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Stonewall
09-10-03, 12:46
Credo non via sia modo migliore di ricordare la grandezza di S.S. Pio XII, che riprodurre il testo della sua enciclica Humani Generis.

"HUMANI GENERIS"
LETTERA ENCICLICA
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI
PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI
AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE
PACE E COMUNIONE.

"CIRCA ALCUNE FALSE OPINIONI CHE MINACCIANO
DI SOVVERTIRE I FONDAMENTI DELLA DOTTRINA CATTOLICA"

PIO PP. XII
SERVO DEI SERVI DI DIO

VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

Introduzione

I dissensi e gli errori degli uomini in materia religiosa e morale, per tutti gli onesti, soprattutto dei i sinceri e fedeli figli della Chiesa, sono sempre stati origine e causa di fortissimo dolore, ma specialmente oggi, quando vediamo come da ogni parte vengano offesi gli stessi principi della cultura cristiana.

Veramente non c'è da meravigliarsi, se fuori dell'ovile di Cristo sempre vi sono stati questi dissensi ed errori. Benché la ragione umana, assolutamente parlando, con le sue forze e con la sua luce naturale possa effettivamente arrivare alla conoscenza, vera e certa, di Dio unico e personale, che con la sua Provvidenza sostiene e governa il mondo, e anche alla conoscenza della legge naturale impressa dal Creatore nelle nostre anime, tuttavia non pochi sono gli ostacoli che impediscono alla nostra ragione di servirsi con efficacia e con frutto di questo suo naturale potere. Le verità che riguardano Dio e le relazioni tra gli uomini e Dio trascendono del tutto l'ordine delle cose sensibili; quando poi si fanno entrare nella pratica della vita e la informano, allora richiedono sacrificio e abnegazione.

Nel raggiungere tali verità, l'intelletto umano incontra ostacoli della fantasia, sia per le cattive passioni provenienti dal peccato originale. Avviene che gli uomini in queste cose volentieri si persuadono che sia falso, o almeno dubbio, ciò che essi "non vogliono che sia vero". Per questi motivi si deve dire che la Rivelazione divina è moralmente necessaria affinché quelle verità che in materia religiosa e morale non sono per sé irraggiungibili, si possano da tutti conoscere con facilità, con ferma certezza e senza alcun errore. (Conc. Vat. D. B. 1876, Cost. "De fide Cath.", cap. II, De revelatione).

Anzi la mente umana qualche volta può trovare difficoltà anche nel formarsi un giudizio certo di credibilità circa la fede cattolica, benché da Dio siano stati disposti tanti e mirabili segni esterni, per cui anche con la sola luce naturale della ragione si può provare con certezza l'origine divina della religione cristiana. L'uomo infatti, sia perché guidato da pregiudizi, sia perché istigato da passioni e da cattiva volontà, non solo può negare la chiara evidenza dei segni esterni, ma anche resistere alle ispirazioni che Dio infonde nelle nostre anime.

Chiunque osservi il mondo odierno, che è fuori dell'ovile di Cristo, facilmente potrà vedere le principali vie per le quali i dotti si sono incamminati. Alcuni, senza prudenza né discernimento, ammettono e fanno valere per origine di tutte le cose il sistema evoluzionistico, pur non essendo esso indiscutibilmente provato nel campo stesso delle scienze naturali, e con temerarietà sostengono l'ipotesi monistica e panteistica dell'universo soggetto a continua evoluzione. Di quest’ipotesi volentieri si servono i fautori del comunismo per farsi difensori e propagandisti del loro materialismo dialettico e togliere dalle menti ogni nozione di Dio.

Le false affermazioni di siffatto evoluzionismo, per cui viene ripudiato quanto vi è di assoluto, fermo ed immutabile, hanno preparato la strada alle aberrazioni di una nuova filosofia che, facendo concorrenza all'idealismo, all'immanentismo e al pragmatismo, ha preso il nome di "esistenzialismo" perché, ripudiate le essenze immutabili delle cose, si preoccupa solo della "esistenza" dei singoli individui.

Si aggiunge a ciò un falso "storicismo" che si attiene solo agli eventi della vita umana e rovina le fondamenta di qualsiasi verità e legge assoluta sia nel campo della filosofia, sia in quello dei dogmi cristiani.

In tanta confusione di opinioni, Ci reca un po' di consolazione il vedere coloro che un tempo erano stati educati nei principî del razionalismo, ritornare oggi, non di rado, alle sorgenti della verità rivelata, e riconoscere e professare la parola di Dio, conservata nella Sacra Scrittura, come fondamento della Teologia. Nello stesso tempo però reca dispiacere il fatto che non pochi di essi, quanto più fermamente aderiscono alla parola di Dio, tanto più sminuiscono il valore della ragione umana, e quanto più volentieri innalzano l'autorità di Dio Rivelatore, tanto più aspramente disprezzano il Magistero della Chiesa, istituito da Cristo Signore per custodire e interpretare le verità rivelate da Dio. Questo disprezzo non solo è in aperta contraddizione con la Sacra Scrittura, ma si manifesta falso anche con la stessa esperienza. Poiché frequentemente gli stessi "dissidenti" si lamentano in pubblico della discordia che regna fra di loro nel campo dogmatico, cosicché, pur senza volerlo, riconoscono la necessità di un vivo Magistero.

Ora queste tendenze, che più o meno deviano dalla retta strada, non possono essere ignorate o trascurate dai filosofi e dai teologi cattolici, che hanno il grave còmpito di difendere le verità divine ed umane e di farle penetrare nelle menti degli uomini. Anzi, essi devono conoscere bene queste opinioni, sia perché le malattie non si possono curare se prima non sono bene conosciute, sia perché qualche volta nelle stesse false affermazioni si nasconde un po' di verità, sia infine, perché gli stessi errori spingono la mente nostra a investigare e a scrutare con più diligenza alcune verità sia filosofiche che teologiche.

Se i nostri cultori di filosofia e di teologia da queste dottrine, esaminate con cautela, cercassero solo di cogliere i detti frutti, non vi sarebbe motivo perché il Magistero della Chiesa avesse a interloquire. Ma, benché Noi sappiamo bene che gli insegnanti e i dotti cattolici in genere si guardano da tali errori, è noto però che non mancano nemmeno oggi, come ai tempi apostolici, coloro che, amanti più del conveniente delle novità e timorosi di essere ritenuti ignoranti delle scoperte fatte dalla scienza in quest'epoca di progresso, cercano di sottrarsi alla direzione del sacro Magistero e perciò sono nel pericolo di allontanarsi insensibilmente dalle verità Rivelate e di trarre in errore anche gli altri.

Si nota poi un altro pericolo, e tanto più grave, perché si copre maggiormente con l'apparenza della virtù. Molti, deplorando la discordia e la confusione che regna nelle menti umane, mossi da uno zelo imprudente e spinti da uno slancio e da un grande desiderio di rompere i confini con cui sono fra loro divisi i buoni e gli onesti; essi abbracciano perciò una specie di "irenismo" che, omesse le questioni che dividono gli uomini, non cerca solamente di ricacciare, con unità di forze, l'irrompente ateismo, ma anche di conciliare le opposte posizioni nel campo stesso dogmatico.

E come un tempo vi furono coloro che si domandavano se l'apologetica tradizionale della Chiesa costituisse più un ostacolo che un aiuto per guadagnare le anime a Cristo, cosi oggi non mancano coloro che osano arrivare fino al punto di proporre seriamente la questione, se la teologia e il suo metodo, come sono in uso nelle scuole con l'approvazione dell'autorità ecclesiastica, non solo debbano essere perfezionate, ma anche completamente riformate, affinché si possa propagare con più efficacia il regno di Cristo in tutto il mondo, fra gli uomini di qualsiasi cultura o di qualsiasi opinione religiosa.

Se essi non avessero altro intento che quello di rendere, con qualche innovazione, la scienza ecclesiastica e il suo metodo più adatti alle odierne condizioni e necessità, non ci sarebbe quasi motivo di temere; ma alcuni, infuocati da un imprudente "irenismo", sembrano ritenere un ostacolo al ristabilimento dell'unità fraterna, quanto si fonda sulle leggi e sui principî stessi dati da Cristo e sulle istituzioni da Lui fondate, o quanto costituisce la difesa e il sostegno dell'integrità della fede, crollate le quali, tutto viene sì unificato, ma soltanto nella comune rovina.

Queste opinioni, provenienti da deplorevole desiderio di novità o anche da lodevoli motivi, non sempre vengono proposte con la medesima gradazione, con la medesima chiarezza o con i medesimi termini, né sempre i sostenitori di esse sono pienamente d'accordo fra loro; ciò che viene oggi insegnato da qualcuno più copertamente con alcune cautele e distinzioni, domani da altri, più audaci, viene proposto pubblicamente e senza limitazioni, con scandalo di molti, specialmente del giovane clero, e con detrimento dell'autorità ecclesiastica. Se di solito si usa più cautela nelle pubblicazioni stampate, di questi argomenti si tratta con maggiore libertà negli opuscoli distribuiti in privato, nelle lezioni dattilografate e nelle adunanze. Queste opinioni non vengono divulgate solo fra i membri del clero secolare e regolare, nei seminari e negli istituti religiosi, ma anche fra i laici, specialmente fra quelli che si dedicano all'educazione e all'istruzione della gioventù.

I

Per quanto riguarda la Teologia, certuni intendono ridurre al massimo il significato dei dogmi; liberare lo stesso dogma dal modo di esprimersi, già da tempo usato nella Chiesa, e dai concetti filosofici in vigore presso i dottori cattolici, per ritornare nell'esporre la dottrina cattolica, alle espressioni usate dalla Sacra Scrittura e dai Santi Padri. Essi così sperano che il dogma, spogliato degli elementi estrinseci, come essi dicono, alla divina rivelazione, possa venire con frutto paragonato alle opinioni dogmatiche di coloro che sono separati dalla Chiesa e in questo modo si possa pian piano arrivare all'assimilazione del dogma con le opinioni dei dissidenti. Inoltre, ridotta in tali condizioni la dottrina cattolica, pensano di aprire cosi la via attraverso la quale arrivare, dando soddisfazione alle odierne necessità, a poter esprimere i dogmi con le categorie della filosofia odierna, sia dell'immanentismo, sia dell'idealismo, sia dell'esistenzialismo o di qualsiasi altro sistema.

E perciò taluni, più audaci, sostengono che ciò possa, anzi debba farsi, perché i misteri della fede, essi affermano, non possono mai esprimersi con concetti adeguatamente veri, ma solo con concetti approssimativi e sempre mutevoli, con i quali la verità viene in un certo qual modo manifestata, ma necessariamente anche deformata. Perciò ritengono non assurdo, ma del tutto necessario che la teologia, in conformità ai vari sistemi filosofici di cui essa nel corso dei tempi si serve come strumenti, sostituisca nuovi concetti agli antichi; cosicché in modi diversi, e sotto certi aspetti anche opposti, ma come essi dicono equivalenti, esponga al modo umano le medesime verità divine. Aggiungono poi che la storia dei dogmi consiste nell'esporre le varie forme di cui si è rivestita successivamente la verità rivelata, secondo le diverse dottrine e le diverse opinioni che sono sorte nel corso dei secoli.

Da quanto abbiamo detto è chiaro che queste tendenze non solo conducono al relativismo dogmatico, ma di fatto già lo contengono; questo relativismo e poi fin troppo favorito dal disprezzo verso la dottrina tradizionale e verso i termini con cui essa si esprime. Tutti sanno che le espressioni di tali concetti, usate sia nelle scuole sia dal Magistero della Chiesa, possono venir migliorate e perfezionate; è inoltre noto che la Chiesa non è stata sempre costante nell'uso di quelle medesime parole. È chiaro pure che la Chiesa non può essere legata ad un qualunque effimero sistema filosofico; ma quelle nozioni e quei termini, che con generale consenso furono composti attraverso parecchi secoli dai dottori cattolici per arrivare a qualche conoscenza e comprensione del dogma, senza dubbio non poggiano su di un fondamento così caduco. Si appoggiano invece a principî e nozioni dedotte da una vera conoscenza del creato; e nel dedurre queste conoscenze, la verità rivelata, come una stella, ha illuminato per mezzo della Chiesa la mente umana. Perciò non c'è da meravigliarsi se qualcuna di queste nozioni non solo sia stata adoperata in Concili Ecumenici, ma vi abbia ricevuto tale sanzione per cui non ci è lecito allontanarcene.

Per tali ragioni, è massima imprudenza il trascurare o respingere o privare del loro valore i concetti e le espressioni che da persone di non comune ingegno e santità, sotto la vigilanza del sacro Magistero e non senza illuminazione e guida dello Spirito Santo, sono state più volte con lavoro secolare trovate e perfezionate per esprimere sempre più accuratamente le verità della fede, e sostituirvi nozioni ipotetiche ed espressioni fluttuanti e vaghe della nuova filosofia, le quali, a somiglianza dell'erba dei campi, oggi vi sono e domani seccano; a questo modo si rende lo stesso dogma simile a una canna agitata dal vento. Il disprezzo delle parole e delle nozioni usate dai teologi scolastici, di per sé conduce all'indebolimento della teologia speculativa, che essi ritengono priva di una vera certezza in quanto si fonda sulle ragioni teologiche.

Purtroppo questi amatori delle novità facilmente passano dal disprezzo della teologia scolastica allo spregio verso lo stesso Magistero della Chiesa che ha dato, con la sua autorità, una cosi notevole approvazione a quella teologia. Questo Magistero viene da costoro fatto apparire come un impedimento al progresso e un ostacolo per la scienza; da alcuni acattolici poi viene considerato come un freno, ormai ingiusto, con cui alcuni teologi più colti verrebbero trattenuti dal rinnovare la loro scienza. E benché questo sacro Magistero debba essere per qualsiasi teologo, in materia di fede e di costumi, la norma prossima e universale di verità (in quanto ad esso Cristo Signore ha affidato il deposito della fede - cioè la Sacra Scrittura e la Tradizione divina - per essere custodito, difeso ed interpretato, tuttavia viene alle volte ignorato, come se non esistesse, il dovere che hanno i fedeli di rifuggire pure da quegli errori che in maggiore o minore misura s'avvicinano all'eresia, e quindi "di osservare anche le costituzioni e i decreti. con cui queste false opinioni vengono dalla Santa Sede proscritte e proibite" (Corp. Jur. Can., can. 1324; Cfr. Conc. Vat. D. B. 1820, Cost. "De fide cath.", cap. 4, De fide et ratione, post canones).

Quanto viene esposto nelle Encicliche dei Sommi Pontefici circa il carattere e la costituzione della Chiesa, viene da certuni, di proposito e abitualmente, trascurato con lo scopo di far prevalere un concetto vago che essi dicono preso dagli antichi Padri, specialmente greci. I Pontefici infatti - essi vanno dicendo - non intendono dare un giudizio sulle questioni che sono oggetto di disputa tra i teologi; è quindi necessario ritornare alle fonti primitive, e con gli scritti degli antichi si devono spiegare le costituzioni e i decreti del Magistero.

Queste affermazioni vengono fatte forse con eleganza di stile; però esse non mancano di falsità. Infatti è vero che generalmente i Pontefici lasciano liberi i teologi in quelle questioni che, in vario senso, sono soggette a discussioni fra i dotti di miglior fama; però la storia insegna che parecchie questioni, che prima erano oggetto di libera disputa, in seguito non potevano più essere discusse.

Né si deve ritenere che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo.

Infatti questi insegnamenti sono del Magistero ordinario, di cui valgono poi le parole: "Chi ascolta voi, ascolta me" (Luc. X, 16); e per lo più, quanto viene proposto e inculcato nelle Encicliche, è già per altre ragioni patrimonio della dottrina cattolica. Se poi i Sommi Pontefici nei loro atti emanano di proposito una sentenza in materia finora controversa, è evidente per tutti che tale questione, secondo l'intenzione e la volontà degli stessi Pontefici, non può più costituire oggetto di libera discussione fra i teologi.

È vero pure che i teologi devono sempre ritornare alle fonti della Rivelazione divina: è infatti loro còmpito indicare come gli insegnamenti del vivo Magistero "si trovino sia esplicitamente sia implicitamente" nella Sacra Scrittura o nella divina tradizione. Inoltre si aggiunga che ambedue le fonti della Rivelazione contengono tali e tanti tesori di verità da non potersi mai, di fatto, esaurire. Le scienze sacre con lo studio delle sacre fonti ringiovaniscono sempre; al contrario, diventa sterile, come sappiamo dall’esperienza, la speculazione che trascura la ricerca del sacro deposito. Ma per questo motivo la teologia, anche quella positiva, non può essere equiparata ad una scienza solamente storica. Dio insieme a queste sacre fonti ha dato alla sua Chiesa il vivo Magistero, anche per illustrare e svolgere quelle verità che sono contenute nel deposito della fede soltanto oscuramente e come implicitamente. E il divin Redentore non ha mai dato questo deposito, per l'autentica interpretazione, né ai singoli fedeli, né agli stessi teologi, ma solo al Magistero della Chiesa. Se poi la Chiesa esercita questo suo officio (come nel corso dei secoli è spesso avvenuto) con l'esercizio sia ordinario che straordinario di questo medesimo officio, è evidente che è del tutto falso il metodo con cui si vorrebbe spiegare le cose chiare con quelle oscure; anzi è necessario che tutti seguano l'ordine inverso. Perciò il Nostro Predecessore di imperitura memoria Pio IX, mentre insegnava che è còmpito nobilissimo della teologia quello di mostrare come una dottrina definita dalla Chiesa è contenuta nelle fonti, non senza grave motivo aggiungeva le seguenti parole: "in quello stesso senso, con cui è stata definita dalla Chiesa".

II

Ritorniamo ora alle teorie nuove, di cui abbiamo parlato prima: da alcuni vengono proposte o istillate nella mente diverse opinioni che sminuiscono l'autorità divina della Sacra Scrittura. Con audacia alcuni pervertono il senso delle parole del Concilio Vaticano con cui si definisce che Dio è l’Autore della Sacra Scrittura, e rinnovano la sentenza, già più volte condannata, secondo cui l'inerranza della Sacra Scrittura si estenderebbe soltanto a ciò che riguarda Dio stesso o la religione e la morale.

Anzi falsamente parlano di un senso umano della Bibbia, sotto il quale sarebbe nascosto il senso divino, che è, come essi dichiarano, il solo infallibile. Nell'interpretazione della Sacra Scrittura essi non vogliono tener conto dell'analogia della fede e della tradizione della Chiesa; in modo che la dottrina dei Santi Padri e del Magistero dovrebbe essere misurata con quella della Sacra Scrittura, spiegata, però, dagli esegeti in modo puramente umano; e non piuttosto la Sacra Scrittura esposta secondo la mente della Chiesa, che da Cristo Signore è stata costituita custode e interprete di tutto il deposito delle verità rivelate.

Inoltre il senso letterale della Sacra Scrittura e la sua spiegazione elaborata, sotto la vigilanza della Chiesa, da tali e tanti esegeti, dovrebbe, secondo le loro false opinioni, cedere il posto ad una nuova esegesi, chiamata simbolica e spirituale; secondo quest’esegesi i libri del Vecchio Testamento, che oggi nella Chiesa sono una fonte chiusa e nascosta, verrebbero finalmente aperti a tutti. In questo modo - essi affermano - svaniscono tutte le difficoltà alle quali vanno incontro soltanto coloro che si attengono al senso letterale delle Scritture.

Tutti vedono quanto tutte queste opinioni si allontanino dai principi e dalle norme ermeneutiche giustamente stabilite dai Nostri Predecessori di felice memoria: da Leone XIII nell'Enciclica "Providentissimus Deus", da Benedetto XV nell'Enciclica "Spiritus Paraclitus", come pure da Noi stessi nell'Enciclica "Divino afflante Spiritu".

Non deve recare meraviglia che tali novità in quasi tutte le parti della teologia abbiano prodotto i loro velenosi frutti. Si mette in dubbio che la ragione umana, senza l'aiuto della divina Rivelazione e della grazia, possa dimostrare con argomenti dedotti dalle cose create, l'esistenza di un Dio personale; si afferma che il mondo non ha avuto inizio e che la creazione del mondo è necessaria, perché procede dalla necessaria liberalità del divino amore; così pure si afferma che Dio non ha prescienza eterna ed infallibile delle libere azioni dell'uomo: tutte opinioni contrarie alle dichiarazioni del Concilio Vaticano (Cfr. Conc. Vat. Cost. "De fide cath.", cap. 1: De Deo rerum omnium creatore).

Da alcuni poi si mette in discussione se gli angeli siano persone; se vi sia una differenza essenziale fra la materia e lo spirito. Altri snaturano il concetto della gratuità dell'ordine sovrannaturale, quando sostengono che Dio non può creare esseri intelligenti senza ordinarli e chiamarli alla visione beatifica. Né basta; poiché, messe da parte le definizioni del Concilio di Trento, viene distrutto il vero concetto di peccato originale e insieme quello di peccato in genere, in quanto offesa di Dio, come pure quello di soddisfazione data per noi da Cristo. Né mancano coloro che sostengono che la dottrina della transustanziazione, in quanto fondata su un concetto antiquato di sostanza, deve essere corretta in modo da ridurre la presenza reale di Cristo nell'Eucaristia ad un simbolismo, per cui le specie consacrate non sarebbero altro che segni efficaci della presenza di Cristo e della sua intima unione nel Corpo mistico con i membri fedeli.

Certuni non si ritengono legati alla dottrina che Noi abbiamo esposta in una Nostra Enciclica e che è fondata sulle fonti della Rivelazione, secondo cui il Corpo mistico di Cristo e la Chiesa cattolica romana sono una sola identica cosa. Alcuni riducono ad una vana formula la necessità di appartenere alla vera Chiesa per ottenere l'eterna salute. Altri infine non ammettono il carattere razionale dei segni di credibilità della fede cristiana.

È noto che questi errori, ed altri del genere, serpeggiano in mezzo ad alcuni Nostri figli, tratti in inganno da uno zelo imprudente o da una scienza di falso conio; e a questi figli sono costretti a ripetere, con animo addolorato, verità notissime ed errori manifesti, indicando loro con ansietà i pericoli dell'errore.

III

Tutti sanno quanto la Chiesa apprezzi il valore della ragione umana, alla quale spetta il còmpito di dimostrare con certezza l’esistenza di un solo Dio personale, di dimostrare invincibilmente per mezzo dei segni divini i fondamenti della stessa fede cristiana; di porre inoltre rettamente in luce la legge che il Creatore ha impressa nelle anime degli uomini; ed infine il còmpito di raggiungere una conoscenza limitata, ma utilissima, dei misteri (Cfr. Conc. Vat. D. B. 1796).

Ma questo còmpito potrà essere assolto convenientemente e con sicurezza, se la ragione sarà debitamente coltivata: se cioè essa verrà nutrita di quella sana filosofia che è come un patrimonio ereditato dalle precedenti età cristiane e che possiede una più alta autorità, perché lo stesso Magistero della Chiesa ha messo al confronto con la verità rivelata i suoi principî e le sue principali asserzioni, messe in luce e fissate lentamente attraverso i tempi da uomini di grande ingegno. Questa stessa filosofia, confermata e comunemente ammessa dalla Chiesa, difende il genuino valore della cognizione umana, gli incrollabili principî della metafisica cioè di ragion sufficiente, di causalità e di finalità ed infine sostiene che si può raggiungere la verità certa ed immutabile.

In questa filosofia vi sono certamente parecchie cose che non riguardano la fede e i costumi, né direttamente né indirettamente, e che perciò la Chiesa lascia alla libera discussione dei competenti in materia; ma non vi è la medesima libertà riguardo a parecchie altre, specialmente riguardo ai principî ed alle principali asserzioni di cui già parlammo. Anche in tali questioni essenziali si può dare alla filosofia una veste più conveniente e più ricca; si può rafforzare la stessa filosofia con espressioni più efficaci, spogliarla di certi mezzi scolastici meno adatti, arricchirla anche - però con prudenza - di certi elementi che sono frutto del progressivo lavoro della mente umana; però non si deve mai sovvertirla o contaminarla con falsi principî, né stimarla solo come un grande monumento, sì, ma archeologico. La verità in ogni sua manifestazione filosofica non può essere soggetta a quotidiani mutamenti specialmente trattandosi dei principî per sé noti della ragione umana o di quelle asserzioni che poggiano tanto sulla sapienza dei secoli che sul consenso e sul fondamento anche della Rivelazione divina. Qualsiasi verità la mente umana con sincera ricerca ha potuto scoprire, non può essere in contrasto con la verità già acquisita; perché Dio, Somma Verità, ha creato e regge l'intelletto umano non affinché alle verità rettamente acquisite ogni giorno esso ne contrapponga altre nuove; ma affinché,, rimossi gli errori che eventualmente vi si fossero insinuati, aggiunga verità a verità nel medesimo ordine e con la medesima organicità con cui vediamo costituita la natura stessa delle cose da cui la verità si attinge. Per tale ragione il cristiano, sia egli filosofo o teologo, non abbraccia con precipitazione e leggerezza tutte le novità che ogni giorno vengono escogitate, ma le deve esaminare con la massima diligenza e le deve porre su una giusta bilancia per non perdere la verità già conquistata o corromperla, certamente con pericolo e danno della fede stessa.

Se si considera bene quanto sopra è stato esposto, facilmente apparirà chiaro il motivo per cui la Chiesa esige che i futuri sacerdoti siano istruiti nelle scienze filosofiche "secondo il metodo, la dottrina e i principi del Dottor Angelico" (Corp. Jur. Can., can. 1366, 2), giacché, come ben sappiamo dall'esperienza di parecchi secoli, il metodo dell'Aquinate si distingue per singolare superiorità tanto nell'ammaestrare gli animi che nella ricerca della verità; la sua dottrina poi è in armonia con la Rivelazione divina ed è molto efficace per mettere al sicuro i fondamenti della fede come pure per cogliere con utilità e sicurezza i frutti di un sano progresso (A. A. S. vol. XXXVIII, 1946, p. 387).

Perciò è quanto mai da deplorarsi che oggi la filosofia confermata ed ammessa dalla Chiesa sia oggetto di disprezzo da parte di certuni, talché essi con imprudenza la dichiarano antiquata per la forma e razionalistica per il processo di pensiero. Vanno dicendo che questa nostra filosofia difende erroneamente l'opinione che si possa dare una metafisica vera in modo assoluto; mentre al contrario essi sostengono che le verità, specialmente quelle trascendenti, non possono venire espresse più convenientemente che per mezzo di dottrine disparate che si completano tra loro, benché siano in certo modo l'una all'altra opposte. Perciò la filosofia scolastica con la sua lucida esposizione e soluzione delle questioni, con la sua accurata determinazione dei concetti e le sue chiare distinzioni, può essere utile - essi concedono - come preparazione allo studio della teologia scolastica, molto bene adattata alla mentalità degli uomini medievali; ma non può darci - aggiungono - un metodo ed un indirizzo filosofico che risponda alle necessità della nostra cultura moderna. Oppongono, inoltre, che la filosofia perenne non è che la filosofia delle essenze immutabili, mentre la mentalità moderna deve interessarsi della "esistenza" dei singoli individui e della vita sempre in divenire.

Però, mentre disprezzano questa filosofia, esaltano le altre, sia antiche che recenti, sia di popoli orientali che di quelli occidentali, in modo che sembrano voler insinuare che tutte le filosofie o opinioni, con l'aggiunta - se necessario - di qualche correzione o di qualche complemento, si possono conciliare con il dogma cattolico. Ma nessun cattolico può mettere in dubbio quanto tutto ciò sia falso, specialmente quando si tratti di sistemi come l'immanentismo, l'idealismo, il materialismo, sia storico che dialettico, o anche come l'esistenzialismo, quando esso professa l'ateismo o quando nega il valore del ragionamento nel campo della metafisica.

Infine alla filosofia delle nostre scuole essi fanno questo rimprovero: che essa nel processo del pensiero bada solo all'intelletto e trascura la funzione della volontà e del sentimento. Ciò non corrisponde a verità. La filosofia cristiana non ha mai negato l'utilità e l'efficacia che hanno le buone disposizioni di tutta l'anima per conoscere ed abbracciare le verità religiose e morali; anzi, ha sempre insegnato che la mancanza di tali disposizioni può essere la causa per cui l'intelletto, sotto l'influsso delle passioni e della cattiva volontà, venga cosi oscurato da non poter rettamente vedere. Di più, il Dottor Comune ritiene che l'intelletto possa in qualche modo percepire i beni di grado superiore dell'ordine morale sia naturale che soprannaturale, in quanto esso esperimenta nell'ultimo una certa "connaturalità" sia essa naturale, sia frutto della grazia, con i medesimi beni (Cfr. S. Thom., Summa Theol. IIa IIæ, quæst. I, art. 4 ad 3; et quæst. 45, art. 2, in c.); ed è chiaro quanto questa, sia pur subcosciente, conoscenza possa essere di aiuto alla ragione nelle sue ricerche. Ma altro è riconoscere il potere che hanno la volontà e le disposizioni dell'animo di aiutare la ragione a raggiungere una conoscenza più certa e più salda delle verità morali, ed altro in quanto vanno sostenendo quei tali novatori: cioè che la volontà e il sentimento hanno un certo potere intuitivo e che l'uomo, non potendo col ragionamento discernere con certezza ciò che dovrebbe abbracciare come vero, si volge alla volontà, per cui egli possa compiere una libera risoluzione ed elezione fra opposte opinioni, mescolando malamente così la conoscenza e l'atto della volontà.

Non c'è da meravigliarsi che con queste nuove opinioni siano messe in pericolo le due scienze filosofiche che, per natura loro, sono strettamente collegate con gli insegnamenti della fede, cioè la teodicea e l'etica; essi ritengono che la funzione di queste non sia quella di dimostrare con certezza qualche verità riguardante Dio o altro ente trascendente, ma piuttosto quella di mostrare come siano perfettamente coerenti con le necessità della vita le verità che la fede insegna riguardo a Dio, Essere personale, e ai suoi precetti, e che perciò devono essere accettate da tutti per evitare la disperazione e per ottener l'eterna salvezza. Tutte queste affermazioni e opinioni sono apertamente contrarie ai documenti dei Nostri Predecessori Leone XIII e Pio X, e sono inconciliabili con i decreti del Concilio Vaticano.

Sarebbe veramente inutile deplorare queste aberrazioni, se tutti, anche nel campo filosofico, fossero ossequienti con la debita venerazione verso il Magistero della Chiesa, che per istituzione divina ha la missione non solo di custodire e interpretare il deposito della Rivelazione, ma anche di vigilare sulle stesse scienze filosofiche perché i dogmi cattolici non abbiano a ricevere alcun danno da opinioni non rette.

IV

Rimane ora da parlare di quelle questioni che, pur appartenendo alle scienze positive, sono più o meno connesse con le verità della fede cristiana. Non pochi chiedono instantemente che la religione cattolica tenga massimo conto di quelle scienze. Il che è senza dubbio cosa lodevole, quando si tratta di fatti realmente dimostrati; ma bisogna andar cauti quando si tratta piuttosto di ipotesi, benché in qualche modo fondate scientificamente, nelle quali si tocca la dottrina contenuta nella Sacra Scrittura o anche nella tradizione. Se tali ipotesi vanno direttamente o indirettamente contro la dottrina rivelata, non possono ammettersi in alcun modo.

Per queste ragioni il Magistero della Chiesa non proibisce che in conformità dell'attuale stato delle scienze e della teologia, sia oggetto di ricerche e di discussioni, da parte dei competenti in tutti e due i campi, la dottrina dell'evoluzionismo, in quanto cioè essa fa ricerche sull'origine del corpo umano, che proverrebbe da materia organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente sia Dio). Però questo deve essere fatto in tale modo che le ragioni delle due opinioni, cioè di quella favorevole e di quella contraria all'evoluzionismo, siano ponderate e giudicate con la necessaria serietà, moderazione e misura e purché tutti siano pronti a sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato l'ufficio di interpretare autenticamente la Sacra Scrittura e di difendere i dogmi della fede (Cfr. Allocuzione Pont. ai membri dell'Accademia delle Scienze, 30 novembre 1941; A. A. S. Vol. , p. 506). Però alcuni oltrepassano questa libertà di discussione, agendo in modo come fosse già dimostrata con totale certezza la stessa origine del corpo umano dalla materia organica preesistente, valendosi di dati indiziali finora raccolti e di ragionamenti basati sui medesimi indizi; e ciò come se nelle fonti della divina Rivelazione non vi fosse nulla che esiga in questa materia la più grande moderazione e cautela.

Però quando si tratta dell'altra ipotesi, cioè del poligenismo, allora i figli della Chiesa non godono affatto della medesima libertà. I fedeli non possono abbracciare quell'opinione i cui assertori insegnano che dopo Adamo sono esistiti qui sulla terra veri uomini che non hanno avuto origine, per generazione naturale, dal medesimo come da progenitore di tutti gli uomini, oppure che Adamo rappresenta l'insieme di molti progenitori; non appare in nessun modo come queste affermazioni si possano accordare con quanto le fonti della Rivelazione e gli atti del Magistero della Chiesa ci insegnano circa il peccato originale, che proviene da un peccato veramente commesso da Adamo individualmente e personalmente, e che, trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio (cfr. Rom. V, 12-19; Conc. Trident., sess. V, can. 1-4).

V

Come nelle scienze biologiche ed antropologiche, cosi pure in quelle storiche vi sono coloro che audacemente oltrepassano i limiti e le cautele stabilite dalla Chiesa. In modo particolare si deve deplorare un certo sistema di interpretazione troppo libera dei libri storici del Vecchio Testamento; i fautori di questo sistema, per difendere le loro idee, a torto si riferiscono alla Lettera che non molto tempo fa è stata inviata all'arcivescovo di Parigi dalla Pontificia Commissione per gli Studi Biblici (16 gennaio 1948; A. A. S., vol. XL, pp. 45-48).

Questa Lettera infatti fa notare che gli undici primi capitoli del Genesi, benché propriamente parlando non concordino con il metodo storico usato dai migliori autori greci e latini o dai competenti del nostro tempo, tuttavia appartengono al genere storico in un vero senso, che però deve essere maggiormente studiato e determinato dagli esegeti; i medesimi capitoli - fa ancora notare la Lettera - con parlare semplice e metaforico, adatto alla mentalità di un popolo poco civile, riferiscono sia le principali verità che sono fondamentali per la nostra salvezza, sia anche una narrazione popolare dell'origine del genere umano e del popolo eletto.

Se qualche cosa gli antichi agiografi hanno preso da narrazioni popolari (il che può essere concesso), non bisogna mai dimenticare che hanno fatto questo con l'aiuto dell'ispirazione divina, che nella scelta e nella valutazione di quei documenti li ha premuniti da ogni errore. Quindi le narrazioni popolari inserite nelle Sacre Scritture non possono affatto essere poste sullo stesso piano delle mitologie o simili, le quali sono frutto più di un'accesa fantasia che di quell'amore alla verità e alla semplicità che risalta talmente nei Libri Sacri, anche del Vecchio Testamento, da dover affermare che i nostri agiografi son palesemente superiori agli antichi scrittori profani.

Veramente Noi sappiamo che la maggioranza dei dottori cattolici, dei cui studi raccolgono i frutti gli Atenei, i Seminari e i Collegi dei religiosi, sono lontani da quegli errori che apertamente o di nascosto oggi vengono divulgati, sia per smania di novità, sia anche per una non moderata intenzione di apostolato. Ma sappiamo anche che queste nuove opinioni possono fai presa tra le persone imprudenti; quindi preferiamo porvi rimedio sugli inizi, piuttosto che somministrare la medicina quando la malattia è ormai invecchiata.

Per questo motivo, dopo matura riflessione e considerazione, per non venir meno al Nostro sacro dovere, ordiniamo ai Vescovi e ai Superiori Generali degli Ordini e Congregazioni religiose, onerata in maniera gravissima la loro coscienza, di curare con ogni diligenza che opinioni di tal genere non siano sostenute nelle scuole o nelle adunanze e conferenze, né con scritti di qualsiasi genere e nemmeno sans insegnate, in qualsivoglia maniera, ai chierici o ai fedeli.

