal mondo accademico, i neocon ebbero un ruolo importante, come scrivono Micklethwait e Woolridge, nel «decorare le tradizionali intuizioni conservatrici con il linguaggio delle scienze sociali». Bastò la presenza di questi discepoli di Leo Strauss, nelle università americane, per portare il virus della competizione nelle scienze politiche, come la scuola austriaca e i Chicago Boys avevano fatto nel mondo dell’economia.

Quello che i neocon riuscirono a fare meglio, in ogni caso, fu costruire un network di istituzioni capace di far sopravvivere il messaggio conservatore in un mondo dominato dagli accademici liberal. La rivista quadrimestrale Public Interest fu fondata nel 1965, mentre il mensile Commentary, diretto da Norman Podhoretz, denunciò a più riprese i limiti e gli eccessi del pensiero-unico instaurato dalla sinistra. Irving Kristol, che aveva abbandonato il trotskismo per la destra nel 1942 (potenza della seconda guerra mondiale), dopo aver contribuito alla nascita di Public Interest diede vita anche al magazine di geopolitica National Interest e riuscì a smuovere la compassione – e soprattutto il portafoglio – del ministro del Tesoro di Nixon, William Simon, che investì somme cospicue nelle fondazioni e nelle riviste del movimento.

Kristol, insieme a Jeane Kirkpatrick, approdò infine all'americano Enterprise Institute, che conobbe uno straordinario periodo di espansione, decuplicando nel ventennio ’60-’80 le proprie entrate, superando la soglia dei 10 milioni di dollari all’anno e facendo mangiare la polvere al Brookings. Alla fine degli anni Settanta, l’AEI poteva contare su una cinquantina di ricercatori a tempo pieno, molti altri ricercatori aggiunti, quattro pubblicazioni periodiche e uno show televisivo. Quando William Baroody morì, nel 1981, questo straordinario patrimonio (non solo intellettuale) venne ereditato da suo figlio Bill, che lo gestì fino al 1986.

Chi non aveva invece la pretesa di essere una “università senza studenti” era la Heritage Foundation, fondata nel 1973 con lo scopo di «elaborare e promuovere strategie politiche basate sui principi del libero mercato, della limitazione dell’interventismo statale, delle libertà individuali, dei valori tradizionali americani e della difesa nazionale». La Heritage, molto poco “neo” e più solidamente conservative, divenne ben presto un formidabile gruppo di pressione politica: un mastino capace di generare riforme e di farle camminare speditamente al Congresso.
Più tardi, nel 1977, anche l’anima più schiettamente libertarian della destra americana si organizzò intorno ad una fondazione, il Cato Institute, che è stato in grado (solo per fare un esempio) di studiare come nessun altro i temi legati alla riforma del sistema di sicurezza sociale.

I finanziatori del network

Questa rete di think-tank sarebbe potuta sopravvivere a stento, in un ambiente fortemente ostile come il mondo accademico americano, se un nutrito e generoso gruppo di finanziatori non avesse, almeno all’inizio, garantito un flusso – costante e sostanzioso – di denaro. Il primo di questi che Micklethwait e Woolridge definiscono «Medici del rinascimento conservatore» fu Joseph Coors, magnate della birra e padre di Peter, che quest’anno ha corso con il partito repubblicano (perdendo di misura) nel collegio senatoriale del Colorado. Coors, convinto a finanziare il movimento conservatore dalla lettura di un lungo memorandum scritto da Lewis Powell (che più tardi sarebbe stato nominato da Nixon alla Corte Suprema), donò 250mila dollari alla Heritage Foundation, prima di aiutare un grande numero di fondazioni della destra, tra cui l’Indipendence Institute e Accuracy in the Media. Richard Mellon Scaife, erede della famiglia Mellon, fu uno dei primi sostenitori di Goldwater e lo shock della sua clamorosa sconfitta lo convinse che la Right Nation doveva essere aiutata a crescere. Grande finanziatore della Heritage, Mellon Scaife – secondo una stima del Washington Post – ha donato a diverse cause conservatrici un totale di 340 milioni di dollari dal 1960 al 2000 (qualcosa come 620 milioni di dollari in valuta di oggi). La famiglia Koch, con il padre Fred ma anche i suoi figli David e Charles, hanno donato grandi quantità di denaro al movimento libertarian, contribuendo alla fondazione del Cato Institute. David Koch ha anche corso come candidato alla vicepresidenza per il partito libertarian nel 1980. Harry Bradley e Robert Welch hanno a più riprese aiutato la National Review negli anni Sessanta, e la loro fondazione ha addirittura tentato (senza riuscirci) la scalata al settimanale Newsweek per trasformarlo in un magazine di orientamento conservatore. Il miliardario John Merril Olin, infine, attraverso la Olin Foundation, ha sostenuto le ricerche dell’Università di Chicago e finanziato giornali come Public Interest e singoli studiosi come Robert Bork e lo stesso Irving Kristol.

Si tratta soltanto di cinque esempi, che testimoniano però lo stretto legame esistente tra una parte del mondo imprenditoriale statunitense e le riviste o le fondazioni che, della difesa del libero mercato e dello spirito d’impresa, hanno sempre fatto una delle loro battaglie culturali dei loro principali cavalli di battaglia.

Arriva Ronald Reagan

Grazie al “rinascimento intellettuale” del conservatorismo e alla capillare organizzazione sul territorio guidata da condottieri come Phyllis Schlafly, Paul Weyrich, Richard Viguerie e Terry Dolan, alla fine degli anni Settanta la destra americana era pronta a qualsiasi scontro politico ed elettorale. Mentre la moral majority tirava le fila del tradizionalismo religioso e pianificava la fase finale della southern strategy in North Carolina, Virginia, Arkansas e Alabama, nel profondo West una pattuglia di conservatori anti-establishment – come Holmes Tuttle, Cy Rubel, Walter Annenberg e Henry Salvatori – preparava la più grande rivolta fiscale dai tempi della guerra d’indipendenza. Ideato da Harold Jarvis, il referendum anti-tasse proposto in California, passato alla storia come “Proposition 13”, conquistò i cuori della West Coast, convincendo perfino Margaret Thatcher della possibilità di dare vita ad un vero movimento conservatore sull’altra sponda dell’Atlantico. Pur sconfitta in Congresso, una proposta di legge firmata Jack Kemp e William Roth si spingeva fino a prevedere un taglio fiscale generalizzato intorno al 30 per cento. E le idee degli economisti della supply-side, da Arthur Laffer a Jude Wanniski, iniziarono a scuotere le coscienze del paese, spinte anche dagli editoriali del Wall Street Journal firmati da Robert Bartley. I tempi erano maturi, insomma, per un leader in grado di capitalizzare la frenetica attività di questo movimento politico e culturale. E la risposta a questa domanda di carisma si chiamava Ronald Reagan.

Il primo presidente americano a richiamarsi direttamente ai valori del western conservatism fu eletto, nel 1980, tra lo scherno e gli sberleffi della comunità internazionale. Senza entrare troppo nei dettagli del doppio-mandato reaganiano, visto che la sua recente scomparsa ha permesso perfino agli italiani di conoscere un po’ meglio questa straordinaria figura della storia contemporanea, ricordiamo soltanto che Reagan fu eletto per la prima volta vincendo 44 Stati e 489 voti elettorali, regalando tra l’altro al partito repubblicano la maggioranza al Senato per la prima volta in un quarto di secolo. E fu rieletto, nel 1984, con 14 punti percentuali di distacco sul suo avversario, Walter Mondale, lasciandogli solo lo Stato natìo del Minnesota e le cicatrici della sconfitta più bruciante mai patita dal candidato di un partito maggiore negli ultimi cinquant’anni (Alf Landon contro Franklin D. Roosevelt). Per la prima volta, un esponente riconosciuto della Right Nation entrò alla Casa Bianca. E nella sua amministrazione trovarono posto personaggi che avevano collaborato all’organizzazione del movimento conservatore, come Jeane Kirkpatrick, oltre a qualche giovane neocon.

I conservatori duri e puri hanno a volte criticato alcune strategie dell’amministrazione Reagan, ma non è possibile dimenticare che le sue conquiste più macroscopiche erano tutte, nessuna esclusa, scritte da tempo immemorabile nel “libro dei sogni” del movimento: la vittoria nella Guerra Fredda, la restaurazione dell’orgoglio nazionale americano, la rivitalizzazione di un’economia ormai morente, il ridimensionamento del potere sindacale, l’aumento delle spese militari, una serie di tagli alle tasse tesi ad indebolire il principio della progressività fiscale, la nomina di giudici conservatori alla Corte Suprema. Se Berlusconi crede di essere l’uomo della Provvidenza, Reagan fu, per la destra americana, la Provvidenza in persona.

Bush, Clinton e Gingrich

Nel 1988, alla fine del secondo mandato di Reagan, il movimento conservatore appariva più forte che mai. Dal 1972 al 1986 la “media di gradimento” del Congresso compilata ogni anno dall’American Conservative Union crebbe dal 63 al 75 per cento. La destra religiosa conquistava sempre più consensi nel Sud del paese, approfittando anche della deriva sinistrorsa del partito democratico. Niente, e nessuno, sembrava in grado di fermare l’avanzata della Right Nation.

I conservatori, però, non avevano fatto i conti con George Bush, vicepresidente di Reagan, che dopo aver conquistato la Casa Bianca contro l’ennesimo liberal democratico del New England, Michael Dukakis, si allontanò a grandi passi dagli ideali politici della sua base per tornare verso un moderatismo annacquato che permise, nel 1992, la crescita prepotente (alla destra del partito repubblicano) di un moto di ribellione populista guidato dal miliardario texano Ross Perot. I quattro anni della presidenza di Bush Sr. si conclusero, per il movimento conservatore, con una guerra fratricida senza precedenti, segnando il temporaneo – ma nettissimo – distacco tra i vertici del Grand Old Party e il cuore della Right Nation.

I dodici anni tra il 1988 e il 2000, che qualcuno ancora chiama gli anni Bush-Clinton, sono stati spesso considerati un disastro dalla destra americana, che però riuscì a trovare, ancora una volta, la forza di reagire alla crisi che l’aveva colpita. Dopo il primo, imbarazzante, biennio della presidenza Clinton, con il socialisteggiante piano di riforma della sanità pubblica ideato dalla first-lady Hillary, i repubblicani conquistarono il controllo del Congresso alle elezioni di mid-term del 1994, grazie a quel Contract with America di Newt Gingrich che avrebbe fatto scuola anche al di qua dell’Atlantico.

Gingrich è una figura complessa, che anche Micklethwait e Woolridge non resistono alla tentazione di “macchiettizzare” nel loro libro. Visto da destra, però, lo Speaker è stato – negli anni in cui ha gestito il potere in prima persona ma soprattutto nel periodo che ha preceduto la sua ascesa politica – una incarnazione quasi perfetta dell’eclettismo, dell’originalità e (perché no?) delle contraddizioni della Right Nation. L’ex Speaker repubblicano della Camera, appassionato di nuove tecnologie ma anche di rievocazioni storiche, intuì per primo la possibilità di battere i democratici con le loro stesse armi, per esempio sfruttando le telecamere di C-Span al Congresso per far conoscere a tutto il paese la deriva radicale della sinistra americana.

Uomo dell’anno per la rivista Time nel 1995, Gingrich è già considerato da alcuni storici come lo Speaker più influente del Ventesimo secolo. E ha senza dubbio cambiato, come solo Reagan era riuscito a fare prima di lui, lo stile e la sostanza del dibattito politico americano. Per poi cadere, come molti altri conservatori “pericolosi” nella storia degli Stati Uniti, sotto il fuoco di sbarramento dei mainstream media che lo costrinse ad abbandonare la leadership del partito alla Camera. Sotto la sua guida, il movimento conservatore recuperò grinta e organizzazione sul territorio, scavando nei segreti inconfessabili della famiglia Clinton – dallo scandalo Whitewater al suicidio di Vince Foster, fino al «I never had sex with that woman» di Monica Lewinsky che costerà la procedura di impeachment al presidente – e raccogliendo i primi frutti di una strategia di “bilanciamento” del sistema dei mass media di cui ci occupiamo estesamente negli altri articoli di questa sezione di Ideazione.

George W. Bush e Karl Rove

L’ultimo capitolo è storia del presente. Dal 1994 in poi l’amministrazione Clinton perde gran parte delle sue smanie liberal, lasciando al Congresso repubblicano il compito di dettare i ritmi e le priorità dell’agenda politica nazionale.

La Right Nation, dopo aver costruito le sue solide fondamenta culturali, dilaga nel mondo dell’informazione. Questi sono gli anni in cui nasce il Weekly Standard (e da una sua costola il Project for a New American Century), si rafforza la popolarità dei talk-show radiofonici di Rush Limbaugh, cresce il Manhattan Institute newyorkese di Rudolph Giuliani, vengono pubblicati libri come The Bell Curve di Charles Murray, in cui per la prima volta ci si sbarazza di una serie interminabile di luoghi comuni propagandati dalla sociologia del “politicamente corretto”. Ma anche le fondazioni continuano a spuntare freneticamente: dal Discovery Institute di Seattle (fondato dal futurologo George Gilder) al Club for Growth, dall’Hudson Institute al National Center for Policy Analysis.

I foot-soldier statunitensi vengono chiamati a raccolta, e costretti a confrontare le proprie idee con gli alleati, nei meeting organizzati dal fondatore degli Americans for Tax Reform, Grover Norquist; partecipano ai pranzi con cui Paul Weyrich fa incontrare la base degli attivisti con i senatori e i congressmen repubblicani; passano il loro tempo libero nei Dark Age Weekend o nelle crociere di studio della National Review; elaborano le proprie piattaforme politiche nel Conservative Political Action Committee e nell’American Conservative Union; alimentano le iniziative di lobby come la National Rifle Association o Focus on the Family, che ha progressivamente preso il posto della Christian Coalition dopo l’abbandono di Ralph Reed e Gary Bauer.

Clinton viene rieletto nel 1996, grazie ancora una volta ai voti sottratti al GOP da Ross Perot, al buon andamento dell’economia statunitense e all’incomprensibile scelta “moderata” di Bob Dole da parte del partito repubblicano (appena temperata dalla candidatura alla vicepresidenza del liberista Jack Kemp). Ma la strategia della “triangolazione” ideata dal suo consigliere Dick Morris, oggi editorialista del New York Post, che posiziona il presidente a metà strada tra democratici e repubblicani, può soltanto rimandare la resa dei conti finale, che arriverà nel 2000 con la sconfitta di Al Gore, in una elezione presidenziale che, secondo tutti i parametri della scienza politica, il partito di Clinton non avrebbe mai dovuto perdere. Neppure con lo scarto minimo che ha portato all’infuocato recount della Florida.

Nel 2000 la Right Nation trova un leader insospettabile nel figlio del presidente repubblicano più odiato (almeno in tempi recenti) dagli attivisti del movimento conservatore. George W. Bush, a differenza di suo padre, è cresciuto in Texas ed è un fiero interprete dei valori del “western conservatism”. Con il cuore più sintonizzato sulle frequenze reaganiane che su quelle di Bush Sr., Dubya fa la pace con la destra religiosa, promette cospicui tagli alle tasse per soddisfare gli appetiti dell’ala libertarian del movimento e trova una sintesi tra le diverse anime della destra con il “compassionate conservatism”. L’operazione, condotta con straordinaria meticolosità organizzativa dal suo “architetto” Karl Rove, riesce per un soffio, visto che a poche ore dalle elezioni i media, imbeccati dalla spin-machine democratica, diffondono la notizia di un arresto per guida in stato di ubriachezza negli anni dissoluti della sua giovinezza. Bush Jr. credeva di aver già fatto i conti con il suo passato, ammettendo gli errori compiuti prima dei 40 anni, ma lo “scoop” gli aliena le simpatie di una parte della comunità evangelica che all’ultimo momento decide di non andare a votare. Il candidato repubblicano, in lieve ma indiscutibile vantaggio in tutti i sondaggi, viene raggiunto e quasi superato da Al Gore. E soltanto la Corte Suprema, dopo un mese di selvagge battaglie nelle piazze e nei tribunali, riesce a sventare il putsch tentato dal partito democratico in Florida per assicurarsi la vittoria finale.

Il margine risicatissimo dell’affermazione, però, convince Rove della necessità di recuperare quei 4 milioni di voti repubblicani che, secondo i suoi calcoli, sono mancati all’appello. Fino al 2 novembre questa teoria, che concede poco spazio al corteggiamento degli swing-voters e si concentra sulla mobilitazione e sul coinvolgimento della propria base elettorale, viene archiviata nel “bestiario” della solita destra paranoica e cialtrona che l’élite dei mainstream-media e delle università non perde occasione per dileggiare. Ma sotto la guida di Rove il movimento conservatore riesce a compiere un capolavoro tattico, sfruttando al meglio la potenza di fuoco mediatica faticosamente costruita nei decenni precedenti – dalle radio ai blog su Internet – per opporsi alla più poderosa campagna di disinformazione mai orchestrata contro un candidato alle elezioni presidenziali. I repubblicani combattono stato per stato, contea per contea, casa per casa. E gli stessi analisti che prefiguravano un esercito di giovani elettori in marcia per cacciare Bush dalla Casa Bianca e restituire l’America al proprio destino, si svegliano la mattina del 3 novembre osservando un distacco di tre milioni e mezzo di voti tra il presidente e il suo avversario democratico, John F. Kerry. I leader della Right Nation, ancora una volta, avevano visto più lontano dei loro avversari.

Da "Ideazione"

Italianhawk83
02-03-05, 16:15
La rivoluzione di Barry Goldwater
di Marco Respinti


A pagina 261 di Come si manda in rovina un Paese. Cinquant’anni di malaeconomia (Rizzoli, Milano 1995), Sergio Ricossa scrive: «Film istruttivo: rivedo con sollazzo i Blues Brothers. Jake ed Elwood Blues non sono stinchi di santo, ma salvano il “loro” orfanotrofio che sta per chiudere. Sta per chiudere perché il fisco cosiddetto sociale lo ha caricato di imposte e tasse, che le monache non possono sopportare. Purtroppo il lieto fine c’è solo al cinema. Il film di John Landis uscì in America nel 1980, una America pronta a eleggere Reagan, che era un attore come John Belushi e Dan Aykroyd, gli interpreti dei due fratelli». Ora, Reagan fu possibile all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso solo perché 16 anni prima, esattamente 40 anni fa, si gettò come un macigno sulla scena politica il senatore repubblicano dell’Arizona Barry M. Goldwater. Il quale divenne subito famoso per quei suoi occhiali dalla montatura larga, nera e similplasticona che se non fosse stato per le lenti, nel suo caso trasparentissime, sarebbe stato un sicuro antenato dei Blues Brothers. Per la capacità di unire morale tradizionale e anarchia in perfetto stile neo-cowboy. Tanto i nazisti non solo dell’Illinois li odiava pure lui, nonostante Martin Luther King jr. abbia risibilmente cercato di definirlo uno di loro. La storia della destra statunitense nella seconda metà del Novecento è infatti la storia di una lunga crescita che ha visto impegnati intellettuali e pensatori di rango. Prima pionieristicamente, poi sempre più coscientemente, la destra conservatrice e libertarian ha generato un vero e proprio movimento di opinione che negli anni si è configurato come un grande network d’iniziative editoriali, di fondazioni, di organizzazioni e di associazioni. Quella che oggi viene chiamata, con formula felicissima, Right Nation: la “nazione giusta”, la “nazione che ha ragione”, la “nazione di destra”.

Con Goldwater, il 29 maggio 1998, ne è scomparso un pezzo significativo. Il senatore dell’Arizona ha infatti legato il proprio nome a quel vasto e variegato mondo della destra che, nel 1964, ne decretò il successo alla Convention del partito repubblicano, riunita dopo le primarie per scegliere il candidato ufficiale da opporre a Lyndon B. Johnson nelle elezioni presidenziali di quell’anno. Goldwater venne poi bocciato come presidente, ma niente affatto dal profondo movimento di popolo e di opinione che lo aveva scelto come proprio rappresentante. Aveva del resto ottenuto la nomination repubblicana sconfiggendo il liberal Nelson D. Rockefeller, dunque segnando una netta svolta a destra dell’intero partito (svolta che in parte dura ancor oggi), quindi ancora segnando una tappa importante del successo del movimento conservatore di quel paese rinato negli anni del dopoguerra.

Negli ambienti goldwateriani si sono del resto fatti le ossa un po’ tutti i leader dell’attivismo giovanile della destra Usa, comprese quelle figure che anni e decenni dopo sarebbero a loro volta salite alla ribalta nazionale e internazionale come candidati politici del partito repubblicano. La cosiddetta “Reagan Revolution”, ma addirittura la discesa nell’arena politica dell’outsider Patrick J. Buchanan e pure le affermazioni repubblicane nelle votazioni per il rinnovo del Congresso degli ultimi anni, affondano le radici nel “fenomeno Goldwater”. Il senatore dell’Arizona fu un vero capo, un uomo cioè capace di scegliere adeguatamente i propri consiglieri e i propri collaboratori, tenendo conto non tanto del ricatto dell’elettorato, ma intelligentemente dell’humus del proprio paese. Il suo successo – al di là della sconfitta di allora, un certo “goldwaterismo” ha trionfato negli Stati Uniti con e da Reagan in poi – è stato infatti il successo di un vasta porzione di popolo nord-americano, quella che peraltro ha la pretesa di rivendicare la più diretta continuità con le tradizioni di fondazione della nazione.

Il conservatorismo, che nel senatore scomparso ha avuto un esponente politico di punta negli anni Sessanta, si pone infatti essenzialmente come movimento culturale che rivendica lo spirito dei Padri Fondatori; l’ideale del costituzionalismo e del repubblicanesimo classico (in cui si fondono, al di là delle concrete scelte istituzionali dettate dalla storia, dalle situazioni e dai contesti, l’eredità dei Tory e degli Old Whig britannici); il retaggio della cultura del “precedente”, del “pregiudizio” e del valore normativo delle “usanze” espressa nella forma mentis che anima il Common Law consuetudinario e medievaleggiante; l’opposizione allo spirito filogiacobino dei cosiddetti New Whig progressisti, razionalisti (come ha affermato Friedrich A. von Hayek) e pianificatori; la Grande Tradizione della filosofia politica classica e del diritto naturale; nonché il retaggio di Londra, Roma, Atene e Gerusalemme.