Gli insegnanti degli Istituti ecclesiastici sappiano che essi non possono esercitare con tranquilla coscienza l'ufficio di insegnare che è stato loro affidato, se non accettano religiosamente le norme che abbiamo stabilite e non le osservano esattamente nell'insegnamento delle loro materie. Quella doverosa venerazione ed obbedienza che nel loro assiduo lavoro devono professare verso il Magistero della Chiesa le infondano anche nella mente e nell'anima dei loro scolari.

Conclusione

Cerchiamo con ogni sforzo e con passione di concorrere al progresso delle scienze che insegnano; ma si guardino anche dall'oltrepassare i confini da Noi stabiliti per la difesa della fede e della dottrina cattolica. Alle nuove questioni, che la cultura moderna e il progresso hanno fatto diventare di attualità, diano l'apporto delle loro accuratissime ricerche, ma con la conveniente prudenza e cautela; infine, non abbiano a credere, per un falso "irenismo", che si possa ottenere un felice ritorno nel seno della Chiesa dei dissidenti e degli erranti, se non si insegna a tutti, sinceramente, tutta la verità in vigore nella Chiesa, senza alcuna corruzione e senza alcuna diminuzione.

Fondati su questa speranza, che sarà aumentata dalla vostra pastorale solerzia, come auspicio dei celesti doni e segno della Nostra paterna benevolenza, impartiamo di gran cuore a voi tutti singolarmente, come al clero e al popolo vostri, l'apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 22 del mese di Agosto dell'anno 1950, XII del Nostro Pontificato.

PIO PP. XII

Augustinus
09-10-03, 13:19
Posto altre note encicliche di quel grande Papa.
Augustinus

"MEDIATOR DEI"

LETTERA ENCICLICA
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI
PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI
AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE
PACE E COMUNIONE

"SULLA SACRA LITURGIA"

PIO PP. XII
SERVO DEI SERVI DI DIO

VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE



Introduzione

"II Mediatore tra Dio e gli uomini" (I Tim. 2, 5), il grande Pontefice che penetrò i cieli, Gesù Figlio di Dio (Heb. 4, 14), assumendosi l'opera di misericordia con la quale arricchì il genere umano di benefici soprannaturali, mirò senza dubbio a ristabilire tra gli uomini e il loro Creatore quell'ordine che il peccato aveva turbato ed a ricondurre al Padre Celeste, primo principio ed ultimo fine, la misera stirpe di Adamo infetta dal peccato d'origine. E perciò, durante la sua dimora terrena, non solo annunziò l'inizio della redenzione e dichiarò inaugurato il Regno di Dio, ma attese a procurare la salute delle anime con il continuo esercizio della preghiera e del sacrificio, finché, sulla Croce, si offri vittima immacolata a Dio per mondare la nostra coscienza dalle opere morte onde servire al Dio vivo (Heb. 9, 14). Cosi tutti gli uomini, felicemente richiamati dalla via che li trascinava alla rovina e alla perdizione, furono ordinati di nuovo a Dio, affinché, con la personale collaborazione al conseguimento della propria santificazione, frutto del sangue immacolato dell'Agnello, dessero a Dio la gloria che Gli è dovuta.

I1 Divino Redentore volle, poi, che la vita sacerdotale da Lui iniziata nel suo corpo mortale con le sue preghiere ed il suo sacrificio, non cessasse nel corso dei secoli nel suo Corpo Mistico che è la Chiesa; e perciò istituì un sacerdozio visibile per offrire dovunque la oblazione monda (Matth, 1, 11), affinché tutti gli uomini, dall'Oriente all'Occidente, liberati dal peccato, per dovere di coscienza servissero spontaneamente e volentieri a Dio.

La Chiesa dunque, fedele al mandato ricevuto dal Suo Fondatore, continua l'ufficio sacerdotale di Gesù Cristo soprattutto con la Sacra Liturgia. Ciò fa in primo luogo all'altare, dove il sacrificio della Croce è perpetuamente rappresentato (Conc. Trid., Sess. 22, c. 1) e, con la sola differenza del modo di offrire, rinnovato (Conc. Trid., Sess. 22, c. 2); poi con i Sacramenti, che sono particolari strumenti per mezzo dei quali gli uomini partecipano alla vita soprannaturale; in fine col quotidiano tributo di lodi offerto a Dio Ottimo Massimo. "Quale giocondo spettacolo - così il Nostro Predecessore di felice memoria Pio XI - offre al Cielo e alla terra la Chiesa che prega, quando, continuamente, durante tutti i giorni e tutte le notti, vengono in terra cantati i Salmi scritti per divina ispirazione: nessuna ora del giorno è priva della consacrazione di una propria liturgia; ogni età della vita ha il suo posto nel rendimento di grazie, nelle lodi, nelle preci, nelle aspirazioni di questa comune preghiera del mistico Corpo di Cristo, che è la Chiesa" (Enc. Caritate Christi, 3.V.1932).

Certamente vi è noto, Venerabili Fratelli, che, verso la fine del secolo scorso ed agli inizi del presente, si ebbe un singolare fervore di studi liturgici, sia per lodevole iniziativa di alcuni privati, sia soprattutto per la zelante ed assidua diligenza di vari monasteri dell'inclito Ordine Benedettino; cosicché non soltanto in molte regioni di Europa, ma anche nelle terre al di là dell'Oceano, si sviluppò a questo proposito una encomiabile ed utile gara, le cui benefiche conseguenze furono visibili sia nel campo delle sacre discipline, dove i riti liturgici della Chiesa Orientale ed Occidentale furono più ampiamente e profondamente studiati e conosciuti, sia nella vita spirituale e privata di molti cristiani. Le auguste cerimonie del Sacrificio dell'altare furono meglio conosciute, comprese e stimate; la partecipazione ai Sacramenti più larga e frequente, le preghiere liturgiche più soavemente gustate, e il culto eucaristico considerato come veramente è il centro e la fonte della vera pietà cristiana. Fu, inoltre, messo più chiaramente in evidenza il fatto che tutti i fedeli costituiscono un solo, compattissimo corpo, di cui Cristo è il capo, dal che ne viene il dovere per il popolo cristiano di partecipare secondo la propria condizione ai riti liturgici. Voi, senza dubbio, sapete benissimo che questa Sede Apostolica ha sempre avuto premura che il popolo ad essa affidato fosse educato ad un vero ed operoso senso liturgico, e che, con non minore zelo, si è preoccupata che i sacri riti splendessero anche all'esterno di una confacente dignità. Nello stesso ordine di idee, Noi, parlando, secondo la consuetudine, ai predicatori quaresimali di questa nostra alma Città nel 341, li abbiamo calorosamente esortati ad ammonire i loro ascoltatori perché partecipassero con sempre maggiore impegno al Sacrificio Eucaristico; e recentemente abbiamo fatto tradurre di nuovo in latino dal testo originale il libro dei Salmi perché le preghiere liturgiche, di cui esso è cosi grande parte nella Chiesa Cattolica, fossero più esattamente intese e la loro verità e soavità più agevolmente percepite (Motu proprio In cotidianis precibus, 24.III.1945).

Tuttavia, mentre, per i salutari frutti che ne derivano, l'apostolato liturgico Ci è di non poco conforto, il Nostro dovere Ci impone di seguire con attenzione questo "rinnovamento", nella maniera nella quale è da alcuni concepito, e di curare diligentemente che le iniziative non diventino né eccessive né difettose.

Ora, se da una parte constatiamo con dolore che in alcune regioni il senso, la conoscenza, e lo studio della Liturgia sono talvolta scarsi o quasi nulli, dall'alto notiamo con molta apprensione che alcuni sono troppo avidi di novità e si allontanano dalla via della sana dottrina e della prudenza. Giacché all'intenzione e al desiderio di un rinnovamento liturgico, essi frappongono spesso principi che, o in teoria o in pratica, compromettono questa santissima causa, e spesso anche la contaminano di errori che toccano la fede cattolica e la dottrina ascetica. La purezza della fede e della morale deve essere la norma caratteristica di questa sacra disciplina, che deve assolutamente conformarsi al sapientissimo insegnamento della Chiesa. e dunque Nostro dovere lodare e approvare tutto ciò che è ben fatto, contenere o riprovare tutto ciò che devia dal vero e giusto cammino.

Non credano, però, gl'inerti e i tiepidi di avere il Nastro consenso perché riprendiamo gli erranti e poniamo freno agli audaci; né gli imprudenti si ritengano lodati quando correggiamo i negligenti ed i pigri. Quantunque in questa Nostra Lettera Enciclica trattiamo soprattutto della Liturgia latina, ciò non è dovuto a minore stima delle venerande Liturgie della Chiesa Orientale, i cui riti, trasmessi da nobili e antichi documenti, Ci sono egualmente carissimi; ma dipende piuttosto dalle condizioni particolari della Chiesa Occidentale, che sono tali da richiedere l'intervento della Nostra autorità. Ascoltino, perciò, tutti i cristiani, con docilità, la voce del Padre comune, il quale desidera ardentemente che tutti. a Lui intimamente uniti, si accostino all'altare di Dio, professando la stessa fede, obbedendo alla stessa legge, partecipando allo stesso sacrificio con un solo intendimento e una sola volontà. Lo richiede l'onore a Dio dovuto; lo esigono i bisogni dei tempi presenti. Infatti, dopo che una lunga e crudele guerra ha diviso i popoli con le rivalità e le stragi, gli uomini di buona volontà si sforzano nel miglior modo possibile di ricondurre tutti alla concordia. Crediamo tuttavia che nessun disegno e nessuna iniziativa sia, in questo caso, più efficace di un fervido spirito e zelo religioso, da cui è necessario siano animati e guidati i cristiani, in modo che, accettando con animo schietto le stesse verità e obbedendo docilmente ai legittimi Pastori, nell'esercizio del culto a Dio dovuto, costituiscano una fraterna comunità: "benché molti, siamo un sol corpo, partecipando tutti di quell'unico pane" (I Cor. 10, 17).

I caratteri della Liturgia

Il dovere fondamentale dell'uomo è certamente quello di orientare verso Dio se stesso e la propria vita. "A Lui, difatti, dobbiamo principalmente unirci, e indefettibile principio, al quale deve anche costantemente rivolgersi la nostra scelta come ad ultimo fine, che perdiamo peccando anche per negligenza e che dobbiamo riconquistare per la fede credendo in Lui " (San Tommaso, Summa Theol., 2.a 2.æ, q. 81, a. 1). Ora, l'uomo si volge ordinatamente a Dio quando ne riconosce la suprema maestà e il supremo magistero, quando accetta con sottomissione le verità divinamente rivelate, quando ne osserva religiosamente le leggi, quando fa convergere verso di Lui tutta la sua attività, quando per dirla in breve presta, mediante le virtù della religione, il debito culto all'unico e vero Dio.

Questo è un dovere che obbliga prima di tutto gli uomini singolarmente, ma è anche un dovere collettivo di tutta la comunità umana ordinata con reciproci vincoli sociali, perché anch'essa dipende dalla somma autorità di Dio. Si noti, poi, che questo è un particolare dovere degli uomini, in quanto Dio li ha elevati all'ordine soprannaturale. Cosi se consideriamo Dio come autore dell'antica Legge, lo vediamo proclamare anche precetti rituali e determinare accuratamente le norme che il popolo deve osservare nel rendergli il legittimo culto. Stabilì, quindi, vari sacrifici e designò varie cerimonie con le quali dovevano compiersi; e determinò chiaramente ciò che si riferiva all'Arca dell'Alleanza, al Tempio ed ai giorni festivi; designò la tribù sacerdotale e il sommo sacerdote, indicò e descrisse le vesti da usarsi dai sacri ministri e quanto altro mai aveva relazione col culto divino (cfr. Levitico). Questo culto, del resto, non era altro che l'ombra (Heb. 10, 1) di quello che il Sommo Sacerdote del Nuovo Testamento avrebbe reso al Padre Celeste.

Difatti, appena "il Verbo si è fatto carne" (Joh. 1, 14), si manifesta al mondo nel suo ufficio sacerdotale facendo all'Eterno Padre un atto di sottomissione che durerà per tutto il tempo della sua vita: "entrando nel mondo dice:...Ecco, io vengo... per fare, o Dio, la tua volontà... " (Heb. 10, 5-7), un atto che sarà portato a compimento in modo mirabile nel sacrificio cruento della Croce: " In virtù di questa volontà noi siamo stati santificati per mezzo dell’oblazione del Corpo di Gesù Cristo fatta una volta sola per sempre" (Heb. 10, 10). Tutta la sua attività tra gli uomini non ha altro scopo. Fanciullo, è presentato nel Tempio al Signore; adolescente vi ritorna ancora; in seguito vi si reca spesso per istruire il popolo e per pregare. Prima d'iniziare il ministero pubblico digiuna durante quaranta giorni, e con il suo consiglio ed il suo esempio esorta tutti a pregare sia di giorno che di notte. Come maestro di verità, "illumina ogni uomo" (Joh. 1, 9) perché i mortali riconoscano convenientemente il Dio immortale, e non " si sottraggano per perdersi, ma siano fedeli per la salvezza dell'anima" (Heb. 10, 39). Come Pastore, poi, Egli governa il suo gregge, lo conduce ai pascoli di vita, e dà una legge da osservare perché nessuno si discosti da Lui e dalla retta via che Egli ha tracciata, ma tutti vivano santamente sotto il suo influsso e la sua azione. Nell'ultima Cena, con rito e apparato solenne, celebra la nuova Pasqua e provvede alla continuazione di essa mediante l'istituzione divina dell'Eucaristia; l'indomani, sollevato tra cielo e terra, offre il salutare sacrificio della sua vita, e dal suo petto squarciato fa in certo modo sgorgare i Sacramenti che impartiscono alle anime i tesori della Redenzione. Facendo questo, Egli ha per unico scopo la gloria del Padre e la sempre maggiore santificazione dell'uomo.

Entrando, poi, nella sede della beatitudine celeste, vuole che il culto da Lui istituito e prestato durante la sua vita terrena continui ininterrottamente. Giacché Egli non lasciò orfano il genere umano, ma come lo assiste sempre col suo continuo e valido patrocinio facendosi nostro avvocato in cielo presso il Padre (I Joh. 2, 1), cosi l'aiuta mediante la sua Chiesa, nella quale e indefettibilmente presente nel corso dei secoli. Chiesa che Egli ha costituito colonna di verità (I Tim. 3, 15) e dispensatrice di grazia, e che col sacrificio della Croce fondò, consacrò e confermò, in eterno.

La Chiesa, dunque, ha in comune col Verbo incarnato lo scopo, l'impegno e la funzione d'insegnare a tutti la verità, reggere e governare gli uomini, offrire a Dio il sacrificio accettabile e grato, e cosi ristabilire tra il Creatore e le creature quell'unione ed armonia che 1'Apostolo delle genti chiaramente indica con queste parole: "Voi non siete più stranieri e ospiti, ma siete concittadini dei Santi e della famiglia di Dio, sovraedificati sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, con lo stesso Gesù Cristo come pietra angolare, su cui tutto l'edificio insieme connesso s'innalza in tempio santo nel Signore, e sopra di lui anche voi siete insieme edificati in dimora di Dio nello Spirito" (Eph. 2, 19-22) Perciò la società fondata dal Divino Redentore non ha altro fine, sia con la sua dottrina e il suo governo, sia col Sacrificio ed i Sacramenti da Lui istituiti, sia infine col ministero da Lui affidatole, con le sue preghiere e il suo sangue, che crescere e dilatarsi sempre più: il che avviene quando Cristo è edificato e dilatato nelle anime dei mortali, e quando, vicendevolmente, le anime dei mortali sono edificate e dilatate a Cristo; di maniera che in questo esilio terreno prosperi il tempio nel quale la Divina Maestà riceve il culto grato e legittimo. In ogni azione liturgica, quindi, insieme con la Chiesa è presente il suo Divino Fondatore: Cristo è presente nell'augusto Sacrificio dell'altare sia nella persona del suo ministro, sia, massimamente, sotto le specie eucaristiche; è presente nei Sacramenti con la virtù che in essi trasfonde perché siano strumenti efficaci di santità; è presente infine nelle lodi e nelle suppliche a Dio rivolte, come sta scritto: "Dove sono due o tre adunati in nome mio, ivi io sono in mezzo ad essi" (Matth. 18, 20).

Definizione della Liturgia

La sacra Liturgia è pertanto il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre, come Capo della Chiesa, ed è il culto che la società dei fedeli rende al suo Capo e, per mezzo di Lui, all'Eterno Padre: è, per dirla in breve, il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e delle sue membra. L'azione liturgica ha inizio con la fondazione stessa della Chiesa, I primi cristiani, difatti, "erano assidui agli insegnamenti degli Apostoli e alla comune frazione del pane e alla preghiera" (Act. 2, 42). Dovunque i Pastori possono radunare un nucleo di fedeli, erigono un altare sul quale offrono il Sacrificio, e intorno ad esso vengono disposti altri riti adatti alla santificazione degli uomini e alla glorificazione di Dio. Tra questi riti sono, in primo luogo, i Sacramenti, cioè le sette principali fonti di salvezza; poi la celebrazione della lode divina, con la quale i fedeli anche insieme riuniti obbediscono alla esortazione dell'Apostolo: "Istruendovi ed esortandovi tra voi con ogni sapienza, cantando a Dio nei vostri cuori, ispirati dalla grazia, salmi, inni e cantici spirituali" (Col. 3, 16); poi la lettura della Legge, dei Profeti, del Vangelo e delle Lettere Apostoliche, e infine l'omelia con la quale il Presidente dell'assemblea ricorda e commenta utilmente i precetti del Divino Maestro, g1i avvenimenti principali della sua vita, e ammonisce tutti ,oli astanti con opportune esortazioni ed esempi.

Il culto si organizza e si sviluppa secondo le circostanze ed bisogni dei cristiani, si arricchisce di nuovi riti, cerimonie e formole, sempre con il medesimo intento: "affinché cioè da quei segni noi siamo stimolati... ci sia noto il progresso compiuto e ci sentiamo sollecitati ad accrescerlo con maggior vigore: l'effetto, difatti, è più degno se più ardente è l'affetto che lo precede"(Sant'Agostino, Epist. CXXX ad Probam, 18). Così l'anima più e meglio si eleva verso Dio; cosi il sacerdozio di Gesù Cristo è sempre in atto nella successione dei tempi, non essendo altro la Liturgia che l'esercizio di questo sacerdozio. Come il suo Capo divino, cosi la Chiesa assiste continuamente i suoi figli, li aiuta e li esorta alla santità, perché, ornati di questa soprannaturale dignità, possano un giorno far ritorno al Padre che è nei cieli. Essa rigenera alla vita celeste i nati alla vita terrena, li corrobora di Spirito Santo per la lotta contro il nemico implacabile; chiama i cristiani intorno agli altari e, con insistenti inviti, li esorta a celebrare e prender parte al Sacrificio Eucaristico, e li nutre col pane degli Angeli perché siano sempre più saldi; purifica e consola coloro che il peccato ferì e macchiò; consacra con legittimo rito coloro che per divina vocazione sono chiamati al ministero sacerdotale; rinvigorisce con grazie e doni divini il casto connubio di quelli che sono destinati a fondare e costituire la famiglia cristiana; dopo averne confortato e ristorato col Viatico Eucaristico e la Sacra Unzione le ultime ore della vita terrena, accompagna al sepolcro con somma pietà le spoglie dei suoi figli, le compone religiosamente, le protegge al riparo della Croce, perché possano un giorno risorgere trionfando sulla morte; benedice con particolare solennità quanti dedicano la loro vita al servizio divino nel conseguimento della perfezione religiosa; stende la sua mano soccorrevole alle anime che nelle fiamme della purificazione implorano preghiere e suffragi, per condurle finalmente alla eterna beatitudine.

Culto interno ed esterno

Tutto il complesso del culto che la Chiesa rende a Dio deve essere interno ed esterno. È esterno perché lo richiede la natura dell'uomo composto di anima e di corpo; perché Dio ha disposto che "conoscendoLo per meazo delle cose visibili, siamo attratti all'amore delle cose invisibili" (cfr. Missale Romanum, Prefazio della Natività); perché tutto ciò che viene dall'anima è naturalmente espresso dai sensi; di più perché il culto divino appartiene non soltanto al singolo ma anche alla collettività umana, e quindi è necessario che sia sociale, il che è impossibile, nell'ambito religioso, senza vincoli e manifestazioni esteriori; e, infine, perché è un mezzo che mette particolarmente in evidenza l'unità del Corpo Mistico, ne accresce i santi entusiasmi, ne rinsalda le forze e ne intensifica l'azione: "sebbene, infatti, le cerimonie, in se stesse, non contengano nessuna perfezione e saatità, tuttavia sono atti esterni di religione, che, come segni, stimolano l'anima alla venerazione dene cose sacre, elevano la mente alle realtà soprannaturali, nutrono la pietà, fomentano la carità, accrescono la fede, irrobustiscono la devozione, istruiscono i semplici, ornano il culto di Dio, conservano la religione e distinguono i veri dai falsi cristiani e dagli eterodossi" (Card. Bona, De divina psalmodia, cap. 19, § 3.1).

Ma l'elemento essenziale del culto deve essere quello interno: è necessario, difatti, vivere sempre in Cristo, tutto a Lui dedicarsi, affinché in Lui, con Lui e per Lui si dia gloria al Padre. La sacra Liturgia richiede che questi due elementi siano intimamente congiunti; ciò che essa non si stanca mai di ripetere ogni qualvolta prescrive un atto esterno di culto. Così, per esempio, a proposito del digiuno ci esorta: "Affinché ciò che la nostra osservanza professa esternamente, si operi di fatto nel nostro interno" (cfr. Missale Romanum, Segreta della feria quinta dopo la II Domenica di Quaresima). Diversamente, la religione diventa un formalismo senza fondamento e senza contenuto. Voi sapete, Venerabili Fratelli, che il Divino Maestro stima indegni del sacro tempio ed espelle coloro i quali credono di onorare Dio soltanto col suono di ben costrutte parole e con pose teatrali, e son persuasi di poter benissimo provvedere alla loro eterna salute senza sradicare dall'anima i vizi inveterati (Mc. 7, 6; Is. 29, 13). La Chiesa, pertanto, vuole che tutti fedeli si prostrino ai piedi del Redentore per professarGli il loro amore e la loro venerazione; vuole che le folle, come i fanciulli che andarono incontro a Cristo mentre entrava a Gerusalemme con gioiose acclamazioni, inneggino ed accompagnino il Re dei re e il Sommo Rutore di ogni beneficio con il canto di gloria e di ringraziamento; vuole che sul loro labbro siano preghiere, ora supplici ora liete e grate, con le quali come gli apostoli presso il lago di Tiberiade, possano sperimentare l'aiuto della sua misericordia e della sua potenza; o, come Pietro sul monte Tabor, abbandonino se stessi ed ogni lor cosa a Dio nei mistici trasporti della contemplazione.

Non hanno, perciò, una esatta nozione della sacra Liturgia coloro i quali la ritengono come una parte soltanto esterna e sensibile del culto divino o come un cerimoniale decorativo; né sbagliano meno coloro, i quali la considerano come una mera somma di leggi e di precetti con i quali la Gerarchia ecclesiastica ordina il compimento dei riti.

Deve, quindi, essere ben noto a tutti che non si può degnamente onorare Dio se l'anima non si rivolge al conseguimento della perfezione della vita, e che il culto reso a Dio dalla Chiesa in unione col suo Capo divino ha la massima efficacia di santificazione.

Questa efficacia se si tratta del Sacrificio Eucaristico e dei Sacramenti, proviene prima di tutto dal valore dell'azione in se stessa (ex opere operato); se poi si considera anche l'attività propria della immacolata Sposa di Gesù Cristo con la quale essa orna di preghiere e di sacre cerimonie il Sacrificio Eucaristico ed i Sacramenti, o, se si tratta dei Sacramentali e di altri riti istituiti dalla Gerarchia ecclesiastica, allora l'efficacia deriva piuttosto dall'azione della Chiesa (ex opere operantis Ecclesiæ) in quanto essa è santa ed opera sempre in intima unione con il suo Capo.

A questo proposito, Venerabili Fratelli, desideriamo che voi rivolgiate la vostra attenzione alle nuove teorie sulla "pietà oggettiva", le quali, sforzandosi di mettere in evidenza il mistero del Corpo Mistico, la realtà effettiva della grazia santificante e l'azione divina dei Sacramenti e del Sacrificio eucaristico, vorrebbero trascurare o attenuare la "pietà soggettiva" o personale.

Nelle celebrazioni liturgiche, e in particolare nell'augusto Sacrificio dell'altare, si continua senza dubbio l'opera della nostra Redenzione e se ne applicano i frutti. Cristo opera la nostra salvezza ogni giorno nei Sacramenti e nel suo Sacrificio, e, per loro mezzo, continuamente purifica e consacra a Dio il genere umano. Essi, dunque, hanno una virtù oggettiva con la quale, di fatto, fanno partecipi le nostre anime della vita divina di Gesù Cristo. Essi, dunque, hanno, non per nostra ma per divina virtù, l’efficacia di collegare la pietà delle membra con la pietà del Capo, e di renderla, in certo modo, un'azione di tutta la comunità. Da questi profondi argomenti alcuni concludono che tutta la pietà cristiana deve incentrarsi nel mistero del Corpo Mistico di Cristo, senza nessun riguardo personale e soggettivo, e perciò ritengono che si debbano trascurare le altre pratiche religiose non strettamente liturgiche e compiute al di fuori del culto pubblico.

Tutti, però, possono rendersi conto che queste conclusioni circa le due specie di pietà, sebbene i suesposti principî siano ottimi, sono del tutto false, insidiose e dannosissime.

È vero che i Sacramenti e il Sacrificio dell'altare hanno una intrinseca virtù in quanto sono azioni di Cristo stesso che comunica e diffonde la grazia del Capo divino nelle membra del Corpo Mistico, ma, per aver la debita efficacia, essi esigono le buone disposizioni dell'anima nostra. Pertanto, a proposito della Eucaristia, S. Paolo ammonisce: "Ciascuno esamini se stesso e cosi mangi di quel pane e beva del calice" (I Cor. 11, 28). Perciò la Chiesa definisce brevemente e chiaramente tutti gli esercizi con i quali l'anima nostra si purifica, specialmente durante la Quaresima: "i presidi della milizia cristiana" (cfr. Missale Romanum, Feria quarta delle Ceneri, Preghiera dopo l'imposizione delle Ceneri); sono infatti l'azione delle membra che, con l'aiuto della grazia, vogliono aderire al loro Capo perché "ci sia manifesta -per ripetere le parole di S.Agostino - nel nostro Capo la fonte stessa della grazia" (De prædestinatione Sanctorum, 31). Ma è da notarsi che queste membra sono vive, fornite di ragione e volontà proprie, perciò è necessario che esse, accostando le labbra alla fonte, prendano e assimilino l'alimento vitale e rimuovano tutto ciò che può impedirne l'efficacia. Si deve dunque affermare che l'opera della redeazione, in sé indipendente dalla nostra volontà, richiede l'intimo sforzo dell'anima nostra perché possiamo conseguire l'eterna salvezza.

Se la pietà privata e interna dei singoli trascurasse l'augusto Sacrifcio dell'altare e i Sacramenti e si sottraesse all'influsso salvifico che emana dal Capo nelle membra, sarebbe senza dubbio riprovevole e sterile; ma quando tutte le disposizioni interne e gli esercizi di pietà non strettamente liturgici fissano lo sguardo dell'animo sugli atti umani unicamente per indirizzarli al Padre che è nei cieli, per stimolare salutarmente gli uomini alla penitenza e al timor di Dio e, strappatili all'attrattiva del mondo e dei vizi, cundurli felicemente per arduo cammino al vertice della santità, allora sono non soltanto sommamente lodevoli, ma necessari, perché scoprono i pericoli della vita spirituale, ci spronano all'acquisto delle virtù e aumentano il fervore col quale dobbiamo dedicarci tutti al servizio di Gesù Cristo.

L’azione divina e la cooperazione umana

La genuina pietà, che 1'Angelico chiama "devozione" e che è l’atto principale della virtù della religione col quale gli uomini si ordinano rettamente, si orientano opportunamente verso Dio, e liberamente si dedicano al culto (San Tommaso, Summa Theol., 2.a 2.æ, q. 82, a. 1), ha bisogno della meditazione delle realtà soprannaturali e delle pratiche spirituali perché si alimenti, stimoli e vigoreggi, e ci animi alla perfezione. Poiché la religione cristiana debitamente praticata richiede soprattutto che la volontà si consacri a Dio e influisca sulle altre facoltà dell'anima. Ma ogni atto di volontà presuppone l'esercizio della intelligenza, e, prima che si concepisca il desiderio e il proposito di darsi a Dio per mezzo del sacrificio, è assolutamente necessaria la conoscenza degli argomenti e dei motivi che impongono la religione, come, per esempio, il fine ultimo dell'uomo e la grandezza della divina maestà, il dovere della soggezione al Creatore, i tesori inesauribili dell'amore col quale Egli ci vuole arricchire, la necessità della grazia per giungere alla meta assegnataci, e la via particolare che la divina Provvidenza ci ha preparata unendoci tutti come membra di un Corpo a Gesù Cristo Capo. E poiché non sempre i motivi dell'amore fanno presa sull'anima agitata dalle passioni, è molto opportuno che ci impressioni anche la salutare considerazione della divina giustizia per ridurci alla cristiana umiltà, alla penitenza ed alla emendazione.

Tutte queste considerazioni non devono essere una vuota ed astratta reminiscenza, ma devono mirare effettivamente a sottomettere i nostri sensi e le loro facoltà alla ragione illuminata dalla fede, a purificare l'anima che si unisca ogni giorno più intimamente a Cristo e sempre più si conformi a Lui e da Lui attinga l'ispirazione e la forza divina di cui ha bisogno, e ad essere agli uomini stimolo sempre più efficace al bene, alla fedeltà al proprio dovere, alla pratica della religione, al fervente esercizio della virtù secondo l'insegnamento: "voi siete di Cristo e Cristo è di Dio" (I Cor. 3, 23). Tutto, dunque, sia organico e teocentrico, se vogliamo davvero che tutto sia indirizzato alla gloria di Dio per la vita e la virtù che ci viene dal nostro Capo divino: "avendo, dunque, fiducia di entrare nel Santo dei Santi, per il Sangue di Cristo, per la via nuova e vivente che Egli inaugurò per noi attraverso il velo, cioè attraverso la sua carne, e avendo un gran sacerdote preposto alla casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, con pienezza di fede, purgato il cuore da coscienza di colpa e lavato il corpo con acqua monda, attacchiamoci incrollabilmente alla professione della nostra speranza... e stiamo attenti gli uni agli altri per stimolarci alla carità e alle opere huone" (Heb. 10, 19-24).

Da ciò deriva l'armonioso equilibrio delle membra del Corpo Mistico di Gesù Cristo. Con l'insegnamento della fede cattolica, con l’esortazione alla osservanza dei cristiani precetti, la Chiesa prepara la via alla sua azione propriamente sacerdotale e santificatrice; ci dispone ad una più intima contemplazione della vita del Divino Redentore e ci conduce ad una più profonda conoscenza dei misteri della fede, perché ne ricaviamo soprannaturale alimento e forza per un sicuro progresso nella vita perfetta, per mezzo di Gesù Cristo. Non soltanto per opera dei suoi ministri, ma anche per quella dei singoli fedeli in tal modo imbevuti dello Spirito di Gesù Cristo, la Chiesa si sforza di compenetrare di questo stesso spirito la vita e l’attività privata, coniugale, sociale e perfino economica e politica degli uomini perché tutti coloro che si chiamano figli di Dio possano più facilmente conseguire il loro fine.

In questa maniera l'azione privata e lo sforzo ascetico diretto alla purificazione dell'anima stimolano le energie dei fedeli, e li dispongono a partecipare con migliori disposizioni all'augusto Sacrificio dell’altare, a ricevere i Sacramenti con frutto maggiore, ed a celebrare i sacri riti in modo da uscirne più animati e formati alla preghiera ed alla cristiana abnegazione, a cooperare attivamente alle ispirazioni ed agli inviti della grazia e ad imitare ogni giorno più le virtù del Redentore, non soltanto per il loro proprio vantaggio, ma anche per quelln di tutto il corpo della Chiesa, nel quale tutto il bene che si compie proviene dalla virtù del Capo e ridonda a beneficio delle membra.

Perciò nella vita spirituale nessuna opposizione o ripugnanza può esservi tra l'azione divina, che infonde la grazia nelle anime per continuare la nostra redenzione, e l'operosa collaborazione dell'uomo, che non deve render vano il dono di Dio (II Cor. 6, 1); tra l’efficacia del rito esterno dei Sacramenti che proviene dall’intrinseco valore di esso (ex opere operato) e il merito di chi li amministra o li riceve (opus operantis); tra le orazioni private e le preghiere pubbliche; fra l'etica e la contemplazione; fra la vita ascetica e la pietà liturgica; fra il potere di giurisdizionc e di legittimo magistero, e la potestà eminentemente sacerdotale che si esercita nello stesso sacro ministero (cfr. CJC, cann. 125, 126, 565, 571, 595, 1367).

Per gravi motivi la Chiesa prescrive ai ministri dell'altare e ai religiosi che, nei tempi stabiliti, attendano ala pia meditazione, al diligente esame ed emendamento della coscienza, e agli altri spirituali esercizi, poiché essi sono in modo particolare destinati a compiere le funzioni liturgiche del Sacrificio e della lode divina. Senza dubbio la preghiera liturgica, essendo publlica supplica della inclita Sposa di Gesù Cristo, ha una dignità maggiore di quella delle preghiere private; ma questa superiorità non vuol dire che fra questi due generi di preghiera ci sia contrasto od opposizione. Tutt'e due si fondono e si armonizzano perché animate da un unico spirito: "tutto e in tutti Cristo" (Col. 3, 11), e tendono allo stesso scopo: finché il Cristo non sia formato in noi (Gal. 4, 19).

Culto e Gerarchia

Per meglio comprendere, poi, la sacra Liturgia, è necessario considerare un altro suo importante carattere. La Chiesa è una società, ed esige, perciò, una sua propria autorità e gerarchia. Se tutte le membra del Corpo Mistico partecipano ai medesimi beni e tendono ai medesimi fini, non tutte godono dello stesso potere e sono abilitate a compiere le medesime azioni. Il Divin Redentore ha, difatti, stabilito il suo Regno sulle fondamenta dell'Ordine sacro, che è un riflesso della celeste Gerarchia. Ai soli Apostoli ed a coloro che, dopo di essi, hanno ricevuto dai loro successori l'imposlzlone delle mani, è conferita la potestà sacerdotale, in virtù della quale, come reppresentano davanti al popolo loro affidato la persona di Gesù Cristo, così rappresentano il popolo davanti a Dio. Questo sacerdozio non viene trasmesso né per eredità né per discendenza carnale, né risulta per emanazione della comunità cristiana o per deputazione popolare. Prima di rappresentare il popolo presso Dio, il sacerdote rappresenta il divin Redentore, e perchè Gesù Cristo è il Capo di quel corpo di cui i cristiani sono membra, egli rappresenta Dio presso il suo popolo. La potestà conferitagli, dunque, non ha nulla di umano nella sua natura; è soprannaturale e viene da Dio: "Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi... (Joh. 20, 21), chi ascolta voi, ascolta me... (Luc. 10, 16), andando in tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura; chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo "(Marc. 16, 15-16). Perciò il sacerdozio esterno e visibile di Gesù Cristo si trasmette nella Chiesa non in modo universale, generico e indeterminato, ma è conferito a individui eletti, con la generazione sprituale dell'Ordine, uno dei sette Sacramenti, il quale non solo conferisce una grazia particolare, propria di questo stato e di questo ufficio, ma anche un carattere indelebile, che configura i sacri ministri a Gesù Cristo sacerdote, dimostrandoli adatti a compiere quei legittimi atti di religione con i quali gli uomini sono santificati e Dio è glorificato, secondo le esigenze dell'economia soprannaturale.

Difatti, come il lavacro del Battesimo distingue i cristiani e li separa dagli altri che non sono stati lavati nell'onda purificatrice e non sono membra di Cristo, così il Sacramento dell'Ordine distingue sacerdoti da tutti gli altri cristiani non consacrati, perché essi soltanto, per vocazione soprannaturale, sono stati introdotti all'augusto ministero che li destina ai sacri altari e li costituisce divini strumenti per mezzo dei quali si partecipa alla vita soprannaturale col Mistico Corpo di Gesù Cristo. Inoltre, come abbiamo già detto, essi soltanto sono segnati col carattere indelebile che li configura al sacerdozio di Cristo, e le loro mani soltanto sono consacrate "perché sia benedetto tutto ciò che benedicono, e tutto ciò che consacrano sia consacrato e santificato in nome del Signor Nostro Gesù Cristo" . Ai sacerdoti, dunque, deve ricorrere chiunque vuol vivere in Cristo, perche da essi riceva il conforto e l'alimento della vita spirituale, il farmaco salutare che lo sanerà e lo rinvigorirà, perchè possa felicemente risorgere dalla perdizione e dalla rovina dei vizi; da essi, infine, riceverà la benedizione che consacra la famiglia, e da essi l'ultimo anelito della vita mortale sarà diretto all'ingresso nella beatitudine eterna.

Poichè, dunque, la sacra Liturgia è compiuta soprattutto dai sacerdoti in nome della Chiesa, la sua organizzazione, il suo regolamento e la sua forma non possono che dipendere dall'autorita della Chiesa. Questa è non soltanto una conseguenza della natura stessa del culto cristiano, ma è anche confermata dalle testimonianze della storia.

Liturgia e dogma

Questo inconcusso diritto della Gerarchia Ecclesiastica è provato anche dal fatto che la sacra Liturgia ha strette attinenze con quei principi dottrinali che la Chiesa propone come facenti parte di certissime verità, e perciò deve conformarsi ai dettami della fede cattolica proclamati dall'autorità del supremo Magistero per tutelare la integrità della religione nvelata da Dio.

A questo proposito, Venerabili Fratelli, riteniamo di porre nella sua giusta luce una cosa che pensiamo non esservi ignota: l'errore, cioè, di coloro i quali pretesero che la sacra Liturgia fosse quasi un esperimento del dogma, in quanto che se una di queste verità avesse, attraverso i riti della sacra Liturgia, portato frutti di pietà e di santità, la Chiesa avrebbe dovuto approvarla, diversamente l'avrebbe ripudiata. Donde quel principio: La legge della preghiera e legge della fede (Lex orandi, lex credendi) .

Non è, però, così che insegna e comanda la Chiesa. Il culto che essa rende a Dio è, come brevemente e chiaramente dice S. Agostino, una continua professione di fede cattolica e un esercizio della speranza e della carità: "Dio si deve onorare con la fede, la speranza e la carità" . Nella sacra Liturgia facciamo esplicita professione di fede non soltanto con la celebrazione dei divini misteri, con il compimento del Sacrificio e l'amministrazione dei Sacramenti, ma anche recitando e cantando il Simbolo della fede, che e come il distintivo e la tessera dei crisriani, con la lettura di altri documenti e delle Sacre Lettere scritte per ispirazione dello Spirito Santo. Tutta la Liturgia ha, dunque, un contenuto di fede cattolica, in quanto attesta pubblicamente la fede della Chiesa.

Per questo motivo, sempre che si è trattato di definire un dogma, i Sommi Pontefici e i Concili, attingendo ai cosìddetti "Fonti teologici", non di rado hanno desunto argomenti anche da questa sacra disciplina; come fece, per esempio, il Nostro Predecessore di immortale memoria Pio IX quando definì l’Immacolata Conceziune di Maria Vergine. Allo stesso modo, anche la Chicsa e i Santi Padri, quando si discutcva di una verità controversa o messa in dubbio, non hanno mancato di chiedere luce anche ai riti venerabili trasmessi dall'antichità. Così si ha la nota e veneranda sentenza: "La legge della preghiera stabilisca la legge della fede" (Legem credendi lex statuat supplicandi) . La Liturgia, dunque, non determina né costituisce il senso assoluto e per virtù propria la fede cattolica, ma piuttosto, essendo anche una professione delle celesti verità, professione sottoposta al Supremo Magistero della Chiesa, può fornire argomenti e testimonianze di non poco valore per chiarire un punto particolare della dottrina cristiana. Che se vogliarno distinguere e determinare in modo generale ed assoluto le relazioni che intercorrono tra fede e Liturgia, si può affermare con ragione che "la legge della fede deve stabilire la legge della preghiera" . Lo stesso deve dirsi anche quando si tratta delle altre virtù teologiche: "Nella... fede, nella speranza e nella carità preghiamo sempre con desiderio continuo" .

Progresso e sviluppo della Liturgia

La Gerarchia Ecclesiastica ha sempre usato di questo suo diritto in materia liturgica allestendo e ordinando il culto divino e arricchendolo di sempre nuovo splendore e decoro a gloria di Dio e per il vantaggio dei fedeli. Non dubitò, inoltre - salva la sostanza del Sacriticio Eucaristico e dei Sacramenti - mutare ciò che non riteneva adatto, aggiungere ciò che meglio sembrava contribuire all'onore di Gesù Cristo e della Trinità augusta alla istruzione e a stimolo salutare del popolo cristiano .

La sacra Liturgia, difatti, consta di elementi umani e di elementi divini: questi, essendo stati istituiti dal Divin Redentore, non possono, evidentemente, esser mutati dagli uomini; quelli, invece, possono subire varie modifiche, approvate dalla sacra Gerarchia assistita dallo Spirito Santo, secondo le esigenze dei tempi, delle cose e delle anime. Da qui nasce la stupenda varietà dei riti orientali ed occidentali; da qui lo sviluppo progressivo di particolari consuetudini religiose e pratiche di pietà inizialmente appena accennate; di qui viene che talvolta sono richiamate nell'uso e rinnovate pie istituzisni obliterate dal tempo. Tutto ciò testimonia la vita della intemerata Sposa di Gesù Cristo durante tanti secoli; esprime il linguaggio da essa usato per manifestare al suo Sposo divino la fede e l'amore inesausto suo e delle genti ad essa affidate; dimostra la sua sapiente pedagogia per stimolare e incrementare nei credenti il "senso di Cristo".

Non poche, in verità, sono le cause per le quali si spiega e si evolve il progresso della sacra Liturgia durante la lunga e gloriosa storia della Chiesa. Così, per esempio, una più certa ed ampia formulazione della dottrina cattolica sulla incarnazione del Verbo di Dio, sul Sacramento e sul Sacrificio Eucaristico, sulla Vergine Maria Madre di Dio, ha contribuito all'adozione di nuovi riti per mezzo dei quali la luce più splendidamente brillata nella dichiarazione del magistero ecclesiastico, si rifletteva meglio e più chiaramente nelle azioni liturgiche, per giungere con maggiore facilità alla mente e al cuore del popolo cristiano.

L'ulteriore sviluppo della disciplina ecclesiastica nell'amministrazione dei Sacramenti, per esempio del Sacramento della Penitenza, l'istituzione e poi la scomparsa del catecumenato, la Comunione Eucaristica sotto una sola specie nella Chiesa Latina, ha contribuito non poco alla modificazione degli aatichi riti ed alla graduale adozione di nuovi e più confacenti alle mutate disposizioni disciplinari.

A questa evoluzione e a questi mutamenti contribuirono notevolmente le iniziative e le pratiche pie non strettamente connesse con la sacra Liturgia, nate nelle epoche successive per mirabile disposizione di Dio e così diffuse nel popolo: come, per esempio, il culto più esteso e più fervido della divina Eucaristia, della passione acerbissima del nostro Redentore, del sacratissimo Cuore di Gesù, della Vcrgine Madre di Dio e del suo purissimo Sposo.

Tra le circostanze esteriori ebbero la loro parte i pubblici pellegrinaggi di devozianc ai sepolcri dei martiri, l'osservanza di particolari digiuni istituiti allo stesso fine, le processioni stazionali di penitenza che si celebravano in questa alma Città e allc quali non di rado interveniva anche il Sommo Pontefice.

È pure facilmente comprerisibile come il progresso delle belle arti, in special modo dell'architettura, della pittura e della musica, abbiano influito non poco sul determinarsi e il vario conformarsi degli elementi esteriori della sacra Liturgia.

La sola autorità competente

Del medesimo suo diritto in materia liturgica si è servita la Chiesa per tutelare la santità del culto contro gli abusi temerarianaente introdotti dai privati e dalle chiese particolari. Così accadde che, moltiplicandosi usi e consuetudini di questo genere durante il secolo XVI, e mettendo le iniziative private in pericolo l'integrità della fede e della pietà con grande vantaggio degli eretici e a progaganda del loro errore, il Nostro Predecessore di immortale memoria Sisto V, per difendere i legittimi riti della Chiesa e impedire le infiltrazioni spurie, istituì nel 1588 la Congregazione dei riti , organo cui tuttora compete di ordinare e prescrivere con vigile cura tutto ciò che riguarda la sacra Liturgia .

Perciò il solo Sommo Pontefice ha il diritto di riconoscere e stabilire qualsiasi prassi di culto, di introdurre e approvare nuovi riti e di mutare quelli che giudica doversi mutare ; i Vescovi, poi, hanno il diritto e il dovere di vigilare diligentemente perché le prescrizioni dei sacri canoni relative al culto divino siano puntualmente osservate . Non è possibile lasciare all'arbitrio dei privati, siano pure essi membri del Clero, le cose sante e venerande che riguardano la vita religiosa della comunità cristiana, l'esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo e il culto divino, l'onore che si deve alla SS. Trinità, al Verbo Incarnato, alla sua augusta Madre c agli altri Santi, e la salvezaa degli uomini; per lo stesso motivo a nessuno è permesso di regolare in questo campo azioni esterne che hanno un intimo nesso con la disciplina ecclesiastica, con l'ordine, l’unità e la concordia del Corpo Mistico, e non di rado con la stessa integrità della fede cattolica .

Innovazioni temerarie

Certo, la Chiesa è un organismo vivente, e perciò, anche per quel che riguarda la sacra Liturgia, ferma restando l'integrità del suo insegnamento, cresce e si sviluppa, adattandosi e conformandosi alle circostanze ed alle esigenze che si verificatlo nel corso del tempo; tuttavia è severamente da riprovarsi il temerario ardimento di coloro che di proposito introducono nuove consuetudini liturgiche o fanno rivivere riti già caduti in disuso e che non concordano con le leggi e le rubriche vigenti. Così, non senza grande dolore, sappiamo che accade non soltanto in cose di poca, ma anche di gravissima importanza; non manca,difatti, chi usa la lingua volgare nella celebrazione del Sacrificio Eucaristico, chi trasferisce ad altri tempi feste fissate già per ponderate ragioni; chi esclude dai legittimi libri della preghiera pubblica gli scritti del Vecchio Testamento, reputandoli poco adatti ed opportuni per i nostri tempi.

L'uso della lingua latina come vige nella gran parte della Chiesa, è un chiaro e nobile segno di unità e un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina. In molti riti, peraltro, l'uso della lingua volgare può essere assai utile per il popolo, ma soltanto la Sede Apostolica ha il potere di concederlo, e perciò in questo campo nulla è lecito fare senza il suo giudizio e la sua approvazione, perché, come abbiamo detto, l'ordinamento della sacra Liturgia è di sua esclusiva competenza .

Allo stesso modo si devono giudicare gli sforzi di alcuni per ripristinare certi antichi riti e Cerimonie. La Liturgia dell'epoca antica è senza dubbio degna di venerazione, ma un antico uso non è, a motivo soltanto della sua antichità, il migliore sia in se stesso sia in relazione ai tempi posteriori ed alle nuove condizioni verificatesi. Anche i riti liturgici più recenti sono rispettabili, poiché sono sorti per influsso dello Spirito Santo che è con la Chiesa fino alla consumazione dei secoli , e sono mezzi dei quali l'inclita Sposa di Gesù Cristo si serve per stimolare e procurare la santità degli uomini.

È certamente cosa saggia e lodevolissima riisalire con la mente e con l'anima alle fonti della sacra Liturgia, perché il suo studio, riiportandosi alle origini, aiuta non poco a comprendere il significato delle feste e a indagare con maggiore profondità e accuratezza il senso delle cerimonie; ma non è sertamente cosa altrettanto saggia e lodevole ridurre tutto e in ogni modo all'antico. Così, per fare un esemgio, èf uori strada chi vuole restituire all'altare l'antica forma di mensa; chi vuole eliminare dai paramenti lituigici il colore nero; chi vuole escludere dai templi le immagini e le statue sacre; chi vuole cancellare nella raffiguraaione del Redentore crocifisso i dolori acerrimi da Lui sofferti; chi ripudia e riprova il canto polifonico anche quando è conforme alle norme emanate dalla Santa Sede .

Come, difatti, nessun cattolico di senso può rifiutare le formulazioni della dottrina cristiana composte e decretate con grande vantaggio in epoca più recente dalla Chiesa, ispirata e retta dallo Spirito Santo, per ritornare alle antiche formule dei primi Concili, o può ripudiare le leggi vigenti per ritornare alle prescrizioni delle antiche fonti del Diritto Canonico, così, quando si tratta della sacra Liturgia, non sarebbe animato da zelo retto e intelligente colui il quale volesse tornare agli antichi riti ed usi ripudiando le nuove norme introdotte per disposizione della Divina Provvidenza e per le mutate circostanze. Questo modo di pensare e di agire, difatti, fa rivivere l'eccessivo ed insano archeologismo suscitato dall’illegittimo concilio di Pistoia, e si sforza di ripristinare i molteplici errori che furono le premesse di quel conciliabolo e ne seguirono con grande danno delle anime, e che la Chiesa, vigilante custode del "deposito della fede" affidatole dal suo Divino Fondatore, a buon diritto condannò . Siffatti deplorevoli propositi ed iniziative tendono a paralizzare l'azione santificatrice con la quale la sacra Liturgia indirizza salutarmente al Padre celeste i figli di adozione.

Tutto, dunque, sia fatto nella necessaria unione con la Gerarchia ecclesiastica. Nessuno si arroghi il diritto di essere legge a se stesso e di imporla agli altri di sua volontà. Soltanto il Sommo Pontefice, in qualità di successore di Pietro al quale il Divin Redentore affidò il gregge universale , ed insieme i Vescovi che, sotto la dipendenza della Sede Apostolica, "lo Spirito Santo pose... a reggere la Chiesa di Dio" , hanno il diritto e il dovere di governare il popolo cristiano. Perciò, Venerabili Fratelli, ogni qual volta voi tutelate la vostra autorità all'occorrenza anche con severità salutare, non soltanto adempite il vostro dovere, ma difendete la volontà stessa del Fondatore della Chiesa.

Parte II.

Il Culto Eucaristico

Il mistero della Santissima Eucaristia, istituita dal Sommo Sacerdote Gesù Cristo e rinnovata in perpetuo per sua volontà dai suoi ministri, è come la somma e il centro della religione cristiana. Trattandosi del culmine della sacra Liturgia, riteniamo opportuno, Venerabili Fratelli, indugiare alquanto e richiamare la vostra attenzione su questo gravissimo argomento.

Il Sacrifizio Eucaristico

Cristo Signore, "sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchisedec" che, "avendo amato i suoi che erano nel mondo" , "nell'ultima cena, nella notte in cui veniva tradito, per lasciare alla Chiesa sua sposa diletta un sacrificio visibile - come lo esige la natura degli uomini - che rappresentasse il sacrificio cruento, che una volta tanto doveva compiersi sulla Croce, e perché il suo ricordo restasse fino alla fine dei secoli, e ne venisse applicata la salutare virtù in remissione dei nostri quotidiani peccati, ... offrì a Dio Padre il suo Corpo e il suo Sangue sotto le specie del pane e del vino e ne diede agli Apostoli allora costituiti sacerdoti del Nuovo Testamento, perché sotto le stesse specie lo ricevessero, mentre ordinò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio, di offrirlo" .

L'augusto Sacrificio dell'altare non è, dunque, una pura e semplice commemorazione della passione e morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale, immolandosi incruentamente, il Sommo Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla Croce offrendo al Padre tutto se stesso, vittima graditissima. " Una... e identica è la vittima; egli medesimo, che adesso offre per ministero dei sacerdoti, si offrì allora sulla Croce; è diverso soltanto il modo di fare l'offerta" .

Identico, quindi, è il sacerdote, Gesù Cristo, la cui sacra persona è rappresentata dal suo ministro. Questi, per la consacrazione sacerdotale ricevuta, assomiglia al Sommo Sacerdote, ed ha il potere di agire in virtù e nella persona di Cristo stesso ; perciò, con la sua azione sacerdotale, in certo modo "presta a Cristo la sua lingua, gli offre la sua mano" .

Parimente identica è la vittima, cioè il Divin Redentore, secondo la sua umana natura e nella realtà del suo Corpo e del suo Sangue. Differente, però, e il modo col quale Cristo è offerto. Sulla Croce, difatti, Egli offrì a Dio tutto se stesso e le sue sofferenze, e l'immolazione della vittima fu compiuta per mezzo di una morte cruenta liberamente subita; sull'altare, invece, a causa dello stato glorioso della sua umana natura, "la morte non ha più dominio su di Lui" e quindi non è possibile l'effusione del sangue; ma la divina sapienza ha trovato il modo mirabile di rendere manifesto il sacrificio del nostro Redentore con segni esteriori che sono simboli di morte. Giacché, per mezzo della transustanziazione del pane in corpo e del vino in sangue di Cristo, come si ha realmente presente il suo corpo, così si ha il suo sangue; le specie eucaristiche poi, sotto le quali è presente, simboleggiano la cruenta separazione del corpo e del sangue. Cosi il memoriale della sua morte reale sul Calvario si ripete in ogni sacrificio dell'altare, perché per mezzo di simboli distinti si significa e dimostra che Gesù Cristo è in stato di vittima .

Identici, finalmente, sono i fini, di cui il primo è la glorificazione di Dio. Dalla nascita alla morte, Gesù Cristo fu divorato dallo zelo della gloria divina, e, dalla Croce, l'offerta del sangue arrivò al cielo in odore di soavità. E perché questo inno non abbia mai a cessare, nel Sacrificio Eucaristico le membra si uniscono al loro Capo divino e con Lui, con gli Angeli e gli Arcangeli, cantano a Dio lodi perenni , dando al Padre onnipotente ogni onore e gloria .

Il secondo fine è il ringraziamento a Dio. Il Divino Redentore soltanto, come Figlio di predilezione dell'Eterno Padre di cui conosceva l'immenso amore, poté innalzarGli un degno inno di ringraziamento. A questo mirò e questo volle "rendendo grazie", nell'ultima cena, e non cessò di farlo sulla Croce, non cessa di farlo nell'augusto Sacrificio dell'altare, il cui significato è appunto l'azione di grazie o eucaristica, e ciò perché è "cosa veramente degna e giusta, equa e salutare" .

Il terzo fine è l'espiazione e la propiziazione. Certamente nessuno al di fuori di Cristo poteva dare a Dio Onnipotente adeguata soddisfazione per le colpe del genere umano; Egli, quindi, volle immolarsi in Croce "propiziazione per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo" . Sugli altari si offre egualmente ogni giorno per la nostra redenzione, affinché, liberati dalla eterna dannazione, siamo accolti nel gregge degli eletti. E questo non soltanto per noi che siamo in questa vita mortale, ma anche "per tutti coloro che riposano in Cristo, che ci hanno preceduto col segno della fede e dormono il sonno della pace" ; poiché sia che viviamo, sia che moriamo, "non ci separiamo dall'unico Cristo" .

Il quarto fine è l'impetrazione. Figlio prodigo, l'uomo ha male speso e dissipato tutti i beni ricevuti dal Padre celeste, perciò è ridotto in somma miseria e squallore; dalla Croce, però, Cristo "avendo a gran voce e con lacrime offerto preghiere e suppliche... è stato esaudito per la sua pietà" , e sui sacri altari esercita la stessa efficace mediazione affinché siamo colmati d'ogni benedizione e grazia. Si comprende pertanto facilmente perché il sacrosanto Concilio di Trento affermi che col Sacrificio Eucaristico ci viene applicata la salutare virtù della Croce per la remissione dei nostri quotidiani peccati .

L'Apostolo delle genti, poi, proclamando la sovrabbondante pienezza e perfezione del Sacrificio della Croce, ha dichiarato che Cristo con una sola oblazione rese perfetti in perpetuo i santificati . I meriti di questo Sacrificio, difatti, infiniti ed immensi, non hanno confini: si estendono alla universalità degli uomini di ogni luogo e di ogni tempo, perché, in esso, sacerdote e vittima è il Dio Uomo; perché la sua immolazione come la sua obbedienza alla volontà dell'Eterno Padre fu perfettissima, e perché Egli ha voluto morire come Capo del genere umano: "Considera come fu trattato il nostro riscatto: Cristo pende dal legno: vedi a qual prezzo comprò...; versò il suo sangue, comprò col suo sangue, col sangue dell'Agnello immacolato, col sangue dell'unico Figlio di Dio... Chi compra è Cristo, il prezzo è il sangue, il possesso è tutto il mondo" .

L'efficia del Sacrifizio

Questo riscatto, però, non ebbe subito il suo pieno effetto: è necessario che Cristo, dopo aver riscattato il mondo col carissimo prezzo di se stesso, entri nel reale ed effettivo possesso delle anime. Quindi, affinché, col gradimento di Dio, si compia per tutti gli individui e per tutte le generazioni fino alla fine dei secoli, la loro redenzione e salvezza, è assolutamente necessario che ognuno venga a contatto vitale col Sacrificio della Croce, e così i meriti che da esso derivano siano loro trasmessi ed applicati. Si può dire che Cristo ha costruito sul Calvario una piscina di purificazione e di salvezza che riempi col sangue da Lui versato; ma se gli uomini non si immergono nelle sue onde e non vi lavano le macchie delle loro iniquità, non possono certamente essere purificati e salvati .

Affinché, quindi, i singoli peccatori si mondino nel sangue dell'Agnello, è necessaria la collaborazione dei fedeli. Sebbene Cristo, parlando in generale, abbia riconciliato col Padre per mezzo della sua morte cruenta tutto il genere umano, volle tuttavia che tutti si accostassero e fossero condotti alla Croce per mezzo dei Sacramenti e per mezzo del Sacrificio dell’Eucaristia, per poter conseguire i frutti salutari da Lui guadagnati sulla Croce. Con questa attuale e personale partecipazione, siccome le membra si configurano ogni giorno più al loro Capo divino, così anche la salute che viene dal Capo fluisce nelle membra, in modo che ognuno di noi può ripetere le parole di San Paolo: "Sono confitto con Cristo in Croce e vivo non già io, ma vive in me Cristo" . Come, difatti, in altra occasione abbiamo di proposito e concisamente detto, Gesù Cristo "mentre moriva sulla Croce, donò, alla sua Chiesa, senza nessuna cooperazione da parte di essa, l'immenso tesoro della redenzione; quando invece si tratta di distribuire tale tesoro, egli non solo partecipa con la sua Sposa incontaminata quest'opera di santificazione, ma vuole che tale attività scaturisca in qualche modo anche dall'azione di lei" .

L'augusto Sacrificio dell'altare è un insigne strumento per la distribuzione ai credenti dei meriti derivati dalla Croce del Divin Redentore: "ogni volta che viene offerto questo Sacrificio, si compie l'opera della nostra Redenzione" . Esso, però, anziché diminuire la dignità del Sacrificio cruento, ne fa risaltare, come afferma il Concilio di Trento , la grandezza proclama la necessita, Rinnovato ogni giorno, ci ammonisce che non c'è salvezza al di fuori della Croce del Signore nostro Gesù Cristo (e); che Dio vuole la continuazione di questo Sacrificio "dal sorgere al tramontare del sole" (f) perché non cessi mai l'inno di glorificazione e di ringraziamento che gli uomini debbono al Creatore dal momento che hanno bisogno del suo continuo aiuto e del sangue del Redentore per cancellare i peccati che offendono la sua giustizia.

La partecipazione dei fedeli

È necessario dunque, Venerabili Fratelli, che tutti i fedeli considerino loro principale dovere e somma dignità partecipare al Sacrificio Eucaristico non con un’assistenza passiva, negligente e distratta, ma contale impegno e fervore da porsi in intimo contatto col Sommo Sacerdote , come dice l'Apostolo: "Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù , offrendo con Lui e per Lui, santificandosi con Lui.

È ben vero che Gesù Cristo è sacerdote, ma non per se stesso, bensì per noi, presentando all'Eterno Padre i voti e i religiosi sensi di tutto il genere umano; Gesù è vittima, ma per noi, sostituendosi all'uomo peccatore; ora il detto dell'Apostolo: "abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù" esige da rutti i cristiani di riprodurre in sé, per quanto è in potere dell'uomo, lo stesso stato d'animo che aveva il Divin Redentore quando faceva il Sacrificio di sé: l'umile sottomissione dello spirito, cioè, l'adorazione, l'onore, la lode e il ringraziamento alla somma Maestà di Dio; richiede, inoltre, di riprodurre in se stessi le condizioni della vittima: l'abnegazione di sé secondo i precetti del Vangelo, il volontario e spontaneo esercizio della penitenza, il dolore e l'espiazione dei propri peccati. Esige, in una parola, la nostra mistica morte in Croce con Cristo, in modo da poter dire con San Paolo: "sono confitto con Cristo in Croce" .

È necessario, Venerabili Fratelli, spiegare chiaramente al vostro gregge come il fatto che i fedeli prendono parte al Sacrificio Eucaristico non significa tuttavia che essi godano di poteri sacerdotali.

Vi sono difatti, ai nostri giorni, alcuni che, avvicinandosi ad errori già condannati , insegnano che nel Nuovo Testamento si conosce soltanto un sacerdozio che spetta a tutti i battezzati, e che il precetto dato da Gesù agli Apostoli nell'ultima cena di fare ciò che Egli aveva fatto, si riferisce direttamente a tutta la Chiesa dei cristiani, e, soltanto in seguito, è sottentrato il sacerdozio gerarchico. Sostengono, perciò, che solo il popolo gode di una vera potestà sacerdotale, mentre il sacerdote agisce unicamente per ufficio concessogli dalla comunità. Essi ritengono, in conseguenza, che il Sacrificio Eucaristico è una vera e propria "concelebrazione" e che è meglio che i sacerdoti "concelebrino" insieme col popolo presente piuttosto che, nell'assenza di esso, offrano privatamente il Sacrificio .

È inutile spiegare quanto questi capziosi errori siano in contrasto con le verità più sopra dimostrate, quando abbiamo parlato del posto che compete al sacerdote nel Corpo Mistico di Gesù. Ricordiamo solamente che il sacerdote fa le veci del popolo perché rappresenta la persona di Nostro Signore Gesù Cristo in quanto Egli è Capo di tutte le membra ed offrì se stesso per esse: perciò va all'altare come ministro di Cristo, a Lui inferiore, ma superiore al popolo . Il popolo invece, non rappresentando per nessun motivo la persona del Divin Redentore, né essendo mediatore tra sé e Dio, non può in nessun modo godere di poteri sacerdotali .

La partecipazione all'oblazione

Tutto ciò consta di fede certa; ma si deve inoltre affermare che anche i fedeli offrono la vittima divina, sotto un diverso aspetto .

Lo dichiararono apertamente già alcuni Nostri Predecessori e Dottori della Chiesa. "Non soltanto - così Innocenzo III di immortale memoria - offrono i sacerdoti, ma anche tutti i fedeli: poiché ciò che in particolare si compie per ministero dei sacerdoti, si compie universalmente per voto dei fedeli " . E Ci piace citare almeno uno dei molti testi di San Roberto Bellarmino a questo proposito: "il Sacrificio - egli dice - è offerto principalmente in persona di Cristo. Perciò l'oblazione che segue alla consacrazione attesta che tutta la Chiesa consente nella oblazione fatta da Cristo e offre insieme con Lui" .

Con non minore chiarezza i riti e le preghiere del Sacrificio Eucaristico significano e dimostrano che l'oblazione della vittima è fatta dai sacerdoti in unione con il popolo. Infatti, non soltanto il sacro ministro, dopo l'offerta del pane e del vino, rivolto al popolo, dice esplicitamente: "Pregate, o fratelli, perché il mio e il vostro sacrificio sia accetto presso Dio Padre Onnipotente" , ma le preghiere con le quali viene offerta la vittima divina vengono, per lo più, dette al plurale, e in esse spesso si indica che anche il popolo prende parte come offerente a questo augusto Sacrificio. Si dice, per esempio: "per i quali noi ti offriamo e ti offrono anch'essi […] perciò ti preghiamo, o Signore, di accettare placato questa offerta dei tuoi servi di tutta la tua famiglia. […] Noi tuoi servi, come anche il tuo popolo santo, offriamo alla eccelsa tua Maestà le cose che Tu stesso ci hai donato e date, l'Ostia pura, l'Ostia santa, l'Ostia immacolata" .

Né fa meraviglia che i fedeli siano elevati a una simile dignità. Col lavacro del Battesimo, difatti, i cristiani diventano, a titolo comune, membra del Mistico Corpo di Cristo sacerdote, e, per mezzo del "carattere" che si imprime nella loro anima, sono deputati al culto divino partecipando, così, convenientemente al loro stato, al sacerdozio di Cristo.

Nella Chiesa cattolica, la ragione umana illuminata dalla fede si è sempre sforzata di avere una maggiore conoscenza possibile delle cose divine; perciò è naturale che anche il popolo cristiano domandi piamente in che senso venga detto nel Canone del Sacrificio Eucaristico che lo offre anch'esso. Per soddisfare a questo pio desiderio, Ci piace trattare qui l'argomento con concisione e chiarezza.

Ci sono, innanzi tutto, ragioni piuttosto remote: spesso, cioè, avviene che i fedeli, assistendo ai sacri riti, uniscono alternativamente le loro preghiere alle preghiere del sacerdote; qualche volta, poi, accade parimenti - in antico ciò si verificava con maggiore frequenza - che offrano al ministro dell’altare il pane e il vino perché divengano corpo e sangue di Cristo; e, infine, perché, con le elemosine, fanno in modo che il sacerdote offra per essi la vittima divina.

Ma c'è anche una ragione più profonda perché si possa dire che tutti i cristiani, e specialmente quelli che assistono all'altare, compiono l'offerta.

Per non far nascere errori pericolosi in questo importantissimo argomento, è necessario precisare con esattezza il significato del termine "offerta". L'immolazione incruenta per mezzo della quale, dopo che sono state pronunziate le parole della consacrazione, Cristo è presente sull'altare nello stato di vittima, è compiuta dal solo sacerdote in quanto rappresenta la persona di Cristo e non in quanto rappresenta la persona dei fedeli. Ponendo però, sull'altare la vittima divina, il sacerdote la presenta a Dio Padre come oblazione a gloria della Santissima Trinità e per il bene di tutte le anime. A quest’oblazione propriamente detta i fedeli partecipano nel modo loro consentito e per un duplice motivo; perché, cioè, essi offrono il Sacrificio non soltanto per le mani del sacerdote, ma, incerto modo, anche insieme con lui, e con questa partecipazione anche l'offerta fatta dal popolo si riferisce al culto liturgico .

Che i fedeli offrano il Sacrificio per mezzo del sacerdote è chiaro dal fatto che il ministro dell'altare agisce in persona di Cristo in quanto Capo, che offre a nome di tutte le membra; per cui a buon diritto si dice che tutta la Chiesa, per mezzo di Cristo, compie l'oblazione della vittima. Quando, poi, si dice che il popolo offre insieme col sacerdote, non si afferma che le membra della Chiesa, non altrimenti che il sacerdote stesso, compiono il rito liturgico visibile - il che appartiene al solo ministro da Dio a ciò deputato - ma che unisce i suoi voti di lode, di impetrazione, di espiazione e il suo ringraziamento alla intenzione del sacerdote, anzi dello stesso Sommo Sacerdote, acciocché vengano presentate a Dio Padre nella stessa oblazione della vittima, anche col rito esterno del sacerdote . È necessario, difatti, che il rito esterno del Sacrificio manifesti per natura sua il culto interno: ora, il Sacrificio della Nuova Legge significa quell'ossequio sapremo col quale lo stesso principale offerente, che è Cristo, e con Lui e per Lui tutte le sue mistiche membra, onorano debitamente Dio.

Con grande gioia dell'anima siamo stati informati che questa dottrina, specialmente negli ultimi tempi, per l'intenso studio della disciplina liturgica da parte di molti, è stata posta nella sua luce: ma non possiamo fare a meno di deplorare vivamente le esagerazioni e i travisamenti della verità che non concordano con i genuini precetti della Chiesa.

Alcuni, difatti, riprovano del tutto le Messe che si celebrano in privato e senza l'assistenza del popolo, quasi che deviino dalla forma primitiva del sacrificio; né manca chi afferma che i sacerdoti non possono offrire la vittima divina nello stesso tempo su parecchi altari, perché in questo modo dissociano la comunità e ne mettono in pericolo l'unità: così non mancano di quelli che arrivano fino al punto di credere necessaria la conferma e la ratifica del Sacrificio da parte del popolo perché possa avere la sua forza ed efficacia.

Erroneamente in questo caso si fa appello alla indole sociale del Sacrificio Eucaristico. Ogni volta, difatti, che il sacerdote ripete ciò che fece il Divin Redentore nell'ultima cena, il sacrificio è realmente consumato, ed esso ha sempre e dovunque, necessariamente e per la sua intrinseca natura, una funzione pubblica e sociale, in quanto l'offerente agisce a nome di Cristo e dei cristiani, dei quali il Divin Redentore è Capo, e l'offre a Dio per la Santa Chiesa Cattolica e per i vivi e i defunti . E ciò si verifica certamente sia che vi assistano i fedeli - che Noi desideriamo e raccomandiamo che siano presenti numerosissimi e ferventissimi - sia che non vi assistano, non essendo in nessun modo richiesto che il popolo ratifichi ciò che fa il sacro ministro .

Sebbene, dunque, da quel che è stato detto risulti chiaramente che il santo Sacrificio della Messa è offerto validamente a nome di Cristo e della Chiesa, né è privo dei suoi frutti sociali, anche se è celebrato senza l'assistenza di alcun inserviente, tuttavia, per la dignità di questo mistero, vogliamo e insistiamo - come sempre volle la Madre Chiesa - che nessun sacerdote si accosti all'altare se non c'è chi gli serva egli risponda, come prescrive il can. 813 .

La partecipazione dell’immolazione

Perché poi l'oblazione, con la quale in questo Sacrificio i fedeli offrono la vittima divina al Padre Celeste, abbia il suo pieno effetto, ci vuole ancora un'altra cosa; è necessario, cioè, che essi immolino se stessi come vittima.

Questa immolazione non si limita al sacrificio liturgico soltanto. Vuole, difatti, il Principe degli Apostoli che per il fatto stesso che siamo edificati come pietre vive su Cristo, possiamo come "sacerdozio santo, offrire vittime spirituali gradire a Dio per Gesù Cristo" ; e Paolo Apostolo, poi, senza nessuna distinzione di tempo, esorta i cristiani con le seguenti parole: "Io vi scongiuro, adunque, o fratelli […] che offriate i vostri corpi come vittima viva, santa, a Dio gradita, come razionale vostro culto " . Ma quando soprattutto i fedeli partecipano all'azione liturgica con tanta pietà ed attenzione da potersi veramente dire di essi: "dei quali ti è conosciuta la fede e nota la devozione " , non possono fare a meno che la fede di ognuno di essi operi più alacremente per mezzo della carità, si rinvigorisca e fiammeggi la pietà, e si consacrino tutti quanti alla ricerca della gloria divina, desiderando con ardore di divenire intimamente simili a Gesù Cristo che patì acerbi dolori, offrendosi col Sommo Sacerdote e per mezzo di Lui come ostia spirituale.

Ciò insegnano anche le esortazioni che il Vescovo rivolge a nome della Chiesa ai sacri ministri nel giorno della loro Consacrazione: "Rendetevi conto di quello che fate, imitate ciò che trattate, in quanto, celebrando il mistero della morte del Signore, procuriate sotto ogni rispetto di mortificare le vostre membra dai vizi e dalle concupiscenze" . E quasi allo stesso modo nei Libri liturgici vengono esortati i cristiani che si accostano all'altare, perché partecipino ai sacri misteri: "Sia su […] questo altare il culto dell'innocenza, vi si immoli la superbia, si annienti l'ira, si ferisca la lussuria ed ogni libidine, si offra, invece delle tortore, il sacrificio della castità, e invece dei piccioni il sacrificio dell'innocenza" . Assistendo dunque all’altare, dobbiamo trasformare la nostra anima in modo che si estingua radicalmente ogni peccato che è in essa, sia, con ogni diligenza, ristorato e rafforzato tutto ciò che per Cristo dà la vita soprannaturale: e così diventiamo, insieme con l'Ostia immacolata, una vittima a Dio Padre gradita.