Goldwater – di cui pure la destra statunitense ha onestamente denunciato le cadute di tono in tema di liceità dell’omosessualità e dell’aborto – ha rappresentato per la prima volta nel dopoguerra la possibilità di unire le diverse “scuole” del conservatorismo in una concreta proposta politica: il successo non lo ha premiato direttamente, ma l’importanza del suo agire – e soprattutto del suo saper interpretare il sensus nationis – resta la grande lezione di realismo e di idealità politiche, condensata nel suo intramontabile libro-manifesto Il vero Conservatore, tradotto in italiano da Henry Furst e pubblicato nel 1962.

Da "Ideazione"

Italianhawk83
02-03-05, 16:17
Destra e radio, alto gradimento
di Giuseppe De Bellis


Sarà stato un caso, o forse no, ma il presidente degli Stati Uniti George W. Bush ha scelto un sabato per dire agli americani che lui, il comandante in capo, nel suo secondo mandato tiene particolarmente a una cosa: la riforma dell’intelligence. Il sabato mattina, il giorno della radio. Data per morta come mezzo di informazione, sembrava destinata alla cantina anche come strumento politico. Era stata la grande arma di Franklyn Delano Roosevelt, mica poteva continuare in eterno, dopo il 2000, con la Tv e il web di fronte. E invece negli Usa la radio è ancora un mezzo fondamentale per la comunicazione politica. L’hanno dimostrato le ultime elezioni presidenziali: il partito repubblicano e l’intero movimento conservatore l’hanno sfruttata alla grande. Perché va bene la televisione, va benissimo Internet, ma la radio arriva dovunque, arriva al cuore, arriva alle orecchie. Arriva al cervello. L’ha capito perfettamente la destra Usa: la radio andava “occupata”. L’ha compreso non ora, ma almeno vent’anni fa quando diventò evidente che lì c’era un vuoto che poteva essere riempito.

Al di là di quello che dicono i mezzi d’informazione di mezzo mondo, Italia compresa, dicono, la gran parte dei giornali e delle televisioni Usa sono in maggioranza democratici, con tendenze liberal. Così c’era un nuovo west da conquistare. Adesso non c’è un solo americano che non possa dire che la radio sia territorio conservatore. È accaduto in sostanza il contrario di quello che è successo in Italia. Da noi la radio in passato era il monopolio della tradizione. Poi arrivarono le radio libere, feudo dei movimenti di matrice di sinistra. Negli Usa, no. Nel 1980, secondo un’indagine della rivista Talkers Magazine, le stazioni erano in tutto 75. Figlie e parenti dei grandi network, oppure emittenti cittadine specializzate in programmi sulla vita metropolitana: radiogiornali veloci e precisi, ma essenzialmente locali; appuntamenti teatrali, servizi sul traffico. Oggi, invece, le radio sono circa 1.300, molte sono nazionali, oppure lo diventano grazie al sistema della syndication, ovvero il consorzio di emittenti piccole che si uniscono per riversare i propri contenuti attraverso stazioni gemellate su tutto il territorio. La stragrande maggioranza, comunque, ospita programmi di stampo conservatore.

Così messaggi e argomenti sui quali premono i repubblicani arrivano a milioni di americani e danno loro la possibilità di avere un punto di vista alternativo a quello che invece propone il resto del mondo dei media. La crescita dell’influenza della radiofonia politica conservatrice è stata testimoniata in California, durante la campagna elettorale che ha portato Arnold Schwarzenegger sulla poltrona di governatore. Il deputato repubblicano Darrell Issa e l’ex attore trasformatosi in politico sono stati gli uomini simbolo della voglia californiana di mandare a casa il governatore uscente Gray Davis. A dar loro la spinta, però, è stata la gente comune che inondava di telefonate, messaggi, e-mail i talk show radiofonici. La “scintilla”, l’ha definita il Los Angeles Times. Ted Costa, di People Advocate, l’associazione che ufficialmente richiese il “recall” del governatore Davis, sostiene che le radio conservatrici sono state il vero motore della macchina che ha portato la California alle urne. A raccogliere la scintilla, trasformandola in una miccia, sono stati Eric Hogue, conduttore di un talk show in una stazione di Sacramento (Ktkz) e Roger Hedgecock, host di una di San Diego (NewsRadio 600 Kogo). Arrivata a loro, l’ondata anti-Davis s’è trasformata in un ciclone inarrestabile. Perché c’è una caratteristica che contraddistingue le voci e le personalità del mondo radiofonico conservatore: hanno il polso dell’America profonda, quella che il 2 novembre ha dato al presidente Bush altri quattro anni di mandato. È l’America che pende dalle labbra di Melanie Morgan della Ksfo di San Francisco, città liberal “contaminata” da questa signora che andò per la prima volta al microfono nel 1981 nell’emittente del suo college a St. Charles, Missouri, quando aveva 16 anni e da allora non si è più staccata. Nel suo programma, la Morgan dà notizie, ma con la sua personale chiave di lettura, repubblicana, attenta ai valori della tradizione americana.

Prima che la sfida per mandare a casa mister Davis arrivasse a Issa e Schwarzenegger, Melanie si era già conquistata il nomignolo di “madre del recall”.Hedgecock, Houge e Morgan sono tutti eredi del guru della ventata conservatrice della radio americana: Rush Limbaugh. È lui l’uomo intorno a cui ruota la rivoluzione. Ogni volta che nel suo studio si accende la lucina rossa “on air” 13 milioni di americani sono lì pronti ad ascoltarlo. Limbaugh si è assunto il compito di educare gli statunitensi ai princìpi della tradizione conservatrice. Stigmatizza tutti i giorni e in tutto il paese gli errori e i peccati di quei democratici e di quei progressisti che letteralmente lo odiano. Eppure non è affatto un ideologo fanatico; anzi, ha ben presente la necessità della tattica politica e a volte addirittura dei compromessi. «Ciò che importa è vincere le elezioni», ha detto nel 2000 e ha ripetuto qualche mese fa durante la campagna elettorale 2004. «Senza vittoria non c’è potere, e quindi, ancorché giusti, senza potere i princìpi che si professano risultano inservibili».

Grande supporter del modo in cui Bush sta conducendo la guerra al terrorismo (una causa trasversale a tutto lo spettro politico statunitense), Limbaugh ritiene che il presidente non voglia sacrificare parte della sua popolarità per difendere l’agenda conservatrice in politica interna. Qualche esempio? L’appoggio presidenziale alla legge sulla scuola che ha aumentato sia la spesa, sia l’interferenza governativa nel comparto educativo; l’avere accettato la creazione di una nuova burocrazia federale di agenti addetti alla sicurezza aeroportuale; la volontà di stimolare l’economia attraverso l’aumento della spesa nazionale; e la debole opposizione alla riforma della legge elettorale varata dal Congresso, che riduce in modo drastico la possibilità dei vari gruppi d’interesse di finanziare l’elezione di candidati politici graditi.

Emblema della rivoluzione reaganiana degli anni Ottanta, beniamino della fedeltà ai valori cristiani del paese, Limbaugh è diventato il talk-radio host più seguito d’America parlando la stessa lingua della gente che l’ascolta. È diretto, graffiante, ai limiti dell’offesa quando si parla di ambientalisti, femministe, gay oppure del suo bersaglio preferito: i liberal. I quali da parte loro hanno commesso un errore (uno dei grandi errori): ignorarlo. Nella mente di ogni liberal, Limbaugh non esiste. È talmente ridicolo che sarebbe un insulto alla propria intelligenza tentare di confutare le sue affermazioni. Soltanto quando qualcuno li obbliga a rendersi conto che Rush c’è, allora ripetono che lui «ha costruito il suo impero sulla menzogna». Per gli strateghi democratici «il suo genio sta nel creare costantemente più pubblicità per le proprie affermazioni di quanta ne avranno le dimostrazioni della loro falsità». Gli Stati Uniti sofisticati, quelli delle metropoli, delle università progressiste lo detestano, identificandolo con la parte “sbagliata” del paese, quella della pistola facile, quella del Sud, delle campagne. L’hanno ignorato e odiato, i progressisti snob. Così l’hanno lasciato indisturbato: Limbaugh ha avuto tutto il tempo di diventare un beniamino (se non un vero e proprio eroe) delle folle. E nelle elezioni del 1992 ha certamente pesato sul trionfo storico dei repubblicani e sul passaggio del loro “contratto con l’America”. Altro risultato è stato che dal 1995 il suo talk show è un successo continuo: viene trasmesso da 650 stazioni radiofoniche e oltre 250 stazioni televisive. Sono circa venti milioni al giorno gli ascoltatori.

Limbaugh è tutt’altro che un semplicione. Argomenta, con il suo stile, ma argomenta. Durante le ultime elezioni presidenziali i suoi show erano un appuntamento fisso per conoscere tutte le deviazioni quotidiane di “flip-flop” Kerry. Milioni di americani pronti ad ascoltare il perché il nuovo Jfk era l’uomo sbagliato, mentre il presidente era comunque la persona giusta per portare a termine la guerra al terrore.

Sotto l’ala di Rush cresce anche Sean Hannity, conduttore anche di uno show televisivo su Fox News, altro rappresentate della resurrezione conservatrice della radio Usa. Una resurrezione che ha cavalcato un sentimento popolare. Stanchi di avere dei mezzi d’informazione così “alti” da non dare mai spazio alla gente comune, gli americani hanno individuato in un telefono collegato a un microfono radiofonico lo strumento per dire al paese e a chi li governa di che cosa hanno bisogno. E allora i democratici continuano a specchiarsi nei commenti dei columnist più prestigiosi, lasciando ai repubblicani il compito di individuare l’anima vera degli Stati Uniti, di cavalcare idee e valori. Questi talk show danno la possibilità a persone che fino a oggi ne erano stati prive l’accesso alla comunicazione politica e sembrano consentire e facilitare la partecipazione democratica al processo politico. Sono trasmissioni call-in, nelle quali gli ascoltatori sono il programma e telefonano per manifestare la loro opinione sui più disparati temi di attualità e politica, interagendo con un conduttore che, a parte una certa facilità di parola, non sembra distinguersi dai suoi ascoltatori né per particolari conoscenze né per cultura. Chi è dall’altra parte, con un microfono sotto la bocca e una platea collegata in tutta la nazione, dà voce alle frustrazioni e alle opinioni di ogni singolo ascoltatore. E l’audience li segue, telefona per aggiungere benzina al fuoco della rabbia contro i politici, i liberal, contro John Kerry ieri e Hillary Clinton domani, contro i media troppo progressisti e snob, contro i difensori dei diritti civili, gli abortisti e gli oppositori della pena di morte. Che piaccia o no è la gente. Quella che vota nelle democrazie.

Da "Ideazione"

Italianhawk83
02-03-05, 16:18
Supereroi all’assalto della sinistra
di Francesca Oliva


Solo un supereroe può salvarci dal plotone dei liberal hollywoodiani o dalle schiere di rockstar che non hanno esitato a scendere in campo – con i risultati che conosciamo – per sostenere il candidato democratico nella corsa alla Casa Bianca. Ma forse anche una marionetta, soprattutto se ben armata e animata dal folle genio dei creatori di “South Park”, potrebbe darci una mano. L’intrattenimento made in Usa sembra finalmente volersi affrancare dall’egemonia della sinistra. E “Team America: World Police”, firmato da Trey Parker e Matt Stone, è l’ultimo capitolo di questa grande rinascita del conservative entertainment. Il film è interpretato da un manipolo di pupazzi in stile “Thunderbirds” con una missione ben precisa: combattere il terrorismo internazionale con ogni mezzo, anche a costo di “incidenti diplomatici” come l’abbattimento della Torre Eiffel. Se Parker e Stone non risparmiano una buona dose di sarcasmo nei confronti “dell’ipernazionalismo patriottico”, il bersaglio principale della loro satira corrosiva è senza dubbio l’imbelle pacifismo liberal – rappresentato da una serie di schieratissime celebrità come Sean Penn, Matt Damon, Alec Baldwin, Michael Moore, George Clooney, Tim Robbins e Susan Sarandon - convinti che la violenza sia sempre da evitare, tranne quando serve per impedire al Team America di combattere contro il male. Già con gli stilizzati disegni della serie “South Park”, Parker e Stone avevano dato vita ad alcuni dei più eclatanti esempi di satira libertarian (vedi l’articolo di Andrea Mancia su Ideazione di settembre/ottobre 2004): memorabili le puntate sulla sfortunata gita scolastica nella foresta amazzonica o quella sul recount per eleggere il capoclasse in stile Florida 2000.

Se “South Park” è il capolavoro dell’entertainment libertarian, il suo equivalente conservatore può essere considerato “King of the Hill” (finalmente arrivato anche in Italia, grazie al canale satellitare Fox). Ambientata in Texas, la serie animata è venuta alla luce grazie alla collaborazione tra Mike Judge, creatore di “Beavis and Butt-head”, e Greg Daniels, sceneggiatore di diversi episodi de “I Simpson” e della sit-com “Seinfeld”. Il protagonista, Hank Hill, è un normalissimo padre di famiglia: un fiero americano che vende gas propano per vivere. Hank è un uomo buono, tutto d’un pezzo e dotato di un’ingenuità spesso disarmante, che si trova quotidianamente a guardare i paradossi della vita contemporanea dal suo punto di vista tipicamente sudista. Raramente, nel mondo “metrocentrico” della tv americana, personaggi così “normali” erano riusciti ad ottenere un tale successo. «E’ uno show che potrebbe essere definito populista, perché guarda all’aspetto più solare del buon senso comune, tipico della famiglia media americana. E si tratta di una famiglia più conservatrice della maggior parte di quelle che siamo abituati a vedere in televisione», spiega Greg Daniels. «Non è uno show politico, ma ha molta simpatia per la gente comune e poco trendy», aggiunge Mike Judge. Una rivoluzione in piena regola.

Anche sul grande schermo emerge sempre più chiaramente che, sotto l’accecante sole liberal che splende su Hollywood, esistono anche realtà alternative. L’eredità dei film di Frank Capra, che negli anni Trenta e Quaranta avevano dipinto i valori tradizionali dell’individualismo americano, è stata ripresa da Adam Sandler, uno degli attori più brillanti degli ultimi anni, inserito recentemente in una delle liste “ufficiose” delle celebrità simpatizzanti per il partito repubblicano. Sandler ha riproposto al pubblico un remake del capolavoro di Capra “Mr Deeds Goes to Town” (1936). I discendenti ideali di John Wayne e Clint Eastwood sono, invece, i moderni protagonisti del cinema d’azione, da sempre terreno fertile per i conservatori. Tanto per fare qualche nome: Sylvester Stallone, Chuck Norris, Jean Claude Van Damne. Oltre, naturalmente, ad Arnold Schwarzenegger. L’area più intransigente della destra cristiana ha, dal canto suo, trovato un alfiere in Mel Gibson e il suo “The Passion”. Ma già nel 1995, con “Braveheart”, l’attore-regista aveva risvegliato i sentimenti patriottici e i valori cavallereschi della libertà, della moralità e del coraggio contro avversari spietati.

Attori e produttori cominciano a dichiarare – o quantomeno a non smentire – le proprie simpatie conservatrici o libertarian, contravvenendo alla regola non scritta di Hollywood, ben sintetizzata dell’attrice Emma Caulfield, che dichiara: «Non ammetterei mai del tutto di essere una repubblicana in questa città. Ho bisogno di lavorare». C’è persino qualche conversione davvero eclatante. Un esempio su tutti, quello di David Zucker, regista di campioni d’incasso come “L’aereo più pazzo del mondo”, “Una pallottola spuntata” o “Top Secret”. Il genio della comicità demenziale, democratico per tradizione familiare, si autodefinisce un “9/11 Republican” e ha voluto produrre un esilarante spot elettorale pro-Bush durante l’ultima campagna presidenziale, in cui viene preso di mira il flip-flopper Kerry, paragonato a uno sposo che, nel giorno del suo matrimonio, pianta in asso la moglie per gettarsi tra le braccia della damigella d’onore.

Zucker è stato l’ospite d’onore del Liberty Film Festival, organizzato nell’ottobre 2004 dalla giovane coppia composta dal regista Jason Apuzzo e dall’attrice Govindini Murty. La manifestazione, finanziata dalla Foundation for Free Markets, è nata per presentare e promuovere le opere di registi non necessariamente liberal. Alcuni lavori presentati al Liberty Film Festival hanno riscosso un discreto successo di pubblico e di critica, come “In the Face of Evil”, la storia della battaglia di Ronald Reagan contro il comunismo. Ma è stato il filone anti-Moore a scatenare il maggiore entusiasmo, con titoli come “Celsius 41.11” (la temperatura alla quale il cervello inizia a fondersi), poderosa risposta al “documentario” che ha vinto la Palma d’Oro a Cannes, “Michael and Me”, provocatoria difesa dei diritti pro-gun e “Michael Moore hates America”, irriverente ritratto del regista descritto come emblema di quel sogno americano di cui lui stesso nega l’esistenza.

Grande impulso ai valori della Right Nation è arrivato anche dalla rinascita del fantasy e della fantascienza. Senza addentrarci in rigorose classificazioni politiche, questi due generi da sempre enfatizzano i valori dell’individuo che supera se stesso e la distinzione netta tra il bene e il male. Un esempio su tutti è la trilogia de “Il Signore degli Anelli”, il film tratto dal capolavoro di J.R.R. Tolkien che alcuni critici cinematografici con spiccata propensione alla paranoia hanno guardato con sospetto per le presunte simpatie destrorse dello scomparso autore inglese. Jonah Goldberg, sulla National Rewiew, ha citato due sconcertanti critiche apparse sul Guardian e sul New York Times, nelle quali si fa riferimento a sospette analogie tra malvagi orchi e popolazione afroamericana, tra Sauron e Saddam e tra le “due torri” e le Twin Towers.

Un recente titolo che sembra strizzare l’occhio al mondo conservatore è il film d’animazione “The Incredibles”. I supereroi in pensione creati della Pixar vivono seguendo i sani vecchi valori della famiglia tradizionale, ma non si tirano indietro quando si tratta di usare la forza contro il male. In un articolo sul settimanale liberal The New Republic, Andrew Sullivan scrive che “The Incredibles” spiega alla perfezione perché «Arnold Schwarzenegger non potrebbe mai essere un democratico» e perché la «piagnucolante élite di Gore, Teresa e Hillary sembra così aliena all’imprenditoriale, anti politically-correct e irreverente cultura popolare americana». Già da qualche anno, le trasposizioni cinematografiche di alcuni grandi successi della storica casa editrice di fumetti Marvel – come “X-Men” e “Spiderman” – avevano aperto la strada a questo genere. Supereroi spesso tormentati, lacerati dal dubbio, ma il cui fine ultimo è quello di lottare per il bene del mondo, difendere i valori tradizionali e combattere contro i nemici malvagi. Oltre che, più di una volta, contro uno Stato oppressore e il potere corrotto.

La stessa Marvel ha lanciato una nuova serie di fumetti la cui ambientazione lascia poco spazio al dubbio. “Combat Zone” è il racconto di tre mesi trascorsi all’interno di un battaglione militare di stanza in Iraq dal giornalista “embedded” Karl Zinsmeister (American Enterprise Magazine). Il fumetto, creato dalla matita di Dan Jurgens - disegnatore anche di Thor e Superman - è un altro segnale di come la destra stia recuperando il terreno perso negli ultimi vent’anni in un settore che, una volta, le apparteneva quasi di diritto: basti citare i fumetti di guerra, i grandi successi della DC Comics come Superman e Batman o il mito della Marvel, Capitan America, che è stato rispolverato dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 come emblema del patriottismo. E i conservatori recuperano terreno anche nella satira politica, con matite brillanti come Cox & Forkum, due fulminanti vignettisti (oggettivisti e seguaci di Ayn Rand) che si sono spinti più in là della maggior parte dei loro colleghi libertarian appoggiando apertamente la politica estera e militare di Bush.

Come i supereroi fantastici, anche gli eroi sportivi occupano un ruolo fondamentale nel sistema americano dell’entertainment. E bisogna dire che nel mondo dello sport la percentuale di sostenitori del Grand Old Party è davvero alta. Tanto che, con una lettera aperta ai cittadini americani, 24 atleti, quasi tutti campioni olimpici o star dello sport, hanno fatto endorsement pubblico a favore di George W. Bush nella corsa alla Casa Bianca. Tra le firme, spiccano i nomi del mito del golf Jack Nicklaus, della leggenda del baseball Ernie Banks, della superstar dell’NBA Karl Malone, della ginnasta medaglia d’oro olimpica Mary Lou Retton. Queste le motivazioni della scelta: «Le stesse qualità che fanno grande un atleta, faranno anche un grande presidente: la determinazione di fare quello che si ritiene giusto, non curandosi degli ultimi sondaggi, la forza personale di farsi carico sulle proprie spalle del peso di una nazione, e la fede in qualcosa di più grande che guida le azioni delle persone buone. Noi vediamo nel Presidente Bush queste qualità». Sono considerati conservatori (fino a smentita ufficiale) anche le star del basket Charles Barkley e Magic Johnson, l’eroe nero del golf Tiger Woods, il campione di hockey sul ghiaccio Mario Lemieux, il grandissimo del tennis Pete Sampras, l’eccentrico manager del pugilato Don King, la stragrande maggioranza dei giocatori di football americano e, soprattutto, il cinque volte vincitore del Tour de France, Lance Armstrong, legato da un’amicizia personale nei confronti del presidente.