La Chiesa si sforza, con i precetti della sacra Liturgia, di portare ad effetto nella maniera più adatta questo santissimo proposito. A questo mirano non soltanto le letture, le omelie e le altre esortazioni dei ministri sacri e tutto il ciclo dei misteri che ci vengono ricordati durante l'anno, ma anche le vesti, i riti sacri e il loro esteriore apparato, che hanno il compito di "far pensare alla maestà di tanto Sacrificio, eccitare le menti dei fedeli, per mezzo dei segni visibili di pietà e di religione, alla contemplazione delle altissime cose nascoste in questo Sacrificio" .

Tutti gli elementi della Liturgia mirano dunque a riprodurre nell'anima nostra l'immagine del Divin Redentore attraverso il mistero della Croce, secondo il detto dell'Apostolo delle Genti: "Sono confitto con Cristo in Croce, e vivo non già più io, ma è Cristo che vive in me" . Per la qual cosa diventiamo ostia insieme con Cristo per la maggior gloria dei Padre.

In questo dunque devono volgere ed elevare la loro anima i fedeli che offrono la vittima divina nel Sacrificio Eucaristico. Se, difatti, come scrive S. Agostino, sulla mensa del Signore è posto il nostro mistero, cioè lo stesso Cristo Signore , in quanto è Capo e simbolo di quella unione in virtù della quale noi siamo il corpo di Cristo e membra del suo Corpo ; se San Roberto Bellarmino insegna, secondo il pensiero del Dottore di Ippona, che nel Sacrificio dell'altare è significato il generale sacrificio col quale tutto il Corpo Mistico di Cristo, cioè tutta la città redenta, viene offerta a Dio per mezzo di Cristo Gran Sacerdote (e), nulla si può trovare di più retto e di più giusto, che immolarci noi tutti, col nostro Capo che ha sofferto per noi, all'Eterno Padre. Nel Sacramento dell'altare, secondo lo stesso Agostino, si dimostra alla Chiesa che nel sacrificio che offre è offerta anch'essa (f).

Considerino, dunque, i fedeli a quale dignità li innalza il sacro lavacro del Battesimo; né si contentino di partecipare al Sacrificio Eucaristico con l'intenzione generale che conviene alle membra di Cristo e ai figli della Chiesa, ma liberamente e intimamente uniti al Sommo Sacerdote e al suo ministro in terra secondo lo spirito della sacra Liturgia, si uniscano a lui in modo particolare al momento della consacrazione dell'Ostia divina, e la offrano insieme con lui quando vengono pronunziate quelle solenni parole: "Per Lui, con Lui, in Lui, è a te, Dio Padre Onnipotente, nell'unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli" ; alle quali parole il popolo risponde: "Amen". Né si dimentichino i cristiani di offrire col divin Capo Crocifisso se stessi e le loro preoccupazioni, dolori, angustie, miserie e necessità.

Mezzi per promuovere questa partecipazione

Sono, dunque, degni di lode coloro i quali, allo scopo di rendere più agevole e fruttuosa al popolo cristiano la partecipazione al Sacrificio Eucaristico, si sforzano di porre opportunamente tra le mani del popolo il "Messale Romano", di modo che i fedeli, uniti insieme col sacerdote, preghino con lui con le sue stesse parole e con gli stessi sentimenti della Chiesa; e quelli che mirano a fare della Liturgia, anche esternamente, una azione sacra, alla quale comunichino di fatto tutti gli astanti. Ciò può avvenire in vari modi: quando, cioè, tutto il popolo, secondo le norme rituali, o risponde disciplinatamente alle parole del sacerdote, o esegue canti corrispondenti alle varie parti del Sacrificio, o fa l'una e l'altra cosa: o infine, quando, nella Messa solenne, risponde alternativamente alle preghiere dei ministri di Gesù Cristo e insieme si associa al canto liturgico.

Tuttavia, queste maniere di partecipare al Sacrificio sono da lodare e da consigliare quando obbediscono scrupolosamente ai precetti della Chiesa e alle norme dei sacri riti. Esse sono ordinate soprattutto ad alimentare e fomentare la pietà dei cristiani e la loro intima unione con Cristo e col suo ministro visibile, ed a stimolare quei sentimenti e quelle disposizioni interiori con le quali è necessario che la nostra anima si configuri al Sommo Sacerdote del Nuovo Testamento. Nondimeno, sebbene esse dimostrino in modo esteriore che il Sacrificio, per natura sua, in quanto è compiuto dal Mediatore di Dio e degli uomini , è da ritenersi opera di tutto il Corpo Mistico di Cristo; non sono però necessarie per costituirne il carattere pubblico e comune. Inoltre, la Messa "dialogata" non può sostituirsi alla Messa solenne, la quale, anche se è celebrata alla presenza dei soli ministri, gode di una particolare dignità per la maestà dei riti e l'apparato delle cerimonie; benché il suo splendore e la sua solennità si accresca massimamente se, come la Chiesa desidera, vi assiste un popolo numeroso e devoto .

Si deve osservare ancora che sono fuori della verità e del cammino della retta ragione coloro i quali, tratti da false opinioni, attribuiscono a tutte queste circostanze tale valore da non dubitare di asserire che, omettendole, l'azione sacra non può raggiungere lo scopo prefissosi .

Non pochi fedeli, difatti, sono incapaci di usare il "Messale Romano" anche se è scritto in lingua volgare; né tutti sono idonei a comprendere rettamente, come conviene, i riti e le cerimonie liturgiche. L'ingegno, il carattere e l'indole degli uomini sono così vari e dissimili che non tutti possono ugualmente essere impressionati e guidati da preghiere, da canti o da azioni sacre compiute in comune. I bisogni, inoltre, e le disposizioni delle anime non sono uguali in tutti, né restano sempre gli stessi nei singoli . Chi, dunque, potrà dire, spinto da un tale preconcetto, che tanti cristiani non possono partecipare al Sacrificio Eucaristico e goderne i benefici? Questi possono certamente farlo in altra maniera che ad alcuni riesce più facile; come, per esempio, meditando piamente i misteri di Gesù Cristo, o compiendo esercizi di pietà e facendo altre preghiere che, pur differenti nella forma dai sacri riti, ad essi tuttavia corrispondono per la loro natura.

Per la qual cosa vi esortiamo, Venerabili Fratelli, perché, nella vostra Diocesi o giurisdizione ecclesiastica, regoliate e ordiniate la maniera più adatta con la quale il popolo possa partecipare all'azione liturgica secondo le norme stabilite dal "Messale Romano" e secondo i precetti della Sacra Congregazione dei Riti e del Codice di Diritto Canonico; così che tutto si compia col necessario ordine e decoro, né sia consentito ad alcuno, sia pur sacerdote, di usare i sacri edifici per arbitrari esperimenti . A tale proposito desideriamo anche che nelle singole Diocesi, come già esiste una Commissione per l’arte e la musica sacra, così si costituisca una Commissione per promuovere l'apostolato liturgico, perché, sotto la vostra vigilante cura, tutto si compia diligentemente secondo le prescrizioni della Sede Apostolica.

Nelle comunità religiose, poi, si osservi accuratamente tutto ciò che le proprie Costituzioni hanno stabilito in questa materia, e non si introducano novità che non siano state prima approvate dai Superiori.

In realtà, per quanto varie possano essere le forme e le circostanze esteriori della partecipazione del popolo al Sacrificio Eucaristico e alle altre azioni liturgiche, si deve sempre mirare con ogni cura a che le anime degli astanti si uniscano al Divino Redentore con i vincoli più stretti possibili, c a che la loro vita si arricchisca di una santità sempre maggiore e cresca ogni giorno più la gloria del Padre celeste.

La Comunione

L'augusto Sacrificio dell'altare si conclude con la Comunione del divino convito. Ma, come tutti sanno, per avere l'integrità dello stesso Sacrificio, si richiede soltanto che il sacerdote si nutra del cibo celeste, non che anche il popolo - cosa, del resto, sommamente desiderabile - acceda alla santa Comunione.

Ci piace, a questo proposito, ripetere le considerazioni del Nostro Predecessore Benedetto XIV sulle definizioni del Concilio di Trento: "In primo luogo […] dobbiamo dire che a nessun fedele può venire in mente che le Messe private, nelle quali il solo sacerdote prende l'Eucaristia, perdano perciò il valore del vero, perfetto ed integro Sacrificio istituito da Cristo Signore e siano, quindi, da considerarsi illecite. Né i fedeli ignorano - almeno possono facilmente essere istruiti - che il Sacrosanto Concilio di Trento, fondandosi sulla dottrina custodita nella ininterrotta Tradizione della Chiesa, condannò la nuova e falsa dottrina di Lutero ad essa contraria" . "Chi dice che le Messe nelle quali il solo sacerdote comunica sacramentalmente sono illecite e perciò da abrogarsi, sia anatema" .

Si allontanano dunque dal cammino della verità coloro i quali si rifiutano di celebrare se il popolo cristiano non si accosta alla mensa divina; e ancora di più si allontanano quelli che, per sostenere l'assoluta necessità che i fedeli si nutrano del convito Eucaristico insieme col sacerdote, asseriscono, capziosamente, che non si tratta soltanto di un Sacrificio, ma di un Sacrificio e di un convito di fraterna comunanza, e fanno della santa Comunione compiuta in comune quasi il culmine di tutta la celebrazione.

Si deve, difatti, ancora una volta notare che il Sacrificio Eucaristico consiste essenzialmente nella immolazione incruenta della Vittima divina, immolazione che è misticamente manifestata dalla separazione delle sacre specie e dalla loro oblazione fatta all'Eterno Padre. La santa Comunione appartiene alla integrità del sacrificio, e alla partecipazione ad esso per mezzo della comunione dell'Augusto Sacramento; e mentre è assolutamente necessaria al ministro sacrificatore, ai fedeli è soltanto da raccomandarsi vivamente .

Come, però, la Chiesa, in quanto Maestra di verità, si sforza con ogni cura di tutelare l'integrità della fede cattolica, così, in quanto Madre sollecita dei suoi figli, vivamente li esorta a partecipare con premura e frequenza a questo massimo beneficio della nostra religione.

Desidera innanzi tutto che cristiani - specialmente quando non possono facilmente ricevere di fatto il cibo Eucaristico - lo ricevano almeno col desiderio; in modo che con viva fede, con animo riverentemente umile e confidente nella volontà del Redentore Divino, con l'amore più ardente, si uniscano a Lui.

Ma ciò non le basta. Poiché, difatti, come abbiamo sopra detto, noi possiamo partecipare al Sacrificio anche con la Comunione sacramentale per mezzo del convito del Pane degli Angeli, la Madre Chiesa, perché più efficacemente "possiamo sentire in noi di continuo il frutto della Redenzione" , ripete a tutti i suoi figli l'invito di Cristo Signore: "Prendete e mangiate […] Fate questo in mia memoria" . Al qual proposito, il Concilio di Trento, facendo eco al desiderio di Gesù Cristo e della sua Sposa immacolata, esorta ardentemente "perché in tutte le Messe i fedeli presenti partecipino non soltanto spiritualmente, ma anche ricevendo sacramentalmente l'Eucaristia, perché venga ad essi più abbondante il frutto di questo Sacrificio". Anzi il nostro immortale Predecessore Benedetto XIV, perché sia meglio e più chiaramente manifesta la partecipazione dei fedeli allo stesso Sacrificio divino per mezzo della Comunione Eucaristica, loda la devozione di coloro i quali non solo desiderano nutrirsi del cibo celeste durante l'assistenza al Sacrificio, ma amano meglio cibarsi delle ostie consacrate nel medesimo Sacrificio, sebbene, come egli dichiara, si partecipi veramente e realmente al Sacrificio anche se si tratta di pane Eucaristico prima regolarmente consacrato. Così, difatti, scrive: "E benché partecipino allo stesso Sacrificio, oltre quelli ai quali il sacerdote celebrante dà parte della Vittima da lui offerta nella stessa Messa, anche quelli ai quali il sacerdote dà l'Eucaristia che si suol conservare; non per questo la Chiesa ha proibito in passato o adesso proibisce che il sacerdote soddisfi alla devozione e alla giusta richiesta di coloro che assistono alla Messa e chiedono di partecipare allo stesso Sacrificio che anch'essi offrono nella maniera loro confacente: anzi approva e desidera che ciò sia fatto, e rimprovererebbe quei sacerdoti per la cui colpa o negligenza fosse negata ai fedeli quella partecipazione ".

Voglia, poi, Dio, che tutti, spontaneamente e liberamente, corrispondano a questi solleciti inviti della Chiesa; voglia Dio che fedeli, anche ogni giorno se lo possono, partecipino non soltanto spiritualmente al Sacrificio Divino, ma anche con la Comunione dell'Augusto Sacramento, ricevendo il Corpo di Gesù Cristo, offerto per tutti all’Eterno Padre. Stimolate, Venerabili Fratelli, nelle anime affidate alle vostre cure, l'appassionata e insaziabile fame di Gesù Cristo; il vostro insegnamento affolli gli altari di fanciulli e di giovani che offrano al Redentore Divino la loro innocenza e il loro entusiasmo; vi si accostino spesso i coniugi perché, nutriti alla sacra mensa e grazie ad essa, possano educare la prole loro affidata al senso e alla carità di Gesù Cristo; siano invitati gli operai, perché possano ricevere il cibo efficace e indefettibile che ristora le loro forze e prepara alle loro fatiche la mercede eterna nel cielo; radunate, infine, gli uomini di tutte le classi e "costringete a entrare"; perché questo è il pane della vita del quale hanno tutti bisogno. La Chiesa di Gesù Cristo ha a disposizione solo questo pane per saziare le aspirazioni e i desideri delle anime nostre, per unirle intimamente a Gesù Cristo, perché, infine, per esso diventino "un solo corpo" e si affratellino quanti siedono alla stessa mensa per prendere il farmaco della immortalità con la frazione di un unico pane.

È assai opportuno, poi - il che, del resto, è stabilito dalla Liturgia - che il popolo acceda alla santa Comunione dopo che il Sacerdote ha preso dall'altare il cibo divino; e, come abbiamo scritto sopra, sono da lodarsi coloro i quali, assistendo alla Messa, ricevono le ostie consacrate nel medesimo Sacrificio, in modo che si verifichi "che tutti quelli che, partecipando a questo altare, abbiamo ricevuto il sacrosanto Corpo e Sangue del Figlio tuo, siamo colmati d'ogni grazia e benedizione celeste" .

Tuttavia, non mancano talvolta le cause, né sono rare, per cui venga distribuito il pane Eucaristico o prima o dopo lo stesso Sacrificio, e anche che si comunichi - sebbene si distribuisca la Comunione subito dopo quella del sacerdote - con ostie consacrate in un tempo antecedente. Anche in questi casi come, del resto, abbiamo ammonito prima il popolo partecipa regolarmente al Sacrificio Eucaristico e può spesso con maggiore facilità accostarsi alla mensa di vita eterna. Che se la Chiesa, con materna accondiscendenza, si sforza di venire incontro ai bisogni spirituali dei suoi figli, questi nondimeno, da parte loro, non devono facilmente sdegnare tutto ciò che la sacra Liturgia consiglia, e, sempre che non vi sia un motivo plausibile in contrario, devono fare tutto ciò che più chiaramente manifesta all'altare la vivente unità del Corpo .

Il ringraziamento

L'azione sacra, che è regolata da particolari norme liturgiche, dopo che è stata compiuta, non dispensa dal ringraziamento colui che ha gustato il nutrimento celeste; è cosa, anzi, molto conveniente che egli, dopo aver ricevuto il cibo Eucaristico e dopo la fine dei riti pubblici, si raccolga, e, intimamente unito al Divino Maestro, si trattenga con Lui, per quanto gliene diano opportunità le circostanze, in dolcissimo e salutare colloquio. Si allontanano, quindi, dal retto sentiero della verità coloro i quali, fermandosi alle parole più che al pensiero, affermano e insegnano che, finita la Messa, non si deve prolungare il ringraziamento, non soltanto perché il Sacrificio dell'altare è per natura sua un'azione di grazie, ma anche perché ciò appartiene alla pietà privata, personale, e non al bene della comunità .

Ma, al contrario, la natura stessa del Sacramento richiede che il cristiano che lo riceve ne ricavi abbondanti frutti di santità. Certo, la pubblica adunanza della comunità è sciolta, ma è necessario che i singoli, uniti con Cristo, non interrompano nella loro anima il canto di lode "ringraziando sempre di tutto, nel nome del Signor Nostro Gesù Cristo, il Dio e il Padre" . A ciò ci esorta anche la stessa sacra Liturgia del Sacrificio Eucaristico, quando ci comanda di pregare con queste parole: "Concedici, ti preghiamo, di renderti continue grazie ... e non cessiamo mai di lodarti" . Per cui, se si deve sempre ringraziare Dio e non si deve mai cessare dal lodarlo, chi oserebbe riprendere e disapprovare la Chiesa che consiglia ai suoi sacerdoti e ai fedeli di trattenersi almeno per un po' di tempo, dopo la Comunione, in colloquio col Divin Redentore, e che ha inserito nei libri liturgici opportune preghiere, arricchite di indulgenze, con le quali i sacri ministri si possono convenientemente preparare prima di celebrare e di comunicarsi, e, compiuta la santa Messa, manifestare a Dio il loro ringraziamento? La sacra Liturgia, lungi dal soffocare gli intimi sentimenti dei singoli cristiani, li agevola e li stimola, perché essi siano assimilati a Gesù Cristo e per mezzo di lui indirizzati al Padre; quindi essa stessa esige che chi si è accostato alla mensa Eucaristica ringrazi debitamente Dio. Al Divin Redentore piace ascoltare le nostre preghiere, parlare a cuore aperto con noi, e offrirci rifugio nel suo Cuore fiammeggiante.

Anzi, questi atti, propri dei singoli, sono assolutamente necessari per godere più abbondantemente di tutti i soprannaturali tesori di cui è ricca la Eucaristia e per trasmetterli agli altri secondo le nostre possibilità affinché Cristo Signore consegua in tutte le anime la pienezza della sua virtù.

Perché, dunque, Venerabili Fratelli, non loderemmo coloro i quali, ricevuto il cibo Eucaristico, anche dopo che è stata sciolta ufficialmente l'assemblea cristiana, si indugiano in intima familiarità col Divin Redentore, non solo per trattenersi dolcemente con Lui, ma anche per ringraziarlo e lodarlo, e specialmente per domandargli aiuto, affinché tolgano dalla loro anima tutto ciò che può diminuire l'efficacia del Sacramento, e facciano da parte loro tutto ciò che può favorire la presentissima azione di Gesù? Li esortiamo, anzi, a farlo in modo particolare, sia traducendo in pratica i propositi concepiti ed esercitando le cristiane virtù, sia adattando ai propri bisogni quanto hanno ricevuto con regale liberalità. Veramente parlava secondo precetti e lo spirito della Liturgia l'autore dell'aureo libretto della Imitazione di Cristo, quando consigliava a chi si era comunicato: "Raccogliti in segreto e goditi il tuo Dio, perché possiedi colui che il mondo intero non potrà toglierti" .

Noi tutti, dunque, così intimamente stretti a Cristo, cerchiamo quasi di immergerci nella sua santissima anima, c ci uniamo con Lui per partecipare agli atti di adorazione con i quali Egli offre alla Trinità Augusta l'omaggio più grato ed accetto; agli atti di lode e di ringraziamento che Egli offre all'Eterno Padre, e a cui fa eco concorde il cantico del cielo e della terra, come è detto: "Benedite il Signore, tutte le opere sue" : agli atti, infine, partecipando ai quali imploriamo l'aiuto celeste nel momento più opportuno per chiedere ed ottenere soccorso in nome di Cristo : ma soprattutto ci offriamo e immoliamo vittime, con le parole: "Fa che noi ti siamo eterna offerta" .

Il Divin Redentore ripete incessantemente il suo premuroso invito: "Restate in me" . Per mezzo del Sacramento della Eucaristia, Cristo dimora in noie noi dimoriamo in Cristo; e come Cristo, rimanendo in noi, vive ed opera, così è necessario che noi, rimanendo in Cristo, per Lui viviamo e operiamo.

L’adorazione dell’Eucaristia

Il nutrimento Eucaristico contiene, come tutti sanno, "veramente, realmente e sostanzialmente il Corpo e il Sangue insieme con l’Anima e la Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo" ; non fa quindi meraviglia se la Chiesa, fin dalle origini, ha adorato il Corpo di Cristo sotto le specie Eucaristiche, come appare dai riti stessi dell'Augusto Sacrificio, con i quali si prescrive ai sacri ministri di adorare il santissimo Sacramento con genuflessioni o con inclinazioni profonde.

I Sacri Concili insegnano che, fin dall'inizio della sua vita, è stato trasmesso alla Chiesa che si deve onorare "con una unica adorazione il Verbo Dio incarnato e la sua propria carne" ; e Sant’Agostino afferma: "Nessuno mangia quella carne, senza averla prima adorata", aggiungendo che non solo non pecchiamo adorando, ma pecchiamo non adorando .

Da questi principi dottrinali è nato e si è venuto poco a poco sviluppando il culto Eucaristico dell’adorazione distinto dal santo Sacrificio. La conservazione delle Sacre Specie per gli infermi, e per tutti quelli che venivano a trovarsi in pericolo di morte, introdusse il lodevole uso di adorare questo cibo celeste conservato nelle chiese. Questo culto di adorazione ha un valido e solido motivo. L'Eucaristia, difatti, è un sacrificio ed è anche un Sacramento; e differisce dagli altri Sacramenti in quanto non solo produce la grazia, ma contiene in modo permanente l'Autore stesso della grazia. Quando, perciò, la Chiesa ci comanda di adorare Cristo nascosto sotto i veli Eucaristici, e di chiedere a Lui doni soprannaturali e terreni di cui abbiamo sempre bisogno, manifesta la fede viva, con la quale crede presente sotto quei veli suo Sposo divino, gli manifesta la sua riconoscenza e gode della sua intima familiarità.

Di questo culto la Chiesa, nel decorso dei tempi, ha introdotto varie forme, ogni giorno certamente più belle e salutari: come, per esempio, devote ed anche quotidiane visite ai divini tabernacoli; benedizioni col santissimo Sacramento; solenni processioni per paesi e città, specialmente in occasione dei Congressi Eucaristici, e adorazioni dell'augusto Sacramento pubblicamente esposto. Le quali pubbliche adorazioni talvolta durano per un tempo limitato, talvolta, invece, sono prolungate per intere ore e anche per quaranta ore; in qualche luogo sono protratte per la durata di tutto l'anno, a turno, nelle singole chiese; altrove, poi, si continuano anche di giorno e di notte, a cura di Comunità religiose; e ad esse spesso prendono parte anche i fedeli.

Questi esercizi di devozione contribuirono in modo mirabile alla fede ed alla vita soprannaturale della Chiesa militante in terra la quale, così facendo, fa eco, in certo modo, alla Chiesa trionfante che innalza in eterno l'inno di lode a Dio e all'Agnello "che è stato ucciso" . Perciò la Chiesa non solo ha approvato, ma ha fatto suoi e ha confermato con la sua autorità questi devoti esercizi, propagati dovunque nel corso dei secoli . Essi sgorgano dallo spirito della sacra Liturgia; e perciò, qualora siano compiuti col decoro, la fede e la devozione richiesti dai sacri riti e dalle prescrizioni della Chiesa, certamente aiutano moltissimo a vivere la vita liturgica.

Né si deve dire che questo culto Eucaristico provoca una erronea confusione tra il Cristo storico, come dicono, che è vissuto in terra e il Cristo presente nell'Augusto Sacramento dell'altare, e il Cristo trionfante in cielo e dispensatore di grazie; si deve, anzi, affermare che, in tal modo, i fedeli testimoniano e manifestano solennemente la fede della Chiesa, con la quale si crede che uno e identico è il Verbo di Dio e il Figlio di Maria Vergine, che soffri in Croce, che è presente nascosto nella Eucaristia, che regna nel cielo . Così S. Giovanni Crisostomo: "Quando te lo vedi presentare (il Corpo di Cristo), di’ a te stesso: Per questo Corpo non sono più terra e cenere, non più schiavo, ma libero: perciò spero di avere il cielo e i beni che vi si trovano, la vita immortale, l’eredità degli Angeli, la compagnia di Cristo: questo Corpo, trafitto dai chiodi, dilaniato dai flagelli, non fu preda della morte... Questo è quel corpo che fu insanguinato, trapassato dalla lancia, dal quale scaturirono due fonti salutari: l'una di sangue, l'altra di acqua... Questo Corpo, ci diede e da tenere e da mangiare, il che fu conseguenza di intenso amore" .

In modo particolare, poi, è molto da lodarsi la consuetudine secondo la quale molti esercizi di pietà entrati nell'uso del popolo cristiano si concludono col rito della benedizione Eucaristica. Nulla di meglio e di più vantaggioso del gesto col quale il sacerdote, levando al cielo il Pane degli Angeli, al cospetto della folla cristiana prostrata, e volgendolo intorno in forma di croce, invoca il Padre celeste perché voglia volgere benignamente gli occhi a suo Figlio, crocifisso per amor nostro, e a causa di Lui che volle essere nostro Redentore e fratello, e per suo mezzo, effonda i suoi doni celesti sui redenti dal sangue immacolato dell'Agnello .

Procurate, dunque, Venerabili Fratelli, con la vostra abituale, somma diligenza, che templi edificati dalla fede e dalla pietà delle generazioni cristiane nel decorso dei secoli come un perenne inno di gloria a Dio Onnipotente e come degna dimora del nostro Redentore nascosto sotto le specie Eucaristiche, siano il più possibile aperti ai sempre più numerosi fedeli, perché essi, raccolti ai piedi del nostro Salvatore, ascoltino il suo dolcissimo invito: "Venite a me voi tutti che siete tribolati ed oppressi, ed io vi ristorerò" . Siano davvero i templi la casa di Dio, nella quale chi entra per domandare favori, si allieti di tutto conseguire e ottenga la celeste consolazione.

Soltanto così potrà avvenire che tutta l'umana famiglia si pacificherà nell'ordine, e con mente e cuore concordi canterà l'inno della speranza e dell'amore: "Buon Pastore, pane verace - o Gesù, di noi pietà: - tu ci pasci, tu difendici; facci tu vedere la felicità - nella terra dei viventi" .

La divina Lode

L'ideale della vita cristiana consiste in ciò che ognuno si unisca intimamente a Dio. Perciò il culto che la Chiesa rende all'Eterno, e che è imperniato nel Sacrificio Eucaristico e nell'uso dei Sacramenti, è ordinato e disposto in modo che, con l'ufficio divino, si estenda a tutte le ore del giorno alle settimane, a tutto il corso dell'anno, a tutti i tempi e a tutte le condizioni della vita umana.

Avendo il Divino Maestro comandato: "È necessario pregare sempre, senza stancarsi" , la Chiesa, obbedendo fedelmente a questo ammonimento, non cessa mai di pregare, e ci esorta con l'Apostolo delle Genti: "Per suo mezzo [di Gesù] offriamo sempre a Dio il sacrificio di lode" .

Le Ore canoniche

La preghiera pubblica e collettiva, rivolta a Dio da tutti insieme, nell'antichità aveva luogo soltanto in certi giorni e in certe ore. Tuttavia, si pregava non solo nelle pubbliche riunioni, ma anche nelle case private e talvolta coi vicini e gli amici. Ben presto, però, nelle varie parti della cristianità, invalse l'uso di destinare alla preghiera particolari tempi, per esempio l'ultima ora del giorno, quando il sole tramonta e si accende la lucerna; o la prima, quando termina la notte, dopo, cioè, il canto del gallo e al sorger del sole. Altri momenti del giorno sono indicati come più adatti alla preghiera dalla Sacra Scrittura, dal costume tradizionale ebraico e dagli usi quotidiani. Secondo gli Atti degli Apostoli i discepoli di Gesù Cristo si riunivano per pregare all'ora terza, quando "furono tutti riempiti di Spirito Santo" ; il Principe degli Apostoli, poi, prima di prender cibo, "salì sul tetto per pregare circa la sesta ora" ; Pietro e Giovanni "salivano al Tempio per la preghiera all'ora nona" ; e Paolo e Sila "lodavano Dio a mezzanotte" .

Queste varie preghiere, specialmente per iniziativa ed opera dei monaci e degli asceti, si perfezionano ogni giorno più, e a poco a poco sono introdotte nell'uso della sacra Liturgia per autorità della Chiesa.

L'Ufficio Divino è, dunque, la preghiera del Corpo Mistico di Cristo, rivolta a Dio a nome di tutti i cristiani e a loro beneficio, essendo fatta dai sacerdoti, dagli altri ministri della Chiesa e dai religiosi, a questo dalla Chiesa stessa delegati .

Quali debbano essere il carattere e il valore di questa lode divina si ricava dalle parole che la Chiesa suggerisce di dire prima di iniziare le preghiere dell'Ufficio, prescrivendo che siano recitate "degnamente, attentamente e devotamente".

Il Verbo di Dio, assumendo l'umana natura, ha introdotto nell'esilio terreno l'inno che si canta in cielo per tutta l’eternità. Egli unisce a sé tutta la comunità umana e se la associa nel canto di questo inno di lode. Dobbiamo con umiltà riconoscere che noi "non sappiamo quel che dobbiamo convenientemente domandare, ma lo Spirito stesso prega per noi con gemiti inesprimibili" . Ed anche Cristo, per mezzo del suo Spirito, prega in noi il Padre. "Dio non potrebbe fare agli uomini un dono più grande... Prega [Gesù] per noi come nostro sacerdote; prega in noi come nostro Capo; è pregato da noi come nostro Dio... Riconosciamo dunque e le nostre voci in Lui e la sua voce in noi... Lo si prega come Dio, prega come servo: là il Creatore, qui un essere creato in quanto assume la natura da mutare senza mutarsi, facendo di noi un sol uomo con Lui: Capo e Corpo" .

Alla eccelsa dignità di questa preghiera della Chiesa deve corrispondere la intenta devozione dell'anima nostra. E poiché la voce dell'orante ripete i carmi scritti per ispirazione dello Spirito Santo, che proclamano ed esaltano la perfettissima grandezza di Dio, è anche necessario che a questa voce si accompagni il movimento interiore del nostro spirito, per fare nostri quei medesimi sentimenti con i quali ci eleviamo al cielo, adoriamo la Santa Trinità e le rendiamole lodi e i ringraziamenti dovuti: "Dobbiamo salmeggiare in modo che la nostra mente concordi con la nostra voce" . Non si tratta, dunque di una recitazione soltanto, o di un canto, che, pur perfettissimo secondo le leggi dell'arte musicale e le norme dei sacri riti, arrivi soltanto all'orecchio, ma soprattutto di una elevazione della nostra mente e della nostra anima a Dio, perché ci consacriamo, noi e tutte le nostre azioni, a Lui, uniti con Gesù Cristo.

Da qui dipende certamente in non piccola parte l'efficacia delle preghiere. Le quali, se non sono rivolte allo stesso Verbo fatto Uomo, si concludono con queste parole: "per il Signor Nostro Gesù Cristo"; che, come mediatore tra noi e Dio, mostra al Padre celeste le sue stimmate gloriose, "sempre vivente per intercedere per noi" .

I Salmi, come tutti sanno, costituiscono parte principale dell'Ufficio Divino. Essi abbracciano tutto il corso del giorno e gli danno un contatto e un ornamento di santità. Cassiodoro dice bellamente a proposito dei Salmi distribuiti nell'Ufficio Divino del suo tempo: "Essi... col giubilo matutino ci rendono favorevole il giorno che sta per cominciare, ci santificano la prima ora del giorno, ci consacrano la terza ora, ci allietano la sesta nella frazione del pane, ci segnano, a nona, la fine del digiuno, concludono la fine della giornata, impediscono al nostro spirito di ottenebrarsi all'avvicinarsi della notte".

Essi richiamano le verità da Dio rivelate al popolo eletto, talvolta terribili, talvolta soffuse di soavissima dolcezza; ripetono e accendono la speranza nel Liberatore promesso che un tempo veniva animata col canto intorno al focolare domestico e nella stessa maestà del Tempio; pongono in meravigliosa luce la profetizzata gloria di Gesù Cristo e la somma ed eterna sua potenza, la sua venuta e il suo annientamento in questo terreno esilio, la sua regia dignità e sacerdotale potestà, le sue benefiche fatiche e il suo sangue versato per la nostra redenzione. Esprimono egualmente la gioia delle nostre anime, la tristezza, la sperar.za, il timore, il ricambio d'amore e l'abbandono in Dio, come la mistica ascesa verso i divini tabernacoli. "Il Salmo... è la benedizione del popolo, la lode di Dio, l'elogio del popolo, l'applauso di tutti, il linguaggio generale, la voce della Chiesa, la canora confessione di fede, la piena devozione all'autorità, la gioia della libertà, il grido di giocondità, l'eco della letizia" .

Nel tempo antico l'assistenza dei fedeli a queste preghiere dell'Ufficio era maggiore; ma gradatamente diminuì, e, come ora abbiam detto, la loro recita attualmente è riservata al Clero ed ai Religiosi. A rigore di diritto, dunque, nulla è prescritto ai laici in questa materia; ma è sommamente da desiderare che essi prendano parte attiva al canto o alla recita della ufficiatura del Vespro, nei giorni festivi, nella propria parrocchia. Raccomandiamo vivamente, Venerabili Fratelli, a voi ed ai vostri fedeli, che non cessi questa pia consuetudine e che si richiami possibilmente in vigore ove fosse scomparsa. Ciò avverrà certamente con frutti salutari se il Vespro sarà cantato non solo degnamente e decorosamente, ma anche in maniera da allettare soavemente in vari modi la pietà dei fedeli .

Sia inviolata l'osservanza dei giorni festivi, che devono esser dedicati e consacrati a Dio in modo particolare; e soprattutto della domenica, che gli Apostoli, istruiti dallo Spirito Santo, sostituirono al sabato. Se fu comandato ai Giudei: "Lavorerete durante sei giorni: nel settimo giorno è Sabbato, riposo santo al Signore; chiunque lavorerà in questo giorno, sarà condannato a morte" ; come non temeranno la morte spirituale quei cristiani che fanno opere servili nei giorni festivi, e per la durata del riposo festivo non si dedicano alla pietà, non alla religione, ma si abbandonano smodatamente alle attrattive di questo secolo? . La domenica e i giorni festivi devono essere consacrati, dunque, al culto divino con il quale si adora Dio e l'anima si nutre del cibo celeste; e sebbene la Chiesa prescriva soltanto che i fedeli si devono astenere dal lavoro servile e devono assistere al Sacrificio Eucaristico, e non dia nessun precetto per il culto vespertino, però, oltre i precetti, ci sono anche le sue insistenti raccomandazioni e desideri; ciò più ancora è richiesto dal bisogno che tutti hanno di rendersi propizio il Signore per impetrarne i benefici.

L'animo Nostro si rattrista profondamente, nel vedere come nei nostri tempi il popolo cristiano trascorre il pomeriggio del giorno festivo: i luoghi dei pubblici spettacoli e dei giochi sono pieni, mentre le chiese sono meno frequentate di quel che converrebbe. Ma è necessario, senza dubbio, che tutti si rechino nei nostri templi, per essere istruiti nella verità della fede cattolica, per cantare le lodi di Dio, per essere arricchiti dal sacerdote con la benedizione Eucaristica e muniti dell'aiuto celeste contro le avversità della vita presente. Procurino tutti di imparare le formule che vengono cantate nei Vespri, e cerchino di penetrarne l'intimo significato; sotto l'influsso di queste preghiere, difatti, sperimenteranno quel che Sant’Agostino affermava di sé: "Quanto piansi tra inni e cantici, vivamente commosso dal soave canto della tua Chiesa. Quelle voci si riversavano nelle mie orecchie, stillavano la verità nel mio cuore, e mi ardevano sentimenti di devozione e le lacrime scorrevano, e mi facevano bene" .

I misteri del Signore

Durante tutto il corso dell'anno la celebrazione del Sacrificio Eucaristico e l'Ufficio Divino si svolgono soprattutto intorno alla persona di Gesù Cristo; e si organizzano in modo così consono e congruo, da farvi dominare il nostro Salvatore nei suoi misteri di umiliazione, di redenzione e di trionfo.