Se nello sport i repubblicani sono in maggioranza, lo stesso non si può dire nel mondo del rock e della musica popolare in genere. Ma anche in questo caso non mancano le eccezioni. A contrapporsi a Springsteen, R.E.M. e Dixie Chicks c’è, innanzitutto, lo sterminato esercito della musica country. In linea con i temi classici e le ambientazioni delle ballate che rappresentano l’America più vera e profonda, molti musicisti country hanno simpatie conservatrici. Un altro genere quasi sconosciuto in Italia, ma di grande rilevanza in termini di pubblico negli Stati Uniti è quello del “christian rock”, che raccoglie intorno a sé una vasta e attivissima comunità. E uno dei fenomeni più originali e in espansione degli ultimi tempi è quello dei Conservative Punk, movimento fondato dall’ex deejay Nick Rizzuto che, tra musica alternativa e politica, è riuscito a riunire intorno a sé un buon numero di band punk non-conformiste attirando anche l’attenzione dei mainstream-media.

Nel firmamento della musica non sono poche le celebrità che compaiono nelle liste dei simpatizzanti repubblicani: grandi dell’heavy metal come il cantante dei Metallica, James Hetfield, Ted Nugent, Meat Loaf e Kid Rock; le reginette sexy del pop Britney Spears e Destiny’s Child; i rapper MC Hammer e LL Cool J (che ha appoggiato l’elezione del governatore repubblicano di New York, George Pataki) e vecchie glorie come Pat Boone, Chaka Khan e Belinda Carlisle. Ma un posto d’onore, in questo improvvisato Olimpo conservatore, lo merita la leggenda del rock Alice Cooper, che ha bollato come “traditori” i colleghi impegnati nella propaganda politica a favore del candidato democratico. «E’ un tradimento nei confronti del rock’n’roll, perché il rock è l’antitesi della politica. Vedere queste rockstar che parlano di politica mi fa venire la nausea. E se dai retta ad una rockstar per sapere per chi votare, sei un idiota ancora più grande di loro. Tutti sanno perché siamo rockstar: perché siamo degli idioti. Di giorno dormiamo, di notte suoniamo e molto raramente ci sediamo a leggere i giornali politici». Dopo il risultato delle ultime elezioni, il sospetto che Cooper avesse ragione si è trasformato in una certezza.

Da "Ideazione"

Italianhawk83
02-03-05, 16:19
The Right Side of the Web
di Barbara Mennitti


Negli Stati Uniti l’universo che si è sviluppato intorno a Internet è stato uno dei canali decisivi per combattere il pensiero unico di sinistra, imperante nei media e in alcuni settori dell’opinione pubblica dagli anni Cinquanta in poi. Soprattutto fra i giovani che, almeno all’inizio, erano i grandi fruitori del web. «Internet contribuisce a sgretolare la facoltà dei tradizionali custodi della cultura di decidere cosa è importante e quali sono le opinioni legittime». Questa frase di Virginia Postrel, saggista e famosa blogger libertaria, descrive perfettamente l’effetto dirompente che il web ha avuto sull’establishment mediatico americano. Perché, al contrario di quanto è accaduto in Europa e in Italia, la destra ha compreso subito le enormi potenzialità del nuovo mezzo e non si è fatta battere sul tempo dalla sinistra. Certo, non si può parlare di una maggioranza schiacciante di presenze di destra sul web, come darebbero a intendere le costanti geremiadi dei democratici, ma si può tranquillamente affermare che negli Usa il cyberspazio pende leggermente a destra. E si tratta di un universo molto variegato.

Le grandi fondazioni conservatrici e libertarie sono presenti ormai da molto tempo sul web. Dal 1995, Townhall.com collega molte delle realtà digitali della right Nation americana. Il sito della Heritage Foundation, uno dei think-tank più autorevoli e influenti di tutti gli Stati Uniti, è diventato un luogo di riferimento per chiunque voglia tenersi informato, fare ricerche o approfondire temi di politica interna o estera statunitense. All’indomani dell’11 settembre, la Heritage, tramite il suo sito, mise a disposizione di tutti i giornalisti del mondo un gruppo di esperti, disponibili a farsi intervistare per raccontare la loro versione di quanto stava accadendo. Un vero esempio di lungimiranza. Una presenza importante sul web hanno anche altre fondazioni come il libertario Cato Institute, il Ludwig von Mises Institute, l’Ayn Rand Institute, la Progress & Freedom Foundation, e il neoconservative American Enterprise Institute for Public Policy Research (Aei). Un gradino sotto le fondazioni vi sono i siti delle grandi lobbies conservatrici, cioè di quelle istituzioni che esercitano pressioni sull’opinione pubblica e sul Congresso a favore di una causa. Dall’alto dei suoi tre milioni e mezzo di iscritti e del suo budget annuale di oltre 80 milioni di dollari, la National Rifle Association, è una delle più potenti, oltre che delle più antiche, lobbies presenti sul web. Convinta del fatto che il possesso di un’arma sia una libertà inalienabile dell’individuo che trae la sua legittimità dal secondo emendamento della Costituzione americana, la Nra, presieduta dal carismatico attore Charlton Eston, usa il suo sito web per diffondere le sue idee ma, soprattutto, per monitorare le azioni legislative che potrebbero limitare la libertà di possedere armi. L’American Conservative Union è, invece, una delle più antiche lobbies conservatrici, che si propone di elaborare e diffondere una piattaforma di azione politica che riesca a raggruppare tutti i conservatori americani. Dal 1971, pubblica una pagella annuale del “grado di conservatorismo” di tutti i membri del congresso. Tutto questo e molto altro si trova sul loro sito web.

I giornali e le riviste on-line esplicitamente di destra guadagnano costantemente contatti. Front Page la rivista diretta da David Horowitz che prende di mira la dittatura del politically correct, la campagna contro la guerra e altre follie, conta un milione e 700mila contatti al mese. Durante la guerra di liberazione dell’Iraq, oltre un milione e 400mila utenti si collegavano all’Opinion Journal, la pagina degli editoriali del Wall Street Journal, dove il direttore James Taranto nella rubrica “Best of the web” indicava quotidianamente cosa c’era di interessante da leggere sul web. La National Review Online, con i suoi aggiornamenti quotidiani, conta oltre un milione di contatti al giorno, che nel periodo della guerra erano raddoppiati. «La Nro ha più lettori – dice compiaciuto il direttore Jonah Goldberg – di tutte le riviste conservatrici messe insieme». E la recensione di un libro sulla sua rubrica, bisogna aggiungere, fa vendere più di quella su uno dei più grandi quotidiani nazionali.

E veniamo al mondo dei blog, la cosiddetta blogosphere, che tanta importanza hanno avuto nelle ultime elezioni presidenziali americane. Il blog, come detto, è un sito di solito facente capo a un singolo che decide di dare visibilità a qualcosa, di seguire una certa questione, decide, insomma, di offrire una sua visione della realtà e della politica. Qualche anno fa una cosa del genere era possibile solo per i maghi dell’html ma oggi, con i nuovi programmi user-friendly, chiunque sia capace di collegarsi ad Internet è perfettamente in grado di costruirsi un suo blog a costi praticamente nulli. E infatti negli ultimi anni ne sono nati in enorme quantità, soprattutto a destra, dove si percepiva un vuoto da colmare. «Molti bloggers – dice Erin O’Connor autrice di Critical Mass – si sentivano esclusi da istituzioni che avevano adottato – esplicitamente o implicitamente – un’ortodossia di sinistra». Un altro evento che ha spinto molti ad entrare nella rete è stata la reazione masochistica dell’establishment mediatico americano all’11 settembre. Il giornalista Matt Welsh dice: «Ho creato un blog il 16 settembre 2001, dopo aver letto per cinque giorni sui giornali i vergognosi vaneggiamenti di gente come Naom Chomsky e Robert Jensen». Come lui, molti altri hanno reagito alla lettura univoca dei media cercando con rabbia uno spazio di dissenso. E questo spazio l’hanno trovato su internet.

Proprio questo è stato uno dei punti di forza della blogosphere: la sua capacità di decidere che un evento costituisse una notizia, in barba al giudizio delle élite culturali, e di farlo rimbalzare da un sito all’altro, di esercitare un moderno tam-tam informatico, riuscendo, alla fine ad imporsi all’attenzione del pubblico. Perché quotidianamente le storie del web vengono riprese dai giornali locali, da Fox News o dalle trasmissioni radiofoniche di Rush Limbaugh e allora può accadere che persino il New York Times sia costretto a turarsi il naso e a rimediare a quello che, in gergo giornalistico, si chiama buco. Le redazioni dei giornali e delle televisioni hanno ormai personale che ha il compito di passare da un blog all’altro, anche per otto ore consecutive, alla ricerca di storie da raccontare.

Nel caso di Drudge Report, forse il proto-blog più noto in assoluto che raccoglie notizie e gossip politico, non si può più nemmeno parlare di fedeli utenti ma di veri e propri addicts, drogati, per lo più appartenenti al mondo del giornalismo, dei media e della politica, che non riescono a sopravvivere senza la loro visita quotidiana. Creato dal giornalista Matt Drudge, quello che ha accidentalmente scoperto lo scandalo Lewinsky (e che si dichiara «un conservatore anti-abortista che non vuole essere tassato dal governo»), Drudge Report è soprattutto un filtro editoriale che collega ad altre storie e ad altri siti di informazione e di opinione, oltre, naturalmente, ad ospitare i succosi scoop di Drudge. Con un criterio simile sono costruiti anche RealClearPolitics, FreeRepublic e Lucianne. Altri, invece, tengono più l’impronta del creatore come Instapundit di Glenn Reynolds, considerato il padre della blogosphere, il blog di David Frum, ospitato su Nro insieme a The Corner e Kerry Spot, Virginia Postrel e LittleGreenFootballs di Glen Johnson. Menzione a parte meritano i vignettisti libertari oggettivisti Cox and Forkum che nel loro sito mescolano blog e satira politica .

Una prova dell’onda d’urto dei blog l’abbiamo avuta nella campagna elettorale appena conclusa e ha fatto vittime molto illustri. Pensiamo a Dan Rather, il leggendario conduttore del programma “60 minutes” in onda sulla Cbs, che aveva presentato lo scoop destinato a rovesciare le sorti della corsa alla Casa Bianca. Era lo scorso settembre, quando Dan Rather, al colmo dell’indignazione, sventolava davanti alle telecamere i famosi “documenti scomparsi” sul servizio militare del presidente Bush. Si trattava dei memorandum privati in cui il colonnello Killian, defunto da circa un ventennio, lamentava le pressioni ricevute per accordare un trattamento di riguardo al giovane Bush. Che, insomma, si sarebbe imboscato mentre il prode Kerry rischiava la vita nelle paludi del Vietnam. Tutto molto edificante se non fosse che, a parte macroscopiche incongruenze di sostanza con le quali non vi tedieremo, le lettere apparivano un po’ strane. Tanto strane che Scott Johnsons, avvocato di Minneapolis e coautore di Powerline, decide di linkarli sul suo sito. Scatenando una valanga, perché quelle lettere evidentemente non potevano essere state scritte con una macchina da scrivere degli anni Settanta. La notizia, quasi troppo bella per essere vera, rimbalza da un blog all’altro, finché Glen Johnson, quasi per scherzo, apre Microsoft Word e, senza nemmeno cambiare una singola impostazione, riproduce le lettere del colonnello Killian tali e quali. Un falso e pure fatto male.

Quando la notizia viene ripresa dal Drudge Report la bomba esplode: in rapida successione appare su Fox News, New York Post, Abc, Washington Post e una miriade di testate locali e nessuno può fare a meno di notare che si tratta di un falso fin troppo evidente. Dopo un lungo e piuttosto avvilente rimpallo di accuse su chi ha truffato chi, a novembre giunge la notizia che in primavera l’esimio Dan Rather andrà in pensione. Mica male per dei ragazzini in pigiama!

Da "Ideazione"
FINE APPROFONDIMENTO

Italianhawk83
02-03-05, 16:28
Repubblicani: chi sono, cosa vogliono
di Alessandro Gisotti


Chi sono oggi i Repubblicani? Capire cos’è il Grand Old Party di fine 2004 e qual è la sua agenda politica si rivela la lente migliore per leggere il successo di Bush e le sue conseguenze. Molti commentatori di casa nostra che prefiguravano, e forse si auguravano, un successo del campo democratico hanno offerto, infatti, un’immagine piuttosto pittoresca del partito che oggi guida gli Stati Uniti. Un’analisi ragionata del mondo repubblicano la troviamo sul numero autunnale della rivista americana di cultura politica “The Public Interest”. Un saggio articolato, dal titolo “A New GOP ?”, scritto a quattro mani da James W. Ceaser e Daniel DiSalvol, due studiosi della University of Virginia. Ideazione.com lo ha letto per voi.

La lunga marcia

La premessa è di carattere storico. Se oggi il partito Repubblicano - oltre ad esprimere il capo dell’Esecutivo - dispone di una maggioranza consolidata nei due rami del Congresso, meno di 25 anni fa i rapporti di forza erano diametralmente rovesciati. “The Public Interest” ricorda come, alla vigilia del 1980, il GOP non solo era, ma soprattutto si comportava come una componente minoritaria. Tuttavia, la percezione da parte dell’elettorato di una leadership fallimentare del democratico Jimmy Carter, in patria come all’estero, ha aperto una “stagione di revival repubblicano”. Un riposizionamento degli elettori americani, innescato da Ronald Reagan, massimo artefice del riscatto conservatore dopo gli anni difficili del post Watergate. Da allora, spiegano Ceaser e DiSalvol, i Repubblicani hanno fatto molto di più dei Democratici per definire l’agenda della politica statunitense. Due dei maggiori risultati della presidenza Clinton – l’accordo commerciale NAFTA e la riforma del welfare – sono in realtà il frutto di idee repubblicane. Secondo molti detrattori del partito Repubblicano, constata “The Public Interest”, il GOP è oggi una “coalition of the willing” composta da razzisti bianchi del Sud e delle regioni rurali, fanatici religiosi, ricchi multimilionari e un pugno di intellettuali ebrei neoconservatori. Proprio da questa cruda caratterizzazione muove il ragionamento dei due politologi della University of Virginia che, pezzo dopo pezzo, smontano gli stereotipi più in voga sul Grand Old Party.

Quando il Sud era Democratico

E’ vero. Oggi i Repubblicani godono di un largo consenso nel Sud dell’Unione. Ma il Sud non è mai stato così favorevole alla segregazione razziale come negli anni in cui, in quell’area, era il partito Democratico a disporre del consenso maggioritario. La realtà è che oggi il GOP è diventato il principale partito sudista, “proprio nel periodo in cui si registra la fase meno razzista” nella storia di questa regione degli Stati Uniti. D’altro canto, nessuno dei leader repubblicani del Sud – dall’ex governatore del Texas, George W. Bush, a suo fratello Jeb, governatore della Florida, al senatore del Tennessee, Bill Frist – può essere accostato alle idee del vecchio partito Democratico.

America Rossa contro America Blu

I Repubblicani sono sovente descritti come il partito delle campagne e delle piccole città. Viene subito in mente la cartina degli Stati Uniti: un mare rosso (colore che indica gli Stati repubblicani) tra due strisce blu, le Coste con le sue metropoli, bastioni democratici. Per David Brooks si tratta di “due Americhe” differenti persino a livello antropologico: “Nell’America Rossa le chiese sono ovunque. In quella blu sono ovunque i ristoranti tailandesi”. Un esame più ravvicinato, però, mostra che molte “aree rosse” fanno parte del Bush country per pochi voti, mentre in alcune roccaforti dell’America blu – vedi New York e California – sono stati eletti dei governatori repubblicani. Siamo ben lontani, quindi, da una versione domestica dello “scontro di civiltà” à la Huntington. Ogni elezione “divide” il Paese in due. Ciò, però, “non è indice di ostilità tra le due parti”. Insomma, l’America è una, nonostante l’immagine di irrimediabile spaccatura fatta passare da questa parte dell’Atlantico.

One nation under God

“F” come Faith. Veniamo, così, al tanto discusso fattore religioso della vittoria di Bush. Certo, afferma “The Public Interest”, c’è una connessione tra il partito Repubblicano e i church-goers, quelli che vanno in chiesa, soprattutto nell’ambito del protestantesimo evangelico. Ma non è sempre stato così. Nel 1976, era stato il Democratico Jimmy Carter ad assicurarsi il voto evangelico, poi approdato, con Reagan, su lidi repubblicani. Peraltro, in un primo tempo, la destra religiosa ha formato proprie organizzazioni distinte come la “Moral Majority” e la “Christian Coalition”, presentando addirittura un proprio candidato alla Casa Bianca (Pat Robertson nel 1988). D’altro canto, “il legame tra religiosità e partito Repubblicano è rafforzato” dalla presenza di “segmenti attivi del secolarismo” tra gli “accesi sostenitori del partito Democratico”.

Avidi, ricchi e neoconservatori

Una delle accuse rivolte al GOP è di essere il partito che rappresenta gli interessi degli “avidi ricchi”. Facile dimostrare che molti, moltissimi americani facoltosi votano partito Democratico. Inoltre, the “issue of wealth”, il dato della ricchezza crea non pochi turbamenti agli analisti elettorali. Il fattore chiave che meglio esprime la ricchezza è l’educazione. Ebbene, nessuna categoria del popolo americano è più liberal dei professori dei college d’elite. Infine, l’elemento neoconservatore. Gli avversari dei Repubblicani ritengono che i “neocon”, un gruppo di intellettuali, abbiano “sequestrato la politica estera dell’Amministrazione Bush. Se si dovesse dar credito a questa teoria, “bisognerebbe essere pronti a credere che una politica estera criticata per un eccesso di idealismo democratico” sia la conseguenza di un “colpo di stato antidemocratico”.

Verso il centro

Guardando all’America di una generazione fa, assicurano i due studiosi, Repubblicani e Democratici mostrano adesso al proprio interno una maggiore omogeneità ideologica. Ci sono sicuramente meno Repubblicani liberali e meno Democratici conservatori. Il senatore Jim Jeffords, che dal GOP è passato tra le fila degli Indipendenti, e il senatore Zell Miller, che dai Democratici è trasmigrato nel partito dell’Elefante, sono gli unici casi recenti di un trend giunto quasi a conclusione. Assieme a questo dato, se ne registra un altro molto significativo: per vincere le elezioni i politici devono puntare al centro. Questa, d'altronde, è l’esperienza dell’ultimo decennio. I “New Democrats”, che hanno portato alla vittoria Bill Clinton, si sono spesso trovati più vicini alle posizioni dei Repubblicani che dei Democratici tradizionali. Sull’altro fronte, il “conservatorismo compassionevole” di Bush è più vicino al partito Democratico di quanto possa essere ai conservatori ortodossi. L’appello all’elettorato centrista – richiamo che ha caratterizzato entrambi le convention di partito del 2004 – ha una ragione ben evidente ai guru elettorali: “Nessun partito può vincere contando solamente sulla propria base”.

I Repubblicani e il mondo

La politica estera ha sempre favorito il partito Repubblicano nell’ultima generazione. Il deciso anticomunismo di Reagan ha garantito al GOP una salda reputazione di difensore degli interessi nazionali. Convinzione che si è rafforzata con la fine della Guerra Fredda e la vittoria nella prima guerra del Golfo, condotta da Bush padre. Nelle tornate elettorali del 1992, 1996 e 2000, però, la politica estera è stata praticamente relegata ai margini del dibattito politico. L’11 settembre ha cambiato tutto. Seppur controversa, l’idea di guerra preventiva e di una trasformazione del Medio Oriente, lanciata da Bush, rappresenta una nuova strategia e non semplicemente una mera risposta agli eventi. Il partito Repubblicano è, comunque, tutt’altro che un monolite. Alcuni intellettuali conservatori hanno criticato l’idealismo wilsoniano che sembra animare l’approccio al mondo dell’Amministrazione Bush. In particolare è stato puntato l’indice contro l’obiettivo del “nation building” democratico in Iraq, attribuito all’atteggiamento universalistico dei neoconservatori. E’ rimasto celebre lo sfogo anti “neo-con” di George F. Will – columnist del Washington Post – che ha chiesto all’Amministrazione repubblicana di assumere “una dose di conservatorismo, senza il prefisso”.

I Repubblicani e l’America

Tradizionalmente, i Repubblicani si sono sempre battuti per un ridimensionamento del governo federale, “scoraggiando la dipendenza individuale dallo Stato”. A partire dalla fine degli anni ’70, ricorda “The Public Interest”, molti programmi della Great Society di Lyndon Johnson si sono screditati, offrendo ai Repubblicani un’opportunità per attrarre nuovi voti. Tuttavia, negli anni ’90, il GOP ha imparato a non spingere troppo avanti la critica al “Big Government”. La reazione dell’opinione pubblica all’antistatalismo aggressivo dei Repubblicani ha indotto il partito, Bush jr in primis, a correggere la linea. Sul piano culturale, il GOP ha difeso i valori tradizionali contro l’attacco lanciato dalla “New Left” negli anni ’60 e ’70. Con Bush è entrato in gioco il “conservatorismo compassionevole” che “combina la difesa della morale tradizionale con un’accresciuta azione dello Stato in alcuni settori”. All’inizio del primo mandato, con la politica estera marginalizzata, è parso che l’ex governatore del Texas avesse trovato la quadratura del cerchio per il suo partito. Da una parte, il 43.mo presidente americano ha soddisfatto i conservatori tradizionali con politiche restrittive in tema di aborto e l’opposizione al matrimonio omosessuale. Dall’altra, ha ottenuto il favore dei libertari con i suoi poderosi tagli alle tasse. Ma molti nel partito Repubblicano hanno accolto con sconcerto i nuovi programmi federali per l’educazione e gli anziani.

George W. Bush, sostengono Ceaser e DiSalvol, ha dato vita ad “una rivoluzione di velluto” nella politica interna repubblicana. Anche per questo, prevedono che la seconda vittoria di Bush eclisserà, come impatto sulla vita politica degli Stati Uniti, non solo la rielezione di Clinton nel 1996, ma perfino quella di Reagan nel 1984. Staremo a vedere.

Da "Ideazione"

Templares
02-03-05, 17:48
Il materiale che hai messo a disposizione è immenso. Come vuoi procedere?
Secondo te possiamo pubblicare tutti gli articoli nella futura sezione storia e cultura del nostro sito?

Italianhawk83
02-03-05, 21:27
Assolutamente sì Salvatore, previa organizzazione del materiale.

La sezione "storia e cultura" dovrà avere grande spazio all'interno del sito in modo da creare una grande "biblioteca conservatrice" divisa per aree tematiche (sono sicuro che verrebbe fuori un prezioso "gioiellino" di cui prenoto preventivamente la "poltrona" dirigenziale).

Qst sezione si rivelerà fondamentale nel cercare di colmare quel profondo gap rappresentato dalla generale mancanza di conoscenza della cultura conservatrice.

ps.
sei d'accordo con l'appello che ho rivolto all'interno del post "IMPORTANTE COMUNICAZIONE DI SERVIZIO"?

Italianhawk83
02-03-05, 21:55
In Origine postato da Italianhawk83
Grazie mille salvatore!
A proposito, posto di seguito il profilo su Kirk di Marco Respinti già pubblicato in un 3d a parte da Michele.

Ovviamente non posso ometterlo proprio qui, all'interno della commissione: non credo che Michele abbia problemi se lo cancellassi. Puoi farlo cortesemente?

Salvatore, ti rinnovo gentilmente la richiesta.

Templares
03-03-05, 14:08
In Origine postato da Italianhawk83
Salvatore, ti rinnovo gentilmente la richiesta.

Provvedo Giorgio. Non ho trovato la discussione comunicazione importante di servizio. Ndo sta?

Italianhawk83
03-03-05, 15:27
Grazie mille. "Importante comunicazione di servizio" è un post presente all'interno di qst 3d. Lo pubblico nuovamente.

Italianhawk83
03-03-05, 15:28
In Origine postato da Italianhawk83
Amici,
sto adeguatamente selezionando il materiale pubblicato, scegliendo SOLO E SOLTANTO documenti che aiutino a definire il nostro profilo dottrinario e i punti di riferimento politico-culturali che adotteremo. Cosa significa? Che non vorrei affatto che la commisisone diventi un "cimitero" di articoli che nessuno leggerà per la loro indiscutibile lunghezza. Cosa chiedo? Che l'organismo non venga chiuso prima che gli iscritti abbiano preso SOSTANZIALE visione degli interventi.

Ragazzi, formulo solo un auspicio, in modo che il lavoro della commisione non sia completamente vano. Ovviare alla prolissità? Impossibile. Vi chiedo solo un minimo sforzo: magari trascurate per una settimana le vostre letture generaliste per concentrarvi - con l'approccio da "quotidiano" post-pranzo - sugli articoli postati in commissione.

Vi assicuro che sono INTERESSANTISSIMI, mai noiosi (rappresentano una sorta di "formulazione scientifica" di ciò che ci raccontiamo ogni giorno su neocon, USA, Israele...), e se li prendeste in seria considerazione - giacchè si tratta della tematica che intendiamo RAPPRESENTARE e dell'organismo che stabilirà la quintessenza delle ragioni che DIFENDEREMO - parleremmo tutti con maggiore cognizione di causa.

Templares
03-03-05, 18:01
In Origine postato da Italianhawk83


Ovvio che concordo con te circa la necessità di informarci e di apprendere dal materiale che hai postato in commissione, D'altronde le commissioni di studio servono proprio a questo o no? Altrimenti sarebbe lavoro vano.
Il messaggio di Michele è sparito in 2 pagina, quindi non darà fastidio...... non credo valga la pena eliminarlo completamente.

Maria Vittoria
04-03-05, 11:50
In Origine postato da Italianhawk83


Spero di leggere articoli sulla situazione in Italia.
In particolare, vorrei poter confrontare le Vostre fonti, per capire la posizione dei conservatori italiani riguardo il geneticamente modificato, e la salvaguardia della produzione "O.G.M. free".

Templares
04-03-05, 12:52
In Origine postato da MariaVittoria C
Spero di leggere articoli sulla situazione in Italia.
In particolare, vorrei poter confrontare le Vostre fonti, per capire la posizione dei conservatori italiani riguardo il geneticamente modificato, e la salvaguardia della produzione "O.G.M. free".

MariaVittoria. Ti anticipo che addirittura a riguardo sarebbe dovuta nascere la VI Commissione di studio. Poi in sede di lavori preliminari abbiamo deciso di inserire l'argomento nella commissione di studio Economia e Finanza.
Il coordinatore della commissione ha però trascurato i lavori non prendendovi mai parte, così che è toccato a me e agli altri, assolutamente poco preparati in materia, preparare una relazione limitata semplicemente al liberismo che non tocca ahimè la questione dell'OGM. Probabilmente chiedo troppo, ma ti sarei grato se ci aiutassi nei lavori della Commissione Economia e Finanza, che ora vado a riesumare e in particolar modo sull'agricoltura(visto che ne hai le competenze tecniche). Ti invito inoltre a leggere la relazione sul liberismo opposto all'assistenzialismo parassitario.

Templares
04-03-05, 12:54
In Origine postato da Italianhawk83


Giorgio dovremmo ripostare gli approfondimenti sul conservatorismo in Italia, Arturo Michelini, Alfredo Mantovano e gli altri conservatori. Ci pensi tu?

Italianhawk83
04-03-05, 14:57
Ci penso io Salva, anche se non credo sia facile reperire materiale in rete. Tutto ciò che possiedo è su cartaceo: ci provo...

Templares
04-03-05, 15:00
In Origine postato da Italianhawk83
Ci penso io Salva, anche se non credo sia facile reperire materiale in rete. Tutto ciò che possiedo è su cartaceo: ci provo...

Ok. Grazie. Vado a studiare. Ciao

Maria Vittoria
04-03-05, 15:56
In Origine postato da templares
MariaVittoria ti sarei grato se ci aiutassi nei lavori della Commissione Economia e Finanza, che ora vado a riesumare e in particolar modo sull'agricoltura(visto che ne hai le competenze tecniche). Ti invito inoltre a leggere la relazione sul liberismo opposto all'assistenzialismo parassitario.

In Economia e Finanza sono debole; mi affido a chi è competente in materia.
Da molti anni studio il territorio, secondo la logica che relaziona geografia, storia e politica.
Un mio professore diStoria e Filosofia consigliava di evitare di studiare gli -ismi: meglio analizzare i sistemi teorici e confrontarli con l'esperienza pratica, per correggere gli errori e migliorare senza paraocchi.
Le aziende che spingono per diffondere l'uso di organismi geneticamente modificati usano l'argomento quantitativo: in poco tempo promettono un forte aumento nella produzione - a fronte di forti guadagni loro, che controllano le sementi -.
Le ricerche contrarie denunciano dati qualitativi alterati (pensate al caso dei mangimi per onnivori dati ad erbivori), e un'alterazione dell'ecosistema sottoposto a O.G.M.: alterazione permanente, dai microrganismi che vivono nel terreno, alla composizione chimica delle acque.
Da liberale difendo la proprietà privata, e chiarisco che la terra non è "di chi la lavora con le mani" , ma "di chi la lavora con le mani e con la mente, per mantenerla sana e utile nelle generazioni dei secoli".
Ho visto come una chiusura preconcetta agli aiuti porta spesso il liberale alla vendita della terra; ed ho constatato come l'ignoranza del bracciante porta spesso ad accettare soldi per eliminare colture tradizionali.
Per semplificare il carico lavorativo i prati pascolo (destinati a migliorare il terreno se usati a rotazione per l'allevamento di bovini e di equini), vengono lasciati ad ovini e caprini, che impoveriscono il terreno. Nel giro di poche generazioni un paesaggio agrario, umanizzato da millenni, si può ridurre ad un deserto.
Altro è un caso come quello della Calabria, dove accettarono di sradicare ulivi centenari, e di sostituirli con nuovi alberi, per semplificare la raccolta delle olive: il beneficio superò il danno.
Riguardo ipotesi avanzate negli anni '70 da gruppi ambientalisti, ormai sappiamo che lasciare rimboschire ed inselvatichire Alpi ed Appennini non è consigliabile: l'intero regime delle acque, della produzione vegetale e della fauna è, da noi, umanizzato da millenni. Diverso sarebbe considerare il problema delle foreste primarie, ad esempio in Canada...ma, torniamo a noi: il 4 febbraio 2005, in seguito ad un appello della Toscana e dell'Alta Austria, è nata la Carta delle Regioni Europee O.G.M.free.
20 Regioni hanno firmato, a Firenze, una comune volontà di testimoniare il diritto alla responsabilità locale: Toscana, Emilia Romagna,
Marche, Lazio, Sardegna, Provincia autonoma di Bolzano, Salisburgo, Oberosterreich, Schleswig Holstein, Burgenland, Steiermark, Aquitania, Limousin, Bretagna, Ile De France, Poitou-Clarentes, Euskadi (Spagna), Galles, Scozia, Drama-Kavala-Xanthi (Grecia).
Due le linee da perseguire:
- raccogliere dati scientifici per un'analisi ad ampio spettro degli impatti ambientali degli O.G.M. sull'ecosistema
- garantire la tracciabilità dei prodotti, per informare il consumatore sulla filiera
Se volete, posso informare, in questa sede, degli sviluppi di queste iniziative.
In sintesi: quanto l'America è allegra nelle sue dinamiche, tanto l'Europa deve essere prudente.
Per quanto riguarda l'essere conservatori, è indubbio che, in questo caso, noi europei stiamo cercando di conservare un patrimonio d'interesse davvero vitale!

india9001
04-03-05, 17:02
Signori, premettendo che mi sto stampando tutto il materiale INTERESSANTISSIMO e ke conto nella fine settimana di leggerlo, voglio dire che però sono assolutamente contrario a come si stanno conducendo i lavori qui.

Giorgio, parlo con te:
gli articoli e i report sono di indiscutibile valore culturale ma così facendo non si fa altro ke allontanare la gente da noi... Nn si può postare tutto il "postabile" perché tanto sono letture "di nicchia", letture che non servono alla costituzione del nostro piano politico. Queste possono e devono essere proposte a noi e a tutti coloro che ne sono interessanti in separata sede, in un "salotto virtuale" di disquisizione.

Non voglio essere antipatico o offensivo, riconosco a pieno il tuo grande background ma così non si può andare avanti.

Bisogna fare un lavoro ORGANICO, RAGIONATO, di DIBATTITO, proponendo tesi e riflessioni dei "Grandi" ma senza inserire trattati che alla fine fanno solo perdere in un bicchier d'acqua.

Cerchiamo di essere più concisi ragazzi dai! Sennò cambiamo nome alla commissione e si scrive BIBLIOTECA CONSERVATRICE

Ok? Dai falchi su... nn facciamo i "pseudointellettuali di sinistra" ;)

Templares
04-03-05, 17:34
In Origine postato da MariaVittoria C
In Economia e Finanza sono debole; mi affido a chi è competente in materia.
Da molti anni studio il territorio, secondo la logica che relaziona geografia, storia e politica.
Un mio professore diStoria e Filosofia consigliava di evitare di studiare gli -ismi: meglio analizzare i sistemi teorici e confrontarli con l'esperienza pratica, per correggere gli errori e migliorare senza paraocchi.
Le aziende che spingono per diffondere l'uso di organismi geneticamente modificati usano l'argomento quantitativo: in poco tempo promettono un forte aumento nella produzione - a fronte di forti guadagni loro, che controllano le sementi -.
Le ricerche contrarie denunciano dati qualitativi alterati (pensate al caso dei mangimi per onnivori dati ad erbivori), e un'alterazione dell'ecosistema sottoposto a O.G.M.: alterazione permanente, dai microrganismi che vivono nel terreno, alla composizione chimica delle acque.
Da liberale difendo la proprietà privata, e chiarisco che la terra non è "di chi la lavora con le mani" , ma "di chi la lavora con le mani e con la mente, per mantenerla sana e utile nelle generazioni dei secoli".
Ho visto come una chiusura preconcetta agli aiuti porta spesso il liberale alla vendita della terra; ed ho constatato come l'ignoranza del bracciante porta spesso ad accettare soldi per eliminare colture tradizionali.
Per semplificare il carico lavorativo i prati pascolo (destinati a migliorare il terreno se usati a rotazione per l'allevamento di bovini e di equini), vengono lasciati ad ovini e caprini, che impoveriscono il terreno. Nel giro di poche generazioni un paesaggio agrario, umanizzato da millenni, si può ridurre ad un deserto.
Altro è un caso come quello della Calabria, dove accettarono di sradicare ulivi centenari, e di sostituirli con nuovi alberi, per semplificare la raccolta delle olive: il beneficio superò il danno.
Riguardo ipotesi avanzate negli anni '70 da gruppi ambientalisti, ormai sappiamo che lasciare rimboschire ed inselvatichire Alpi ed Appennini non è consigliabile: l'intero regime delle acque, della produzione vegetale e della fauna è, da noi, umanizzato da millenni. Diverso sarebbe considerare il problema delle foreste primarie, ad esempio in Canada...ma, torniamo a noi: il 4 febbraio 2005, in seguito ad un appello della Toscana e dell'Alta Austria, è nata la Carta delle Regioni Europee O.G.M.free.
20 Regioni hanno firmato, a Firenze, una comune volontà di testimoniare il diritto alla responsabilità locale: Toscana, Emilia Romagna,
Marche, Lazio, Sardegna, Provincia autonoma di Bolzano, Salisburgo, Oberosterreich, Schleswig Holstein, Burgenland, Steiermark, Aquitania, Limousin, Bretagna, Ile De France, Poitou-Clarentes, Euskadi (Spagna), Galles, Scozia, Drama-Kavala-Xanthi (Grecia).
Due le linee da perseguire:
- raccogliere dati scientifici per un'analisi ad ampio spettro degli impatti ambientali degli O.G.M. sull'ecosistema
- garantire la tracciabilità dei prodotti, per informare il consumatore sulla filiera
Se volete, posso informare, in questa sede, degli sviluppi di queste iniziative.
In sintesi: quanto l'America è allegra nelle sue dinamiche, tanto l'Europa deve essere prudente.
Per quanto riguarda l'essere conservatori, è indubbio che, in questo caso, noi europei stiamo cercando di conservare un patrimonio d'interesse davvero vitale!

Il contributo che puoi darci sulla materia agricola è rilevantissimo. Non ti nascondo la mia ignoranza a riguardo. Ne so praticamente pochissimo, e ascoltarti non può che aiutarci a capire.

Ti prego di aderire ai ConservatoridiPol, riservandoti anche il diritto di aderirvi quale indipendente.
Di sicuro condividiamo i valori dell'antifascismo e dell'anticomunismo, dell'amicizia verso il popolo israeliano, della difesa dei valori tradizionali cattolici e occidentali. Credo sia già un ottimo punto di partenza.

Le diversità non mi preoccupano. Di sicuro non saremo sempre daccordo, ma vale la pena rischiare. Che ne dici?

Maria Vittoria
04-03-05, 17:45
In Origine postato da templares
Il contributo che puoi darci sulla materia agricola è rilevantissimo. Non ti nascondo la mia ignoranza a riguardo. Ne so praticamente pochissimo, e ascoltarti non può che aiutarci a capire.

Ti prego di aderire ai ConservatoridiPol, riservandoti anche il diritto di aderirvi quale indipendente.
Di sicuro condividiamo i valori dell'antifascismo e dell'anticomunismo, dell'amicizia verso il popolo israeliano, della difesa dei valori tradizionali cattolici e occidentali. Credo sia già un ottimo punto di partenza.

Le diversità non mi preoccupano. Di sicuro non saremo sempre daccordo, ma vale la pena rischiare. Che ne dici?

Grazie! sono molto contenta di partecipare. Come in altri casi, da indipendente democristiana; ovvero da esule, che ormai da oltre dieci anni sta attraversando un deserto.
In Europa, il Vostro punto di riferimento è il PPE?

Templares
04-03-05, 17:49
In Origine postato da MariaVittoria C
Grazie! sono molto contenta di partecipare. Come in altri casi, da indipendente democristiana; ovvero da esule, che ormai da oltre dieci anni sta attraversando un deserto.
In Europa, il Vostro punto di riferimento è il PPE?


Si il nostro punto di riferimento è il P.P.E anche se vorremmo dargli un taglio decisamente più conservatore.
Benvenuta nei Conservatori di Politica-Online e nel nascituro nostro movimento di pensiero.
Grazie dell'adesione e buon lavoro. Ti aggiungo sulla lista dei Conservatori di Politica-Online.

Maria Vittoria
04-03-05, 17:58
In Origine postato da templares
Si il nostro punto di riferimento è il P.P.E anche se vorremmo dargli un taglio decisamente più conservatore.
Benvenuta nei Conservatori di Politica-Online e nel nascituro nostro movimento di pensiero.
Grazie dell'adesione e buon lavoro. Ti aggiungo sulla lista dei Conservatori di Politica-Online.

Potremmo concentrare l'attenzione sulle priorità indicate dal PPE al 2009, se avete i documenti in formato idoneo.
Io ho, in PDF, il documento preparato per i 50 anni (1953-2003), ma non mi sembra il caso di tediare con tanto materiale da album di famiglia...

Italianhawk83
04-03-05, 17:58
Ragazzi,
copio e incollo una risposta data ad Emanuele riguardante un mex sui neocon.

La pubblico all'interno della commissione perchè credo aiuti a definire meglio la nostra reale identità (CONSERVATRICE e non già neocon).

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Potrebbe sembrare Ema e non a caso utilizzo il condizionale perchè i neocon non mi rappresentano affatto o - meglio - ricalcano una risibile porzione del mio patrimonio ideale.

Vorrei poter parlare a nome dell'intero movimento di cui facciamo parte giacchè esso deve far riferimento all'INTERO panorama conservatore americano e non già ad un - seppur importante, ma ricordiamolo, MINORITARIO - frammento.

E' superfluo sottolinearlo, i neocon sono di gran moda grazie al "battage" pubblicitario di Ferrara e soci; ma veramente abbiamo dimenticato Kirk per cianciare solo di Kristol and C.? E' come se ci ricordassimo solo dei nipotini - per di più di estrazione del tutto "eterodossa" (vedi le loro origini marxiste e filosovietiche) - per accoltellare a colpi di ingiustificabile dimenticanza il "Grande Padre" del conservatorismo americano: Russell Amos Kirk appunto.

L'aver gettato le basi fondanti del movimento, evocando quell'afflato spirituale che gli States mutuano dalla lezione storica di Atene, Roma e Gerusalemme, ne fa il nostro indiscusso punto di riferimento. Altro che "esportazione della democrazia" a suon di bombe sempre ed ovunque: l'approccio IDEOLOGICO neocon scalda il mio cuore assai meno del lucido REALISMO e della profondità speculativa del grande pensatore di Plymouth.

Italianhawk83
04-03-05, 18:10
Brava Maria Vittoria: i doc da "cerimonia autoreferenziale" non ci servono affatto.

Cerchiamo di non uscire fuori dal seminato pubblicando post contenenti messaggi "ufficiali" (tediosamente POLITICALLY CORRECT e soprattutto privi dei CONCRETI apporti politico-culturali di cui abbiamo bisogno) provenienti da segreterie partirtiche e affini. In soldoni, niente mex di AN, Forza Italia, UDC, PPE...

Le linee direttive della commisione le ho già esposte nell'omonimo post.

Saluti

Maria Vittoria
04-03-05, 19:02
In Origine postato da Italianhawk83
Brava Maria Vittoria: i doc da "cerimonia autoreferenziale" non ci servono affatto.

Cerchiamo di non uscire fuori dal seminato pubblicando post contenenti messaggi "ufficiali" (tediosamente POLITICALLY CORRECT e soprattutto privi dei CONCRETI apporti politico-culturali di cui abbiamo bisogno) provenienti da segreterie partirtiche e affini. In soldoni, niente mex di AN, Forza Italia, UDC, PPE...

Saluti

A proposito di apporti concreti: ho scritto al Presidente George Bush il consiglio di chiedere a Condoleeza Rice di approfittare del ritorno in America, dopo il viaggio in Europa, per correggere il suo nome in Condolcezza.
Come certo sapete, lo strano nome che usa è stato un errore di registrazione.
Quello della Rice sarebbe un gesto culturalmente corretto e, credo, molto apprezzato da noi italiani.

Templares
05-03-05, 11:35
In Origine postato da MariaVittoria C
A proposito di apporti concreti: ho scritto al Presidente George Bush il consiglio di chiedere a Condoleeza Rice di approfittare del ritorno in America, dopo il viaggio in Europa, per correggere il suo nome in Condolcezza.
Come certo sapete, lo strano nome che usa è stato un errore di registrazione.
Quello della Rice sarebbe un gesto culturalmente corretto e, credo, molto apprezzato da noi italiani.

Infatti me lo ero sempre chiesto dove aveva preso quello strano nome.
P.S. Tu hai scritto a Bush?

Italianhawk83
06-03-05, 16:15
Rinascimento conservatore
di Marco Respinti

Barry Goldwater è morto venerdì 29 maggio 1998 all’età di ottantanove anni.

I giornali hanno bruciato la notizia in una manciata di righe e sono passati ad altro. Nei quotidiani è così: oggi ci sei, domani no e dopodomani anche la notizia della tua dipartita è un pezzo da museo che non interessa davvero più a nessuno. A Goldwater hanno però dedicato qualche considerazione maggiore due noti "americanologi: Vittorio Zucconi e Alberto Pasolini Zanelli, che scrivono da versanti culturali piuttosto distanti, se non altro per gli orientamenti delle testate che ne ospitano corsivi e contributi. Entrambi corrispondono da Washington, capitale di ciò che molti di quanti si sono riconosciuti nel leader politico nordamericano scomparso chiamano "Leviatano federale".

Barry Morris Goldwater, figlio di ebrei russi emigrati, nacque invece a Phoenix capitale della "remota" e bruciata Arizona nel 1909, dunque tre anni prima che questa entrasse a far parte dell’Unione nordamericana, e fu "il padre della Destra statunitense" solo se si procede per slogan e se si sacrifica anche il più piccolo criterio di approfondimento — quello per esempio consentito dagli spazi di un quotidiano — sull’altare della gergalità.