Rievocando questi misteri di Gesù Cristo, la sacra Liturgia mira a farvi partecipare tutti i credenti in modo che il divin Capo del Corpo Mistico viva nella pienezza della sua santità nelle singole membra. Siano, le anime dei cristiani, come altari sui quali si ripetano e si ravvivano le varie fasi del Sacrificio che immola il Sommo Sacerdote: i dolori, cioè, e le lacrime che lavano ed espiano i peccati; la preghiera a Dio rivolta che si eleva fino al cielo; la propria immolazione fatta con animo pronto, generoso e sollecito e, infine, l'intima unione con la quale abbandoniamo a Dio noi e le nostre cose e riposiamo in Lui, "essendo il succo della religione imitare colui che adori" .

Conformemente a questi modi e motivi con i quali la Liturgia propone alla nostra meditazione in tempi fissi la vita di Gesù Cristo, la Chiesa ci mostra gli esempi che dobbiamo imitare, e i tesori di santità che facciamo nostri, perché è necessario credere con lo spirito a ciò che si canta con la bocca, e tradurre nella pratica dei privati e pubblici costumi ciò che si crede con lo spirito.

Avvento

Infatti, nel tempo dell'Avvento, eccita in noi la coscienza dei peccati miseramente commessi; e ci esorta affinché, frenando i desideri con la volontaria mortificazione del corpo, ci raccogliamo in pia meditazione e siamo spinti dal desiderio di tornare a Dio, che solo può liberarci con la sua grazia dalla macchia dei peccati e dai mali che ne conseguono.

Natale

Con la ricorrenza del natale del Redentore, sembra quasi ricondurci alla grotta di Betlemme, perché vi impariamo che è assolutamente necessario nascere di nuovo e riformarci radicalmente; il che è possibile soltanto quando ci uniamo intimamente e vitalmente al Verbo di Dio fatto uomo, e siamo partecipi della sua divina natura, alla quale veniamo elevati.

Epifania

Con la solennità della Epifania, ricordando la vocazione delle Genti alla fede cristiana, vuole che noi ringraziamo ogni giorno il Signore per così grande beneficio, desideriamo con grande fede il Dio vivo, comprendiamo con devozione e in profondità le cose soprannaturali, e prediligiamo il silenzio e la meditazione per potere facilmente capire e conseguire i doni celesti.

Settuagesima

Nei giorni della Settuagesima e della Quaresima, la Chiesa, nostra Madre, moltiplica le sue cure perché ognuno di noi si renda diligentemente conto delle sue miserie, sia attivamente incitato alla emendazione dei costumi, e detesti in modo particolare i peccati cancellandoli con la preghiera e la penitenza; giacché l'assidua preghiera e la penitenza dei peccati commessi ci ottengono l'aiuto divino, senza il quale è inutile e sterile ogni opera nostra.

Passione

Nel sacro tempo, poi, nel quale la Liturgia ci propone gli atroci dolori di Gesù Cristo, la Chiesa ci invita al Calvario, per seguire le orme sanguinose del Divin Redentore, affinché portiamo volentieri la Croce con Lui, abbiamo in noi gli stessi sentimenti di espiazione e di propiziazione, e perché insieme moriamo tutti con Lui.

Pasqua

Con la solennità Pasquale, che commemora il trionfo di Cristo, l'anima nostra è pervasa di intima gioia, e dobbiamo opportunamente pensare che anche noi dobbiamo risorgere insieme con il Redentore da una vita fredda ed inerte, a una vita più santa e fervente, offrendoci tutti e con generosità a Dio, e dimenticandoci di questa misera terra per aspirare soltanto al cielo: "Se siete risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù,... aspirate alle cose di lassù" .

Pentecoste

Nel tempo di Pentecoste, finalmente, la Chiesa ci esorta con i suoi precetti e la sua opera, ad offrirci docilmente all'azione dello Spirito Santo, il quale vuole accendere i nostri cuori di divina carità, perché progrediamo ogni giorno nella virtù con impegno maggiore, e così ci santifichiamo, come Cristo Signore e il suo Padre celeste sono santi.

Tutto l'anno liturgico, dunque, può dirsi un magnifico inno di lode che la famiglia cristiana indirizza al Padre celeste per mezzo di Gesù eterno suo mediatore; ma richiede da noi anche uno studio diligente e bene ordinato per conoscere e lodare sempre più il nostro Redentore; uno sforzo intenso ed efficace, un indefesso addestramento per imitare i suoi misteri, per entrare volontariamente nella via dei suoi dolori, e per partecipare finalmente alla sua gloria ed alla sua eterna beatitudine.

Da quanto è stato esposto appare chiaramente, Venerabili Fratelli, quanto siano lontani dal vero e genuino concetto della Liturgia quegli scrittori moderni, i quali, ingannati da una pretesa più alta disciplina mistica, osano affermare che non ci si deve concentrare sul Cristo storico, ma sul Cristo "pneumatico e glorificato"; e non dubitano di asserire che nella pietà dei fedeli si sarebbe verificato un mutamento, per cui il Cristo è stato quasi detronizzato, con l'occultamento del Cristo glorificato che vive e regna nei secoli dei secoli e siede alla destra del Padre, mentre al suo posto è subentrato il Cristo della vita terrena. Alcuni, perciò, arrivano fino al punto di voler rimuovere dalle chiese le immagini del Divin Redentore che soffre in Croce .

Ma queste false opinioni sono del tutto contrarie alla sacra dottrina tradizionale. "Credi nel Cristo nato in carne - così Sant'Agostino - e arriverai al Cristo nato da Dio, Dio presso Dio" . La sacra Liturgia, poi, ci propone tutto Cristo, nei vari aspetti della sua vita: il Cristo, cioè, che è Verbo dell'Eterno Padre, che nasce dalla Vergine Madre di Dio, che ci insegna la verità, che sana gli infermi, che consola gli afflitti, che soffre, che muore; che, infine, risorge trionfando sulla morte, che, regnando nella gloria del cielo, ci invia lo Spirito Paraclito, che vive sempre nella sua Chiesa: "Gesù Cristo ieri ed oggi: Egli è anche nei secoli" .

E inoltre non ce lo presenta soltanto come un esempio da imitare, ma anche come un maestro da ascoltare, un pastore da seguire, come mediatore della nostra salvezza, principio della nostra santità, e Mistico Capo di cui siamo membra, viventi della sua stessa vita.

E siccome i suoi acerbi dolori costituiscono il mistero principale da cui proviene la nostra salvezza, è secondo le esigenze della fede cattolica porre ciò nella sua massima luce, poiché esso è come il centro del culto divino, essendone il Sacrificio Eucaristico la quotidiana rappresentazione e rinnovazione, ed essendo tutti i Sacramenti congiunti con strettissimo vincolo alla Croce.

Perciò l'anno liturgico, che la pietà della Chiesa alimenta e accompagna, non è una fredda e inerte rappresentazione di fatti che appartengono al passato, o una semplice e nuda rievocazione di realtà d'altri tempi. Esso è, piuttosto, Cristo stesso, che vive sempre nella sua Chiesa e che prosegue il cammino di immensa misericordia da Lui iniziato con pietoso consiglio in questa vita mortale, quando passò beneficando allo scopo di mettere le anime umane al contatto dei suoi misteri, e farle vivere per essi; misteri che sono perennemente presenti ed operanti, non nel modo incerto e nebuloso nel quale parlano alcuni recenti scrittori, ma perché, come ci insegna la dottrina cattolica e secondo la sentenza dei Dottori della Chiesa, sono esempi illustri di perfezione cristiana, e fonte di grazia divina per i meriti e l'intercessione del Redentore, e perché perdurano in noi col loro effetto, essendo ognuno di essi, nel modo consentaneo alla propria indole, la causa della nostra salvezza .

Si aggiunge che la pia Madre Chiesa, mentre propone alla nostra contemplazione i misteri di Cristo, con le sue preghiere invoca quei doni soprannaturali per i quali i suoi figli si compenetrano dello spirito di questi misteri per virtù di Cristo. Per influsso e virtù di Lui, noi possiamo, con la collaborazione della nostra volontà, assimilare la forza vitale come rami dall'albero, come membra dal capo, e ci possiamo progressivamente e laboriosamente trasformare "secondo la misura dell'età piena di Cristo" .

Le feste dei Santi

Nel corso dell'anno liturgico si celebrano non soltanto i misteri di Gesù Cristo, ma anche le feste dei Santi, nelle quali, sebbene si tratti di un ordine inferiore e subordinato, la Chiesa ha sempre la preoccupazione di proporre ai fedeli esempi di santità che li spingano ad adornarsi delle stesse virtù del Divin Redentore.

È necessario, difatti, che noi imitiamo le virtù dei Santi, nelle quali brilla in vario modo la virtù stessa di Cristo, come di Lui essi furono imitatori. Poiché in alcuni rifulse lo zelo dell'apostolato; in altri si dimostrò la fortezza dei nostri eroi fino all’effusione del sangue; in altri brillò la costante vigilanza nell'attesa del Redentore; in altri rifulse il verginale candore dell'anima e la modesta dolcezza della cristiana umiltà; in tutti, poi, arse una fervidissima carità verso Dio e verso il prossimo.

La Liturgia pone davanti ai nostri occhi tutti questi leggiadri ornamenti di santità perché ad essi salutarmente guardiamo, e perché "noi che godiamo dei loro meriti siamo accesi dai loro esempi" . È necessario, dunque, conservare "l'innocenza nella semplicità, la concordia nella carità, la modestia nell'umiltà, la diligenza nel governo, la vigilanza nell'aiutare chi soffre, la misericordia nel curare i poveri, la costanza nel difendere la verità, la giustizia nella severità della disciplina, perché nulla in noi manchi di ogni virtù che ci è stata proposta ad esempio. Queste sono le tracce che i Santi, nel loro ritorno alla patria, ci lasciarono, perché seguendo il loro cammino, possiamo seguirli nella beatitudine" . E perché anche i nostri sensi siano salutarmente impressionati, la Chiesa vuole che nei nostri templi siano esposte le immagini dei Santi, sempre, però, allo stesso fine, che cioè "imitiamo le virtu di coloro dei quali veneriamo le immagini" .

Ma c'è ancora un altro motivo del culto del popolo cristiano per i Santi: quello di implorare il loro aiuto, e di "esser sostenuti dal patrocinio di coloro delle lodi dei quali ci dilettiamo" . Da ciò facilmente si deduce il perché delle numerose formule di preghiere che la Chiesa ci propone per invocare il patrocinio dei Santi.

Tra i Santi, poi, ha un culto preminente Maria Vergine, Madre di Dio. La sua vita, per la missione affidatale da Dio, è strettamente inserita nei misteri di Gesù Cristo, e nessuno, di certo, più di lei ha calcato più da vicino e con maggiore efficacia le orme del Verbo Incarnato, nessuno gode di maggiore grazia e potenza presso il Cuore sacratissimo del Figlio di Dio, e, attraverso il Figlio, presso il Padre celeste. Essa è più santa dei Cherubini e dei Serafini, e senza alcun paragone più gloriosa di tutti gli altri Santi, essendo "piena di grazia" , Madre di Dio, e avendoci dato col suo felice parto il Redentore. A Lei, che è " Madre di misericordia, vita, dolcezza e speranza nostra" ricorriamo tutti noi "gementi e piangenti in questa valle di lacrime" , e affidiamo con fiducia noi e tutte le nostre cose alla sua protezione. Essa è diventata Madre nostra mentre il Divin Redentore compiva il sacrificio di Sé, e perciò, anche a questo titolo, noi siamo figli suoi. Essa ci insegna tutte le virtù; ci dà suo Figlio, e, con Lui, tutti gli aiuti che ci sono necessari, perché Dio "ha voluto che tutto noi avessimo per mezzo di Maria" .

Per questo cammino liturgico che ogni anno ci è aperto di nuovo, sotto l'azione santificatrice della Chiesa, confortati dagli aiuti e dagli esempi dei Santi, soprattutto della Immacolata Vergine Maria, "accostiamoci con cuore sincero, con pienezza di fede, purgati il cuore da coscienza di colpa e lavati il corpo con acqua pura" , al "grande Sacerdote" , per vivere e sentire con Lui, e penetrare per suo mezzo "fino al di là del velo" ed ivi onorare il Padre celeste per tutta la eternità.

Tale è l'essenza e la ragione d'essere della sacra Liturgia: essa riguarda il Sacrificio, i Sacramenti e la lode di Dio; l'unione delle nostre anime con Cristo e la loro santificazione per mezzo del Divin Redentore, perché sia onorato Cristo, e per Lui ed in Lui la Santissima Trinità: Gloria al Padre, al Figliolo e allo Spirito Santa .

Direttive pastorali

Per allontanare dalla Chiesa gli errori e le esagerazioni della verità di cui abbiamo sopra parlato, e perché i fedeli possano, guidati dalle norme più sicure, praticare l'apostolato liturgico con frutti abbondanti, riteniamo opportuno, Venerabili Fratelli, aggiungere qualche cosa per dedurre in pratica la dottrina esposta.

Trattando della genuina pietà, abbiamo affermato che tra la Liturgia egli altri atti di religione – purché siano rettamente ordinati e tendano al giusto fine - non ci può essere vero contrasto; ci sono, anzi, alcuni esercizi di pietà che la Chiesa raccomanda grandemente al Clero ed ai Religiosi.

Ora, vogliamo che anche il popolo cristiano non sia alieno da questi esercizi. Essi sono, per parlare soltanto dei principali, la meditazione di argomenti spirituali, l'esame di coscienza, i ritiri spirituali, istituiti per riflettere più intensamente sulle verità eterne, la visita al Santissimo Sacramento e le preghiere particolari in onore della Beata Vergine Maria, tra le quali eccelle, come tutti Sanno, il Rosario .

A queste molteplici forme di pietà non può essere estranea l'ispirazione e l'azione dello Spirito Santo; esse, difatti - sebbene in varia maniera - tendono tutte a convertire e dirigere a Dio le anime nostre, perché le purifichino dai peccati, le spronino al conseguimento della virtù, perché, infine, le stimolino alla vera pietà, abituandole alla meditazione delle verità eterne, e rendendole più adatte alla contemplazione dei misteri della natura umana e divina di Cristo. Ed inoltre, nutrendo intensamente nei fedeli la vita spirituale, li dispongono a partecipare alle sacre funzioni con frutto maggiore, ed evitano il pericolo, che le preghiere liturgiche si riducano a un vano ritualismo.

Non vi stancate, dunque, Venerabili Fratelli, nel vostro zelo pastorale, di raccomandare ed incoraggiare questi esercizi di pietà, dai quali scaturiranno senza dubbio al popolo a voi affidata frutti salutari. Soprattutto, non permettete - come alcuni ritengono, o colla scusa di un rinnovamento della Liturgia, o parlando con leggerezza di una efficacia e dignità esclusive dei riti liturgici - che le chiese siano chiuse durante le ore non destinate alle pubbliche funzioni, come già accade in alcune regioni; che si trascurino l'adorazione e la visita del Santissimo Sacramento; che si sconsigli la confessione dei peccati fatta a solo scopo di devozione; che si trascuri, specialmente tra la gioventù, fino al punto di illanguidire, il culto della Vergine Madre di Dio che, come dicono i Santi, è segno di predestinazione. Questi sono frutti avvelenati, sommamente nocivi alla pietà cristiana, che spuntano da rami infetti di un albero sano; è necessario, perciò, reciderli, perché la linfa dell'albero possa nutrire soltanto gradevoli ed ottimi frutti .

Poiché, poi, le opinioni da alcuni manifestate a proposito della frequente confessione sono del tutto aliene dallo Spirito di Cristo e della sua Sposa immacolata, e veramente funeste per la vita spirituale, ricordiamo quello che in proposito abbiamo scritto, con dolore, nella Enciclica Mystici Corporis, ed insistiamo di nuovo, perché proponiate alla seria meditazione e alla docile attuazione dei vostri greggi, e specialmente dei candidati al sacerdozio e del giovane clero, quanto ivi abbiamo detto con gravi parole.

Adoperatevi poi, in modo particolare, perché moltissimi, non soltanto del clero ma anche del laicato, e specialmente gli appartenenti ai sodalizi religiosi ed alle schiere dell'Azione Cattolica, prendano parte ai ritiri mensili e agli esercizi spirituali compiuti in giorni determinati per incrementare la pietà. Come abbiam detto sopra, questi esercizi spirituali sono utilissimi, anzi anche necessari, per instillare nelle anime la genuina pietà, e per formarli alla santità in modo che possano trarre dalla sacra Liturgia benefici più efficaci ed abbondanti.

Quanto poi ai vari modi con i quali si sogliono praticare questi esercizi, sia ben noto e chiaro a tutti che nella Chiesa terrena, come in quella celeste, vi sono "molte dimore" ; e che l'ascetica non può essere monopolio di alcuno. Uno è lo Spirito che, però, "spira dove vuole " ; e con diversi doni e per diverse vie dirige le anime da lui illuminate al conseguimento della santità. La loro libertà e l'azione soprannaturale dello Spirito Santo in esse sia cosa sacrosanta, che a nessuno è lecito, a nessun titolo, turbare e conculcare . È noto, tuttavia, che gli Esercizi Spirituali di Sant'Ignazio furono pienamente approvati e insistentemente raccomandati dai Nostri Predecessori per la loro mirabile efficacia; e Noi pure per la medesima ragione li abbiamo approvati e raccomandati, come al presente ben volentieri li approviamo e raccomandiamo.

È assolutamente necessario, però, che l'ispirazione a seguire e praticare determinati esercizi $i pietà venga dal Padre dei lumi, dal quale proviene ogni cosa buona ed ogni dono perfetto ; e di ciò sarà indice l'efficacia con la quale gioveranno a che il culto divino sia sempre più amato ed ampiamente promosso, e i fedeli siano sollecitati da un più intenso desiderio alla partecipazione dei Sacramenti e al dovuto onore e ossequio di tutte le cose sacre. Se, invece, essi dovessero riuscire di intralcio o si rivelassero in contrasto con i principi e le norme del culto divino, allora senza dubbio si dovrebbero ritenere non ordinati da retti pensieri, né guidati da zelo illuminato .

Vi sono, inoltre, altri esercizi di pietà, che sebbene non appartengano a rigore di diritto alla sacra Liturgia, rivestono particolare dignità e importanza, in modo da essere considerati come inseriti in qualche maniera nell'ordinamento liturgico, e godono delle ripetute approvazioni e lodi di questa Sede Apostolica e dei Vescovi. Tra esse si devono annoverare le preghiere che si sogliono fare durante il mese di maggio in onore della Vergine Madre di Dio, o durante il mese di giugno in onore del Cuore Sacratissimo di Gesù, i tridui e le novene, la "Via Crucis " ed altri simili.

Queste pie pratiche eccitando il popolo cristiano ad una assidua frequenza del Sacramento della Penitenza e ad una devota partecipazione al Sacrificio Eucaristico e alla Mensa Divina, come alla meditazione dei misteri della nostra Redenzione e alla imitazione dei grandi esempi dei Santi, per ciò stesso contribuiscono con frutto salutare alla nostra partecipazione al culto liturgico.

Per cui farebbe cosa perniciosa e del tutto erronea chi osasse ternerariamente assumersi la riforma di questi esercizi di pietà per costringerli nei soli schemi liturgici. È necessario, tuttavia, che lo spirito della sacra Liturgia e i suoi precetti influiscano beneficamente su di essi, per evitare che vi si introduca alcunché di inetto o di indegno del decoro della casa di Dio, o che sia a detrimento delle sacre funzioni e contrario alla sana pietà .

Curate, dunque, Venerabili Fratelli, che questa pura e genuina pietà prosperi sotto i vostri occhi, e fiorisca sempre di più. Non vi stancate soprattutto di inculcare a ognuno che la vita cristiana non consiste nella molteplicità e varietà delle preghiere e degli esercizi di pietà, ma consiste piuttosto in ciò che essi contribuiscano realmente al progresso spirituale dei fedeli e perciò all'incremento della Chiesa tutta. Poiché l'Eterno Padre "ci elesse in Lui [Cristo], prima della fondazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto" . Tutte le nostre preghiere, dunque, e tutte le nostre pratiche devote devono mirare a dirigere tutte le nostre risorse spirituali al raggiungimento di questo supremo e nobilissimo fine.

Le arti liturgiche

Vi esortiamo, poi, instantemente, Venerabili Fratelli, affinché rimossi gli errori e le falsità, e proibito tutto ciò che è al di fuori della verità e dell'ordine, promoviate le iniziative che dànno al popolo una più profonda conoscenza della sacra Liturgia; in modo che esso possa più adeguatamente e più facilmente partecipare ai riti divini, con disposizione veramente cristiana.

È necessario innanzi tutto adoperarsi a che tutti obbediscano con la dovuta riverenza e fede ai decreti pubblicati dal Concilio di Trento, dai Romani Pontefici, dalla Congregazione dei Riti, e a tutte le disposizioni dei libri liturgici in ciò che riguarda l'azione esterna del culto pubblico.

In tutte le cose della Liturgia devono splendere soprattutto questi tre ornamenti, dei quali parla il Nostro Predecessore Pio X: la santità, cioè, che aborre da ogni influenza profana; la nobiltà delle immagini e delle forme alla quale serve ogni arte genuina e migliore; l'universalità, infine, la quale - conservando legittimi costumi e le legittime consuetudini regionali - esprime la cattolica unità della Chiesa .

Desideriamo e raccomandiamo caldamente ancora una volta il decoro dei sacri edifici e dei sacri altari. Ognuno si senta animato dalla parola divina: "Lo zelo della tua casa mi ha divorato" ; e si adoperi secondo le sue forze, perché ogni cosa, sia nei sacri edifici, sia nelle vesti e nella suppellettile liturgica, anche se non brilli per eccessiva ricchezza e splendore, sia, tuttavia, proprio e mondo, essendo tutto consacrato alla Divina Maestà . Che se già più sopra abbiamo riprovato il non retto modo di agire di coloro i quali, con la scusa di ripristinare l'antico, vogliono espellere dai templi le immagini sacre, riteniamo qui esser Nostro dovere riprendere la pietà non bene educata di coloro i quali, nelle chiese e sugli stessi altari propongono alla venerazione, senza giusto motivo, molteplici simulacri ed effigi, coloro quali espongono reliquie non riconosciute dalla legittima autorità, coloro infine, i quali insistono su cose particolari e di poca importanza, mentre trascurano le principali e necessarie, e così rendono ridicola la religione, e avviliscono la gravità del culto .

Richiamiamo anche il decreto "sulle nuove forme di culto e di devozione da non introdurre" ; la cui religiosa osservanza raccomandiamo alla vostra vigilanza.

Quanto alla musica, si osservino scrupolosamente le determinate e chiare norme emanate da questa Sede Apostolica. II canto gregoriano, che la Chiesa Romana considera cosa sua, perché ricevuto da antica tradizione e custodito nel corso dei secoli sotto la sua premurosa tutela, e che essa propone ai fedeli come cosa anche loro propria, e che prescrive in senso assoluto in alcune parti della Liturgia , non soltanto aggiunge decoro e solennità alla celebrazione dei divini Misteri, ma contribuisce massimamente anche ad accrescere la fede e la pietà degli astanti. Al qual proposito i Nostri Predecessori di immortale memoria Pio X e Pio XI stabilirono - e Noi confermiamo volentieri con la Nostra autorità le disposizioni da essi date - che nei Seminati e negli istituti religiosi sia coltivato con studia e diligenza il canto Gregoriano, e che, almeno presso le chiese più importanti, siano restaurate le antiche Scholæ cantorum, come già è stato fatto con felice risultato in non pochi luoghi .

Inoltre, "perché i fedeli partecipino più attivamente al culto divino, sia ripristinato il canto Gregoriano anche nell'uso del popolo, per la parte che ad esso popolo spetta. Ed urge veramente che i fedeli assistano alle sacre cerimonie non come spettatori muti ed estranei, ma toccati nel profondo dalla bellezza della Liturgia […] che alternino secondo le norme prescritte la loro voce alle voci del sacerdote e della cantoria ; se ciò, grazie a Dio, si verificherà, allora non accadrà più che il popolo risponda appena con un lieve e sommesso mormorio alle preghiere comuni dette in latino e in lingua volgare" . La moltitudine che assiste attentamente al Sacrificio dell'altare, nel quale il nostro Salvatore, insieme con i suoi figli redenti dal suo Sangue, canta l'epitalamio della sua immensa carità, certamente non potrà tacere, poiché "cantare è proprio di chi ama" , e come già in antico diceva il proverbio: "Chi bene canta, prega due volte". Così ché la Chiesa militante, Clero e popolo insieme, unisce la sua voce ai cantici della Chiesa trionfante ed ai cori angelici, e tutti insieme cantano un magnifico ed eterno inno di lode alla Santissima Trinità, come è scritto: "Con i quali Ti preghiamo che vengano ascoltate anche le nostre voci" .

Non si può, tuttavia, asserire che la musica e il canto moderno debbano essere esclusi del tutto dal culto cattolico. Anzi, se nulla hanno di profano o disconveniente alla santità del luogo e dell'azione sacra, né derivano da una vana ricerca di effetti straordinari ed insoliti, allora è necessario certamente aprire ad essi le porte delle nostre chiese, potendo ambedue contribuire non poco alo splendore dei sacri riti, alla elevazione delle menti e, insieme, alla vera devozione .

Vi esortiamo anche, Venerabili Fratelli, ad aver cura di promuovere il canto religioso popolare e la sua accurata esecuzione fatta con la conveniente dignità, potendo esso stimolare ed accrescere la fede e la pietà delle folle cristiane. Ascenda al cielo il canto unisono e possente del popolo nostro come il fragore dei flutti del mare , espressione canora e vibrante di un sol cuore e di un'anima sola , come conviene a fratelli e figli di uno stesso Padre.

Quello che abbiamo detto della musica, va detto all'incirca delle altre arti, e specialmente dell'architettura, della scultura e della pittura. Non si devono disprezzare e ripudiare genericamente e per partito preso le forme ed immagini recenti, più adatte ai nuovi materiali con quali esse vengono oggi confezionate: ma evitando con saggio equilibrio l'eccessivo realismo da una parte e l'esagerato simbolismo dall'altra, e tenendo conto delle esigenze della comunità cristiana, piuttosto che del giudizio e del gusto personale degli artisti, è assolutamente necessario dar libero campo anche all'arte moderna, se serve con la dovuta riverenza e il dovuto onore, ai sacri edifici ed ai riti sacri; in modo che anch'essa possa unire la sua voce al mirabile cantico di gloria che geni hanno cantato nei secoli passati alla fede cattolica. Non possiamo fare a meno, però, per Nostro dovere di coscienza, di deplorare e riprovare quelle immagini e forme da alcuni recentemente introdotte, che sembrano essere depravazione e deformazione della vera arte, e che talvolta ripugnano apertamente al decoro, alla modestia ed alla pietà cristiana, e offendono miserevolmente il genuino sentimento religioso; esse si devono assolutamente tener lontane e metter fuori dalle nostre chiese come "in generale, tutto ciò che non è in armonia con la santità del luogo" .

Attenendovi alle norme e ai decreti dei Pontefici, curate diligentemente, Venerabili Fratelli, di illuminare e dirigere la mente e l'anima degli artisti, ai quali sarà affidato oggi il compito di restaurare e ricostruire tante chiese rovinate o distrutte dalla violenza della guerra; possano e vogliano essi ispirandosi alla religione trovare i motivi più degni ed adatti alle esigenze del culto ; così, difatti, felicemente accadrà che le arti umane, quasi venute dal cielo, splendano di luce serena, promuovano sommamente l'umana civiltà, e contribuiscano alla gloria di Dio e alla santificazione delle anime. Poiché le arti allora davvero sono conformi alla religione, quando servono "come nobilissime ancelle al culto divino".

La formazione liturgica

Ma c'è una cosa ancora più importante, Venerabili Fratelli, che raccomandiamo in modo speciale alla vostra sollecitudine e al vostro zelo apostolico. Tutto ciò che riguarda il culto religioso esterno ha la sua importanza, ma urge soprattutto che i cristiani vivano la vita liturgica, e ne alimentino e incrementino lo spirito soprannaturale. Provvedete dunque alacremente che il giovane clero sia formato alla intelligenza delle sacre cerimonie, alla comprensione della loro maestà e bellezza, e impari diligentemente le rubriche, in armonia con la sua formazione ascetica, teologica, giuridica e pastorale. E ciò non soltanto per ragioni di cultura, non soltanto perché il seminarista possa un giorno compiere i riti della religione con l'ordine, il decoro e la dignità necessari, ma soprattutto perché sia educato in intima unione con Cristo Sacerdote, e diventi un santo ministro di santità .

Mirate anche in ogni modo a che, con i mezzi e i sussidi che la vostra prudenza giudicherà più adatti, il clero e il popolo siano una sola mente ed un'anima sola; e così il popolo cristiano partecipi attivamente alla Liturgia, che diventerà davvero l'azione sacra nella quale il sacerdote che attende alla cura delle anime nella parrocchia affidatagli, unito con l'assemblea del popolo, renda al Signore il debito culto.

Per ottenere ciò sarà certamente utile che pii giovinetti, bene istruiti, vengano scelti tra ogni classe di fedeli perché, con disinteresse e buona volontà, servano devotamente e assiduamente all'altare: compito che dovrebbe essere tenuto in grande considerazione dai genitori, anche di alta condizione sociale e cultura.

Se questi giovinetti saranno istruiti con la necessaria cura e sotto la vigilanza di un sacerdote perché adempiano questo loro ufficio con costanza e riverenza e nelle ore stabilite, si renderà facile il sorgere fra loro di nuove vocazioni sacerdotali; e il Clero non si lamenterà di non trovare - come, purtroppo, accade talvolta anche in regioni cattolicissime - nessuno che, nella celebrazione dell'augusto Sacrificio, gli risponda e gli serva.

Cercate soprattutto di ottenere, col vostro diligentissimo zelo, che tutti i fedeli assistano al Sacrificio Eucaristico e ne traggano i più abbondanti frutti di salvezza; quindi esortateli assiduamente affinché vi partecipino con devozione, in tutti quei modi legittimi dei quali sopra abbiamo fatto parola. L'augusto Sacrificio dell'altare è l’atto fondamentale del culto divino; è necessario, perciò, che esso sia la fonte e il centro anche della pietà cristiana. Ritenete di non aver mai abbastanza soddisfatto al vostro zelo apostolico se non quando vedere vostri figli accostarsi in gran numero al celeste convito che è "Sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità" .

Perché, poi, il popolo cristiano possa conseguire questi doni soprannaturali con sempre maggiore abbondanza, istruitelo con cura, per mezzo di opportune predicazioni, e specialmente con discorsi e cicli di conferenze, con settimane di studio e con altre simili manifestazioni, sui tesori di pietà contenuti nella sacra Liturgia. A questo scopo saranno certamente a vostra disposizione membri dell'azione Cattolica, sempre pronti a collaborare con la Gerarchia per promuovere il Regno di Gesù Cristo.

È assolutamente necessario, però, che in tutto ciò vigilate attentamente perché nel campo del Signore non si introduca il nemico per seminarvi la zizzania in mezzo al grano ; perché, in altre parole, non si infiltrino nel vostro gregge perniciosi e sottili errori di un falso misticismo e di un nocivo quietismo - errori da Noi come sapete, già condannati - e perché le anime non siano sedotte da un pericoloso umanesimo, né si introduca una falsa dottrina che altera la nozione stessa della fede, né, infine, un eccessivo archeologismo in materia liturgica. Curate con egual diligenza perché non si diffondano le false opinioni di coloro i quali a torto credono e insegnano che la natura umana di Cristo glorificata abiti realmente e con la sua continua presenza nei giustificati, oppure che una unica e identica grazia congiunga Cristo con le membra del suo Corpo .

Non vi lasciate disanimare dalle difficoltà che nascono; mai si scoraggi il vostro zelo pastorale. "Suonate la tromba in Sion, convocate l'assemblea, riunite il popolo, santificate la Chiesa, adunate i vecchi, raccogliete i bambini e i lattanti" , e fate con ogni mezzo che si affollino dovunque le chiese e gli altari di cristiani, i quali, come membra vive unite al loro Capo divino, siano ristorati dalle grazie dei Sacramenti, celebrino l'augusto Sacrificio con Lui e per Lui, e diano all'Eterno Padre le lodi dovute.

Conclusione

Tutte queste cose, Venerabili Fratelli, avevamo in animo di scrivervi, e lo facciamo affinché i Nostri e i vostri devoti figli meglio comprendano e maggiormente stimino il preziosissimo tesoro contenuto nella sacra Liturgia: cioè il Sacrificio Eucaristico, che rappresenta e rinnova il Sacrificio della Croce, i Sacramenti, fiumi di grazia e di vita divina, e l'inno di lode che il cielo e la terra elevano ogni giorno a Dio.

Ci sia lecito sperare che queste Nostre esortazioni sproneranno i tiepidi e i ricalcitranti non soltanto a uno studio più intenso ed illuminato della Liturgia, ma anche a tradurre nella pratica della vita il suo spirito soprannaturale, come dice l'Apostolo: "non vogliate spegnere lo Spirito" .

A quelli che uno zelo eccessivo spinge talvolta adire e a fare cose che Ci duole di non poter approvare, ripetiamo l'avvertimento di S. Paolo: "Mettete ogni cosa a prova, ritenete ciò che è buono" ; e li ammoniamo con animo paterno perché vogliano ricavare il loro modo di pensare e di agire dalla cristiana dottrina, conforme ai precetti della immacolata Sposa di Gesù Cristo, e Madre dei Santi.

A tutti, poi, ricordiamo la necessità di una generosa e fedele obbedienza ai Pastori ai quali spetta il diritto ed incombe il dovere di regolare tutta la vita, e innanzi tutto quella spirituale, della Chiesa: "Obbedite ai vostri superiori e siate ad essi sottomessi. Essi, difatti, vegliano sulle anime vostre col pensiero di renderne conto, affinché lo facciano con gioia, e non gemendo" .

Il Dio che adoriamo, e che "non è Dio di discordia, ma di pace" , conceda benigno a noi tutti di partecipare in questo esilio terreno, con una solamente e un solo cuore, alla sacra Liturgia, che sia come una preparazione ed un auspicio di quella celeste Liturgia, con la quale, come confidiamo, in compagnia con la eccelsa Madre nostra, canteremo: "A Colui che siede sul trono e all'agnello: benedizione, e onore e gloria e impero nei secoli dei secoli" .

Con questa lietissima speranza, a voi tutti e singoli, Venerabili Fratelli, ai greggi affidati alla vostra vigilanza, come auspicio dei doni celesti, e attestato della Nostra particolare benevolenza, impartiamo con grandissimo affetto l'Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso S. Pietro, il giorno 20 Novembre 1947, ottavo del Nostro Pontificato.

PIO PP. XII.

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"DIVINO AFFLANTE SPIRITU"

LETTERA ENCICLICA
AI VENERABILI FRATELLI
PATRIARCHI PRIMATI
ARCIVESCOVI VESCOVI E
AGLI ALTRI ORDINARI
AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE
PACE E COMUNIONE.
"SUL MODO PIÙ OPPORTUNO
DI PROMUOVERE GLI STUDI BIBLICI"



SERVO DEI SERVI DI DIO
VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

Ispirati dal divino Spirito, i Sacri Autori scrissero quei Libri dei quali Dio, nel suo paterno amore verso l'uman genere, si è degnato far dono "per ammaestrare, per convincere, per correggere, per educare alla giustizia, affinché l'uomo di Dio sia perfetto e reso adatto a qualsiasi opera buona" (II Tim. III, 16-17). Non fa quindi meraviglia se la Santa Chiesa, che questo tesoro dal Cielo donatole tiene qual fonte preziosissima e norma divina del dogma e della morale, come lo ricevette illibato dalle mani degli Apostoli, così con ogni cura lo conservò, lo difese da qualsiasi errata e storta interpretazione e con premura lo adoperò allo scopo di arrecare alle anime l'eterna salute. Di ciò fanno eloquente testimonianza quasi innumerevoli documenti d'ogni secolo. Ma nei tempi più recenti, venendo minacciata da speciali assalti la divina origine dei Sacri Libri e la retta loro interpretazione, con ancor maggiore impegno e diligenza la Chiesa ne prese la difesa e la protezione. Perciò il sacro Concilio di Trento con solenne decreto stabilì doversi riconoscere "per sacri e canonici i Libri interi con tutte le loro parti, quali si usò leggerli nella Chiesa cattolica e stanno nell'antica edizione latina volgata" (Sessione IV, decr. I; Ench. Bibl. n. 45). Nell'età nostra il Concilio Vaticano, a riprovazione delle false dottrine intorno all'ispirazione, dichiarò che la ragione del doversi quei medesimi Libri tener dalla Chiesa per sacri e canonici "non è che, dopo essere stati composti per sola industria umana, la Chiesa li abbia poi con la sua autorità approvati, ne soltanto il fatto che contengono la rivelazione senza alcun errore, ma bensì che, scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali alla stessa Chiesa furono affidati" (Sessione III, Cap. 2; Ench. Bibl. n. 62). Tuttavia anche dopo, in contrasto con questa solenne definizione della dottrina cattolica, la quale ai Libri "interi con tutte le loro parti" rivendica tale autorità divina, che va esente da qualunque errore, alcuni autori cattolici non si peritarono di restringere la verità della Sacra Scrittura alle sole cose riguardanti la fede e i costumi, e di considerare le rimanenti, sia di scienze naturali sia di storia, come "dette alla sfuggita" e senza alcuna connessione, secondo loro, con le verità di Fede. Perciò il Nostro Predecessore di immortale memoria Leone XIII, con l'Enciclica "Providentissimus Deus" del 18 novembre 1893, come inflisse a quegli errori la ben meritata condanna, così lo studio dei Libri Divini regolò con prescrizioni e norme sapientissime.

Di quella Enciclica, che va tenuta come la Magna Charta degli studi biblici, è ben giusto che si celebri il compiersi del cinquantesimo anno dalla sua pubblicazione. Quindi è che Noi per quella cura della quale, sin da quando salimmo al Sommo Pontificato, circondammo gli studi sacri (Sermo ad alumnos Seminariorum... in Urbe 24 giugno 1939; A. A. S. XXXI, 1939, p. 245-251), abbiamo stimato opportunissimo Nostro còmpito, da una parte confermare e inculcare quanto già quel Nostro Predecessore ha con tanta saggezza stabilito ed i Successori di Lui hanno contribuito a rassodare e perfezionare, dall'altra insegnare quanto sembrano al presente richiedere i tempi, per maggiormente spronare tutti i figli della Chiesa, che a tali studi si dedicano, in così necessaria e lodevole impresa.

Prima e somma cura di Leone XIII fu quella di esporre la dottrina della verità dei Sacri Libri e difenderla dagli attacchi avversari. Perciò con gravi parole affermò non esservi errore quando l'agiografo, parlando di cose fisiche, "si attenne a ciò che appare ai sensi", come scrisse l'Angelico (Cfr. I. q. 70, art. I ad 3), esprimendosi "o con qualche locuzione metaforica o in quella maniera che ai suoi tempi si usava nel comune linguaggio ed ancor oggi si usa di molte cose nel quotidiano conversare anche fra la gente più dotta". Infatti "non fu intenzione dei sacri autori - o meglio, per usare le parole di Sant'Agostino (De Gen. ad litt. 2, 9, 29; P. L. XXXIX, col. 270 sq.; CSEL. XXVIII, III, 2, p. 46) - dello Spirito di Dio, che per mezzo di essi parlava, di insegnare agli uomini queste cose, e cioè l'intima costituzione degli oggetti visibili, che nulla importano pella salute eterna" (Leone XIII, Acta XIII, p. 355; Ench. Bibl. n. 106). Tale principio "gioverà applicarlo anche alle scienze affini, specialmente alla storia", confutando cioè "in maniera non molto diversa i sofismi degli avversari" e sostenendo "contro le loro obiezioni la verità storica della Sacra Scrittura" (Cfr. Benedetto XV, Enc. "Spiritus Paraclitus").

Né può essere tacciato di errore il sacro scrittore, se in qualche luogo "ai copisti, nel trascrivere i codici, è sfuggito qualche sbaglio", ovvero se "rimane dubbio il senso preciso di qualche frase". Infine non è assolutamente permesso "restringere l'ispirazione soltanto ad alcune parti della Sacra Scrittura o concedere che lo stesso autore sacro abbia errato", perché la divina ispirazione "di sua natura non solo esclude ogni errore, ma con quella medesima necessità lo esclude e lo respinge, con la quale è d'uopo che Dio, somma Verità, non possa essere autore d'alcun errore. Tale è L'antica e costante fede della Chiesa" (Leone XIII, Acta XIII, p. 357 sq.; Ench. Bibl. n. 109 sq.).

Questa dunque è la dottrina che il Nostro Predecessore Leone XIII con tanta gravità ha esposta, e che Noi pure con la Nostra autorità proponiamo e inculchiamo perché sia da tutti scrupolosamente mantenuta. Né minor impegno vogliamo che si ponga anche oggi nel seguire i consigli e gli incitamenti che egli, in conformità al suo tempo, con somma saggezza vi aggiunse. Infatti vedendo sorgere nuove e non lievi difficoltà e questioni, sia per i preconcetti del razionalismo dilagante, sia, soprattutto, per gli antichissimi monumenti scavati ed investigati in Oriente, il medesimo Nostro Predecessore, spinto dallo zelo del suo apostolico ufficio, e bramoso che ad una così segnalata fonte della rivelazione cattolica non solo si desse più sicuro e più fruttuoso adito per utilità del gregge del Signore, ma insieme non si recasse alcun nocumento, espresse il suo vivo desiderio "che molti intraprendessero e saldamente sostenessero la difesa delle divine Carte, e che specialmente coloro che dal la grazia divina sono chiamati ai sacri Ordini, con diligenza ogni di più grande si applicassero, come è più che giusto, alla lettura, meditazione e spiegazione di esse" (Cfr. Leone XIII, Acta XIII, p. 328; Ench. Bibl. n. 67 sq.).

Con tali intenti lo stesso Pontefice aveva ancor prima lodato e approvato la Scuola Biblica eretta a Gerusalemme presso la Basilica di Santo Stefano per cura del Maestro Generale del Sacro Ordine dei predicatori, perché da essa, come egli medesimo si espresse, "erano venuti agli studi biblici grandi vantaggi, e maggiori ancora se ne aspettavano" (Litt. Apost. "Hierosolymæ in coenobio", 17 Sett. 1892; Leone XIII, Acta XII, pp. 239241, v. pag. 240); l'ultimo anno di sua vita aggiunse poi un nuovo mezzo, per cui questi studi tanto raccomandati nell'Enciclica "Providentissimus" venissero sempre meglio coltivati e con tutta sicurezza promossi. In fatti con la Lettera Apostolica "Vigilantiæ" (30 ott. 1902) istituiva un Consiglio o Commissione, come suol dirsi, di gravi persone, "le quali avessero per proprio loro còmpito l'adoperarsi con ogni mezzo a far si che le divine Lettere siano dai nostri universalmente maneggiate con quella più squisita cura che richiedono i tempi, e si tengano immuni non solo da qualsivoglia soffio di errore, ma anche da ogni temerità di opinione" (Cfr. Leone XIII, Acta XIII, p. 232 ss.; Ench. Bibl. n. 130-142; v. nn. 130, 132). Questa Commissione Noi pure, dietro l'esempio dei Nostri Predecessori, l'abbiamo con fermata e rafforzata col fatto, valendoCi, come più volte per l'innanzi, della sua opera per richiamare gli espositori dei Sacri Libri a quelle sane leggi di interpretazione cattolica, che i Santi Padri, i Dottori della Chiesa e i Sommi Pontefici stessi hanno tramandate (Lettera della Pontificia Commissione Biblica agli Ecc.mi Arcivescovi d'Italia del 20 Ag. 1941; A. A. S., 1941, vol. XXXIII, pp. 465-472).

Qui non sembra fuori di luogo ricordare con animo grato i principali e più utili contributi dei Nostri Predecessori al medesimo fine: quelli che si potrebbero dire o compimenti o frutti della felice iniziativa di Leone XIII. E anzitutto Pio X, volendo "fornire un mezzo pratico di preparare buon numero di maestri, stimati per solidità e sincerità di dottrina, i quali nelle scuole cattoliche spiegassero i Sacri libri", istituì "i gradi accademici di Licenziato e di Dottore in Sacra Scrittura, da conferirsi dalla Commissione Biblica" (Lett. Ap. "Scripturæ Sanctæ", 23 febbr. 1904; Pio X, Acta I, pp. 176-179; Ench. Bibl. nn. 142-150, v. nn., 143-144); poi dettò leggi "sul programma degli studi di Sacra Scrittura nei Seminari" al lo scopo che gli Ecclesiastici "non solo avessero essi una profonda cognizione della Bibbia, del suo valore e dottrina, ma anche sapessero poi rettamente esercitare il ministero della divina parola e di fendere dalle obiezioni i libri scritti sotto l'ispirazione di Dio" (Lett. Apost. "Quoniam in re biblica", 27 marzo 1906; Pio X Acta III, pp. 72-76; Ench. Bibl. nn. 155-173, v. n. 155); infine "affinché si avesse in Roma un centro di alti studi biblici, il quale, nel modo più efficace che sia possibile, facesse progredire la scienza della Bibbia e delle materie con essa connesse", fondò, affidandolo all'inclita Compagnia di Gesù, il Pontificio Istituto Biblico, il quale volle fosse "fornito di scuole superiori e di ogni attrezzatura di istruzione biblica", e ne prescrisse il funzionamento e le regole, dichiarando di eseguire per tal guisa "il salutare e fruttuoso proposito" di Leone XIII (Lett. Ap. "Vinea electa", 7 maggio 1901); A. A. S., 1909, vol. I, pp. 447-449, Ench. Bibl. nn. 293-306, v. nn. 296 et 294). A tutto questo infine diede il coronamento il Nostro immediato Predecessore Pio XI, di felice memoria, decretando fra l'altro che nessuno fosse nominato "Professore di Sacra Scrittura nei Seminari, se prima, compiuto uno speciale corso di studi biblici, non avesse regolarmente conseguiti i gradi accademici presso la Commissione Biblica e l'Istituto Biblico"; gradi che volle equiparati, per i diritti e gli effetti, ai gradi debitamente conferiti in Sacra Teologia o in Diritto Canonico: stabilendo inoltre che a nessuno sia conferito "un beneficio, a cui vada canonicamente annesso l'obbligo di spiegare la Sacra Scrittura al popolo, se oltre il resto, non abbia ottenuta la licenza o la laurea in Sacra Scrittura". In pari tempo, dopo aver esortato sia i Generali degli Ordini regolari e delle Congregazioni religiose, sia i Vescovi dell'orbe cattolico a mandare i più idonei fra i loro chierici a frequentare i corsi dell'Istituto Biblico per conseguirvi i gradi accademici, tale esortazione ravvalorò col suo esempio, fondando appunto a quell'effetto, con sua elargizione, annue rendite (Motu proprio "Bibliorum scientiam", 27 aprile 1924; A.A.S., 1324, vol. XVI, pp. 180-182; Ench. Bibl. nn. 518-525).

Il medesimo Pontefice, poiché l'anno 1907, col favore e l'approvazione di Pio X di f. m. "era stato commesso ai monaci Benedettini l'incarico di fare ricerche e preparativi per una nuova edizione della versione latina della Bibbia, che suol chiamarsi Volgata" (Lettera al Rev.mo D. Aidano Gasquet, 3 dic. 1907; Pio X Acta IV, pp. 177-179; Ench. Bibl. n. 285 sq.), volendo dare più solida base e maggior sicurezza a questa "faticosa ed ardua impresa", che se richiede lungo tempo e grandi spese, mostra però la sua somma utilità negli eccellenti volumi già dati alla luce, eresse dalle fondamenta il monastero di San Girolamo in Urbe, interamente dedicato a quell'opera, e riccamente lo dotò di biblioteca e d'ogni altro mezzo di indagine (Const. Apost. "Inter præcipuas", 15 giugno 1933; A. A. S., 1934, vol. XXVI, pp. 85-87). Né si vuole qui passare sotto silenzio quanto i medesimi nostri Predecessori, presentandosene l'occasione, abbiano raccomandato sia lo studio sia la predicazione sia infine la pia lettura e meditazione delle Sacre Scritture. Infatti Pio X diede calorosa approvazione alla Società di San Girolamo, che ha per scopo di indurre i fedeli alla tanto lodevole usanza di leggere e meditare i santi Vangeli, e di rendere per quanto è possibile più facile questa pia pratica. La esortò poi a perseverare con alacrità nell'impresa, affermando "esser cosa fra tutte la più utile e più adatta ai tempi", contribuendo essa non poco a "sfatare il pregiudizio, che la Chiesa si opponga al la lettura delle Sacre Scritture in lingua volgare o vi metta ostacolo" (Lettera dell'Em.mo Card. Cassetta "Qui piam", 21 gennaio 1907, Pio X Acta IV, pp. 23-25). Benedetto XV poi al compiersi del quindicesimo secolo dalla morte del Dottor Massimo nell'esposizione delle Sacre Scritture, dopo avere scrupolosamente inculcato sia gli insegnamenti e gli esempi del medesimo Dottore, sia i principi e le norme da Leone XIII e da lui stesso dettate, dopo altre opportunissime raccomandazioni di questo genere che sempre si debbono tener presenti, esortò "tutti i figli della Chiesa, e soprattutto i Chierici, alla venerazione delle Sacre Scritture congiunta con la pia lettura e l'assidua meditazione"; ed avvertì che "in quelle pagine si deve cercare il cibo, che la vita dello spirito fa crescere verso la perfezione"; che "il principale uso della Scrittura consiste nel valersene per esercitare santamente e con frutto il ministero della divina parola". E poi di nuovo lodò l'operato della Società detta di San Girolamo, che fa la più larga propaganda dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli, "sicché ormai non c'è famiglia cristiana, che ne sia priva, e tutti prendono l'abitudine di leggerli e meditarli ogni giorno" (Enciclica "Spiritus Paraclitus").

È dunque giusto e grato riconoscere che non pochi progressi hanno fatto la scienza delle Sacre Scritture e il loro uso fra i cattolici grazie alle disposizioni, ordini, eccitamenti dei Nostri Predecessori, ma anche al concorso di tutti coloro, che, secondando con premuroso ossequio le cure dei Sommi Pontefici, spesero le loro fatiche nel meditare, nell'indagare, nello scrivere, ovvero nell'insegnare, nel predicare, nel tradurre e diffondere i Libri Santi. Infatti dalle scuole superiori di Teologia e di Sacra Scrittura, e principalmente dal Nostro Pontificio Istituto Biblico, uscirono e tuttora escono cultori delle Divine Lettere, che, animati da vivo ardore per esse, questo medesimo ardore accendono negli animi del giovane clero e ad esso comunicano la dottrina da loro appresa. Di essi non pochi, anche con gli scritti, in molte guise hanno fatto e fanno progredire le scienze bibliche, ora col pubblicare i sacri testi secondo le norme della vera critica, e con lo spiegarli, illustrarli, tradurli nelle lingue moderne; ora col proporli alla pia lettura e meditazione dei fedeli, ora infine col mettere a profitto quelle scienze profane, che giovano alla intelligenza della divina Scrittura. Queste ed altre opere, che ogni giorno più si vanno propagando e consolidando, come associazioni, congressi, settimane di studi biblici, biblioteche, sodalizi per la meditazione dei Vangeli, Ci fanno concepire ferma speranza che nell'avvenire la venerazione, l'uso, e la scienza delle Sacre Lettere andranno sempre più progredendo a pro delle anime. Ma ciò non avverrà se non a condizione che tutti con crescente fermezza, alacrità e coraggio si attengano al programma di studi biblici da Leone XIII prescritto, dai Successori di lui più ampiamente e compiutamente dichiarato, da Noi ancora confermato ed accresciuto, programma che è il solo sicuro e dall'esperienza comprovato; né si lascino trattenere dalle difficoltà che, come accade nelle cose umane, anche in questa esimia opera non mancheranno mai. In questi cinquant'anni nessuno è che non veda come le condizioni dello studio della Bibbia e di quanto può a quello giovare sono grandemente cambiate. Infatti, per tacer d'altro, allorché il Nostro Predecessore emanò l'Enciclica "Providentissimus Deus", per pochi luoghi di Palestina s'era cominciato ad esplorare con opportuni scavi al detto scopo. Ora invece tali esplorazioni sono cresciute enormemente di numero e si praticano con più severo metodo e con arte affinata dalla stessa esperienza, sicché più copiosi e più certi derivano i risultati. Quanto poi da quelle indagini si tragga lume a meglio e più a fondo comprendere i Sacri Libri, lo sanno gli esperti, lo sanno tutti coloro che si applicano a questo genere di studi. Ad aumentare il valore dei detti scavi ne vennero fuori sovente monumenti scritti, che immensamente giovano a farci conoscere le lingue, le letterature, gli avvenimenti, i costumi e i culti di antichissime popolazioni. Né minore importanza hanno le ricerche e le scoperte, così frequenti ai nostri giorni, dei papiri, che tanta luce apportarono alla conoscenza delle lettere e delle istituzioni pubbliche e private, specialmente al tempo del nostro Divin Salvatore. Inoltre furono trovati e a rigor di critica pubblicati antichi manoscritti dei Sacri Libri; l'esegesi dei Padri della Chiesa venne con più esteso e più maturo esame investigata; il modo di parlare, di narrare, di scrivere proprio degli antichi con innumerevoli esempi fu messo in piena luce. Tutto questo, che non senza provvido consiglio di Dio fu concesso alla nostra età, invita ed in certo modo ammonisce gli interpreti a valersi premurosa mente di tanta luce per scrutare più a fondo le Divine Pagine, il lustrarle con più precisione, esporle con maggiore chiarezza. Certo vediamo, con somma compiacenza dell'animo Nostro, che a questo invito hanno corrisposto i detti interpreti con lodevole zelo; orbene ciò stesso è non ultimo né minimo frutto dell'Enciclica "Providentissimus Deus", con la quale il Nostro Predecessore, come presago di questa nuova fioritura di studi biblici, chiamò gli esegeti cattolici al lavoro, e con sapiente intuito ne tracciò ad essi la via e il metodo. Pertanto far sì che il lavoro non solo perduri continuamente, ma anche si vada ogni di più perfezionando e si renda più fecondo, è lo scopo di questa Nostra Enciclica, con la quale Ci proponiamo principalmente di mostrare a tutti quel che resta a fare e con quali disposizioni deve oggi l'esegeta cattolico accingersi a sì grave e sublime compito, e d'infondere nuovo coraggio e nuovi stimoli agli operai che strenuamente lavorano nella vigna del Signore.

All'interprete cattolico che si accinge all'opera di intendere e spiegare le divine Scritture, già i Padri della Chiesa, e in prima linea Sant'Agostino, grandemente raccomandavano lo studio delle lingue antiche e il ricorso ai testi originali (Cfr. per es. S. Hieron., Praef. in IV Evang. ad Damasum, PL. XXIX, col. 526-527; August., De doctr. christ. II, 16; P.L. XXXIV, col. 42-43). Tuttavia tali erano a quei tempi le condizioni degli studi, che non molti, e quei medesimi soltanto in grado imperfetto, possedevano la lingua ebraica. Nel medio evo poi, mentre era in sommo fiore la Teologia Scolastica, anche la conoscenza del greco era da grande tempo scemata in Occidente, sicché anche i più grandi Dottori di quel tempo nello spiegare i Sacri Libri non si potevano basare che sulla versione latina della Volgata. Ai giorni nostri al contrario non soltanto la lingua greca, che col Rinascimento risorse, per così dire, a novella vita, è pressoché familiare a tutti i letterati e studiosi della antichità, ma anche dell'ebraico e di altre lingue orientali è diffusa la conoscenza fra le persone colte. Si ha poi adesso tanta abbondanza di mezzi per imparare quelle lingue, che un interprete della Bibbia, il quale trascurandole si precluda da sé la via di giungere ai testi originali, non può sfuggire alla taccia di leggerezza e di ignavia.

Dovere dell'esegeta per fermo è raccogliere con somma cura, e con venerazione quasi afferrare ogni apice anche minimo, che provenga dalla penna dell'agiografo sotto l'azione del Divino Spirito, al fine di penetrarne a fondo ed appieno il pensiero. Perciò seriamente procuri di acquistarsi una perizia ogni dì maggiore nelle lingue bibliche, ed anche nelle altre lingue orientali, e rincalzi la sua interpretazione con tutti quei mezzi, che fornisce la filologia in ogni sua parte. Tutto ciò si studiò già di conseguire San Girolamo con le cognizioni della sua età e ad altrettanto mirarono, con indefessa applicazione e frutto più che ordinario, non pochi dei grandi esegeti dei secoli XVI e XVII, sebbene allora fosse assai minore, che adesso, la scienza delle lingue. Per ugual via dunque occorre spiegare quel testo originale, che, per essere immediato prodotto del sacro autore, ha maggiore autorità e maggiore peso di qualunque traduzione, antica o moderna, per quanto ottima; e ciò per certo si otterrà con più facilità e profitto, se alla conoscenza delle lingue si accoppierà una soda perizia della critica relativa al testo medesimo.

Quanta importanza si debba annettere a tale critica, accorta mente lo fa intendere Sant'Agostino, quando fra i precetti da inculcare allo studioso del Sacri Libri mette in primo luogo la cura di procacciarsi un testo corretto. "Ad emendare i codici - così quel chiarissimo Dottore della Chiesa - deve anzitutto attendere la solerzia di coloro, che bramano conoscere le divine Scritture, affinché gli scorretti cedano il posto agli emendati" (De doct. christ. II, 21; PL. XXXIV, col. 46). Oggi poi quest'arte, che suol chiamarsi critica testuale e nelle edizioni degli autori profani s'impiega con grande lode e pari frutto, con pieno diritto si applica ai Sacri Libri appunto per la riverenza dovuta alla parola di Dio. Scopo di essa infatti è restituire con tutta la possibile precisione il sacro testo al suo primitivo tenore, purgandolo dalle deformazioni introdottevi dalle manchevolezze dei copisti e liberandolo dalle glosse e lacune, dalle trasposizioni di parole, dalle ripetizioni e da simili difetti d'ogni genere, che negli scritti tramandati a mano pei molti secoli usano infiltrarsi. È vero che di tal critica alcuni decenni or sono non pochi abusarono a loro talento, non di rado in guisa che si direbbe abbiano voluto introdurre nel sacro testo i loro preconcetti. Ma oggi appena occorre dire che quell'arte ha raggiunta una tale stabilità e sicurezza di forme, che agevolmente se ne può scoprire l'abuso, e con i progressi conseguiti essa è divenuta un insigne strumento atto a propagare la divina parola in una forma più accurata e più pura. Neppure fa bisogno qui ricordare - essendo cosa nota e palese a tutti gli studiosi della Sacra Scrittura - in quanto onore abbia tenuti la Chiesa dai primi secoli all'età nostra, questi lavori di critica. Oggi dunque, poiché quest'arte è giunta a tanta perfezione, è onorifico, benché non sempre facile, ufficio degli scritturisti procurare con ogni mezzo che quanto prima da parte cattolica si preparino edizioni dei Sacri Libri sì nei testi originali, e sì nelle antiche versioni, regolate secondo le dette norme; tali cioè che con una somma riverenza al sacro testo congiungano un'accurata osservanza di tutte le leggi della critica. E tutti sappiamo che questo lungo lavoro di critica non solo e necessario a rettamente comprendere gli scritti divinamente ispirati, ma anche è imperiosamente richiesto da quella pietà che deve renderci sommamente grati a quel provvidentissimo Dio, che questi libri a noi, quasi a propri figli, mandò quali paterne lettere dal trono della sua Maestà.

E nessuno pensi che l'accennato uso dei testi originali condotto a norma di critica venga in alcun modo a derogare a quanto il Concilio di Trento saggiamente prescrisse sulla Volgata latina (Decr. de editione et usu Sacrorum Librorum; Conc. Trid. ed. Soc. Goerres, t. V, p. 91 s.). È un fatto documentato, che i Presidenti del Concilio ebbero l'incarico da essi fedelmente eseguito, di pregare a nome del Concilio stesso il Sommo Pontefice, che facesse correggere, quanto meglio si potesse, anzitutto l'edizione latina della Bibbia, e poi anche il testo greco e l'ebraico, da pubblicare quando che fosse a vantaggio della santa Chiesa di Dio (ibidem t. X, p. 171: cfr. t. V, pp. 29, 59, 65; t. X, pp. 446 ss,). A questo desiderio, se allora per le difficoltà dei tempi e per altri ostacoli non si poté dare piena soddisfazione, al presente però con la collaborazione di dotti cattolici si può dare più ampia e perfetta esecuzione, e confidiamo che così infatti avverrà. Se il Concilio di Trento volle che la Volgata fosse quella versione latina, "di cui tutti dovessero valersi come autentica", anzitutto ciò riguarda solo, come tutti sanno, la Chiesa latina e l'uso che in essa si ha da fare della Scrittura, e del resto non vi è dubbio che non diminuisce punto l'autorità e il valore dei testi originali. Infatti non era allora questione dei testi originali della Bibbia, ma delle traduzioni latine, che a quel tempo circolavano, e fra queste giustamente il medesimo Concilio stabilì doversi preferire quella che "per il diuturno uso di tanti secoli nella Chiesa stessa aveva ricevuta l'approvazione".

Questa preminente autorità, ovvero, come suol dirsi, autenticità della Volgata fu dal Concilio decretata non già principalmente per motivi di critica, ma piuttosto per l'uso legittimo che se ne fece nelle Chiese lungo il corso di tanti secoli: il quale uso dimostra che essa, nel senso in cui la intese e intende la Chiesa, va affatto immune da errore in tutto ciò che tocca la fede ed i costumi. Da questa immunità, di cui la Chiesa fa testimonianza e dà conferma, proviene che nelle dispute, lezioni e prediche si possa citare la Volgata in tutta sicurezza e senza pericolo di sbagliare. Perciò quell'autenticità va detta non critica, in prima linea, ma piuttosto giuridica. Quindi l'autorità che la Volgata ha in materia di dottrina non impedisce punto anzi ai nostri giorni quasi esige che quella medesima dottrina venga provata e confermata per mezzo dei testi originali, e che inoltre ai medesimi testi si ricorra per dischiudere e dichiarare ogni dì meglio il vero senso delle Divine Scritture. Anzi neppur vieta il decreto del Tridentino che, per uso e profitto dei fedeli e per facilitare l'intelligenza della divina parola, si facciano traduzioni nelle lingue volgari, e precisamente anche dai testi originali, come sappiamo che in molti Paesi lodevolmente si è fatto con l'approvazione dell'autorità ecclesiastica. Fornito così della conoscenza delle lingue antiche e del corredo della critica, l'esegeta cattolico si applichi a quello che fra tutti i suoi compiti è il più alto: trovare ed esporre il genuino pensiero dei Sacri Libri.

Nel far questo, gli interpreti abbiano ben presente che loro massima cura deve essere quella di giungere a discernere e precisare quale sia il senso letterale, come suol chiamarsi, delle parole bibliche. Perciò devono con ogni diligenza rintracciare il significato letterale delle parole, giovandosi della cognizione delle lingue, del contesto, del confronto con luoghi simili: cose tutte, donde anche nell'interpretazione degli scritti profani si suole trarre partito per mettere in limpida luce il pensiero dell'autore. I commentatori però della Sacra Scrittura, non perdendo di vista che si tratta della parola da Dio ispirata, della quale da Dio stesso fu affidata alla Chiesa la custodia e l'interpretazione, con non minore diligenza terranno conto delle spiegazioni e dichiarazioni del Magistero ecclesiastico, come pure delle esposizioni dei Santi Padri, ed anche della "analogia della fede", secondo che Leone XIII nell'Enciclica "Providentissimus Deus" con somma sapienza avvertì (Leone XIII, Acta XIII, pp. 345-346; Ench. Bibl. n, 94-96). Particolare attenzione porranno a non limitarsi come purtroppo avviene in alcuni commentari ad esporre ciò che tocca la storia, l'archeologia, la filologia e simili altre materie; diano pure a luogo opportuno tali notizie in quanto possono contribuire all'esegesi, ma principalmente mettano in vista la dottrina teologica di ciascun libro o testo intorno alla fede ed ai costumi. Per tal guisa la loro esposizione non solo gioverà dai professori di teologia nel proporre i dogmi della fede, ma verrà pure in aiuto dei sacerdoti per la spiegazione della dottrina cristiana al popolo, ed infine tutti i fedeli ne caveranno profitto per condurre una vita santa, degna d'un vero cristiano.

Una cosiffatta interpretazione, principalmente teologica, come abbiamo detto, sarà mezzo efficace per ridurre al silenzio coloro che, asserendo di non trovare nei commenti biblici nulla che innalzi la mente a Dio, nutra l'anima e fomenti la vita interiore, mettono innanzi, quale unico scampo, un genere d'interpretazione spirituale e, com'essi dicono, mistica. Quanto poco giusta sia questa loro pretesa lo prova l'esperienza di molti, che con la ripetuta considerazione e meditazione della parola di Dio hanno santificate le loro anime e si sono infiammati d'acceso amore verso Dio; ne dànno luminosa mostra la costante pratica della Chiesa e gli insegnamenti dei più grandi Dottori. Certo non va escluso dalla Sacra Scrittura ogni senso spirituale, poiché quello che nel Vecchio Testamento fu detto o fatto, venne da Dio con somma sapienza ordinato e disposto in tal modo, che le cose passate prefigurassero le future da avverarsi nel nuovo Patto di grazia. Perciò l'esegeta come è tenuto a ricercare ed esporre il significato proprio o letterale delle parole inteso ed espresso dal sacro autore, così la stessa cura deve avere nella ricerca del significato spirituale, purché realmente risulti che Dio ve lo ha posto. Solo Dio difatti poté sia conoscere sia rivelare a noi quel significato spirituale. Ora un tal senso ce lo mostra e ce lo insegna il divin Salvatore medesimo nei Santi Vangeli, lo professano nel parlare e nello scrivere gli Apostoli, seguendo l'esempio del Maestro, lo addita la costante tradizione della Chiesa, lo dichiara infine l'antichissimo uso della liturgia, nei casi in cui si può rettamente applicare il noto principio: la legge del pregare è legge del credere. Questo senso spirituale, da Dio inteso e ordinato, lo scoprano dunque e lo espongano gli esegeti cattolici con quella diligenza che richiede la dignità della divina parola; si guardino invece scrupolosamente dal presentare come genuino senso della Sacra Scrittura altri valori figurativi delle cose.

Può ben essere utile, specialmente nella predicazione, lumeggiare e raccomandare le cose della fede e della morale cristiana con uso più largo del Sacro Testo in senso figurato, purché si faccia con moderazione e sobrietà; ma non bisogna mai dimenticare che un tal uso delle parole della Sacra Scrittura e ad essa quasi estrinseco ed avventizio, e che soprattutto ai giorni nostri non va senza pericolo, perché i fedeli, segnatamente le persone istruite nelle scienze sia sacre che profane, vogliono sapere ciò che Dio ci ha detto nelle Sacre Lettere, anziché quello che un facondo oratore o scrittore, usando con destrezza le parole della Bibbia, ne sa cavare. "La parola di Dio, viva ed operosa, tagliente più d'ogni spada a due tagli, penetrante sino a divenire anima e spirito, giunture e midollo, scrutatrice dei sentimenti e dei pensieri" (Hebr. IV, 12), non ha bisogno, per commuovere i cuori e scuotere gli animi, di artifizi e di accomodamenti umani; le Sacre Pagine, da Dio ispirate, sono di per sé ricche di nativo significato; dotate d'una forza divina, valgono di per sé; adorne di un superbo splendore, da sé brillano e risplendono, se l'interprete con una spiegazione accurata e fedele ne sa trarre alla luce tutti i tesori di sapienza e di prudenza che vi stanno nascosti.

Per fare questo, l'esegeta cattolico potrà valersi del solerte studio di quegli scritti, nei quali i Santi Padri, i Dottori della Chiesa e gli illustri interpreti delle età passate hanno commentati i Sacri Libri. Essi, benché fossero meno forniti d'istruzione profana e di scienza delle lingue, che gli scritturisti dei nostri giorni, però per l'ufficio da Dio loro dato nella Chiesa spiccano per un certo soave intuito delle cose celesti e per un meraviglioso acume di mente, con i quali penetrano sin all'intimo le profondità della divina parola e traggono alla luce quanto può giovare ad illustrare la dottrina di Cristo e a promuovere la santità della vita. Fa dispiacere che sì preziosi tesori della cristiana antichità a non pochi scrittori dei nostri tempi siano mal noti e che i cultori della storia dell'esegesi non abbiano ancora tutto fatto per meglio approfondire e giustamente apprezzare un punto di tanta importanza. Piacesse a Dio che molti si dessero a ricercare gli autori e le opere d'interpretazione cattolica delle Scritture e, traendone le ricchezze quasi immense ivi accumulate, efficacemente concorressero a far sì che sempre più manifesto si renda quanto quegli antichi hanno penetrata e dilucidata la divina dottrina dei Libri Sacri, di maniera che gli odierni interpreti ne prendano esempio e ne derivino opportuni argomenti. Così finalmente si attuerà la felice e feconda fusione della dottrina e soave unzione degli antichi con la più vasta erudizione e progredita arte dei moderni, il che di certo produrrà nuovi frutti nel campo, non mai abbastanza coltivato, né mai esausto, delle Divine Lettere.

Anche dai nostri tempi possiamo aspettarci che si apporti del nuovo per meglio approfondire e con più accuratezza interpretare le Sacre Carte. Infatti non poche cose, specialmente in ciò che riguarda la storia, a malapena o imperfettamente furono spiegate dagli espositori dei secoli scorsi, mancando ad essi quasi tutte le notizie necessarie per maggiori schiarimenti. Quanto ardui e quasi inaccessibili agli stessi Padri siano rimasti alcuni punti, ben lo mostrano, per tacer d'altro, i ripetuti sforzi di molti fra essi per interpretare i primi capi della Genesi, ed anche i ripetuti tentativi di San Girolamo per tradurre i Salmi in guisa che il loro senso letterale, cioè espresso nelle parole stesse del testo, chiaramente trasparisse. In altri libri o testi solamente l'età moderna scoperse difficoltà prima insospettate, poiché una conoscenza ben più profonda dei tempi antichi fece sorgere nuove questioni, per le quali si getta più addentro lo sguardo nel soggetto. A torto perciò alcuni, mal conoscendo lo stato della scienza biblica, vanno dicendo che all'odierno esegeta cattolico nulla resta da aggiungere a quanto ha prodotto l'antichità cristiana; al contrario bisogna dire che il nostro tempo molte cose ha tirato fuori, che nuovo esame richiedono le nuove ricerche e non leggero sprone mettono all'attività dell'odierno scritturista. Ed invero la nostra età, se accumula nuove questioni e difficoltà, però insieme, grazie a Dio, offre all'esegesi anche nuovi mezzi e strumenti. Fra questi va messo in speciale rilievo il fatto che i teologi cattolici, seguitando la dottrina dei Santi Padri e principalmente del Dottore Angelico e Comune, con maggior precisione e finezza che non solesse farsi nei secoli andati, hanno esaminato ed esposto la natura dell'ispirazione biblica ed i suoi effetti. Partendo nelle loro disquisizioni dal principio che l'agiografo nello scrivere il libro sacro è organo, ossia strumento dello Spirito Santo, ma strumento vivo e dotato di ragione, rettamente osservano che egli sotto l'azione divina talmente fa uso delle sue proprie facoltà e potenze, che dal libro per sua opera composto tutti possono facilmente raccogliere "l'indole propria di lui e come le sue personali fattezze e il suo carattere" (Cfr. Benedetto XV, Enc. "Spiritus Paraclitus"). Quindi l'interprete con ogni diligenza non trascurando i nuovi lumi apportati dalle moderne indagini, procuri discernere quale sia stata l'indole del sacro autore, quali le condizioni della sua vita, in qual tempo sia vissuto, quali fonti scritte ed orali abbia adoperate, di quali forme del dire si avvalga. Cosi potrà più esattamente conoscere chi sia stato l'agiografo e che cosa abbia voluto dire nel suo scritto. Nessuno ignora infatti che la suprema norma d'interpretare è ravvisare e stabilire che cosa si proponga di dire lo scrittore, come egregiamente avverte Sant'Atanasio: "Qui - come in ogni altro luogo della Scrittura si ha da fare - deve osservarsi in qual occasione abbia parlato l'Apostolo, chi sia la persona a cui scrive, per quale motivo le scriva; a tutto ciò si deve attenta mente e imparzialmente badare, perché non ci accada, ignorando tali cose o fraintendendo una per L'altra, di andar lontano dal vero pensiero dell'autore" (Contra Arianos, I, 54; PG. XXVI, col. 123).