La Destra conservatrice statunitense è un fenomeno culturale in sé molto più ampio, profondo e antico della figura — con tutto il rispetto dovutole — del senatore Goldwater. In questo secolo "rinasce" tra fine anni Quaranta e inizio anni Cinquanta, dopo una lunga stagione di disorientamento ricostruibile per nodi salienti: remotamente la ferita della Guerra Civile (1861-1865); poi la nascita, in America Settentrionale, di una struttura partitica più simile (benché mai del tutto uguale) a quella a forte base ideologica tipica del Vecchio Continente di ascendenza illuministico-giacobina e radical-libertina (se il primo di questi due riferimenti guarda alla Francia moderna, il secondo punta all’Inghilterra e alla Gran Bretagna del Sei-Settecento); l’avvento di un sempre più marcato bipartitismo, a cui corre parallela la profonda trasformazione interna al Partito Democratico e a quello Repubblicano (grosso modo il primo iniziò come "destra" finendo per diventare "sinistra", e viceversa); quindi i colpi decisivi portati a quanto rimaneva del Vecchio Sud e al Mid-West, figli di una cultura non metropolitana, non "yankee" e meno filosoficamente modernizzante; infine i forti traumi causati alla nazione dalle presidenze dei Democratici Woodrow Wilson (1912-1920) e Franklin Delano Roosevelt (1932-1945), nonché dalla rivoluzione pedagogica d’inizio secolo condotta da John Dewey e dall’attivismo giudiziario di Earl Warren, presidente della Corte Suprema dal 1953 al 1969.

Nel "rinascimento" della Destra nordamericana — la riscoperta di un’identità nazionale in atto, non la formulazione di un costrutto ideologico aprioristico —, Goldwater s’impone come referente politico di un vasto fenomeno culturale.

Fra leader, partito e popolo, la Destra conservatrice statunitense ha sempre vissuto un rapporto difficile con chi, in occasione delle diverse tornate elettorali, le si è proposto nei panni di suo alfiere o paladino, soprattutto quando e dove la struttura ideologica tipica del "partito moderno" ha iniziato a svolgere un ruolo preponderante in queste dinamiche.

Nel 1992, rispondendo a una domanda del sottoscritto, lo storico delle idee Russell Kirk individuava nel popolo che li ha appoggiati, indicati, a volte eletti, quasi sempre votati, il denominatore comune fra Robert A. Taft, Barry M. Goldwater, Ronald W. Reagan e Patrick J. Buchanan, nel bene e nel male referenti politici eminenti del mondo conservatore. I Taft, i Goldwater, i Reagan e i Buchanan passano e vanno, lasciando impronte durevoli solo se sanno interpretare l’ethos della nazione che li precede logicamente e ontologicamente, e quando colmano (pur mantenendo tutte le opportune e fondamentali differenze) lo iato fra politica e cultura altrimenti riempito con i palliativi del riduzionismo pragmatistico.

Goldwater è incomprensibile senza la grande cornice del variegato network conservatore che ne spinge e ne motiva, mutatis mutandis, l’azione: con lui il conservatorismo raggiunge il palco principale della scena politica statunitense e — ancor più che non con Taft in passato — la profonda elaborazione culturale della Destra si connette a un front-man efficace e combattivo, mentre al Partito Repubblicano viene impressa quella forte virata verso destra che sta ancora oggi alla base dell’idea (errata) del Grand Old Party come casa comune tout court di tutti i conservatori.

Del senatore scomparso si ricorda soprattutto il volumetto The Conscience of a Conservative, pubblicato nel 1960 e nell’agosto 1964, alla vigilia delle elezioni presidenziali che vedranno la sua sconfitta a opera di Lyndon B. Johnson, già ristampato 22 volte per un totale di tre milioni e mezzo di copie (trad. it. Il vero Conservatore, Le Edizioni del Borghese, Milano 1962).

A questo proposito vale la pena di ricordare che quel famoso libro-programma venne in realtà scritto da L. Brent Bozell (scomparso nel 1997), a cui è opportuno dedicare qualche riga in memoriam. Cattolico tradizionalista, "carlista", una delle prime persone a dimostrare pubblicamente e rumorosamente contro l’aborto statunitense nel 1970, Bozell fondò nel 1966 il mensile Triumph come roccia inamovibile nel mezzo della tempesta del progressismo postconciliare.

Goldwater verrà affiancato anche da altri collaboratori altamente significativi. L’analista e filosofo della politica voegeliniano Gerhart Niemeyer, anch’egli scomparso nel 1997, si staglia per esempio dietro alle pagine di Why Non Victory?, un volume che nel 1962 auspicava la sconfitta completa dell’Unione Sovietica rispondendo ai liberal che invece flirtavano con l’ "Impero del Male". Nel 1964, quando la candidatura alla nomination Repubblicana di Goldwater venne lanciata dalla National Review di William F. Buckley Jr., il primo tentativo della Destra conservatrice del dopoguerra per conquistare la Casa Bianca poté contare sull’appoggio eminente di Kirk (che per il senatore dell’Arizona scrisse alcuni discorsi) Frank S. Meyer, William Rusher, Ayn Rand, Milton Friedman, gli stessi Buckley, Bozell e Niemeyer, nonché Harry Jaffa. Goldwater rappresentò cioè il candidato politico del polo costituito dalle varie anime del conservatorismo culturale statunitense, nonostante le differenze e a volte la vera e propria impossibilità di reductio ad unum di quel mondo: Kirk e la Rand, Friedman e Bozell rappresentano coppie come lo zenit e il nadir, ma in quel momento nessuno fu tanto sciocco da farsi cogliere da raptus di snobismo, né i libertarian da una parte né i tradizionalisti (cattolici e "integralisti" come il fondatore di Triumph) dall’altra. A differenza di Taft, sostiene lo storico George H. Nash, Goldwater era un politico che non disdegnava ammiccare anche alla filosofia.

Il sostegno a Goldwater divenne un punto distintivo della YAF, Young Americans for Freedom, una delle prime organizzazioni di quella che sarebbe divenuta la selva di fondazioni e d’istituti in cui si è sviluppata la Destra nordamericana negli anni successivi. Fu formata nel 1960 nell’abitazione newyorchese di Buckley per favorire l’educazione politico-culturale dei giovani e dalle sue fila, così come dal Draft Goldwater (il movimento che appoggiò l’impegno politico del senatore dell’Arizona), sono passati un po’ tutti i futuri leader della Destra statunitense. Eppure nel 1964 a Goldwater — scelto allora come candidato presidenziale Repubblicano invece del progressista Nelson A. Rockefeller, il quale più tardi otterrà da Gerald R. Ford la vicepresidenza e dagli ambienti reaganiani l’astio — un’America immatura preferì Johnson, faccendiere grigio e liberal del Partito Democratico. Ma, osserva sempre Nash, "movimento intellettuale e politico, il conservatorismo non raggiunse l’apice con Goldwater, né morì dopo di lui". Nel 1996, alla vigilia dello scontro presidenziale fra Bill Clinton e Robert Dole, Lee Edwards uno dei più significativi leader della YAF, oggi uomo di punta di The Heritage Foundation (il noto think tank di Washington) e del mensile The World & I, illustrando il suo voluminoso Goldwater: The Man Who Made A Revolution, uscito nel 1995, mi ha detto: "Il Goldwater di oggi è Dole". Con tutta la stima (assolutamente non manieristica) che provo per Edwards, il senatore dell’Arizona non merita un paragone simile; oppure è davvero questa la chiave per comprendere l’involuzione di un certo settore della Destra statunitense avvenuto negli ultimi decenni ed emblematicamente rappresentato dalla senescenza dello stesso Goldwater, anziano nel fisico e decrepito culturalmente. La stampa ne ha ricordato lo spostamento a sinistra degli ultimi anni, soprattutto su questioni di principio come quelle dell’aborto e dello stile di vita omosessuale. Buchanan, nato politicamente nel Draft Goldwater Movement, ha introdotto una nuova edizione di The Conscience of a Conservative, uscita nel 1990, rivendicando l’eredità migliore del senatore oggi scomparso. E questi ne ha prontamente criticato le campagne elettorali del 1992 e del 1996, che proprio l’essenza del conservatorismo goldwateriano degli anni Sessanta hanno incarnato e riproposto.

L’intero movimento conservatore nordamericano deve insomma ancora esprimere il meglio di sé, rispondendo a quelle domande che hanno sempre interessato, a volte angustiato, poi alienato dal "movimento" una figura (anche emblematica) come quella di L. Brent Bozell, "anima" di Goldwater: la natura davvero conservatrice degli Stati Uniti d’America, il posto della sua esperienza storica nello sviluppo della Cristianità occidentale e il rifiuto della Modernità filosofico-politica iniziata con il 1789 illuministico-giacobino. Non essendo il conservatorismo un’ideologia figlia dell’epoca del relativismo e della secolarizzazione, ma una visione del mondo che si oppone al 1789 e che si richiama, venendone vitalizzata, alle "realtà permanenti", esso si pone come fenomeno "antimoderno" per eccellenza. Al contempo, essendo una tradizione — un cammino —, è un progredire verso una meta. Il meglio di Barry M. Goldwater, le cui nudità scabrose vanno coperte imitando il gesto pietoso dei figli di Noè, deve ancora venire.
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Da "Il Secolo d'Italia"

Italianhawk83
06-03-05, 16:17
La Destra statunitense e la formazione dei quadri dirigenti
di Marco Respinti


Il "Ranch del Cielo", 688 acri sulle montagne californiane di Santa Ynez, è stato per 25 anni proprietà dei coniugi Reagan. Ma l'ex presidente degli Stati Uniti d'America, colpito dal morbo di Alzheimer che ne divora la memoria, non lo utilizza più e così la moglie Nancy ha deciso di vendere alla Young America's Foundation (YAF).

Incaricati della transazione sono i coniugi Short: Marc e Kristen, rispettivamente direttore esecutivo e direttrice dei programmi di conferenze della Fondazione.

Ho conosciuto Marc Short nel 1992 a Washington; grazie a lui ho incontrato Edwin Messe III, già ministro della giustizia di Reagan, e Jack Kemp, ministro all’urbanistica e poi, nel 1996, candidato alla vicepresidenza a fianco di Robert Dole. A quel tempo Marc era affiancato dalla secondogenita dello storico delle idee Russell Kirk, Cecilia, direttrice dei programmi culturali della YAF: assieme organizzavano le summer school, corsi intensivi che per una settimana offrono a selezionati studenti di liceo e di college lezioni di storia, economia, letteratura e storia del pensiero occidentale in collaborazione con i più noti (e spesso migliori) esponenti della cultura conservatrice statunitense. Marc si occupava allora della supervisione dei corsi, della selezione dei libri che la Fondazione offre a prezzi fortemente scontati (testi di Donald Devine, Barry M. Goldwater, Russell Kirk, Edwin Meese, Henry Regnery, Aleksandr Solzenicyn, Wilcomb E. Washburn e altri), nonché della delicata e fondamentale opera di connessione fra ragazzi e insegnanti. Curava, insomma, un settore rilevante di quell’ "investimento culturale" su cui puntano le numerose fondazioni conservatrici statunitensi per costruire i futuri dirigenti culturali, professionali, amministrativi e politici della nazione.

Fondata nel 1969, la Young America's Foundation ha costruito negli anni una fitta rete di programmi educativi, di conferenze e di pubblicazioni che raggiungono oggi studenti e docenti di più di 1.500 fra scuole secondarie, college e università statunitensi. Con l'ex presidente Reagan, la YAF ha instaurato un rapporto di amicizia che data dall'inizio degli anni Settanta. Nel 1974 e nel 1975, ne ha per esempio sponsorizzato le trasmissioni radiofoniche che, diffuse a livello nazionale, hanno fatto conoscere in tutto il paese l'allora emergente leader della Destra Repubblicana, il quale, una volta divenuto presidente, ha mantenuto il contatto diretto con i giovani delle summer school ricevendoli regolarmente alla Casa Bianca.

A Herndon, in Virginia, a due passi dalla capitale federale, la YAF è presieduta da Ron Robinson, colui che ha definito Reagan il più grande presidente della storia nordamericana giacché fronteggiatore (e poi co-vincitore) del socialcomunismo, la più grande minaccia ideocratica (politica e spirituale) della storia. Fra i garanti della Fondazione vi sono nomi come Frank Donatelli, già direttore politico alla Casa Bianca durante la presidenza Reagan; Alfred S. Regnery, erede del grande editore-scrittore scomparso nel 1996; e T. Kenneth Cribb Jr., già primo consigliere di Reagan per gli affari domestici e oggi presidente dell’Intercollegiate Studies Institute, nonché membro del comitato d’indirizzo del mensile Percorsi di politica, cultura, economia fondato e diretto a Roma dall’On. Gennar Malgieri.

La YAF pubblica inoltre Continuity: A Journal of History, un semestrale di studi storici bello e sapido che, già diretto da Paul E. Gottfried e oggi affidato a Burton W. Folsom Jr., ha ospitato firme prestigiose come quelle di Melvin E. Bradford, Thomas J. Fleming, Samuel T. Francis, Robert A. Herrera, Russell Kirk, John Lukacs, Forrest McDonald, Thomas Molnar, Goerge H. Nash, Edward S. Shapiro, Stephen J. Tonsor, Grady McWhiney, Alexandra Wilhelmsen e Clyde N. Wilson.

Marc e Kristen Short saranno dunque i nuovi custodi del "Ranch del Cielo" nonché i supervisori del "Ronald Reagan Leadership Development Program", la scuola permanente di formazione politico-culturale che la YAF affiderà ad amministratori e a docenti di primo piano guidati da Frank Donatelli, presidente del progetto.

Da tempo molti conservatori si domandano con insistenza se non sia oramai giunta l'ora di abbandonare definitivamente il Partito Repubblicano per dar vita a una nuova formazione politica autenticamente di destra. La Young America’s Foundation, legata a doppio filo con i Repubblicani reaganiani, offre oggi una risposta — opinabile come lecitamente lo sono tutte le scelte di questo tipo. Indiscutibili sono però i princìpi.

Nel 1992, la YAF ha sponsorizzato (e offerto agli studenti a prezzo ridotto) la nuova edizione di The Roots of American Order che Russell Kirk pubblicò nel 1974 e che Regnery ristampò con un epilogo dell'ex ambasciatore statunitense in Vaticano Frank J. Shakespeare Jr. Lo stesso era avvenuto nel 1990 (sempre in accordo con l’editore Regnery) per The Conscience of a Conservative di Barry M. Goldwater, testo in realtà scritto dal cattolico tradizionalista L. Brent Bozell e pubblicato originariamente nel 1960, a cui Patrick J. Buchanan apponeva per l'occasione una nuova introduzione. A Milano — in occasione di una conferenza organizzata dall’Osservatorio Parlamentare —, il Presidente della Commissione Giustizia del Congresso nordamericano, il Repubblicano Henry Hyde il cui nome è legato all’unico provvedimento legislativo che negli Stati Uniti abbia ristretto la liceità dell’aborto, mi ha detto di considerare The Roots of American Order come il libro conservatore più importante; e in termini analoghi si è espresso più volte lo stesso Ronald Reagan, che considera The Conservative Mind e The Roots of American Order di Kirk come testi fondamentali destinati ad avere profonda e duratura influenza anche in futuro. In quei volumi viene descritta l'anima del conservatorismo tradizionalista statunitense che, riconnettendosi direttamente alla classicità e alla cultura medioevale, descrive un modo diverso — non progressista e religioso — di abitare l'evo moderno: il progetto politico-culturale della YAF punta davvero in alto.

Da "Il Secolo d'Italia"

Italianhawk83
06-03-05, 16:19
Perché non possiamo non dirci kirkiani
Vita, opere e filosofia di un “buon americano” (e occidentale)
di Marco Respinti

Nel 1965, Caspar von Schrenck-Notzing, oggi vero e proprio decano del conservatorismo tradizionalista tedesco, denunciava l’assassinio psichico e spirituale della Germania perpetrato con ampi margini di successo a partire dall’indomani immediato della seconda guerra mondiale da parte delle forze comuniste da un lato, delle forze liberal-progressiste statunitensi dall’altro (1). Una critica circostanziata e serrata, che si scagliava senza mezzi termini contro l’«americanizzazione» dell’Europa occidentale partendo appunto dalla Germania, il Paese che, per ovvi motivi, subiva per primo e più fortemente l’impatto dei vincitori, ma dilatandosi e approfondendosi fino a divenire una vera e propria denuncia dell’«imperialismo» statunitense che rispondeva, imitandolo in maniera speculare, alla corsa egemonica dell’Unione Sovietica sull’Europa orientale. Una finis Europae, dunque, che discendeva direttamente da quella «logica di Jalta» con cui le superpotenze poi vincitrici del secondo conflitto mondiale cancellavano, insieme al nazionalsocialismo, sua devianza, anche il corpo sano del Vecchio continente. Gli è però, che Von Schrenck-Notzing non corrispondeva affatto allora, né men che meno corrisponde oggi, al tipo umano dell’antiamericano, cantore di una vaga - mai precisata e quindi moralisticamente retorica - superiorità del modello europeo rispetto agli Stati Uniti esecrati e condannati quali origine di ogni male occidentale. Il pensatore tedesco, infatti, faceva allora così come fa oggi lega con quella forze culturali statunitensi che rappresentano il meglio del conservatorismo nordamericano e che sono esattamente l’antitesi degli avversari omologatori denunciati nel suo saggio del 1965. Accanto e assieme ai conservatori statunitensi, il grande conservatore tedesco identifica infatti in una comune matrice giacobina i molti nemici dell’Occidente - Europa e America assieme - storicamente incarnatisi nel nazionalsocialismo, nel socialcomunismo e nel liberal-progressismo. Fra gli «amici americani» in primis figura Russell Kirk, il «padre» del conservatorismo nordamericano del secondo Novecento. Il 2003 segna i cinquant’anni dalla pubblicazione del suo testo più importante e il 2004 ne marcherà il decennale dalla morte.

Contro il neogiacobinismo
Esulerebbe certo dal presente ambito entrare nel dettaglio di una ricerca storica e di una definizione teoretica del liberalismo, ma un (umile) rilievo d’intento esplicativo è a questo proposito opportuno, avendo poco sopra adoperato l’espressione «liberal-progressisimo» in senso critico negativo. Il liberalismo, infatti, patisce almeno la distinzione tra «liberalismo classico anglosassone» e liberalismo di marca (cioè di origine e di sostanza) illuministico-giacobina, il primo descrivente più una condizione della realtà politica, il secondo un regime intellettuale di natura razionalistica e costruttivista, che spesso sfocia - si pensi ai filosofi Jeremy Bentham (1748-1832) e John Stuart Mill (1806-1873) (2) - nel socialismo e che quindi si sostanzia in «liberalismo progressista». In lingua inglese, infatti, il termine liberal è venuto assumendo fra Ottocento e Novecento esattamente queste caratteristiche progressiste, così che il Liberalism è divenuto il grande antagonista, e addirittura il nemico, del Conservatism, il quale ha invece più di un punto in comune con il Libertarianism inteso come «liberalismo coerente». È del tutto evidente, infatti, che un autore come Caspar von Schrenck-Notzing utilizza l’espressione «liberalismo» in relazione agli Stati Uniti d’America nel senso illuministico e talora giacobino che questo termine assume in concomitanza della stagioni politiche segnate dai presidenti democratici Thomas Woodrow Wilson e Franklin Delano Roosevelt, ovvero regimi costruttivisti e utopistici, che da un lato hanno operato profonde modificazioni di politica interna in deciso contrasto rispetto all’Original Intent dei Padri fondatori della «democrazia che prega», e che dall’altro, in politica estera, hanno trasformato gli Usa in una «potenza progressista rivoluzionaria» a livello mondiale, di cui è peraltro difficile individuare un precedente storico se non la Francia degli anni Novanta del Settecento in piena bufera giacobina (3). Ora, contro questi Stati Uniti, Stati Uniti deviati rispetto allo «Spirito del 1776», descritto come essenzialmente conservatore delle tradizioni classiche e cristiane europee, in nome degli Stati Uniti veri d’ispirazione grand’europea (4), a partire dagli anni Cinquanta del Novecento è (ri)sorto un movimento di pensiero che, dapprima patrimonio esclusivo di un piccolo ma pugnace nucleo d’intellettuali, ha saputo nel corso degli anni trasformarsi in movimento di opinione, in rete di organizzazioni giovanili e senior, in periodici e in case editrici, quindi in fondazioni e in think tank, infine addirittura in opzioni politiche concrete. Sarebbe ingenuo immaginare che tutto questo sia potuto nascere e crescere dalla mente e dalla penna di un uomo solo, ma è altrettanto vero che senza la pubblicazione, nel 1953, di The Conservative Mind: From Burke to Santayana di Russell Kirk (5) il secondo Novecento statunitense sarebbe stato decisamente diverso (6).