Quale poi sia il senso letterale di uno scritto, spesso non è così ovvio nelle parole degli antichi Orientali com'è per esempio negli scrittori dei nostri tempi. Ciò che quegli antichi hanno voluto significare con le loro parole non va determinato soltanto con le leggi della grammatica o della filologia, o arguito dal contesto; l'interprete deve quasi tornare con la mente a quei remoti secoli dell'Oriente e con l'appoggio della storia, dell'archeologia, dell'etnologia e di altre scienze, nettamente discernere quali generi letterari abbiano voluto adoperare gli scrittori di quella remota età. Infatti gli antichi Orientali per esprimere i loro concetti non sempre usarono quelle forme o generi del dire, che usiamo noi oggi; ma piuttosto quelle ch'erano in uso tra le persone dei loro tempi e dei loro paesi. Quali esse siano, l'esegeta non lo può stabilire a priori, ma solo dietro un'accurata ricognizione delle antiche letterature d'Oriente. Su questo punto negli ultimi decenni l'indagine, condotta con maggior cura e diligenza, ha messo in più chiara luce quali fossero in quelle antiche età le forme del dire adoperate sia nelle composizioni poetiche, sia nel dettare le leggi o le norme di vita, sia infine nel raccontare i fatti della storia. L'indagine stessa ha pure luminosamente assodato che il popolo d'Israele fra tutte le antiche nazioni d'Oriente tenne un posto eminente, straordinario, nello scrivere la storia, sia per l'antichità, sia per la fedele narrazione degli avvenimenti, pregi che per verità si possono dedurre dal carisma della divina ispirazione e dal particolare scopo religioso della storia biblica.

Tuttavia a nessuno che abbia un giusto concetto dell'ispirazione biblica farà meraviglia che anche negli Scrittori Sacri, come in tutti gli antichi, si trovino certe maniere di esporre e di narrare, certi idiotismi, propri specialmente delle lingue semitiche, certi modi iperbolici od approssimativi, talora anzi paradossali, che servono a meglio stampar nella mente ciò che si vuol dire. Delle maniere di parlare, di cui presso gli antichi, specialmente Orientali, servivasi l'umano linguaggio per esprimere il pensiero della mente, nessuna va esclusa dai Libri Sacri, a condizione però che il genere di parlare adottato non ripugni affatto alla santità di Dio né alla verità delle cose. L'aveva già, col suo solito acume, osservato l'Angelico Dottore con quelle parole: "Nella Scrittura le cose divine ci vengono presentate nella maniera che sogliono usare gli uomini" (Comment. in Ep. ad Hebr. cap. I, lectio 4). In effetto, come il Verbo sostanziale di Dio si è fatto simile agli uomini in tutto, "eccettuato il peccato" (Hebr. IV, 15) così anche le parole di Dio, espresse con lingua umana, si sono fatte somiglianti all'umano linguaggio in tutto, eccettuato l'errore. In questo consiste quella condiscendenza (synkatàbasis) del provvido nostro Dio, che già San Giovanni Crisostomo con somme lodi esaltò e più e più volte asseverò trovarsi nei Sacri Libri (Cfr. Gen. I, 4; Gen. II, 21; Gen. III, 8; Hom. 15 in Joan. I, 18: PG. LIX, col. 97 e segg.).

Quindi l'esegeta cattolico, per rispondere agli odierni bisogni degli studi biblici, nell'esporre la Sacra Scrittura e nel mostrarla immune da ogni errore, com'è suo dovere, faccia pure prudente uso di questo mezzo, di ricercare cioè quanto la forma del dire o il genere letterario adottato dall'agiografo possano condurre alla retta e genuina interpretazione; e si persuada che in questa parte del suo ufficio non può essere trascurato senza recare gran danno all'esegesi cattolica. Infatti per portare solo un esempio quando taluni presumono rinfacciare ai Sacri Autori qualche errore storico o inesattezza nel riferire i fatti, se si guarda ben da vicino, si trova che si tratta semplicemente di quelle native maniere di dire o di raccontare, che gli antichi solevano adoperare nel mutuo scambio delle idee nell'umano consorzio, e che realmente si tenevano lecite nella comune usanza. Quando dunque tali maniere si incontrano nella divina parola, che per gli uomini si esprime con linguaggio umano, giustizia vuole che non si taccino d'errore più che quando occorrono nella quotidiana consuetudine della vita. Con l'accennata conoscenza e l'esatta valutazione dei modi ed usi di parlare e di scrivere presso gli antichi, si potranno sciogliere molte obbiezioni sollevate contro la veridicità e il valore storico delle divine Scritture; e non meno porterà un tale studio ad una più piena e più luminosa comprensione del pensiero del Sacro Autore. Attendano dunque i nostri scritturisti con la dovuta diligenza a questo punto, e nessuna tralascino di quelle nuove scoperte fatte dall'archeologia o dalla storia o letteratura antica, che sono atte a far meglio conoscere qual fosse la mentalità degli antichi scrittori, e la loro maniera ed arte di ragionare, narrare, scrivere. In questa materia anche i laici cattolici sappiano ch'essi non solo gioveranno alla scienza profana, ma renderanno anche un segnalato servizio alla causa cristiana, se con tutta la convenevole diligenza e applicazione si daranno ad esplorare e indagare le cose dell'antichità, e concorreranno così, secondo le loro forze, alla soluzione di questioni sinora non bene chiarite. Infatti ogni cognizione umana, anche non sacra, ha bensì una sua innata dignità ed eccellenza, essendo essa una partecipazione finita dell'infinita conoscenza di Dio, ma ottiene una nuova e più alta dignità e quasi consacrazione, quando si adopera a far brillare di più chiara luce le cose divine.

L'anzidetta molteplice esplorazione dell'antichità orientale, la più accurata ricerca del testo originale delle Scritture, la più estesa e più esatta conoscenza delle lingue sia bibliche sia orientali in genere, col divino aiuto ebbero per effetto, che oggi sono già sciolte e liquidate non poche di quelle questioni, che al tempo del Nostro Predecessore Leone XIII da critici alla Chiesa estranei od anche avversi venivano agitate contro l'autenticità, l'antichità, l'integrità e la verità storica dei Sacri Libri. Gli è che gli esegeti cattolici col retto maneggio di quelle medesime armi della scienza, di cui gli avversari non di rado abusavano, presentarono spiegazioni che insieme concordano con la dottrina cattolica e col genuino pensiero tradizionale, e in pari tempo tengono fronte alle difficoltà sia tramandateci senza soluzione dall'antichità, sia di fresco portate dalle nuove scoperte della moderna indagine. Ne è venuto che il credito della Bibbia e del suo valore storico, scosso fino a un certo punto in alcuni da tanti attacchi, ora è pienamente ristabilito presso i cattolici; anzi neppure mancano scritti d'altra fede, che in seguito a ricerche condotte con serietà ed animo spassionato, giunsero infine ad abbandonare le opinioni dei moderni per tornare, almeno in parecchi punti, alle vecchie sentenze. Questo cambiamento si deve in gran parte all'indefesso lavoro col quale i commentatori cattolici della Bibbia, senza lasciarsi intimorire da difficoltà ed ostacoli d'ogni genere, con tutte le forze si studiarono di fare convenevole uso di quanto i dotti odierni nelle loro investigazioni hanno tirato fuori in fatto di archeologia o storia o filologia per la soluzione delle nuove questioni.

Non deve però fare meraviglia se non tutte le difficoltà sono state superate e disciolte, ma rimangono ancor oggi gravi questioni, che non poco agitano le menti dei cattolici. Non per questo si ha da perdere coraggio; né va dimenticato che accade negli umani studi come nelle cose naturali, e cioè che le opere crescono lentamente e non se ne cava frutto se non dopo molte fatiche. Appunto così è avvenuto che a tante discussioni, non decise e rimaste sospese dai tempi andati, solo ai nostri giorni col progresso degli studi è stata data una felice conclusione. Non è quindi vano sperare che con una costante applicazione saranno una buona volta pienamente chiarite anche quelle che ora sembrano le più complesse e difficoltose. Se la bramata soluzione tardi assai, e non arrida a noi, ma sia forse riservata ai posteri la felice riuscita, nessuno abbia a ridire, perché deve valere anche per noi quello che i Padri, segnatamente Sant'Agostino (Epist. 149 ad Paulinum, n. 34 (PL. XXXIII, col. 644); De diversis quaestionibus q. 53, n. 2 (ibidem, XL, col. 36); Enarr, in Ps. 146, n. 12 (ibidem, XXXVII, col. 2907), hanno avvertito al loro tempo: che Dio nei Sacri Libri da Lui ispirati ha voluto venissero sparse difficoltà, per ché noi ci sentissimo spronati a leggerli e scrutarli con maggior applicazione e inoltre, sperimentando la nostra limitazione, vi trovassimo un salutare esercizio di doverosa umiltà. Non vi sarebbe pertanto motivo di meravigliarsi se a questa o quell'altra questione non si avesse mai a trovare una risposta appieno soddisfacente, perché si ha da fare più volte con materie oscure e troppo lontane dai nostri tempi e dalla nostra esperienza, e perché anche l'esegesi, come le altre più gravi discipline, può avere i suoi segreti, che rimangono alle nostre menti irraggiungibili e chiusi ad ogni sforzo umano.

Questo stato di cose non è un motivo perché l'interprete cattolico, animato da forte e attivo amore della sua disciplina e sinceramente attaccato alla Santa Madre Chiesa, si debba mai trattenere dall'affrontare le difficili questioni sino ad oggi non ancora risolte, non solo per ribattere le obbiezioni degli avversari, ma anche per tentare una solida spiegazione che lealmente s'accordi con la dottrina del la Chiesa e in ispecie col tradizionale sentimento della immunità della Scrittura Sacra da ogni errore, e dia insieme la conveniente soddisfazione alle conclusioni ben certe delle scienze profane. Si ricordino poi tutti i figli della Chiesa che sono tenuti a giudicare non solo con giustizia, ma ancora con somma carità gli sforzi e le fatiche di questi valorosi operai della vigna del Signore; inoltre tutti devono guardarsi da quel non molto prudente zelo, per cui tutto ciò che sa di novità si crede per ciò stesso doversi impugnare o sospettare. Tengano presente, soprattutto, che nelle norme e leggi date dalla Chiesa si tratta della dottrina riguardante la fede ed i costumi e che tra le tante cose contenute nei Sacri Libri legali, storici, sapienziali e profetici, poche sono quelle di cui la Chiesa con la sua autorità ha dichiarato il senso, né in maggior numero si contano quelle intorno alle quali si ha l'unanime sentenza dei Padri. Ne restano dunque molte, e di grande importanza, nella cui discussione e spiegazione si può e si deve liberamente esercitare l'ingegno e l'acume degli interpreti cattolici, affinché ognuno per la sua parte rechi il suo contributo a vantaggio di tutti, a un crescente progresso della sacra dottrina, a difesa e onore della Chiesa. È la vera libertà dei figliuoli di Dio, che mantiene fedelmente la dottrina della Chiesa e insieme accoglie con animo grato come dono di Dio e mette a profitto i portati delle scienze profane.

Questa libertà, secondata e sorretta dalla buona volontà di tutti, è la condizione e la sorgente di ogni verace frutto e di ogni solido progresso nella scienza cattolica, come egregiamente avverte il Nostro Predecessore di felice memoria, Leone XIII, ove dice: "Se non si mantiene la concordia degli animi e non si pongono al sicuro i principi, non si possono dai vari studi, anche di molti, aspettare grandi progressi in quella disciplina" (Lett. Apost. "Vigilantiæ"; Leone XIII, Acta XXII, p. 237; Ench. Bibl. n. 136). Considerando le grandi fatiche sostenute dall'esegesi cattolica per quasi duemila anni allo scopo di fare ogni dì più a fondo comprendere e più ardentemente amare la parola di Dio comunicata agli uomini nelle Sacre Lettere, deve sorgere spontanea la convinzione che ai fedeli, e specialmente ai sacerdoti, incombe il grave obbligo di largamente e santamente profittare di quel tesoro accumulato per tanti secoli da sommi ingegni. Infatti i Sacri Libri non furono dati da Dio agli uomini per soddisfare la loro curiosità o per fornire materia di studio e di ricerche, ma, come insegna l'Apostolo, affinché questi divini oracoli ci potessero "istruire a salute per la fede in Gesù Cristo" e perché "perfetto sia l'uomo di Dio, reso adatto ad ogni opera buona" (II Tim. III, 15-17).

I sacerdoti pertanto, che sono tenuti per ufficio a procurare l'eterna salute dei fedeli, dopo aver essi medesimi scandagliato con diligente studio le sacre pagine e dopo averle fatte loro sostanza con la preghiera e la meditazione, dispensino col dovuto zelo nelle prediche, nelle omelie e nelle esortazioni, le celesti ricchezze della divina parola; confermino la dottrina cristiana con sentenza dei Sacri Libri, e la illustrino con acconci esempi tratti dalla storia sacra e specialmente dal Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo; e tutto - questo schivando con attenta cura quei sensi accomodatizi, escogitati da privata fantasia e stiracchiati da molto lontano, sensi che sono un abuso, anziché l'uso della divina parola - lo espongano con tale facondia e chiarezza, che i fedeli non solo si sentano mossi e infervorati a migliorare la propria vita, ma anche concepiscano una somma venerazione per la Sacra Scrittura. La stessa venerazione i sacri Presuli procureranno che cresca e si perfezioni ogni dì più nei fedeli al loro pastorale zelo commessi, incoraggiando tutte quelle imprese d'uomini apostolici, che portano ad eccitare e fomentare la conoscenza e l'amore dei Sacri Libri tra i cattolici. Diano dunque il loro favore e il loro appoggio alle pie società che hanno per fine di propagare tra i fedeli le stampe dei Libri Sacri, specialmente dei Santi Vangeli, e di adoperarsi con sommo impegno perché nelle famiglie cristiane se ne faccia ogni giorno regolarmente la lettura con pietà e devozione. Raccomandino efficacemente a voce e in pratica, dove la liturgia lo consente, la Sacra Scrittura tradotta, con l'approvazione dell'autorità ecclesiastica, nelle lingue moderne; e tengano lezioni o conferenze scritturali o le facciano tenere da altri oratori, ben versati nella materia. I periodici, che con tanta lode e tanto frutto si pubblicano nelle varie parti del mondo per la trattazione scientifica delle questioni bibliche o per adattarne i risultati al sacro ministero e a spirituale vantaggio dei fedeli, trovino in ogni sacro ministro chi con solerte cura li sostiene e li divulga tra i vari ceti e classi del suo gregge. Tutto questo e quanto altro uno zelo apostolico e un sincero amore della divina parola sapranno trovare di acconcio a quel sublime scopo, si persuadano i sacerdoti tutti che sarà per loro un efficace aiuto nella cura delle anime.

Ma ognuno vede che tutto questo non lo possono compiere a dovere i sacerdoti, se essi medesimi negli anni dei loro studi in Seminario non hanno succhiato un pratico e perenne amore alla Sacra Scrittura. Perciò i Vescovi, per quella paterna cura dei loro Seminari che ad essi incombe, vigilino attentamente perché anche in questo nulla si trascuri che possa giovare al detto scopo. I professori di Sacra Scrittura compiano tutto il corso biblico nei Seminari, di tal maniera che nei giovani destinati al sacerdozio ed al sacro ministero infondano quella conoscenza e quell'amore delle Sacre Lettere, senza cui vano è sperare copiosi frutti d'apostolato. Quindi nell'esegesi facciano risaltare principalmente il contenuto teologico schivando le dispute superflue; e lasciato da parte quanto è piuttosto pascolo di curiosità che fomento di vera dottrina e di soda pietà, espongano con tanta sodezza, dichiarino con tale maestria, inculchino con tal calore il senso letterale e specialmente dogmatico, che nei loro alunni si verifichi in certo modo ciò che accadde ai due discepoli di Gesù diretti ad Emmaus, i quali, udite le parole del Maestro, esclamarono: "Non ci sentivamo noi infiammare il cuore mentre Egli ci spiegava le Scritture?" (Luc. XXIV 32). Così le Divine Carte ai futuri sacerdoti della Chiesa diverranno fonte pura e perenne di vita spirituale per ciascuno personalmente e alimento e sostanza per l'ufficio della predicazione che li attende. Se a tanto saranno riusciti i Professori di questa importantissima materia nei Seminari, con santa esultanza si per suadano di aver fatto moltissimo per la salute delle anime, per il progresso del cattolicismo, per l'onore e la gloria di Dio, e di aver compiuto un'opera intimamente connessa coi doveri dell'apostolato.

Questo che siamo venuti dicendo, Venerabili Fratelli e figli diletti, se vale per ogni età, molto più si adatta ai nostri luttuosi tempi, mentre quasi tutti i popoli e le nazioni sono immersi in un mare di calamità, mentre un'orrenda guerra accumula rovine sopra rovine e stragi sopra stragi, mentre con l'eccitarsi d'acerbissimi odi fra i popoli vediamo con sommo dolore spento in non pochi ogni senso non solo di moderazione e carità cristiana, ma anche di umanità.

A queste mortali ferite dell'umano consorzio chi altro può portare rimedio se non Colui, al quale il Principe degli Apostoli rivolge quelle parole: "Signore, da chi andremo noi? Tu hai parole di vita eterna" (Joan. VI, 69). A questo misericordiosissimo Redentore nostro dobbiamo dunque con tutte le nostre forze ricondurre tutti gli uomini; Egli è il divino consolatore degli afflitti; Egli che insegna a tutti tanto alle autorità quanto ai sudditi la vera onestà, l'incorrotta giustizia e la generosa carità; Egli infine, ed Egli solo, che può essere stabile fondamento e sostegno di pace e di tranquillità, poiché "altro fondamento non si può gettare fuor di quello che già è stato posto, cioè Cristo Gesù" (I Cor. III, 11). Di questo autore della salute, che è Cristo, gli uomini tanto più piena conoscenza avranno, tanto più ardente amore concepiranno; tanto più fedelmente imiteranno gli esempi, quanto più affetto porteranno alla conoscenza e alla meditazione delle Sacre Lettere, principalmente del Nuovo Testamento, poiché, come dice lo Stridonese: "Ignorare la Scrittura è un ignorare Cristo" (S. Girolamo, Comm. in Isaiam, prologo; PL. XXIV, col. 17), e "se c'è cosa che in questa vita sostenga l'uomo saggio e fra le sciagure e gli sconvolgimenti del mondo lo induca a rimanere d'animo sereno, io penso che sia in primo luogo la meditazione e la scienza delle Scritture" (S. Girolamo, Comm. in Ep. ad Ephesios, prologo, PL. XXVI, col. 439). Da esse infatti chiunque è colpito e oppresso dalle avversità e dalle sventure attingerà i veri conforti ed una sovrumana forza a soffrire e sopportare con pazienza; in esse, nei Santi Vangeli, a tutti si presenta Cristo, sommo e perfetto esemplare di giustizia, di carità, di misericordia; in esse a tutto l'uman genere straziato e trepidante, sono dischiuse le fonti di quella divina grazia, posponendo e trascurando la quale, popoli e reggitori di popoli non possono dar principio né consolidamento a nessuna tranquillità di stato e concordia di animi; in esse infine tutti impareranno Cristo "che è capo di ogni principato e potestà" (Col. II, 10) e "fu da Dio fatto per noi sapienza e giustizia e santificazione e redenzione" (I Cor. I, 30).

Esposte e raccomandate queste cose intorno alla necessità di adattare gli studi di Sacra Scrittura agli odierni bisogni, resta, o Venerabili Fratelli e figli diletti, che agli studiosi di questa materia, che sono devoti figli della Chiesa e prestano fedele osservanza alle sue dottrine e norme, Noi rivolgiamo con paterno affetto non solo congratulazioni, perché sono stati eletti e chiamati a sì sublime ufficio, ma anche incoraggiamenti, perché con ogni diligenza e premura, con energia ogni di rinnovata proseguano a compiere l'opera felicemente incominciata. Sublime ufficio, abbiamo detto, perché qual cosa è più sublime che investigare, dichiarare, esporre ai fedeli e difendere dagli infedeli la stessa parola di Dio, comunicata agli uomini per ispirazione dello Spirito Santo? Di questo spirituale cibo si pasce l'animo dello stesso interprete e se ne nutre "a ricordanza della fede, a consolazione della speranza, ad allenamento della carità" (S. Agostino, Contra Faustum, XIII, 18; PL. XLII, col. 294; CSEL. XXV, p. 400). "Vivere tra queste cose, queste meditare, non altro conoscere, non altro cercare, non vi pare che sia un'oasi di paradiso già qui in terra"? (S. Girolamo, Ep. 53, 10; PL. XXII, col. 549, CSEL. LIV, p. 463). Si pascano di questo medesimo cibo anche le menti dei fedeli per attingervi la conoscenza e l'amore di Dio, il profitto e la felicità della propria anima. Si diano dunque con tutto il cuore a questa santa occupazione gli espositori della divina parola. "Preghino per intendere" (S. Agostino, De doctr. christ., III, 56; PL. XXXIV, col. 89), s'affatichino per penetrare ogni dì più addentro i segreti delle Sacre Pagine; parlino dalla cattedra e dal pulpito per dischiudere anche agli altri i tesori della parola di Dio. Con quei preclari interpreti che nei passati secoli, arrecando tanto frutto, hanno dichiarato e illustrato la Sacra Scrittura, gareggino, secondo il potere di ognuno, gli odierni, sicché anche al presente come nei tempi trascorsi la Chiesa abbia esimi dottori nell'esporre le Divine Lettere ed i fedeli cristiani per opera loro ricevano della Sacra Scrittura tutta la luce, il conforto, la letizia. In questo còmpito, per certo arduo e grave, essi ancora abbiano "per loro sollievo i Santi Libri" (I Mach. XII, 9) e siano memori del premio che li attende, poiché "i dotti risplenderanno come lo splendore del firmamento, e coloro che insegnano a molti la giustizia come stelle per l'intiera eternità" (Dan. XII, 3).

Intanto, mentre a tutti i figli della Chiesa, segnatamente ai professori delle bibliche discipline, al giovane clero e a tutti i sacri oratori ardentemente auguriamo che, assiduamente meditando la parola di Dio, gustino quanto buono e soave è lo Spirito del Signore (Sap. XII, 1), auspice dei celesti favori e pegno della Nostra benevolenza, a voi tutti e singoli, Venerabili Fratelli e figli diletti, impartiamo con tutto affetto l'Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 30 settembre, nella festa di San Girolamo, Dottor Massimo nell'esporre le Sacre Scritture, l'anno 1943, V del Nostro Pontificato.

PIO PP. XII

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MYSTICI CORPORIS
LETTERA ENCICLICA

"Sul Corpo mistico di Gesù Cristo
e sulla nostra unione in esso con Cristo"

AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI
PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI
AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE
PACE E COMUNIONE
PIO PP. XII
SERVO DEI SERVI DI DIO

VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

Introduzione.

La dottrina sul Corpo mistico di Cristo che è la Chiesa (cfr. Col. I, 24), dottrina attinta originariamente al labbro stesso del Redentore e che pone nella vera luce il gran bene (mai abbastanza esaltato) della nostra strettissima unione con sì eccelso Capo, è tale senza dubbio che, per la sua eccellenza e dignità, invita tutti gli uomini che son mossi dal divino Spirito a studiarla e, illuminandone la mente, fortemente li spinge a quelle opere salutari che corrispondono ai suoi precetti. Reputiamo perciò Nostro compito il trattenerCi con voi su questo argomento, svolgendo e dichiarandone quei punti specialmente che riguardano la Chiesa militante. Al che Ci muove non solo l’insigne grandezza di questa dottrina, ma anche lo stato presente dell’umanità.

Intendiamo infatti di parlare delle ricchezze riposte nel seno di quella Chiesa che fu acquistata da Cristo con il proprio sangue (Act. XX, 28) e le cui membra si gloriano di un Capo redimito di spine. Circostanza, questa, che è una prova evidente di come le cose più gloriose ed esimie nascano soltanto dal dolore; dobbiamo quindi godere per la nostra partecipazione alla passione di Cristo, affinché possiamo poi rallegrarci ed esultare quando si manifesterà la sua gloria (cfr. I Petr. IV, 13). Rileviamo sin dall’inizio che, come il Redentore del genere umano ricevette persecuzioni, calunnie c tormenti da quei medesimi la cui salvezza s’era addossata, così la società da lui costituita si assomiglia anche in questo al suo divin Fondatore. Non neghiamo, è vero, che anche in questa nostra età turbolenta non pochi, benché separati dal gregge di Cristo, guardano alla Chiesa come all’unico porto di salvezza (e lo riconosciamo con gratitudine verso Dio); ma sappiamo pure che la Chiesa di Dio è dispregiata e con superba ostilità calunniata da coloro che, abbandonata la luce della cristiana sapienza, ritornano miseramente alle dottrine, ai costumi, alle istituzioni dell’antichità pagana; spesso anzi è ignorata, trascurata e tenuta in fastidio da molti cristiani, o allettati da errori di finta bellezza, o adescati dalle attrattive e depravazioni del mondo. Per dovere quindi di coscienza, o Venerabili Fratelli, e per assecondare il desiderio di molti, porremo sotto gli occhi di tutti ed esalteremo la bellezza, le lodi e la gloria della Madre Chiesa alla quale, dopo Dio, tutto dobbiamo.

C’è da sperare che questi Nostri precetti ed esortazioni, nelle presenti circostanze, produrranno nei fedeli frutti molto abbondanti, poiché sappiamo che tante sventure e dolori del nostro procelloso tempo dai quali sono acerbamente tormentati innumerevoli uomini, se vengono accettati dalle mani di Dio con serena rassegnazione, convertono per un certo impulso naturale gli animi dalle cose terrene e instabili alle celesti ed eterne, suscitando in essi un’arcana sete e un intenso desiderio delle realtà spirituali: stimolati così dal divino Spirito, vengono eccitati e quasi sospinti a cercare con maggiore diligenza il Regno di Dio. Infatti, a misura che gli uomini si distolgono dalle vanità di questo mondo e dall’affetto disordinato delle cose presenti, si rendono più atti a percepire la luce dei misteri soprannaturali. E forse oggi più chiaramente che mai si vede la instabilità e inanità delle cose terrene, mentre i regni e le nazioni vanno in rovina, ingenti beni e ricchezze d’ogni genere vengono sommersi nelle profondità degli oceani, città, villaggi e fertili terre son coperti di rovine e insanguinate di stragi fraterne.

Confidiamo inoltre che neppure a coloro che sono fuori del grembo della Chiesa cattolica saranno ingrate né inutili le verità che stiamo per esporre intorno al Corpo mistico di Cristo. E ciò non solo perché la loro benevolenza verso la Chiesa sembra aumentare di giorno in giorno, ma anche perché essi stessi, mentre osservano le nazioni insorgere contro le nazioni, i regni insorgere contro i regni, e crescere smisuratamente le discordie, le invidie e i motivi di odio, se poi rivolgono gli occhi alla Chiesa e considerano la sua unità d’origine divina (in virtù della quale tutti gli uomini d’ogni stirpe vengono congiunti da fraterno vincolo con Cristo), allora certamente son costretti ad ammirare questa grande famiglia fomentata dall’amore, e con l’ispirazione e il soccorso della Grazia divina vengono attirati a partecipare della stessa unità e carità. Vi è anche una ragione particolare, tanto cara e dolce, per cui questo punto di dottrina si presenta con sommo diletto alla Nostra mente. Durante il passato venticinquesimo anno del Nostro Episcopato, con grandissimo compiacimento osservammo una cosa che fece luminosamente risplendere in tutte le parti della terra l’immagine del Corpo mistico di Gesù Cristo: mentre cioè una micidiale e diuturna guerra aveva miseramente infranto la fraterna comunanza delle genti, dovunque Noi abbiamo dei figli in Cristo, tutti, con una sola volontà ed affetto, hanno elevato il pensiero verso il Padre comune che governa in così avversa tempesta la nave della Chiesa Cattolica, portando nel cuore le sollecitudini e le ansietà di tutti. In questa circostanza notammo non soltanto la mirabile unione della famiglia cristiana, ma anche questo fatto innegabile: che come Noi stringiamo al Nostro cuore paterno i popoli di qualsiasi nazione, così da ogni parte i cattolici, benché appartenenti a popoli fra loro belligeranti, guardano al Vicario di Cristo come all’amantissimo Padre di tutti, il quale, ispirato da assoluta imparzialità e da incorrotto giudizio per ambo le parti ed elevandosi al di sopra delle procelle delle umane passioni, prende con tutte le forze la difesa della verità, della giustizia, della carità.

Né Ci ha apportato minore consolazione l’aver appreso ch’è stata raccolta spontaneamente e volonterosamente una somma per innalzare in Roma un sacro tempio dedicato al Nostro santissimo Predecessore e Patrono onomastico, il Papa Eugenio I. Pertanto, come questo tempio, da erigersi per volere ed elargizioni di tutti i fedeli, farà perenne ricordo di questo faustissimo evento, così desideriamo che questa Lettera Enciclica renda testimonianza del Nostro animo grato; poiché in essa si tratta appunto di quelle vive pietre umane, le quali, edificate sulla pietra angolare che è Cristo, vengono a formare quel sacro tempio di gran lunga più eccelso d’ogni altro tempio costruito dalle mani, l’abitazione cioè di Dio nello Spirito (cfr. Eph. II, 21-22; I Petr. II, 5).

La Nostra sollecitudine pastorale poi è il principale motivo che Ci fa trattare con una certa ampiezza di questa eccelsa dottrina. Molti punti sono stati messi in luce su questo argomento, né ignoriamo che parecchi si applicano oggi con grande attività al suo studio, donde viene anche fomentata ed alimentata la pietà cristiana. Il che sembra attribuirsi specialmente al fatto che il rinato studio della sacra liturgia, l’uso invalso di accostarsi con maggior frequenza alla Mensa eucaristica e il culto del Cuore sacratissimo di Gesù, che godiamo di veder più diffuso, hanno indotto gli animi di molti ad una più accurata indagine delle investigabili ricchezze di Cristo che si trovano nella Chiesa. A collocare poi questo argomento nella sua luce, molto influirono gli insegnamenti che in questi ultimi tempi furono pubblicati intorno all’Azione Cattolica, i quali resero più stretti i vincoli dei cristiani tra loro e con la Gerarchia ecclesiastica, particolarmente con il Romano Pontefice. Tuttavia, se a buon diritto possiamo godere di quanto abbiamo accennato, pure non si deve negare che circa questa dottrina non solo si spargono gravi errori da coloro che sono separati dalla vera Chiesa, ma si diffondono anche tra i fedeli teorie inesatte o addirittura false, che deviano le menti dal retto sentiero della verità.

Infatti, da una parte perdura il falso razionalismo il quale ritiene completamente assurdo ciò che trascende le forze dell’ingegno umano, e gli associa un altro errore affine (il cosiddetto naturalismo volgare), il quale non vede né vuol riconoscere altro nella Chiesa di Cristo all’infuori dei vincoli puramente giuridici e sociali; dall’altra parte si va introducendo un falso misticismo il quale falsifica la Sacra Scrittura, sforzandosi di rimuovere gli invariabili confini fra le cose create e il Creatore.

Intanto questi falsi ritrovati, opposti tra loro, conducono a questo effetto: alcuni, atterriti da un certo infondato timore, considerano una così elevata dottrina come cosa pericolosa e perciò indietreggiano davanti ad essa, come dal pomo del Paradiso, bello sì, ma proibito. Niente affatto: i misteri rivelati da Dio non possono essere nocivi agli uomini, ne devono restare infruttuosi come un tesoro nascosto nel campo; ma sono stati rivelati appunto pur il vantaggio spirituale di chi piamente li medita. Infatti, come insegna il Concilio vaticano, "quando la ragione, illuminata dalla fede, indaga con pia e sobria diligenza, può raggiungere, concedendolo Iddio, sufficiente ed utilissima intelligenza dei misteri: sia per analogia con ciò che conosce naturalmente, sia per il nesso dei misteri stessi tra di loro e con il fine ultimo dell’uomo"; quantunque l’umana ragione, come lo stesso sacro Sinodo ammonisce, "non si rende mai atta a penetrarli con la stessa chiarezza di quelle verità che costituiscono il suo naturale oggetto" (Sessio III, Const. de Fide Catholica, c. 4).

Dopo aver pertanto maturarnente considerato queste cose al cospetto di Dio: affinché la bellezza della Chiesa rifulga di nuova gloria, affinché la conoscenza della singolare e soprannaturale nobiltà dei fedeli congiunti nel Corpo di Cristo col proprio Capo, si diffonda, e inoltre affinché sia precluso l’adito ai molteplici errori su questo argomento, abbiamo creduto Nostro dovere pastorale esporre a tutto il popolo cristiano, con questa Lettera Enciclica, la dottrina del Corpo mistico di Cristo e della unione dei fedeli con il divino Redentore nello stesso Corpo, ricavando al tempo stesso dalla medesima dottrina alcuni ammaestramenti, per cui una più alta investigazione di questo mistero produca frutti sempre più abbondanti di perfezione.

I. Nel considerare l’origine di questa dottrina Ci sovvengono sin dall’inizio le parole dell’Apostolo: "Dove abbondò il peccato, sovrabbondo la grazia" (Rom. V, 20). Risulta infatti che il padre di tutto il genere umano fu costituito da Dio in sì eccelsa condizione da tramandare ai posteri, insieme con la vita terrena, anche quella superna della grazia celeste. Sennonché, dopo la misera caduta di Adamo, tutta la stirpe umana, infetta dalla macchia ereditaria del peccato, perdette la partecipazione alla natura di Dio (cfr. II Petr. 1, 4), e tutti diventammo figli dell’ira divina (Eph. II, 5). Ma il misericordiosissimo Iddio "amò talmente il mondo, da dare il Suo unigenito Figlio" (Joan. III, 16), e il Verbo dell’eterno Padre con identico divino amore si assunse dalla progenie di Adamo l’umana natura, innocente però e senza macchia di colpa, affinché dal nuovo Adamo celeste scorresse la grazia dello Spirito Santo in tutti i figli del progenitore. I quali, dopo essere stati privati della figliolanza adottiva di Dio a causa del primo peccato, diventati per l’incarnazione del Verbo fratelli secondo la carne del Figlio unigenito di Dio, hanno ricevuto anch’essi il potere di essere figli di Dio (cfr. Joan. 7, 12). E così Gesù pendente dalla Croce non solo risarcì la violata giustizia dell’eterno Padre, ma meritò per noi suoi consanguinei un’ineffabile abbondanza di grazie. Egli avrebbe potuto elargirla da sé a tutto il genere umano; ma volle farlo per mezzo di una Chiesa visibile, nella quale gli uomini si riunissero allo scopo di cooperare tutti con Lui e per mezzo di essa a comunicare vicendevolmente i divini frutti della Redenzione. Come infatti il Verbo di Dio, per redimere gli uomini con i suoi dolori e tormenti, volle servirsi della nostra natura, quasi allo stesso modo, nel decorso dei secoli, si serve della Sua Chiesa per continuare perennemente l’opera incominciata (cfr. Conc. Vat., Const. de Eccl., prol.).

Pertanto, a definire e descrivere questa verace Chiesa di Cristo (che e la Chiesa Santa, Cattolica, Apostolica Romana) (cfr. ibidem, Const. de Fide cath., cap. l), nulla si trova di più nobile, di più grande, di più divino che quella espressione con la quale essa vien chiamata "il Corpo mistico di Gesù Cristo"; espressione che scaturisce e quasi germoglia da ciò che viene frequentemente esposto nella Sacra Scrittura e nei Santi Padri.