Un americano normale
Russell Amos Kirk nasce a Plymouth, nello Stato del Michigan, nel Settentrione degli Stati Uniti d’America, il 19 ottobre 1918, da una famiglia di origini puritane i cui antenati provenivano dalla Scozia. Privo in gioventù di una religiosità cosciente e positiva, nell’ambiente familiare viene educato a una moralità naturale tipica della provincia nordamericana. Dal 1936 al 1940 frequenta il Michigan State College of Agriculture and Applied Science di East Lansing, diplomandosi in Storia. Dal 1940 al 1941 studia alla Duke University, di Durham, nel North Carolina, conseguendo il titolo di master of Arts sempre in Storia. La tesi, dedicata allo «statista-piantatore» virginiano John Randolph (1773-1833), viene pubblicata nel 1951 con il titolo Randolph of Roanoke: A Study in Conservative Thought: è la prima opera di Kirk. Nel dicembre 1941 entra nell’esercito e presta servizio militare fino al 1945. Nella desolazione del deserto di sale dello Stato dello Utah, dove viene dislocato, si dedica allo studio della filosofia stoica classica. A partire da questa esperienza Kirk affina la propria sensibilità conservatrice, conquistando un concetto di libertà inteso soprattutto in senso morale, come trionfo sulle passioni disordinate. Così anche per i concetti di ordine e di autorità, ora visti come condizione dell’autentica libertà personale. Lo studioso si dedica quindi all’attività della ricerca e della produzione culturali - si definisce un «uomo di lettere» indipendente - divenendo presto uno degli autori più influenti e rispettati della cultura antiprogressista nordamericana. Dopo una disputa con i colleghi sugli standard accademici, lascia l’incarico di assistente alla cattedra di storia della Civiltà al Michigan State College, ricoperto dal 1946 al 1953. Dal 1948 al 1952 compie gli studi per il dottorato in Lettere presso l’antica università scozzese di St. Andrews, oggetto nel 1954 di un’opera omonima. Pubblicata in versione rielaborata nel 1953, la tesi, The Conservative Mind: From Burke to Santayana - poi From Burke to Eliot - diviene un classico imprenscindibile della cultura conservatrice angloamericana. Nel villaggio dei taglialegna di Mecosta, fondato da un suo avo nel Michigan centrale, Kirk abita la casa dei bisnonni e trasforma un vecchio edificio in una biblioteca ricchissima: Piety Hill diviene così meta di studenti e di studiosi, nonché sede di seminari residenziali organizzati con l’Isi, l’Intercollegiate Studies Institute di Bryn Mawr in Pennsylvania, oggi nella nuova sede di Wilmington nel Delaware, con la Marguerite Wilbur Eyer Foundation della California e con l’American Council on Economics and Society del Michigan. Oggi Piety Hill è la sede di The Russell Kirk Center for Cultural Renewal, presieduto dalla vedova Annette Y. Kirk, che lo dirige assieme al genero, Jeffrey O. Nelson, vicedirettore dell’Isi. Rifuggendo il mondo caotico delle grandi città industriali per «tornare alle radici» - familiari e culturali - lo studioso costruisce dunque una comunità umana stabile il cui perno è la sua famiglia: nel 1964 sposa Annette Yvonne Cecile Courtemanche - newyorkese, attiva nel mondo cattolico e conservatore della costa orientale, che nel 1981 viene nominata alla National Commission on Excellence in Education dal presidente Ronald Wilson Reagan - dalla quale ha quattro figlie. Conoscenti, spiriti magni del conservatorismo angloamericano ed europeo, visitatori europei o profughi di diversi Paesi - dal Vietnam all’Etiopia dei regimi socialcomunisti - e pure un vagabondo amante della poesia, Clinton Wallace, trovano ospitalità presso i Kirk, spesso per anni. Il 1964 è anche l’anno del battesimo e dell’ingresso del pensatore statunitense nella Chiesa cattolica. Sempre estraneo a tematiche professioni di ateismo, anche se in alcuni suoi scritti giovanili la difesa del patrimonio culturale e spirituale dell’Occidente si alterna ad alcune - evidentemente contraddittorie - critiche al cristianesimo, lo studioso si emancipa progressivamente da questa confusione attraverso lo studio, ma soprattutto la frequentazione di alcune persone e personalità che ne influenzano la ricerca spirituale, fino a determinarne la conversione.

La forma mentis del conservatorismo
Nel panorama affatto monolitico del conservatorismo statunitense - più un network che una «scuola» -, Kirk diviene dunque uno degli interpreti più coscienti, seri e fecondi del filone definito «tradizionalista» e fra i «tradizionalisti» pone enfasi particolare sul pensiero di Edmund Burke (1729-1797), primo critico della «Rivoluzione di Francia», fondatore del conservatorismo anglosassone, nonché difensore del concetto di «libertà ordinata», della cristianità e del diritto naturale secondo la concezione classica e cristiana (7). In The Conservative Mind Kirk descrive la bisecolare eredità filosofica burkeana presente nel mondo anglosassone e la propone al rinascente, ma ancora acerbo, mondo della destra nordamericana contemporanea in un momento in cui molti sanno cosa non volere - il radicalismo, il progressismo e le ideologie di sinistra - ma pochi possiedono una visione del mondo organicamente e positivamente alternativa. La rinascita burkeana degli anni Cinquanta - la riscoperta del diritto naturale e l’opposizione cosciente al relativismo, all’ideologismo e alle ideocrazie frutto del 1789 «francese» - ha in Kirk un protagonista e un promotore. Burke - erede ed emblema di un patrimonio culturale e religioso plurisecolare - diviene dunque la cerniera che ricompone in un’unità le sparse membra della destra statunitense e che permette l’elaborazione di un pensiero contemporaneo filosoficamente non moderno. Se il movimento conservatore nordamericano contemporaneo non sempre coincide perfettamente con l’opera kirkiana, sicuramente ne viene però animato in maniera intensa e duratura: lo testimoniano le trenta opere pubblicate in vita; le centinaia di saggi, di articoli e di recensioni; nonché le decine di simposi e di conferenze non solo in ambito anglosassone (Kirk giunge più volte anche in Italia), come le serie svolte presso The Heritage Foundation di Washington e poi raccolte in The Politics of Prudence del 1993 - tradotto in italiano con il titolo La prudenza come criterio politico (8) - e in Redeeming the Time, uscito postumo nel 1996. Lo studioso si occupa di storia, di critica sociale, di letteratura e di filosofia politica, ma pubblica anche racconti surreali, ghost story, favole e thriller più o meno «metafisici», nonché storie nate da esperienze di viaggio in America, in Europa e in Africa. Pur intervenendo ad hoc in diversi aspetti del dibattito culturale contemporaneo del suo Paese, la produzione kirkiana si caratterizza come una ricerca continua nella storia delle idee guardata dal punto di vista delle «realtà permanenti», che nel linguaggio del poeta e critico angloamericano Thomas Stearns Eliot (1888 -1965) - amico e maestro di Kirk - valgono sostanzialmente il concetto di philosophia perennis.
A Program for Conservatives, del 1954; Beyond the Dreams of Avarice: Essays of a Social Critic, del 1956; The Intemperate Professor, and Other Cultural Splenetics, del 1965; Enemies of the Permanent Things: Observations of Abnormity in Literature and Politics, del 1969 sono opere importantissime. Edmund Burke: A Genius Reconsidered, del 1967, ed Eliot and His Age: T.S. Eliot’s Moral Imagination in the Twentieth Century, del 1971, si pongono come le biografie intellettuali «dell’alfa e dell’omega» della forma mentis conservatrice che lo studioso nordamericano insegue e descrive lungo le due sponde atlantiche del mondo culturale anglosassone. Dunque, The Roots of American Order, del 1974 - tradotto in italiano come Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo (9) - America’s British Culture, del 1993, e Rights and Duties: Reflections on Our Conservative Constitution, 1997 - edizione ampliata di The Conservative Constitution, del 1990, uscita postuma - dipingono un grandioso affresco delle origini prossime e remote della nazione americana, nonché della cultura a esso soggiacente, condotta lungo linee interpretative del tutto antitetiche rispetto alle interpretazioni correnti marcate da preconcetti illuministici e progressisti. E in opere come queste trova adeguata illustrazione la Grande Tradizione occidentale - il patrimonio giuridico, letterario, metafisico e filosofico-politico classico, il monoteismo ebraico e il cristianesimo - che, già cuore dell’approccio burkeano alla storia, anima il «tradizionalismo» conservatore anglosassone. Contro le pedagogie progressiste Kirk scrive Academic Freedom: An Essay in Definition, del 1955, e Decadence and Renewal in Higher Learning: An Episodic History of American University and College since 1953, del 1978. Del 1989 è il manuale per le scuole secondarie superiori Economics: Work and Prosperity. Collaboratore di periodici americani ed esteri, sul quindicinale National Review fondato da William F. Buckley jr. - dal primo numero nel novembre del 1955 fino al dicembre del 1980 - tiene la rubrica From the Academy, dedicata all’educazione. Nel 1957 fonda il trimestrale Modern Age (oggi, pubblicato dall’Isi, è il più importante periodico del conservatorismo culturale nordamericano), cedendone ad altri la direzione due anni dopo; nel 1960 assume la direzione della fondazione The Educational Reviewer e in questa veste fonda e dirige il trimestrale The University Bookman, oggi diretto dalla vedova e dal genero; e dal 1962 al 1976 firma la rubrica periodica To the Point. Dal 1988 dirige la collana The Library of Conservative Thought dell’editore Transaction, di New Brunswick nel New Jersey, pubblicando molti volumi di autori classici e opere nuove.
Senza mai assumere cariche politiche ufficiali, sostiene le candidature presidenziali di Robert A. Taft (1889-1953) (nel 1967 firma, con James McClellan, The Political Principles of Robert A. Taft), di Barry M. Goldwater e di Reagan. Del resto, il suo consiglio viene richiesto e ascoltato da diversi presidenti statunitensi. Significativo è infine, il volumetto The American Cause (tradotto a puntate sul settimanale di cultura il Domenicale nell’estate scorsa), originariamente pubblicato nel 1957 e destinato ai giovani militari statunitensi impegnati in Corea contro il comunismo nel primo conflitto caldo della guerra fredda. Con l’intento di fornire una sorta di «manuale del buon americano», il testo è una summula dei princìpi autentici sui cui si regge la civiltà statunitense - il Mondo Nuovo dalle radici antiche - e un antidoto sobrio ma ficcante ai molti, troppi antiamericanismi che hanno segnato il secondo Novecento e che oggi conoscono edizioni aggiornate non meno insidiose. Kirk muore il 29 aprile 1994, indirizzando uno dei suoi ultimi pensieri a Papa Giovanni Paolo II. Da allora la sua eredità culturale viene coordinata da The Russell Kirk Center for Cultural Renewal. Nel 1995 esce l’autobiografia postuma The Sword of Imagination: Memoirs of a Half-Century of Literary Conflict; le sue opere principali sono continuamente in edizione. Tutti americani, dunque, sulla scorta di Russell Kirk? No, di certo; anche perché si tratterebbe del più evidente e stridente tradimento dello spirito kirkiano. Kirk, infatti, ha saputo e voluto descrivere la propria patria, gli Stati Uniti d’America, come discendenza e retaggio dello spirito classico-cristiano dell’Europa, non tanto e non solo preilluministica e pregiacobina - la madre, cioè, di tutte le ideologie e di ogni totalitarismo - ma fondamentalmente antilluminista e antigiacobina, inquadrando gli statunitensi di oggi esattamente come i medioevali di ieri pensavano se stessi in relazione ai propri antenati del passato classico. «Noi siamo - dicevano appunto quei medioevali - ... come dei nani seduti sulle spalle dei giganti» (10). Chiunque oggi, sia nel Nuovo sia nel Vecchio Mondo, dimentichi queste stature, o le inverta, o le ignori, non può che fare come il giacobinismo ha fatto nei confronti del passato classico e cristiano europeo. Il Novecento, il «secolo lungo» che inizia nel 1789 a Parigi, ha mostrato lucidamente gli esiti del retaggio giacobino. Gli Stati Uniti di Russell Kirk, invece, nati a Filadelfia per imitazione e in riconoscimento di Gerusalemme, di Atene, di Roma e di Londra, desiderano e mirano a essere altro, ben altro. L’antidoto unico e vero al «lavaggio del carattere» denunciato a suo tempo dall’europeo amico degli americani - oggi probabilmente poco di moda in Germania - Caspar von Schrenck-Notzing.

Da "Liberal"

Italianhawk83
06-03-05, 16:21
Il conservatore (senza neo)
Erede di Burke, non avrebbe amato le mode di oggi
di Rocco Buttiglione

A Russell Kirk è toccato uno strano destino. È in genere indicato come un neoconservative e anzi il caposcuola, o almeno uno dei capiscuola, del pensiero neoconservatore. Tuttavia a lui questa definizione non piaceva e più di una volta ha tentato anche di difendersi contro di essa. In realtà il pensiero neoconservatore americano ha un storia abbastanza lunga, all’interno della quale, per orientarsi, è necessario introdurre delle distinzioni e perfino una periodizzazione. Russell Kirk insieme con Clinton Rossiter, Peter Viereck e qualcun altro, è stato negli anni Cinquanta il primo a rialzare la bandiera della conservazione delle cose che contano, della conservazione dei valori, e proprio questo ha caratterizzato la prima fase del pensiero neoconservatore. Kirk parte dalla grande tradizione di Burke, di cui rimane uno degli analisti più penetranti. Esistono nella storia cose che cambiano e cose che non cambiano; l’uomo è infatti un essere che ha una natura permanente, capace però di svilupparsi e di evolversi nel tempo senza tuttavia mai negare i suoi aspetti fondamentali e costitutivi. Davanti a una cultura in senso lato progressista, che afferma la totale manipolabilità e trasformabilità della natura umana, il conservatore, nel senso di Russell Kirk, è colui che ricorda le cose che non cambiano, che rimangono nel tempo e che offrono anche il criterio per distinguere, fra le cose che cambiano, quelle che favoriscono la crescita e il perfezionamento dell’uomo e quelle che invece lo avviano sul sentiero del declino e dell’autodistruzione. Questa insistenza sulle cose che non cambiano spiega anche la riluttanza di Kirk a essere definito un neoconservatore. La sua domanda ricorrente è: perché neo? Egli si sente in continuità con una tradizione di pensiero che affonda le sue radici nell’antichità classica e giunge fino al presente. Questa tradizione non è rivissuta da Kirk in una chiave prevalentemente metafisica. La verità sull’uomo si manifesta nella storia e ne diventiamo consapevoli attraverso un processo fatto di tentativi ed errori che fa in modo che alla fine alcune verità risultino evidenti non solo e non tanto per un’intuizione di essenze atemporali, come nella tradizione platonica, ma piuttosto per effetto dell’accumularsi dell’esperienza vissute da una specifica comunità umana. Da qui il concetto di tradizione: consegna da una generazione all’altra dei valori che sono stati sperimentati come veri nella propria vita e nella propria esperienza storica. Questo corrisponde a un filone importante e spesso sottovalutato della cultura anglosassone. Hume è stato letto sul continente europeo soprattutto come un distruttore di certezze metafisiche e come una specie di precursore del nichilismo. Una lettura alternativa lo vede invece come il fondatore di una teoria della tradizione e dell’esperienza storica. Se leggiamo Hume a partire dalla sua opera storica e vediamo in essa, come in effetti è, almeno dal punto di vista cronologico, il coronamento della sua avventura intellettuale, ci troviamo davanti all’emergere in un certo senso della natura attraverso la storia. Nella Storia di Inghilterra affiora un sistema di valori scoperto appunto per tentativi ed errori che non ha propriamente una certezza metafisica ma da cui sarebbe assai azzardato allontanarsi o con il quale almeno sarebbe irresponsabile rompere. Bisogna piuttosto proseguire per tentativi empirici nello sforzo di seguirne l’evoluzione assecondandone le linee naturali di sviluppo e non dimenticando mai i principi strutturali fondamentali che ne assicurano la coerenza. In questa chiave si comprende anche quella che forse è l’opera maggiore di Russell Kirk sulle Radici dell’ordine americano. Alla radice vi sono valori universalmente umani che hanno però acquisito nella storia americana una particolare evidenza e anche una specifica concretizzazione culturale. Questo spiega anche il motivo per cui le istituzioni americane sono, sempre secondo il nostro autore difficilmente copiabili. Esse corrispondono alle forme della religione, della cultura, della storia, dell’economia e perfino della geografia degli Stati Uniti. Non è affatto sicuro che, trasposte in un altro contesto, esse possano funzionare in modo altrettanto soddisfacente.
A partire da questo possiamo capire sia gli elementi di continuità sia gli elementi di differenza fra la prima e la seconda ondata del neoconservatorismo americano. Alla seconda ondata appartengono nomi come quello di Michael Novak, George Weigel, Richard John Neuhaus, Irving Kristol, Gertrud Himmelforth etc. Per capire le differenze tra prima e seconda ondata faremo riferimento soprattutto a Michael Novak e a Irving Kristol con i quali Russell Kirk ha condotto un dialogo appassionato e non privo di asprezza. Pur riconoscendone i meriti Kirk rimprovera a Kristol il tentativo di formulare un’«ideologia democratica» ovvero un’ideologia neoconservatrice. Per Kirk l’ideologia è un sistema di pensiero che pretende di intrappolare l’uomo in categorie fisse e dogmatiche e cerca di dirgli quello che deve fare, mentre l’atteggiamento conservatore esplicita valori che sono già presenti nella vita del popolo e rifugge dalla tentazione di organizzarli in un sistema chiuso. La seconda ondata dal neoconservatorismo americano è stata profondamente influenzata, oltre che da Kirk anche da Ludwig von Mieses e dalla sua idea di una conoscenza a priori della natura umana e in modo particolare dei principi fondamentali dell’economia non derivata dall’esperienza e non sottomessa al suo giudizio. Per von Mieses il mercato non è una realtà storica cresciuta attraverso tentativi ed errori in una connessione continua con altri rami e aspetti dell’attività umana. Il mercato è un insieme di relazioni aprioriche e trascendentali, in qualche modo indipendenti dall’esperienza. Tutto questo evidentemente non poteva piacere a Kirk soprattutto se si prendono come termini di riferimento autori come Ayn Rand e Murray Rothbar, che arrivano a teorizzare un mondo in cui tutte le relazioni umane sono pensate come relazioni di mercato. Ciò evidentemente va in contraddizione diretta con quel filone comunitario che possiamo ricondurre ai Southern conservatives e a Gilbert Keith Chesterton, che fanno certamente parte della genealogia intellettuale di Russell Kirk. Fra gli economisti della scuola austriaca qualche maggior simpatia il nostro autore poteva avere per Friedrich von Hayek, che tenta di conciliare l’apriorismo con una forte accentuazione del ruolo dell’esperienza umana, mentre sono evidenti anche consonanze con Karl Popper e con la teoria (sua e di von Hayek) del piecemeal political engineering, (ingegneria politica a pezzi e a bocconi, cioè a partire dall’esperienza e non dalla presunzione di avere una visione globale della società e del suo sviluppo). Benché Michael Novak abbia sempre tentato di comporre il tema del mercato con il primato dei valori e delle cose che non cambiano, tuttavia Kirk ha guardato a questo tentativo con una certa dose di diffidenza. Ovviamente Kirk non è contrario al mercato, lo considera come uno degli aspetti ovvi di una società libera, ma, appunto, un aspetto e non l’essenza e neppure il fondamento.
Ancora più grandi sono le differenze con quella che potremmo chiamare la terza ondata del neoconservatorismo americano, il cui alfiere più conosciuto è forse William Kristol (il figlio di Irving). Queste differenze emergono con una forza particolare se consideriamo il tema della guerra in Iraq, che ha portato il neoconservatorismo americano alla ribalta nel palcoscenico della pubblica opinione. Ovviamente Russell Kirk non ha potuto esporre le sue idee sulla politica che ha ispirato l’intervento degli Stati Uniti in Iraq. Non è però difficile immaginare quello che avrebbe detto se fosse stato in vita. Possiamo appoggiarci, a questo fine, al modo in cui egli ha commentato il primo intervento americano in Iraq. Kirk non è un pacifista. Egli pensa che la guerra sia uno strumento legittimo di difesa di interessi nazionali minacciati. Egli tuttavia affonda le sue radici nella tradizione antiwilsoniana del pensiero politico americano. Egli pensa sì che tutti gli uomini amino la pace e i valori che sono incorporati nella democrazia e nello Stato di diritto. Egli crede però che gli uomini egualmente desiderino non essere oppressi e poter a loro volta opprimere i loro vicini, potersi vendicare, poter imporre il proprio interesse. C’è in Kirk una radice antiperfettista che è stata tra l’altro uno degli elementi della sua amicizia a distanza con Augusto del Noce (mediata dall’intelligente sollecitudine dell’Avv. Ramacciotti.). L’uomo è segnato dal peccato originale. Il peccato originale non distrugge la tensione del cuore umano verso il bene, ma la accompagna con una tensione verso il male. La storia dell’individuo e delle comunità umane è segnata del modo in cui queste due tensioni lottano fra di loro e anche si compongono tra di loro in forme di esistenza culturalmente determinate. Per questo è vero che gli iracheni come tutti gli uomini desiderano la democrazia e lo Stato di diritto ma non è altrettanto vero che essi possano essere imposti loro da un intervento esterno. Essi devono piuttosto nascere al loro interno attraverso un percorso che è affidato alla loro libertà e che non è possibile predeterminare. Questo non vuol dire che non sia giusto, lecito e doveroso sostenere in altri Paesi gli sforzi che vanno in questa direzione. Occorre tuttavia essere consapevoli dei limiti delle proprie forze e del rischio del loro fallimento qualora si tenti di forzare lo sviluppo naturale delle coscienze. Questo non vale necessariamente come obiezione contro la politica seguita dagli Stati Uniti in Iraq. Forse Russell Kirk che era certamente un patriota americano, l’avrebbe appoggiata, ma non senza molti dubbi e molte distinzioni e con un forte invito alla prudenza, in modo quindi diverso da alcuni accenti presenti nella terza ondata del neoconservatorismo. La lezione che Kirk ci lascia è insieme una lezione di certezza sulle cose fondamentali che non cambiano e di prudenza e di dubbio sul modo in cui i valori che non cambiano si declinano nella concretezza della storia. Egli avrebbe probabilmente sottolineato che il compito di lottare per i valori appartiene più alla sfera della cultura che a quella della politica.

Da "Liberal"

Italianhawk83
06-03-05, 16:39
Il 26 settembre 2000, all’età di 98 anni, è stato chiamato alla casa del Padre il professor Luigi Gedda.

Nato a Venezia nel 1902, ha attraversato la storia di tutto il secolo XX militando fin dalla giovinezza nel movimento cattolico italiano. presidente centrale della GIAC, la Gioventù Italiana di Azione Cattolica, dal 1934 al 1946, presidente degli Uomini di Azione Cattolica dal 1946 al 1949, e quindi presidente generale di tutta l’associazione dal 1952 al 1959, viene soprattutto ricordato per aver fondato i Comitati Civici, in vista delle elezioni del 1948 e su mandato di Papa Pio XII (1939-1958), ossia quel movimento civico-culturale di cattolici che Papa Paolo VI (1963-1978) in un’udienza del 1965 definirà come un’associazione "non partitica", che però si occupava di politica, e "non strettamente religiosa", che però curava la formazione spirituale e dottrinale dei suoi membri.


Unico esempio nella storia dei cattolici in Italia, accanto all’Unione Elettorale Cattolica Italiana, d’impegno politico non partitico, i Comitati Civici verranno demonizzati per il loro impegno anticomunista e con essi il loro leader e fondatore (cfr. Marco Invernizzi, Democrazia Cristiana e mondo cattolico nell’epoca del centrismo (1947-1953), in Cristianità, anno XXVI, n. 277, maggio 1998, pp. 19-23; e Idem, "18 aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice della sconfitta del Fronte Popolare", ibid., n. 281, settembre 1998, pp. 13-16). Ma, soprattutto, verranno circondati da una cortina di silenzio dai dirigenti della Democrazia Cristiana, che mal sopportavano quello strumento di controllo sul loro operato, una sorta di sindacato degli elettori cattolici che ne difendeva gli interessi di fronte al partito.


La vita pubblica di Gedda non è però riducibile al, pur importante, aspetto poltico-sociale. Medico, genetista di fama internazionale, studioso di gemellologia, fonda nel 1952 la rivista Acta Geneticae Medicacae et Gemellologiae e quindi, due anni dopo, l’Istituto di Genetica Medica e Gemellologia Gregorio Mendel, che dirige e frequenta fino al 1999. Nel 1961 vince il concorso bandito per la prima cattedra italiana di Genetica Medica, all’università di Roma.


Ma la realizzazione che più testimonia la fecondità spirituale della vita di Gedda è la Società Operaia, un’associazione laicale da lui fondata a Roma nel 1942, e tuttora operante, allo scopo di "raccogliere quanti "laici come laici" volevano consacrare la vita a diffondere nel mondo presente il messaggio di Gesù", seguendo una spiritualità incentrata nel Mistero dell’agonia di Cristo nel Getsemani, un mistero su cui ha ininterrottamente e significativamente meditato (cfr. Luigi Gedda, Getsemani. Meditazioni per l’uomo d’oggi, Massimo, Milano 1987). La Società Operaia è stata eretta in associazione di diritto pontificio dal Pontificium Consilium pro laicis nel 1981.


Indubbiamente Gedda non ha ricevuto tanto quanto ha dato. Indicato — come si può leggere anche nel ricordo dell’Azione Cattolica Italiana in occasione della sua morte su L’Osservatore Romano del 29 settembre 2000 — come esempio di "cattolico pre-conciliare", senza precisazioni di sorta e senza attenzione per la cronologia, da quanti usano il Concilio Ecumenico Vaticano II per dialettizzare la storia della Chiesa, trasmette piuttosto un esempio di grande fedeltà alla Chiesa di sempre, che ha servito e insegnato a servire, con passione e con dedizione, spesso nel silenzio, imitando Gesù nel Getsemani e così vivendo il Mistero che più amava.

Da "Cristianità"

Italianhawk83
06-03-05, 16:46
I Comitati Civici
di Marco Invernizzi


1. Le premesse

La presenza politica dei cattolici nella storia dell’Italia unita, cioè dopo il 1860, conosce diverse modalità operative: anzitutto il tentativo di organizzare il paese reale contro quello legale senza una diretta partecipazione alla competizione politica, con l’Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici, dal 1874 al 1904; poi gli accordi con i liberali moderati in funzione antisocialista attraverso l’UECI, l’Unione Elettorale Cattolica Italiana, dal 1906 al 1919; quindi la costituzione di partiti politici — prima il PPI, il Partito Popolare Italiano, fondato da don Luigi Sturzo (1871-1959), nel 1919; poi la DC, la Democrazia Cristiana, sorta nel 1944 — con le caratteristiche dell’aconfessionalità e dell’indipendenza nei confronti del mondo cattolico e con un’ambiguità di fondo circa l’impegno a costruire una civiltà cristiana; infine la fondazione nel 1948 dei Comitati Civici, allo scopo di svolgere un’opera di formazione civica, prevalentemente nell’ambito della cultura politica, e di costituire uno strumento di pressione e di controllo sulla DC.


I CC nascono in vista delle elezioni politiche del 18 aprile 1948, per volontà di Papa Pio XII (1939-1958) e per iniziativa del vicepresidente dell’ACI, l’Azione Cattolica Italiana, Luigi Gedda, al fine di fronteggiare il pericolo dell’astensionismo e d’impostare la campagna elettorale nel senso di una scelta di civiltà. L’esigenza di un organismo che contempli e contemperi l’impegno religioso e quello partitico-parlamentare, che sciolga le incertezze manifestate dalla DC nella contrapposizione alle forze socialcomuniste e che funga da portavoce degl’ideali del mondo cattolico nei confronti del partito d’ispirazione cristiana si manifesta durante i lavori dell’Assemblea Costituente (1946-1948) e dopo i preoccupanti risultati delle elezioni regionali siciliane del 20 aprile 1947, che segnano un incremento del blocco socialcomunista e un regresso della DC. Inoltre, il malessere verso la DC, espresso dagli elettori cattolici con la preferenza accordata ai partiti di destra, in particolare al Movimento dell’Uomo Qualunque — fondato nel 1946 dal commediografo e regista, poi giornalista e uomo politico Guglielmo Giannini (1891-1960) —, era presente anche fra i dirigenti dell’ACI e in una parte del clero, e riproponeva il dilemma che aveva diviso la curia vaticana, dopo il 1944, fra quanti volevano l’unità dei cattolici intorno alla DC, come il sostituto alla segreteria di Stato monsignor Giovanni Battista Montini (1897-1978) — poi Papa Paolo VI (1963-1978) — e quanti auspicavano la neutralità della Santa Sede di fronte all’ipotesi di diversi "partiti cattolici", come i cardinali Domenico Tardini (1888-1961) e Alfredo Ottaviani (1890-1979). Fra i sostenitori di quest’ultima soluzione vi è chi pensa a un partito cattolico conservatore — i componenti di quello che è stato indicato come il "partito romano" — e chi desidera la costituzione di "blocchi", come dice Gedda alla prima riunione della giunta centrale dell’ACI, il 18 marzo 1947: "un blocco di uomini più che di partiti, mettendo in lista, a seconda delle regioni, uomini di specchiata fama e capacità". Gedda auspica inoltre "la creazione di una unione cattolica-elettorale" nella quale avrebbero dovuto trovar posto, accanto ai democristiani, candidati indipendenti.


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2. La nascita


L’idea di Gedda incontra resistenze all’interno dell’ACI, soprattutto da parte del presidente generale Vittorino Veronese (1910-1986), dell’assistente generale monsignor Giovanni Urbani (1900-1969) e della vicepresidente generale Armida Barelli (1882-1952), tutti convinti della necessità dell’unità politica dei cattolici attorno alla DC. Ma Papa Pio XII scioglie gl’indugi e chiede a Gedda di costituire l’organismo che prenderà il mome di CC. L’intenzione non è né di sostituire la DC, né di affiancare a essa un altro partito cattolico, ma anzitutto e soprattutto quella di portare al partito un incremento elettorale che da solo non avrebbe potuto procurarsi. I risultati daranno ragione a chi aveva voluto i CC, perché la DC guadagna quasi cinque milioni di voti rispetto alle elezioni politiche del 1946, passando da 8.101.004 a 12.741.299. Il 7 marzo 1975 l’arcivescovo di Genova, card. Giuseppe Siri (1906-1989), si rivolge agli attivisti del CC zonale con queste parole: "[…] chi è che ha salvato l’Italia nel 1948? Il Comitato Civico. Direte tutti i cattolici italiani e il partito che più di tutti gli altri li rappresentava! D’accordo. Ma tutti i cattolici italiani hanno avuto modo di essere orientati e il partito che più li rappresentava ha potuto essere vittorioso perché c’è stata dietro questa armatura, che si è dimostrata inattaccabile".


Fondati l’8 febbraio 1948 e costituitisi nel giro di due settimane con una semplice articolazione che va dal Comitato Civico Nazionale a livello centrale a quelli zonali e locali, corrispondenti alle diocesi e alle parrocchie, i CC attivano subito oltre ventimila comitati di base, che riescono a drammatizzare la campagna elettorale, impressionando soprattutto i comunisti — che devono affrontare un contendente attivo sul territorio, in grado di contrapporre alla cellula del Partito Comunista Italiano il Comitato Civico Zonale — e riuscendo a portare fisicamente alle urne centinaia di migliaia di anziani e di ammalati, che altrimenti non avrebbero potuto votare. Organismo di quadri e non di massa, i CC non mirano ad avere una propria base associativa, ma propongono ai dirigenti delle organizzazioni già esistenti di collaborare alla formazione civica e alla mobilitazione elettorale dei cattolici.


L’irruzione sulla scena politica della Repubblica Italiana di una inusuale forza politica non partitica è indubbiamente una delle principali novità del secondo dopoguerra. E della vocazione dei CC parla Papa Pio XII il 14 aprile 1953 ricevendone in udienza un folto gruppo di appartenenti e di dirigenti. Ma tale vocazione è autenticamente sviscerata da Papa Paolo VI nel discorso tenuto ai dirigenti dei CC il 30 gennaio 1965, in cui il Pontefice delinea l’identità dell'organismo: "[...] "e i Comitati Civici che cosa sono?". Nasce uno strano dialogo: "Siete un Partito politico?". Risposta: "No, non siamo un Partito politico". "Una corrente sociale?". Risposta: "Nemmeno". Allora: "Siete un’associazione cattolica?". La risposta è ancora negativa: "Non siamo un’associazione cattolica, nel senso proprio della parola". Che cosa siete allora: un Comitato elettorale? un blocco sociale? una agenzia "doxa"? una compagnia di pubblicità? un’espressione spontanea e momentanea di opinione pubblica? Chi siete?"". Nello stesso discorso, il Pontefice fornisce una risposta definitoria: "Oggi la vita pubblica riconosce ai cittadini molti diritti; e fra tutti importante è quello di scegliersi col voto i propri rappresentanti nelle magistrature amministrative e politiche, l’esercizio dei quali diritti dev’essere illuminato, libero ed ordinato; ed è opera di non piccolo merito educare e guidare il cittadino a tale esercizio. In pratica sarà vostro programma svolgere azione informativa e formativa fra le varie categorie sociali circa i problemi della vita civica; non sarete soli a far questo, concorrendo allo scopo molti altri fattori; ma laddove questi fattori (come la scuola, la stampa, i partiti) si diffonderanno a illustrare gli aspetti tecnici, economici, politici, giuridici di tali problemi, voi, senza trascurare questi aspetti stessi, avrete cura di metterne in evidenza gli aspetti superiori, che sono quelli morali; e vi farete onore e dovere di collegare tali insegnamenti con la dottrina sociale della Chiesa, da cui tanta luce, tanta sicurezza, tanto vigore possono scaturire per chi l’accoglie con attenzione e fiducia".


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3. La decadenza e il "silenzio" coatto


Molti esponenti della DC, interessati all’apporto elettorale fornito dai CC ma preoccupati per l’esistenza di uno strumento che avrebbe potuto ostacolare e controllare l’attività del partito, non desiderano una loro istituzionalizzazione, considerandoli come un organismo che ha assolto al suo compito di fronte alla sfida eccezionale di un turno elettorale particolarmente drammatico, e auspicano, al massimo, la loro trasformazione in comitati elettorali da attivare solo periodicamente. Gedda s’oppone a questo tentativo di smobilitazione e riesce a mantenere in vita i CC, che combatteranno ancora numerose battaglie negli anni successivi al 1948, dal fallito tentativo di realizzare, nel 1949, un "18 aprile sindacale" — che avrebbe dovuto portare almeno un milione di nuovi iscritti al sindacato di area cattolica appena sorto dalla scissione della CGIL, la Confederazione Generale Italiana del Lavoro — fino all’impegno in occasione del referendum abrogativo della legge che introduceva il divorzio, nel 1974. Accanto a queste iniziative i CC organizzano migliaia di corsi di formazione per i propri attivisti, svolgendoli nei due centri detti Getsemani, uno a Casale Corte Cerro, nei pressi del lago d’Orta, in provincia di Novara, e l’altro a Paestum, vicino a Salerno, dedicati a Gesù agonizzante, la devozione alla base della spiritualità della Società Operaia, una specie di terz’ordine fondato dallo stesso Gedda, al quale appartenevano moltissimi esponenti dei CC. Da questi corsi, maschili e femminili — solo a livello nazionale ne sono promossi diciannove dal novembre del 1951 al marzo del 1955 — avrebbe dovuto uscire una nuova classe dirigente in grado di costruire un "mondo migliore", secondo la celebre espressione di Papa Pio XII. Tuttavia, i CC perdono progressivamente incidenza sul mondo cattolico italiano e sulla società in generale, riducendosi talora a semplici strumenti di supporto elettorale della DC. In assenza dell’esame della documentazione archivistica, tuttora inaccessibile, restano molti dubbi sulle cause della decadenza dei CC, i quali — secondo un’espressione dello stesso Gedda, che continuava ad avere l’appoggio di Papa Pio XII e fu presidente generale dell’ACI dal 1952 al 1959 — verranno "silenziati" dalla DC. Non è ancora chiaro perché tale partito non abbia manifestato un atteggiamento favorevole verso l’azione dei CC, sebbene molti deputati eletti nel 1948 provenissero dalle file dell’ACI e le loro candidature fossero state concordate dallo stesso Gedda con i massimi dirigenti del partito stesso. Probabilmente il vertice della DC aveva una "sponda" ecclesiastica molto forte, tale da contrastare anche l’influenza del Pontefice, e comunque con la segreteria dell’on. Amintore Fanfani, a partire dal 1954, il partito riesce a dotarsi di una struttura interna e di strumenti di sostegno che consentono a esso di poter fare largamente a meno dell’attività propagandistica e di mobilitazione degli organismi del mondo cattolico e quindi pure dei CC. Senza dubbio anche l’elezione di Gedda alla presidenza generale dell’ACI toglie ai CC gran parte del tempo del loro ispiratore e principale leader, riducendone le potenzialità e lasciando di fatto all’ACI il compito di esercitare una pressione politica sul partito di maggioranza.


Al fine di rispondere a queste domande s’impone agli storici il compito di studiare, fra l’altro, le caratteristiche dei corsi di formazione promossi dai CC, anche per verificare il fondamento dell’accusa, rivolta a Gedda e alla sua conduzione dell’ACI, che tocca indirettamente anche i CC, di curare soltanto gli aspetti "di massa" dell’apostolato — come le manifestazioni oceaniche al cospetto del Pontefice in piazza San Pietro o l’enfasi posta sulla continua crescita del numero degl’iscritti —, a scapito della formazione personale e spirituale. Gedda ha fornito alcune risposte sia nelle Memorie pubblicate in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione dei CC e della vittoria elettorale del 18 aprile 1948, sia in altra sede, precisando che "[...] la divergenza di fondo con i democristiani dipendeva dalla loro convinzione che il comunismo avrebbe ineluttabilmente conquistato il potere e che il problema dunque era quello di cercare fin da subito forme di coesistenza con il futuro vincitore".

Da "Voci per un Dizionario del Pensiero Forte" - Alleanza Cattolica

Italianhawk83
06-03-05, 17:38
Il movimento cattolico in Italia
di Marco Invernizzi


1. I cattolici di fronte alla sfida della Modernità

L'espressione "movimento cattolico" fa riferimento a quella parte delle popolazioni europee che, in nome della fedeltà alla Chiesa cattolica e alla civiltà cristiana sorta in seguito all'inculturazione del messaggio evangelico, si organizzano per opporsi, dopo il 1789, ai princìpi ispiratori della Rivoluzione, che dalla Francia vengono esportati in tutta l'Europa e in tutto il mondo, e alle loro realizzazioni.


La costituzione di movimenti cattolici nei diversi paesi europei - come ha detto Papa Pio XII (1939-1958) - testimonia la consapevolezza con cui i cattolici chiamati contro-rivoluzionari accettano la sfida della Modernità, caratterizzata appunto dalla nascita di un mondo ideologico nel quale viene meno quel legame privilegiato fra "il trono e l'altare" - ma soprattutto fra la politica e il diritto divino e naturale -, che aveva distinto l'Antico Regime e soprattutto la Cristianità medioevale.


Diventati formalmente una parte della popolazione, in conflitto con altre parti - che presto si sarebbero raccolte in partiti -, di fronte alla manifesta ostilità da parte degli Stati diretti dalle nuove classi politiche liberali che conquistano il potere in Europa nel corso del secolo XIX, i cattolici subiscono anche notevoli lacerazioni al loro interno, dividendosi fra quanti accettano almeno in parte i princìpi rivoluzionari - cattolici liberali e democratici cristiani - e quanti invece, richiamandosi all'insegnamento del Magistero pontificio, si impegnano nella lunga battaglia contro la Rivoluzione - cattolici contro-rivoluzionari.



2. Il venerabile Pio Bruno Lanteri (1759-1830)

Le avvisaglie del cambiamento epocale provocato dalla Rivoluzione dell'Ottantanove si sentono ben presto anche in Italia, in seguito all'invasione del Piemonte da parte delle truppe francesi nel 1794 e, soprattutto, al Triennio Giacobino (1796-1799), che inaugura la dominazione napoleonica della penisola, protrattasi fino alla Restaurazione del 1814.


La persona che per prima e più profondamente comprende la portata e le caratteristiche dello scontro culturale in atto è il venerabile Pio Bruno Lanteri - nato a Cuneo nel 1759, sacerdote nel 1782 e morto a Pinerolo, in provincia di Torino, nel 1830 -, che, fra l'altro, ha una parte di rilievo nell'organizzazione della resistenza clandestina al dominio napoleonico in Piemonte e dell'assistenza a Papa Pio VI (1775-1799) prigioniero di Napoleone Bonaparte (1769-1821).


Animatore dei primi movimenti laicali - l'Amicizia Cristiana fondata dal suo maestro, il gesuita Nicolaus Joseph Albert von Diessbach (1732-1798), che, dopo la Restaurazione, si chiamerà Amicizia Cattolica -, Lanteri coglie due elementi fondamentali del processo rivoluzionario, traendone le conseguenze.


Anzitutto comprende che la Rivoluzione francese è la conseguenza di una lunga azione culturale, protrattasi per tutto il Settecento, a opera del movimento illuminista, che cambia tendenze e idee di una parte consistente della popolazione, predisponendola ad accettare il fatto rivoluzionario. In secondo luogo, capisce che la Rivoluzione è possibile dove incontra una Chiesa ferita e indebolita dalle divisioni e dai dubbi, come era avvenuto anzitutto in Francia in seguito alla diffusione dell'eresia giansenista, con il suo rigorismo morale e sacramentale, che si accompagna ora al gallicanesimo, ora al giurisdizionalismo.


Per questo Lanteri opera in particolare lungo due direzioni. La prima è quella di coinvolgere i laici nell'azione di riconquista culturale della società, promuovendo appunto la diffusione dell'Amicizia Cristiana e utilizzando come strumento privilegiato di apostolato la diffusione del libro in ogni ambiente, attraverso la lettura, lo studio e l'esame delle singole opere, svolti all'interno delle Amicizie, e quindi la loro diffusione nelle diverse classi sociali, servendosi anche della formula del prestito per chi non poteva permettersene l'acquisto.


La seconda consiste nell'opposizione alla larga diffusione, in quell'epoca, delle idee gianseniste in seno al mondo cattolico, utilizzando anche a questo proposito il libro, per far conoscere, per esempio, la teologia morale di sant'Alfonso Maria de' Liguori (1696-1787), che contrasta con il rigorismo giansenista, e promuovendo la predicazione degli esercizi spirituali secondo il metodo di sant'Ignazio di Loyola (1491-1556); e appunto questa predicazione è una delle principali caratteristiche della congregazione religiosa fondata da Lanteri negli ultimi anni di vita e che esiste tuttora, gli Oblati di Maria Vergine.



3. La lacerazione nel movimento cattolico italiano

In Italia, la lacerazione all'interno del mondo cattolico si manifesta soprattutto di fronte al problema dell'accettazione o meno della conquista militare di Roma da parte del Regno d'Italia nel 1870 che, con la Breccia di Porta Pia, concludeva il processo di unificazione nazionale sopprimendo il potere temporale pontificio. I cattolici italiani si dividono così in transigenti, quelli che accettano il fatto compiuto e operano, pur con diverse sfumature ideologiche, per una conciliazione fra la Monarchia e la Chiesa, e intransigenti, quelli invece che, partendo dalla parrocchia come unità di base territoriale, organizzano il paese reale contro il paese legale dominato dalla classe dirigente liberale, che occupa l'esercito, la magistratura, la burocrazia e la classe politica. I cattolici intransigenti, almeno fino alla fine del secolo XIX, rappresentano il movimento cattolico ufficiale, cioè quello riconosciuto dalla gerarchia ecclesiastica.



4. L'Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici

Nel 1874 i cattolici intransigenti danno vita all'Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici, il primo organismo unitario nazionale che raggruppa i cattolici italiani solidali con il Papa "prigioniero in Vaticano". L'Opera dei Congressi caratterizza la stagione politica che Giovanni Spadolini (1925-1994) ha definito l'"opposizione cattolica" allo Stato liberale, contrassegnata dal non expedit, ossia dal divieto rivolto dalla gerarchia ecclesiastica ai fedeli italiani di partecipare alle elezioni politiche per non avallare i "fatti compiuti".


Guidata dai "veneti", il giornalista Giuseppe Sacchetti (1845-1906), il conte avvocato Giovanni Battista Paganuzzi (1841-1923), dai sacerdoti e fratelli Scotton, Jacopo (1834-1909), Andrea (1838-1915), Gottardo (1845-1916), l'Opera dei Congressi manterrà il suo carattere intransigente fino all'ultimo decennio del secolo XIX, quando, con la presidenza affidata al conte Giovanni Grosoli (1859-1937), l'organismo sembrerà spingersi a favorire la linea democratica sostenuta da alcuni giovani diretti da don Romolo Murri (1870-1944), fra l'altro sospetto di modernismo. Lo scontro all'interno dell'organismo più rappresentativo del movimento cattolico italiano culmina con la soppressione dell'Opera dei Congressi, voluta da Papa san Pio X (1903-1914) nel 1904, e con il rilancio del movimento cattolico attraverso la pubblicazione dell'enciclica Il fermo proposito nell'anno successivo. Il Sommo Pontefice coglie il pericolo modernista nella Chiesa ed è favorevole a un intervento sociale dei cattolici, anche in forma elettorale, per fermare l'avanzata del movimento socialista, costituitosi in partito nel 1892.



5. Il Patto Gentiloni

Durante il pontificato di Papa san Pio X si realizzano i cosiddetti accordi clerico-moderati fra cattolici intransigenti e conservatori e liberali moderati, accordi favoriti anche dalle divisioni che si hanno nel movimento cattolico e nel movimento liberale in seguito agli scioperi e agli scontri del 1898 dovuti al rincaro del pane, fatti che dimostrano alla classe dirigente liberale la mancanza del consenso necessario a continuare la politica repressiva contemporaneamente nei confronti dei cattolici e dei socialisti. Il principale fra questi accordi è senz'altro quello che va sotto il nome di Patto Gentiloni, dal cognome del Presidente dell'Unione Elettorale Cattolica Italiana, il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916), che tratta a nome del mondo cattolico con l'allora presidente del Consiglio Giovanni Giolitti (1842-1928), in occasione delle prime elezioni politiche a suffragio universale maschile, svoltesi nel 1913.



6. Le conseguenze della prima guerra mondiale

Le conseguenze della prima guerra mondiale, la Grande Guerra, sulla società italiana e anche sul mondo cattolico sono enormi. Il coinvolgimento delle masse popolari nel conflitto attraverso la coscrizione obbligatoria e la lunga permanenza nelle trincee, oltre alla mobilitazione propagandistica prima e durante il conflitto stesso, cambiano profondamente la nazione italiana.


Per quanto riguarda il problema costituito dalla presenza dei cattolici nello Stato italiano, nel dopoguerra lo scontro religioso in genere e la Questione Romana in particolare perdono importanza rispetto ad altri problemi imposti dalle circostanze, come la Rivoluzione russa e le sue conseguenze sui movimenti socialisti e come la drammatica situazione economica e sociale dell'Italia del 1918.


L'avvento del fascismo si verifica in una società ancora cristiana quanto a pratica religiosa, ma con un movimento cattolico incapace, o impossibilitato, a porre le proprie questioni all'attenzione del paese e quindi di fatto marginalizzato.



7. La fondazione del PPI, il Partito Popolare Italiano

Nel 1919 viene fondato il Partito Popolare Italiano, il cui primo segretario è un sacerdote di Caltagirone, don Luigi Sturzo (1871-1959). La nascita di questo partito aconfessionale, che quindi non impegna il movimento cattolico sul fronte politico, segna un mutamento strutturale nella storia della presenza dei cattolici nella società italiana. Fino ad allora il movimento cattolico aveva rappresentato il mondo cattolico militante impegnato su diversi fronti - culturale, politico e socio-economico -, ma unito nell'auspicio e nella promozione dell'avvento della Regalità di Cristo nella vita pubblica della nazione. Con la nascita del PPI, l'ambito politico viene formalmente sottratto alle decisioni del mondo cattolico e comincia quel rapporto ambiguo connotato dall'equivoco che caratterizzerà soprattutto la stagione della Democrazia Cristiana. Di fatto, comunque, cominciava un'altra storia nella quale non pare più possibile utilizzare il termine "movimento cattolico" con lo stesso significato e nella stessa estensione propria dell'uso precedente. Inoltre, si tratta di una storia caratterizzata dal progressivo prevalere della corrente democratico-cristiana in seno al mondo cattolico organizzato.

Da "Voci per un Dizionario del Pensiero Forte" - Alleanza Cattolica

Italianhawk83
06-03-05, 17:42
Il movimento nazionalista in Italia
di Marco Invernizzi


1. "Dio, patria e famiglia"

L'uomo è un essere sociale che nasce in una comunità, la famiglia, e vive in un'altra comunità più vasta, famiglia di famiglie, chiamata nazione o patria. La famiglia e la patria sono gli ambiti naturali nei quali il progetto divino sulla vita sociale prevede avvenga l'educazione degli individui in tutti i suoi aspetti, fisico, intellettuale e spirituale. Come tali, famiglia e patria sono beni superiori alla vita del singolo e spesso, nel corso della storia, al singolo uomo è stato chiesto di sacrificare la vita per difendere la propria famiglia o la patria. Perciò i princìpi "Dio, patria e famiglia" sono stati sentiti come profondamente uniti fra loro da tutti i popoli, almeno fino alla diffusione dell'ideologia illuminista, nel Settecento, e alla conseguente Rivoluzione francese.


2. La patria senza Dio

Con l'estendersi in Europa dell'ideologia rivoluzionaria nel corso dell'Ottocento, si rompe l'unità che teneva insieme i princìpi: la famiglia si chiude nel proprio egoismo borghese in modo analogo alle proprietà che vengono recintate, cessando l'uso comune della terra praticato nella cristianità medievale e nell'antico regime; la patria viene esaltata in contrapposizione alle altre nazioni, anche in seguito alla progressiva scomparsa, nella cultura dei popoli, dell'amore per l'impero sovranazionale.


Si afferma così il nazionalismo, in conseguenza della rottura degli equilibri religiosi e civili su cui si fondava la società precedente la Rivoluzione dell'Ottantanove; questa ideologia porta a compimento un atteggiamento culturale e politico che già aveva caratterizzato il tempo dell'assolutismo o dispotismo illuminato.


Ogni ismo, cioè ogni ideologia, contiene un aspetto della verità: il suo errore consiste nell'affermare questa "verità impazzita" al di fuori di un rapporto gerarchico e organico con altre verità e, soprattutto, nel rifiutare la sottomissione alla Verità, a Dio, origine e significato della verità di ogni cosa.


Una descrizione illuminante della nascita del nazionalismo viene offerta dallo storico Federico Chabod (1901-1960), in parole pronunciate all'università di Milano nell'anno accademico 1943-1944.


"Il secolo XIX conosce [...] quel che il Settecento ignorava: le passioni nazionali. [...]


"La politica acquista pathos religioso; e sempre di più, con il procedere del secolo e con l'inizio del secolo XX: ciò spiega il furore delle grandi conflagrazioni moderne.


"Ora, da che deriva questo pathos se non proprio dal fatto che le nazioni si trasferiscono, potremmo dire, dal piano puramente culturale, alla Herder, sul piano politico, alla Rousseau? [...]


"La nazione diventa la patria: e la patria diviene la nuova divinità del mondo moderno.


"Nuova divinità: e come tale sacra.


"È, questa, la gran novità che, preannunziata dal geloso fervore nazionale del Rousseau, scaturisce dall'età della Rivoluzione francese e dell'Impero. [...]


"Patria, sacra; sangue versato per essa, santo. Ed ecco che da allora, effettivamente, voi sentite parlare di martiri per l'indipendenza, la libertà, l'unità della patria: i martiri del Risorgimento in genere, e in ispecie i martiri dello Spielberg, di Belfiore, ecc.


"Gran mutare del senso delle parole! Per diciotto secoli, il termine di martire era stato riservato a coloro che versavano il proprio sangue per difendere la propria fede religiosa; martire era chi cadeva col nome di Cristo sulle labbra.


"Ora, per la prima volta, il termine viene assunto ad indicare valori, affetti, sacrifici puramente umani, politici: i quali dunque acquistano l'importanza e la profondità dei valori, affetti, sacrifici religiosi, diventano religione anch'essi.


"La “religione della patria”, cioè della nazione.[...]


"Nulla di simile, infatti, s'era mai avuto per l'innanzi. [...]


"E nemmeno nel Machiavelli, con tutta la sua passione politica, nonostante tutto il suo amore per l'Italia, nemmeno nel Machiavelli si può trovare nulla di simile.[...]


"Machiavelli stacca la politica dalla religione; ma a cominciare dall'Ottocento, si trasferisce la religione nella politica, si fa della politica una “religione”; o, che è lo stesso, si crea la “religione della patria”, la quale a sua volta è il fine supremo della politica, la mèta a cui tendere".



3. Il nazionalismo in Italia

Il mutamento culturale descritto da Chabod viene introdotto in Italia durante il Triennio Giacobino (1796-1799) e il successivo periodo della dominazione napoleonica. Ne saranno artefici gli illuministi e i giacobini italiani, oltre agli invasori francesi, ma anche alcuni esponenti della coalizione antinapoleonica, come il plenipotenziario inglese in Sicilia Lord William Bentinck (1774-1839), che cercherà di sfruttare il sentimento nazionale e l'anelito all'indipendenza e all'unità d'Italia contro l'imperialismo napoleonico.


Il nazionalismo è certamente il collante che unisce le diverse anime ideologiche delle forze che promuovono il Risorgimento, la Rivoluzione italiana; gli storici di quest'ultima si divideranno soltanto fra chi sottolineerà la continuità rivoluzionaria fra periodo napoleonico e Risorgimento e chi invece - saranno solo alcuni storici nazionalisti - sosterrà la completa italianità del processo rivoluzionario nella penisola.


Dopo il compimento dell'unificazione nazionale, nel 1870, il nazionalismo rimane un tratto fondamentale della classe dirigente liberale al potere, sia della destra storica che della sinistra, che la sostituisce al governo dopo il 1876, mentre il movimento cattolico e quello socialista sono considerati nemici della patria e dello Stato, il primo per la sua opposizione al modo con cui venne effettuata l'unificazione e il secondo per il suo internazionalismo.


Un certo nazionalismo, imperialista e autoritario, diventa un tratto distintivo di Francesco Crispi (1818-1901), lo statista siciliano che con la sua "politica di grandezza" conduce l'Italia alla grave sconfitta in terra abissina, ad Adua, nel 1896, mentre l'ideologia nazionalista apparirà stemperata nella politica più realistica di Giovanni Giolitti (1842-1928), lo statista piemontese che guida la politica italiana dall'inizio del secolo XX alla prima guerra mondiale.


Proprio nell'"Italietta" di Giolitti trova spazio un "nuovo" nazionalismo, ostile al parlamentarismo, antimassonico e antisocialista, ma sempre legato all'eredità risorgimentale.


4. L'ANI, l'Associazione Nazionalista Italiana

Preparata dalla diffusione delle riviste Marzocco, Leonardo, Il Regno, La Voce, e dall'attività culturale di intellettuali come Enrico Corradini (1865-1931), Giovanni Papini (1881-1956) e Giuseppe Prezzolini (1882-1982) - questi ultimi si staccheranno dal movimento in polemica con il primo -, l'ANI, l'Associazione Nazionalista Italiana, raccoglie nel suo primo congresso, tenuto a Firenze dal 3 al 5 dicembre 1910, quanti vogliono far passare la nuova ideologia nazionalista dall'ambito strettamente culturale a quello politico. Principale artefice della svolta è appunto Corradini, che nella sua relazione lancia la tesi, mutuata dalla dottrina della lotta di classe nella prospettiva socialista, della necessità per le nazioni proletarie, come l'Italia, di praticare una lotta internazionale contro le nazioni ricche per conquistare un futuro migliore. Accanto a lui si costituisce una classe dirigente, di cui fanno parte - fra altri - Alfredo Rocco (1875-1935), uno dei principali "architetti" del regime fascista, e Luigi Federzoni (1878-1967), deputato nazionalista già nel 1913.


In questa ottica di "destra", i nazionalisti partecipano alle elezioni politiche del 1913, alleandosi in un Blocco con moderati e cattolici e riuscendo a far eleggere cinque deputati. Così, il movimento nazionalista trova motivi di convergenza con gli ambienti del cattolicesimo intransigente, sulla base della comune avversione al socialismo e all'influenza massonica sulla vita nazionale. Ma la prima guerra mondiale, ormai imminente, avrebbe provocato un rovesciamento delle alleanze politiche.


5. L'interventismo

Di fronte alla guerra, le forze politiche e l'opinione pubblica si dividono fra favorevoli all'intervento e neutralisti. L'ANI, che tiene il suo terzo congresso a Milano dal 16 al 18 maggio 1914, ancora paradossalmente dedicato a problemi di politica interna, si schiera per l'intervento a favore delle democrazie occidentali, Francia e Gran Bretagna, nonostante le simpatie verso la Triplice Alleanza - costituita dagli imperi germanico, austro-ungarico e russo - presenti nelle file del movimento. Nell'ottobre del 1914 il settimanale nazionalista l'Idea Nazionale diventa quotidiano grazie alla creazione di una società anonima, presieduta dal vicepresidente della FIAT, Dante Ferraris (1868-1931). L'interventismo contro gli Imperi centrali raggela il rapporto instaurato con i cattolici fedeli al Magistero di Papa Benedetto XV (1914-1922), che definiva la guerra in corso una "inutile strage"; e così i nazionalisti si trovano al fianco dei cattolici democratici, come don Luigi Sturzo (1871-1959) e don Romolo Murri (1870-1944), anch'essi favorevoli all'intervento a fianco delle democrazie occidentali.


Dopo la guerra, i nazionalisti sono fra i principali sostenitori della tesi della "vittoria mutilata", secondo cui l'accordo di pace fra gli Stati vincitori, stipulato a Versailles nel 1919, avrebbe perpetrato un'ingiustizia ai danni dell'Italia. Sulla base di questa tesi i nazionalisti accusano la classe politica italiana d'incapacità nella difesa degli interessi nazionali e, dopo aver presentato un'alternativa ideologica con il Manifesto nazionalista, redatto da Rocco e da Francesco Coppola (1878-1957) nel dicembre del 1918, ne propongono una politica con il Programma nazionalista dell'aprile del 1919.


6. L'incontro e la confluenza nel fascismo

Tuttavia, l'ANI rimaneva un ristretto gruppo di intellettuali alla ricerca, consapevole o meno, di un movimento di massa sul quale inserire le proprie capacità intellettuali e politiche. Così, dopo un infruttuoso tentativo di utilizzare l'impresa realizzata a Fiume, nel 1919-1920, da Gabriele D'Annunzio (1863-1938), avviene l'incontro con il fascismo, prima con l'elezione di una decina di deputati nazionalisti nella lista fascista alle elezioni del 1921, poi con la partecipazione alla Marcia su Roma, l'anno successivo.


Nel primo governo guidato da Benito Mussolini (1883-1945) il movimento nazionalista è rappresentato, oltre che dal ministro delle Colonie Federzoni, dal generale Armando Diaz (1861-1928), ministro della Guerra, e dall'ammiraglio Paolo Thaon de Revel (1859-1948), ministro della Marina. Quindi, nel 1923, l'ANI confluisce nel PNF, il Partito Nazionale Fascista, senza ottenere, come avrebbero desiderato i dirigenti nazionalisti, il riconoscimento di una specifica identità all'interno del partito stesso, a causa del veto posto da Benito Mussolini.

Da "Voci per un Dizionario del Pensiero Forte" - Alleanza Cattolica

Maria Vittoria
07-03-05, 11:56
In Origine postato da templares
Infatti me lo ero sempre chiesto dove aveva preso quello strano nome.
P.S. Tu hai scritto a Bush?

I genitori Rice pare siano appassionati di musica classica.
Sì, il 14 febbraio 2005 ho scritto: "Dear U.S.A. President, I'm enthusiast for Condoleeza Rice's diplomacy.
Her name seems to be a spelling mistake: why she would not correct it, from Condoleeza into Condolcezza, after this historical journey?
This is not a joke: we italian sometimes change our name, even our surname, because we still trust in words....
Una e-mail al Suo indirizzo di posta elettronica; e, per conoscenza, ho inviato la stessa ad alcuni nostri riferimenti.
Pensa come sarebbe utile, se noi italiani potessimo essere semplici e ufficiali nel comunicare quello che pensiamo!
Io, almeno, ci sto provando.

Italianhawk83
10-03-05, 13:11
Cari Amici,
per quanto mi riguarda l'attività della prima commissione è molto vicina alla sua conclusione.

Templares
10-03-05, 17:59
In Origine postato da Italianhawk83
Cari Amici,
per quanto mi riguarda l'attività della prima commissione è molto vicina alla sua conclusione.

Si penso che il lavoro della tua commissione possa dirsi concluso.
L'ultima cosa: sarebbe utile un elenco dei pezzi postati suddivisi per categorie, ad es.

I grandi conservatori
La destra conservatrice Israeliana

e così via

Per fare un po di ordine e per sapere come cercare gli argomenti.
Una sorta di indice.

Italianhawk83
10-03-05, 20:18
Giusto Salva, lo farò al più presto.

Italianhawk83
19-03-05, 21:48
Cari Amici,
quoto parte dell'intervento che ho postato nel 3d dedicato ad Amirante giacchè chiarisce in ultima analisi la visione conservatrice del sottoscritto (che in quella discussione risulta oggettivamente fuori luogo).

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Vogliamo parlare al contrario di forzitalioti, nipotini di Koll, e lacchè filo-chiracchiani? Certo, ma per piacere, non me li appiccicate a destra. Non me li fate trovare tra i balocchi conservatori che più amo: quelli sono giocattoli a cui piace stare al Centro, che strizzano l'occhietto a quello scudocrociato che detesto con onorevole disprezzo. E' inutile, non guarirò mai: non ce la faccio a digerire forzatamente sbiaditi gollisti (qualcuno mi spieghi cosa significhi proclamarsi tali...) e scialbi mezzibusti dorotei e dossettiani. Nel "panini" del sottoscritto ci troverete figurine parecchio scomode e proprio per questo indiscutibilmente destre e ben lontane da quel viscido "politically correct" che avverso con fierezza: Edmund Burke, Ronald Reagan, Francisco Franco, Augusto Pinochet, Ariel Sharon, Barry Goldwater, Plinio de Correa, George W. Bush (e chissà quanti ne dimentico).

Per fare chiarezza c'è bisogno di riconoscerlo: nella nostra meravigliosa famiglia convivranno in assoluta armonia conservatori liberali e anti-liberali. Non ho alcuna difficoltà ad inserirmi risolutamente nella seconda categoria convinto come sono (opinabile parere personale rispettosissimo di tutte le sensibilità) che conservatorismo e liberalismo rappresentino sponde politiche del tutto incomunicabili. Certo, ci scendiamo a patti, stringiamo alleanze (ci saranno pure più vicini delle truppe falciomartellate...) ma se dovessimo scavare nel merito delle rispettive quintessenze, beh il solco tra le due scuole sarebbe parecchio profondo.

Sono un convinto antiabortista, rigetto l'eutanasia e le devastanti inclinazioni anti-proibizionistiche per ciò che attiene al contrasto del fenomeno delle tossicodipendenze. Non intendo derogare per via legislativa (ergo coattiva) al naturale ordine delle cose in termini di coppie "alternative", apro con dovuta misurazione alla pena capitale, detesto quel coacervo di dittatorelli chiamato "Nazioni Unite", aborro i sindacati, auspico una radicale revisione dello stato sociale, disprezzo l'assistenzialismo "di Stato" e l'egualitarismo peloso che mortifica l' "aristocrazia dei migliori" salvaguardando ad ogni costo inetti e parassiti.
Trovo patetica quella stucchevole eurofilia venduta a pacchi da cento da un bel pò di scranni parlamentari (troppi). Predico la "tolleranza zero", la rigorosa regolamentazione dei flussi immigratori, l'estensione del carcere duro, l'assoluta certezza della pena che non abdichi a sconti di sorta.
Mi fa specie l' "accanimento diplomatico" e - si può dire senza nauseanti giretti di parole? - sì, sono un fiero militarista (nb. "individuo che nutre stima e considerazione nei confronti degli operatori di Difesa": suona più politically correct ma il tizio in questione non è forse un "militarista"?) che si batterà sempre per il raddoppiamento dei miseri fondi destinati attualmente a forze armate e corpi di polizia.
Non mi limito a condannare il radicalismo islamico ma denuncio l'oggettivo spirito oscurantista (e lesivo dei più elementari diritti umani; che vada a farsi benedire quel tranquillizzante ecumenismo benpensante) proprio dell'intero musulmanesimo (con le dovute distinzioni, ovvio: Al Zarqawi non è mica Re Abdallah...). Ah, domanda: il "Corrierone" nazionale e tutti gli altri quotidiani raziocinanti non compiono per caso il medesimo atto di denuncia - in termini più melliflui, è chiaro - quando ci parlano delle vessazioni subite da donne saudite, egiziane, siriane (non si parla mica dell'Afghanistan talebano...)? Farei entrare non più tardi di domani Tel Aviv all'interno dell'UE; sbarro risolutamente la strada ad Ankara; sento un texano molto più vicino di un tracotante parigino.

Prima di concludere, vi rivolgo un appello accorato: mi dispiacerebbe profondamente se il suddetto profilo venisse sbrigativamente archiviato nel fascicolo dei “populisti d’accatto” al tempo imprudenti e caricaturali. Intendo sottolineare infatti l’estrema serietà (e relativa credibilità) dell’eventuale proposta politica di una formazione che aspiri a smarcarsi dal “virtuoso moderatismo” svenduto un tanto al chilo da una pletora di “autorevoli statisti”. Chi intenda prenderne le distanze infatti, è visto – al meglio – come un pirla desideroso di spararle più grosse – per mero autocompiacimento – dell’ultimo che l’ha preceduto. Le cose evidentemente non stanno così: sul melenso panegirico filo-moderato non vince il radicalismo fine a sé stesso, vince il “d-e-c-i-s-i-o-n-i-s-m-o” (sempre opinioni personali…). A tal proposito vi giro un interrogativo: credete sul serio che la politica di George W. Bush sia “intimamente” – e fuor da ipocrita “politichese” – diversa da quella propagandata dal sottoscritto qualche riga fa? La mia risposta la conoscete e quindi mi domando: perché tirare fuori il solito (squallido e grottesco razzista) Borghezio e non già il titolare della Casa Bianca per denunciare la presunta dimensione “radicale” di proposte considerate “fuori dal coro”? Me la suono e me la canto: perché - a detta del sottoscritto – suonerebbe molto meno parodistico e offensivo.

Fine: giusto per chiamare le cose con il loro nome e senza untuosi cerchiobottismi. Giusto per non confondere cavoli e cicorie, destri e centristi.

Da parte di un orgoglioso conservatore antiliberale (che non intende affatto apparire un ridicolo depositario di "Verità Assolute", tutt'altro...:))