Che la Chiesa sia un corpo, lo bandiscono spesso i Sacri Testi. "Cristo — dice l’Apostolo — è il Capo del Corpo della Chiesa" (Col. I, 18) orbene, se la Chiesa è un corpo, è necessario che esso sia uno ed indiviso, conforme al detto di Paolo: "Molti siamo un solo corpo in Cristo" (Rom. XII, 5). Né dev’essere soltanto uno e indiviso, ma anche concreto e percepibile, come afferma il Nostro Antecessore Leone XIII di f. m. nella sua Lettera Enciclica "Satis cognitum": "Per il fatto stesso che è corpo, la Chiesa si discerne con gli occhi" (cfr. A. S. S., XXVIII, pag. 170). Perciò si allontanano dalla verità divina coloro che si immaginano la Chiesa come se non potesse né raggiungersi ne vedersi, quasi che fosse una cosa "pneumatica" (come dicono) per la quale molte comunità di Cristiani, sebbene vicendevolmente separate per fede, tuttavia sarebbero congiunte tra loro da un vincolo invisibile.

Ma il corpo richiede anche moltitudine di membri, i quali siano talmente tra loro connessi da aiutarsi a vicenda. E come nel nostro mortale organismo, quando un membro soffre, gli altri si risentono del suo dolore e vengono in suo aiuto, così nella Chiesa i singoli membri non vivono ciascuno per sé, ma porgono anche aiuto agli altri, offrendosi scambievolmente collaborazione, sia per mutuo conforto sia per un sempre maggiore sviluppo di tutto il Corpo.

Inoltre, come nella natura delle cose il corpo non è costituito da una qualsiasi congerie di membra, ma deve essere fornito di organi, ossia di membra che non abbiano tutte il medesimo compito, ma siano debitamente coordinate; così la Chiesa, per questo specialmente deve chiamarsi corpo, perché risulta da una retta disposizione e coerente unione di membra fra loro diverse. Né altrimenti l’Apostolo descrive la Chiesa, quando dice: "Come in un sol corpo abbiamo molte membra, e non tutte le membra hanno la stessa azione, così siamo molti un sol corpo in Cristo, e membra gli uni degli altri" (Rom. XII, 4).Non bisogna però credere che questa organica struttura della Chiesa sia costituita dai soli gradi della Gerarchia e, ad essi limitata, consti unicamente di persone carismatiche (benché cristiani forniti di doni prodigiosi non mancheranno mai alla Chiesa). Bisogna, sì, ritenere in ogni modo che quanti usufruiscono della Sacra Potestà, sono in un tal Corpo membri primari e principali, poiché per loro mezzo, in virtù del mandato stesso del Redentore i doni di dottore, di re, di sacerdote, diventano perenni. Ma giustamente i Padri della Chiesa, quando lodano i ministeri, i gradi, le professioni, gli stati, gli ordini, gli uffici di questo Corpo, hanno presenti sia coloro che furono iniziati ai sacri Ordini, sia coloro che, abbracciati i consigli evangelici, conducono o una vita operosa tra gli uomini o una vita nascosta nel silenzio o una vita che l’una e l’altra congiunge secondo il proprio istituto; sia coloro che nel secolo si dedicano con volontà fattiva alle opere di misericordia per venire in aiuto alle anime e ai corpi; e infine coloro che son congiunti in casto matrimonio. Anzi, specialmente nelle attuali condizioni, i padri e le madri di famiglia, i padrini e le madrine di Battesimo, e in particolare quei laici che collaborano con la Gerarchia ecclesiastica nel dilatare il regno del divin Redentore, tengono nella società cristiana un posto d’onore, per quanto spesso nascosto, e anch’essi, ispirati ed aiutati da Dio, possono ascendere al vertice della più alta santità, la quale, secondo le promesse di Gesù Cristo, non mancherà mai nella Chiesa.

Come poi vediamo il corpo umano adorno di mezzi propri con cui provvedere alla vita, alla sanità e all’incremento dei suoi singoli membri, così il Salvatore del genere umano, per sua infinita bontà, provvide in modo mirabile il suo Corpo mistico di Sacramenti, con i quali le membra, quasi attraverso gradi non interrotti di grazie, fossero sostentate dalla culla all’estremo anelito e si sovvenisse con ogni abbondanza alle necessità sociali di tutto il Corpo. Giacché, per il lavacro dell’acqua battesimale, coloro che sono nati a questa vita mortale non solo rinascono dalla morte del peccato e divengono membra della Chiesa, ma sono altresì insigniti di un carattere spirituale, e sono resi capaci di ricevere gli altri Sacramenti. Con il crisma della Confermazione, viene infusa nei credenti una nuova forza, per difendere la Madre Chiesa e custodire quella Fede che da lei ricevettero. Con il Sacramento della penitenza, si offre una salutare medicina ai membri della Chiesa caduti in peccato, non soltanto per provvedere alla loro salute, ma anche por rimuovere il pericolo di contagio degli altri membri del corpo mistico, ai quali si offrirà anzi un esempio incitante a virtù. Non basta: poiché con la Sacra Eucaristia i fedeli vengono nutriti e corroborati ad uno stesso convito e vengono uniti da un vincolo ineffabile divino fra di loro e col Capo di tutto il Corpo. Infine, agli uomini che si trovano nel languore della morte, la pia Madre Chiesa viene daccanto, e con la sacra Unzione degli infermi, se non sempre, perché così il Signore dispone, ridona al corpo la sanità, offre tuttavia una suprema medicina all’animo ferito, trasmettendo al cielo nuovi cittadini e procurando alla terra nuovi protettori, che per tutti i secoli godranno della divina bontà.

Alle necessità sociali della Chiesa, Cristo provvide in modo particolare con l’istituzione di altri due Sacramenti. Con il Matrimonio infatti, in cui i coniugi sono a vicenda ministri della grazia, si provvede ordinatamente all’accrescimento esterno del consorzio cristiano; e ciò che più importa, alla retta e religiosa educazione della prole, senza la quale un tal Corpo mistico andrebbe incontro a gravissimi pericoli. Con il sacro Ordine poi si consacrano per sempre al servizio di Dio coloro che son destinati a offrire l’Ostia eucaristica, a nutrire il gregge dei fedeli col Pane degli angeli e col pascolo della dottrina, a dirigerli con i precetti e i consigli divini, e a confermarlo nella fede con altri uffici superni.

A questo proposito, si deve aver presente che siccome Dio fin dall’inizio dei tempi formò l’uomo con un corpo fornito dei mezzi necessari a sottomettere le cose create, affinché moltiplicandosi, riempisse la terra, così fin dall’inizio dell’età cristiana provvide la Chiesa dei mezzi opportuni affinché superati innumerevoli pericoli riempisse non solo tutto l’orbe terrestre, ma anche i regni celesti.

In realtà, tra i membri della Chiesa bisogna annoverare esclusivamente quelli che ricevettero il lavacro della rigenerazione, e professando la vera Fede, né da se stessi disgraziatamente si separarono dalla compagine di questo Corpo, né per gravissime colpe commesse ne furono separati dalla legittima autorità. "Poiché — dice l’Apostolo — in un solo spirito tutti noi siamo stati battezzati per essere un solo corpo, o giudei o gentili, o servi, o liberi" (I Cor. XII, 13). Come dunque nel vero ceto dei fedeli si ha un sol Corpo, un solo Spirito, un solo Signore e un solo Battesimo, così non si può avere che una sola Fede (cfr. Eph. IV, 5), sicché chi abbia ricusato di ascoltare la Chiesa, deve, secondo l’ordine di Dio, ritenersi come etnico e pubblicano (cfr. Matth. XVIII, 17). Perciò quelli che son tra loro divisi per ragioni di fede o di governo, non possono vivere nell’unita di tale Corpo e per conseguenza neppure nel suo divino Spirito.

Neppure deve ritenersi che il Corpo della Chiesa, appunto perché e fregiato del nome di Cristo, anche nel tempo del terreno pellegrinaggio sia composto soltanto di membri che si distinguono nella santità, o di coloro che son predestinati da Dio alla felicità eterna. Infatti si deve attribuire all’infinita misericordia del nostro Salvatore che non neghi ora un posto nel suo mistico Corpo a coloro cui una volta non negò un posto nel convito (cfr. Matth. IX, 11; Marc. 11, 16; Luc. XV, 2). Poiché non ogni delitto commesso, per quanto grave (come lo scisma, l’eresia, l’apostasia) è tale che di sua natura separi l’uomo dal Corpo della Chiesa. Né si estingue ogni vita in coloro che, pur avendo perduto con il peccato la carità e la grazia divina sì da non essere più capaci del premio soprannaturale, conservano tuttavia la Fede e la speranza cristiana, e, illuminati da luce celeste, da interni consigli e impulsi dello Spirito Santo, sono spinti a concepire un salutare timore e vengono eccitati a pregare e a pentirsi dei propri peccati.

Aborriscano quindi tutti il peccato, con il qua le vengono macchiate le mistiche membra del Redentore; ma chi dopo aver miseramente mancato, non si rende con la propria ostinatezza indegno della comunione dei fedeli, sia ricevuto con sommo amore, e in lui si ravvisi con carità fattiva un membro infermo di Gesù Cristo. È infatti preferibile, come avverte il Vescovo d’Ippona, "essere risanati nella compagine della Chiesa, anziché esser tagliati dal suo corpo a guisa di membra inguaribili" (August. Epist., CLVII, 3, 22; Migne, P. L., XXIII, 686). "Finché una parte aderisce al corpo, la sua guarigione non è disperata; ciò che invece fu reciso, non può né curarsi né guarirsi" (August. Serm., CXXXVII, 1; Migne, P. L., XXXVIII, 754).

Fin qui, Venerabili Fratelli, abbiamo visto con particolareggiata trattazione come la Chiesa è talmente costituita da potersi paragonare ad un corpo; rimane ora da esporre chiaramente ed accuratamente per quali motivi essa deve essere dichiarata non un corpo qualsiasi, ma il Corpo di Gesù Cristo. Questo si deduce dall’essere Nostro Signore il Fondatore, il Capo, il Sostentatore e il Conservatore di questo mistico Corpo. Cominciando a esporre brevemente in che modo Cristo fondò il suo Corpo sociale, Ci sovviene questa sentenza del Nostro Predecessore Leone XIII di f. m.: "La Chiesa, che già concepita, era nata dallo stesso costato del secondo Adamo dormente in Croce, si presentò per la prima volta agli uomini in maniera luminosa quel giorno solennissimo della Pentecoste" (Enc. "Divinum illud").

Infatti il divin Redentore iniziò la costruzione del mistico tempio della Chiesa, quando predicando espose i suoi precetti; lo ultimò, quando crocefisso, fu glorificato; lo manifestò e promulgò, quando mandò in modo visibile lo Spirito paraclito sui discepoli.

Mentre infatti sosteneva l’ufficio di predicatore, eleggeva gli Apostoli e li mandava come Egli stesso era stato mandato dal Padre (Joan. XVII, 18), cioè come dottori, rettori, creatori della santità nel ceto dei credenti, indicava il loro Principe e suo Vicario in terra (cfr. Matth. XVI, 18-19); manifestava loro tutte quelle cose che aveva ascoltato dal Padre (Joan. XV, 15, coll. XVII, 8 et 14); designava anche il Battesimo (cfr. Joan. III, 5), con il quale coloro che avrebbero creduto sarebbero stati inseriti nel Corpo della Chiesa; e finalmente, giunto al termine della vita, istituiva durante l’ultima cena il mirabile sacrificio e mirabile sacramento dell’Eucaristia.

Che poi egli avesse completato la Sua opera sul patibolo della Croce, lo attesta una serie ininterrotta di testimonianze dei Santi Padri, i quali osservano che la Chiesa nacque sulla Croce dal fianco del Salvatore a guisa di una nuova Eva, madre di tutti i viventi (cfr. Gen. III, 20). Dice il grande Ambrogio trattando del costato trafitto di Cristo: "Ed ora è edificato, ed ora è formato, ed ora... è figurato, ed ora è creato... Ora la casa spirituale si erge in sacerdozio santo" (Ambros. In Luc., 11, 87; Migne, P. L., XV, 1585). Chi religiosamente approfondirà questa veneranda dottrina, senza difficoltà potrà vedere le ragioni sulle quali essa si fonda.

Anzitutto, con la morte del Redentore, successe il Nuovo Testamento alla Vecchia Legge; allora la Legge di Cristo, insieme con i suoi misteri, leggi, istituzioni e sacri riti, fu sancita per tutto il mondo nel sangue di Gesù Cristo. Infatti, mentre il divin Salvatore predicava in un piccolo territorio, non essendo stato inviato se non alle pecorelle della casa d’Israele ch’erano perite (cfr. Matth. XV, 24), avevano contemporaneamente valore la Legge e il Vangelo (cfr. S. Thom., I-II, q. 103, a. 3 ad 2); sul patibolo della Sua morte poi Gesù pose fine alla Legge (cfr. Eph. II, 15) e con i suoi decreti, affisse alla Croce il chirografo del Vecchio Testamento (cfr. Col. II, 14), costituendo nel sangue, sparso per tutto il genere umano, il Nuovo Testamento (cfr. Matth. XXVI, 28; I Cor. XI, 25). "Allora — dice San Leone Magno, parlando della Croce del Signore — avvenne un passaggio così evidente dalla Legge al Vangelo, dalla Sinagoga alla Chiesa, dalla molteplicità dei sacrifizi ad una sola ostia, che, quando il Signore rese lo spirito, quel mistico velo che con la sua interposizione nascondeva i penetrali del tempio e il santo segreto, si scisse con improvvisa violenza da capo a fondo" (Leo M., Serm., LXVIII, 3; Migne, P. L., LIV, 374). Nella Croce dunque la Vecchia Legge morì, in modo da dover tra breve esser seppellita e divenir mortifera (cfr. Hier. et August. Epist., CXII, 14 et CXVI, 16; Migne, P. L.,XXII, 924 et 943; S. Thom. I-II, p. 103, a. 3 ad 2; ad. 4 ad 1; Concil. Flor., pro Jacob.: Mansi, XXX.7, 1738), per cedere il posto al Nuovo Testamento, di cui Cristo aveva eletto gli Apostoli come idonei ministri (cfr. II Cor. III, 6): e il nostro Salvatore, pur essendo stato già costituito Capo universale dell’umana famiglia fin dal seno della Vergine, esercita pienissimamente nella sua Chiesa l’ufficio di Capo appunto per la virtù della Croce. "Infatti — secondo la sentenza dell’angelico e comune Dottore — Egli meritò la potestà e il dominio sopra le genti per la vittoria della Croce" (cfr. S. Thom. III, q. 42, a. 1); per la medesima, aumentò immensamente per noi quel tesoro di grazia che ora, regnando nel cielo, elargisce senza alcuna interruzione alle Sue membra mortali; per il Sangue sparso sulla Croce fece sì che, rimosso l’ostacolo dell’ira divina, potessero scorrere dalle fonti del Salvatore per la salvezza degli uomini, e specialmente per i fedeli, tutti i doni celesti, soprattutto quelli spirituali, del Nuovo ed eterno Testamento; sull’albero della Croce finalmente si conquistò la Chiesa, cioè tutte le membra del suo mistico Corpo, poiché non si sarebbero unite a questo mistico Corpo col lavacro del Battesimo, se non per la virtù salutifera della Croce, nella quale già sarebbero appartenute alla pienissima giurisdizione di Cristo.

Se con la Sua morte il nostro Salvatore, secondo il pieno ed integrale significato della parola, è diventato Capo della Chiesa, non altrimenti la Chiesa, per il Suo Sangue, si è arricchita di quella abbondantissima comunicazione dello Spirito, con la quale, in seguito all’elevazione e glorificazione del Figlio dell’uomo sul Suo patibolo del dolore, viene essa stessa divinamente illustrata. Allora infatti, come avverte Agostino (cfr. De pecc. orig., XXV, 29; Migne, P. L., XLIV, 400), squarciatosi il velo del tempio, avvenne che la rugiada dei carismi del Paraclito (discesa fino allora soltanto sul vello di Gedeone, cioè sul popolo d’Israele), essicato ed abbandonato il vello, irrigasse tutta la terra, cioè la Chiesa Cattolica, la quale non sarebbe circoscritta da nessun termine di stirpe o di territorio. Come dunque, nel primo momento della incarnazione. il Figlio dell’Eterno Padre ornò con la pienezza dello Spirito Santo la natura umana che s’era sostanzialmente unita affinché fosse un adatto strumento della divinità nell’opera cruenta della Redenzione, così nell’ora della Sua morte preziosa volle la Sua Chiesa arricchita dei più abbondanti doni del Paraclito, affinché, nella distribuzione dei divini frutti della Redenzione, divenisse valido e perenne strumento del Verbo incarnato. Infatti, sia la missione giuridica della Chiesa, sia la potestà d’insegnare, di governare e di amministrare i Sacramenti, in tanto hanno forza e vigore soprannaturale per edificare il Corpo di Cristo, in quanto Gesù Cristo pendente dalla Croce aprì alla Sua Chiesa la fonte di quei doni divini, grazie ai quali essa non avrebbe mai potuto errare nell’insegnare agli uomini la sua dottrina, li avrebbe guidati salutarmente per mezzo di Pastori illuminati da Dio e li avrebbe colmati in abbondanza di grazie celesti.

Se poi consideriamo attentamente tutti questi misteri della Croce, non ci sono più oscure le parole con le quali l’Apostolo insegna agli Efesini che Cristo con il Suo Sangue fuse insieme i giudei e i gentili "annullando... nella Sua carne... la parete intermedia" con la quale i due popoli eran divisi; e che abolì l’Antica Legge "per formare in se stesso di due un solo uomo nuovo", cioè la Chiesa, ed entrambi li riconciliasse a Dio in un Corpo per mezzo della Croce (cfr. Eph. II,14-16).

E quella Chiesa che fondò col suo sangue, la fortificò nel giorno della Pentecoste con una peculiare virtù scesa dall’alto. Era asceso al cielo, dopo aver solennemente costituito nel suo ufficio colui che già aveva designato quale Suo Vicario: e sedendo alla destra del Padre, volle manifestare e promulgare la Sua Sposa, nella discesa visibile dello Spirito Santo, con il rumore di un vento veemente e con lingue di fuoco (cfr. Act. II,1-4). Infatti, come Egli stesso, nell’iniziare la Sua missione apostolica, fu manifestato dal Padre Suo per mezzo dello Spirito Santo che discese e rimase su di Lui in forma di colomba (cfr. Luc. 111, 22; Marc. 1, l0) così ugualmente quando gli Apostoli stanno per iniziare il sacro ministero della predicazione, Cristo Signore mandò dal cielo il Suo Spirito, il quale, toccandoli con lingue di fuoco, indicasse loro come un dito divino, la missione e il compito soprannaturale della Chiesa. In secondo luogo, che il Corpo mistico della Chiesa si fregi del nome di Cristo, lo si rivendica dal fatto che in realtà egli da tutti debba essere per speciali ragioni ritenuto Capo della medesima. "Egli stesso — dice l’Apostolo — è il Capo del Corpo della Chiesa" (Col. I, 18). Egli è il Capo dal quale tutto il Corpo, convenientemente organizzato, cresce ed aumenta nella propria edificazione (cfr. Eph. IV, 16 coll.; Col. II, 19). Sapete certamente, Venerabili Fratelli, con quali belli e luminosi pensieri abbiano trattato questo argomento i Maestri della teologia scolastica, e specialmente l’angelico e comune Dottore; vi è senza dubbio noto che gli argomenti da lui apportati corrispondono fedelmente al principi dei Santi, i quali d’altronde non riportavano altro nei loro commenti e dissertazioni, se non il divino linguaggio della Scrittura.

Ci piace quindi trattarne brevemente per comune profitto. E dapprima, è evidente che il Figlio di Dio e della Beata Vergine deve chiamarsi Capo della Chiesa per uno specialissimo motivo di preminenza. Chi infatti è posto in luogo più alto di Cristo Dio, il quale, essendo Verbo dell’Eterno Padre, deve ritenersi "primogenito di ogni creatura"? (Col. 1, 15). Chi mai e situato in un vertice più alto di Cristo Dio, il quale, nato da una Vergine senza macchia, è vero e naturale Figlio di Dio e, per la prodigiosa e gloriosa resurrezione, è il "primogenito dei morti" (Col. I, 18; Apoc. I, 5), avendo trionfato della morte? Chi mai infine e stato collocato in sommità più eccelsa di colui che, come "unico mediatore di Dio e degli uomini", (I Tim. II, 5), congiunge in modo davvero ammirevole la terra col cielo; che, esaltato sulla Croce come su di un soglio di misericordia, attirò a Sé tutte le cose (cfr. Joan. XII, 32); e che, eletto a figlio dell’uomo tra miriadi, e amato da Dio più di tutti gli uomini, di tutti gli angeli, di tutte le cose create? (cfr. Cyr. Alex. Comm. in Joh.: Migne, P. G., LXXIII, 69; S. Thom. I, q 20, a. 4 ad 1). Poiché Cristo occupa un posto tanto sublime, a buon diritto Egli solo regge e governa la Chiesa; e perciò anche per questo motivo deve essere assomigliato al capo. E infatti, come il capo (per servirCi delle parole di Ambrogio) è il "regale baluardo" del corpo (Hexæm., VI, 55; Migne, P. L., XIV, 265), e da esso, perché fornito delle doti migliori, vengono naturalmente dirette tutte le membra, alle quali è sovrapposto appunto affinché abbia cura di loro (cfr. August. De Agon. Christ., XX, 22, Migne P. L., XL, 301); così il divin Redentore tiene il supremo governo del Cristianesimo. E poiché il reggere una società di uomini non vuol dire altro che dirigerli al loro fine con provvidenza, con mezzi adeguati e con retti principi (cfr. S. Thom., I, q. 22, a. 14), è facile discernere come il nostro Salvatore, che si presenta come forma ed esemplare dei buoni Pastori (cfr. Joan. X, 1-13; I Petr. V, 1-5), eserciti in maniera davvero mirabile tutte queste funzioni.

Egli, infatti, mentre dimorava sulla terra, con leggi, consigli, ammonimenti, c’insegnò quella dottrina che mai non tramonterà e che sarà per gli uomini d’ogni tempo spirito e vita (cfr. Joan. VI, 63). Inoltre partecipò agli Apostoli e ai loro successori una triplice potestà: di insegnare, di governare e di condurre gli uomini alla santità, costituendo tale potestà, ben definita da precetti, diritti e doveri, come legge primaria della Chiesa universale.

Ma il nostro divin Salvatore dirige e governa anche direttamente da Sé la società da Lui fondata. Egli infatti regna nelle menti degli uomini, e al suo volere piega e costringe anche le volontà ribelli. "Il cuore del re è in mano a Dio, ed Egli lo piega a tutto ciò che vuole" (Prov. XXI, 1). E con questo governo interno Egli "pastore e vescovo delle anime nostre" (cfr. I Petr. 11, 25), non soltanto ha cura dei singoli, ma provvede anche alla Chiesa universale, sia quando illumina e corrobora i suoi governanti a sostenere fedelmente e fruttuosamente le mansioni proprie di ciascuno; sia quando (specialmente nelle circostanze più difficili) suscita dal grembo della Madre Chiesa uomini e donne che, spiccando col fulgore della santità, siano di esempio agli altri cristiani e di incremento al suo Corpo mistico. Inoltre, dal cielo Cristo guarda con amore peculiare alla sua Sposa intemerata, che s’affatica in questa terra d’esilio; e quando la vede in pericolo, la salva dai flutti della tempesta o per sé direttamente, o per mezzo dei suoi angeli (cfr. Act. VIII, 26; IX, 1-19; X, 1-7; XII, 3-10), o per opera di Colei che invochiamo Aiuto dei Cristiani ed anche degli altri celesti protettori; e, una volta sedatosi il mare, la colma di quella pace "che supera ogni senso" (Phil. IV, 7). Non bisogna tuttavia credere che il Suo governo venga assolto soltanto in maniera invisibile (cfr. Leone XIII, Lettera Enciclica "Satis cognitum") e straordinaria; mentre al contrario il divin Redentore governa il suo Corpo mistico anche in modo visibile e ordinario mediante il suo Vicario in terra. Sapete infatti, Venerabili Fratelli, come Cristo Dio, dopo aver governato in persona il "piccolo gregge"(Luc. XII, 32) durante il suo viaggio mortale, dovendo poi lasciare presto il mondo e ritornare al Padre, affidò al Principe degli Apostoli il governo visibile di tutta la società da Lui fondata . Da sapientissimo quale Egli era, non poteva mai lasciare senza un capo visibile il Corpo sociale della Chiesa che aveva fondata. Né ad intaccare una tale verità si può asserire che, per un primato di giurisdizione costituito nella Chiesa, un tale Corpo mistico sia stato provveduto di un duplice capo. Pietro infatti, in forza del primato, non è altro che un Vicario di Cristo: e in tal guisa si ha di questo Corpo un solo capo principale, cioè Cristo, il quale, pur continuando a governare arcanamente la Chiesa direttamente da Sé, visibilmente però, la dirige attraverso colui che rappresenta la Sua persona, poiché, dopo la Sua gloriosa ascensione in cielo, non la lasciò edificata soltanto in Sé, ma anche in Pietro, quale fondamento visibile. Che Cristo e il Suo Vicario costituiscano un solo Capo, lo spiegò solennemente il Nostro Predecessore Bonifazio VIII d’immortale memoria con la sua Lettera Apostolica "Unam Sanctam" (cfr. Corp. Jur. Can., Extr. comm. I, 8, 1), e la medesima dottrina non cessarono mai di ribadire i suoi Successori.

Si trovano quindi in un pericoloso errore quelli che ritengono di poter aderire a Cristo, Capo della Chiesa, pur non aderendo fedelmente al suo Vicario in terra. Sottratto infatti questo visibile Capo e spezzati i visibili vincoli dell’unità, essi oscurano e deformano talmente il Corpo mistico del Redentore, da non potersi più ne vedere né rinvenire il porto della salute eterna.

Ciò che qui abbiamo detto della Chiesa universale deve asserirsi anche delle comunità particolari dei cristiani, sia orientali, sia latine, le quali costituiscono una sola Chiesa cattolica. Poiché anch’esse sono governate da Gesù Cristo con la voce e l’autorità del Vescovo di ciascuna. Perciò i Vescovi non soltanto devono esser tenuti quali membra più eminenti della Chiesa universale, perché sono uniti al divin Capo di tutto il Corpo con un vincolo veramente singolare (onde con diritto son chiamati "le principali parti delle Membra del Signore" (Greg. Magn., Moral., XIV, 35, 43; Migne P. L., LXXV, 1062), ma anche in quanto riguarda la propria Diocesi, son veri pastori che guidano e reggono in nome di Cristo il gregge assegnato a ciascuno (cfr. Conc. Vat., Const. de Eccl., cap. 3). Ma mentre fanno ciò, non son del tutto indipendenti, perché sono sottoposti alla debita autorità del Romano Pontefice, pur fruendo dell’ordinaria potestà di giurisdizione comunicata loro direttamente dallo stesso Sommo Pontefice. Perciò essi, come successori degli Apostoli per divina istituzione (cfr. Cod. Jur. Can., can. 329,1), devono essere venerati dal popolo; e ai Vescovi, ornati del carisma dello Spirito Santo, più che ai governanti anche più elevati di questo mondo, si addice il detto: "Non toccate i miei unti" (I Paral. XVI, 22; Psal. CIV, 1.5). Sicché Ci addolora sommamente, quando Ci viene riferito che non pochi Nostri Fratelli nell’Episcopato, sol perché son veri modelli del gregge e custodiscono (cfr. I Petr. V, 3), con strenua fedeltà il sacro "deposito della fede" (cfr. I Tim. VI, 20) loro affidato, sol perché sostengono con zelo le santissime leggi scolpite da Dio negli animi umani e conforme all’esempio del supremo Pastore difendono dai lupi rapaci il gregge loro affidato, subiscono persecuzioni e vessazioni scagliate non soltanto contro di loro, ma (quel che è per essi più crudele e più grave) anche contro le pecorelle affidate alle loro cure, contro i loro compagni di apostolato e financo contro le vergini consacrate a Dio. Pertanto, reputando diretto contro di Noi stessi un tale affronto, ripetiamo la grande sentenza del Nostro Predecessore Gregorio Magno d’immortale memoria: "Il Nostro onore e l’onore della Chiesa universale; il Nostro onore e il solido vigore dei Nostri Fratelli; e allora Noi ci sentiamo veramente onorati, quando il debito onore non viene negato a ciascuno d’essi" (cfr. Ep. ad Eulog., 30; Migne, P. L., LXXVI, 993).

Né tuttavia bisogna credere che Cristo Capo, essendo posto in luogo così sublime, non voglia l’aiuto del Corpo. Si deve infatti asserire di questo Corpo mistico ciò che Paolo afferma del composto umano: "Il capo non può dire... ai piedi: voi non mi siete necessari" (I Cor. XII, 21). Appare chiaramente che i cristiani hanno assolutamente bisogno dell’aiuto del divin Redentore, poiché Egli stessero ha detto: "Senza di me non potete far nulla" (Joan. XV, 5), e, secondo la dottrina dell’Apostolo, ogni incremento di questo Corpo mistico per la propria edificazione, dipende dal Capo Cristo (cfr. Eph. IV, 16; Col. II, 19). Tuttavia bisogna anche ritenere, benché a prima vista possa destar meraviglia, che anche Cristo ha bisogno delle Sue membra. Anzitutto perché la persona di Gesù Cristo è rappresentata dal Sommo Pontefice, il quale per non essere aggravato dal peso dell’ufficio pastorale, deve rendere anche altri in molte cose partecipi della sua sollecitudine, e deve essere ogni giorno alleggerito dall’aiuto di tutta la Chiesa supplicante. Inoltre il nostro Salvatore, governando da Se stesso la Chiesa in modo invisibile, vuol essere aiutato dalle membra del Suo Corpo mistico nell’esecuzione dell’opera della Redenzione. Ciò veramente non accade per Sua indigenza e debolezza, ma piuttosto perché Egli stesso così dispose per maggiore onore dell’intemerata sua Sposa. Mentre infatti moriva sulla Croce, donò alla Sua Chiesa, senza nessuna cooperazione di essa, l’immenso tesoro della Redenzione; quando invece si tratta di distribuire tale tesoro, Egli non solo comunica con la Sua Sposa incontaminata l’opera dell’altrui santificazione, ma vuole che tale santificazione scaturisca in qualche modo anche dall’azione di lei. Mistero certamente tremendo, né mai sufficientemente meditato: che cioè la salvezza di molti dipenda dalle preghiere e dalle volontarie mortificazioni, a questo scopo intraprese dalle membra del mistico Corpo di Gesù Cristo, e dalla cooperazione dei Pastori e dei fedeli, specialmente dei padri e delle madri di famiglia, in collaborazione col divin Salvatore.Ai motivi esposti, dai quali risulta che Gesù Cristo deve essere chiamato Capo del suo Corpo sociale, bisogna aggiungerne altri tre, i quali si connettono tra loro con intimi vincoli.

Incominciamo dalla conformità che osserviamo tra il Corpo e il Capo, essendo essi della medesima natura. A questo proposito bisogna avvertire che la nostra natura, benché inferiore all’angelica, tuttavia per bontà di Dio vince la natura degli angeli. "Cristo infatti — come osserva l’Aquinate — è Capo degli angeli. Poiché Cristo è al di sopra degli angeli, anche secondo l’umanità... E anche in quanto uomo illumina gli angeli e influisce in essi. Riguardo poi alla conformità della natura, Cristo non è Capo degli angeli, perché non assunse la natura degli angeli, ma (secondo l’Apostolo) assunse il seme di Abramo" (Comm. in ep. ad Eph., cap. I, lect. 8; Hebr. II, 16-17). E non solo assunse la nostra natura, ma Cristo si fece anche nostro consanguineo in un corpo fragile e capace di soffrire e morire. Ma se il Verbo "si esinanì prendendo la forma di servo" (Phil. II, 7), ciò fece anche per rendere partecipi della divina natura (cfr. II Petr. I, 4) i suoi fratelli secondo la carne, sia nell’esilio terreno con la grazia santificante, sia nella patria celeste col possesso della beatitudine eterna Perciò l‘Unigenito dell’eterno Padre volle essere figlio dell’uomo affinché noi divenissimo conformi all’immagine del Figliuolo di Dio (cfr. Rom. VIII, 29) e ci rinnovassimo secondo l’immagine di Colui che Ci ha creati (cfr. Col. III, 10). Sicché tutti coloro che si gloriano del nome di cristiani, non solo considerino il nostro divin Salvatore come il più alto e più perfetto esemplare di tutte le virtù, ma ne riproducano la vita e la dottrina nei propri costumi mediante una diligente fuga dal peccato e un diligentissimo esercizio della virtù, affinché quando apparirà il Signore, divengano simili a Lui nella gloria, vedendolo com’Egli è (cfr. I Joan. III, 2).

Gesù Cristo, come vuole che le singole membra siano simili a Lui, così anche il Corpo della Chiesa. Ciò certamente avviene quando essa, seguendo le vestigia del Suo Fondatore, insegna governa e immola il divin sacrificio. Essa inoltre, quando abbraccia i consigli evangelici, riproduce in sé la povertà, l’ubbidienza, la verginità del Redentore. Essa, per molteplici e varie istituzioni di cui si orna come di gemme, fa vedere in certo modo Cristo che contempla sul monte, che predica ai popoli, che guarisce gli ammalati e i feriti, che richiama sulla buona via i peccatori, che fa del bene a tutti. Nessuna meraviglia dunque se la Chiesa, finché rimane su questa terra, debba subire ad imitazione di Cristo persecuzioni, sofferenze e dolori.

Inoltre Cristo deve ritenersi Capo della Chiesa, perché, eccellendo nella pienezza e nella perfezione dei doni soprannaturali, il Suo Corpo mistico attinge dalla Sua pienezza. Infatti (osservano molti Padri), come il capo del nostro corpo mortale gode di tutti i sensi, mentre le altre parti del nostro composto usufruiscono soltanto del tatto, così le virtù, i doni, i carismi, che sono nella società cristiana, risplendono tutti in modo perfettissimo nel suo Capo Cristo. "In Lui piacque (al Padre) che abitasse ogni pienezza" (Col. I, 19). Lo adornano quei doni soprannaturali che accompagnano l’unione ipostatica, giacché lo Spirito Santo abita in Lui con tale pienezza di grazia da non potersene concepire maggiore. A lui è stato conferito "ogni potere sopra ogni carne" (cfr. Joan. XVII, 2); copiosissimi sono in Lui "tutti i tesori della sapienza e della scienza" (Col. II, 3). E anche la visione beatifica vige in Lui talmente, che sia per ambito sia per chiarezza supera del tutto la conoscenza beatifica di tutti i Santi del cielo. E infine Egli è talmente ripieno di grazia e di verità, che della sua inesausta pienezza noi tutti riceviamo (cfr. Joan. I, 14-16).

Queste parole poi del discepolo prediletto di Gesù Ci muovono a trattare dell’ultima ragione per cui siamo in modo particolare costretti ad asserire che Gesù Cristo è il Capo del suo Corpo mistico. Come i nervi si diffondono dal capo in tutte le membra del nostro corpo, e danno loro facoltà di sentire e di muoversi, così il nostro Salvatore infonde nella Sua Chiesa la Sua forza e virtù, onde avviene che le cose divine siano dai fedeli più chiaramente conosciute e più avidamente desiderate. Da Lui scaturisce nel Corpo della Chiesa tutta la luce con cui i credenti sono illuminati da Dio, e tutta la grazia con cui divengono santi come è santo Egli stesso. Cristo illumina tutta la sua Chiesa, come dimostrano quasi innumerevoli luoghi della Sacra Scrittura e dei Santi Padri. "Nessuno ha veduto mai Dio: il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre, ce l’ha fatto conoscere" (cfr. Joan. I, 18). Venendo da Dio in qualità di Maestro (cfr. Joan. III, 2) per rendere testimonianza alla verità (cfr. Joan. XVIII, 37), illuminò talmente con la Sua luce la primitiva Chiesa degli Apostoli, che il Principe degli Apostoli esclamò: "Signore, da chi andremo? tal hai parole di vita eterna" (cfr. Joan. VI, 68), dal cielo assistette gli Evangelisti in modo che essi scrissero, come membra di Cristo, quasi sotto la dettatura del Capo (cfr. August. De cons. evang., I, 35, 54; Migne, P. L., XXXIV, 1070). Egli tuttora è l’Autore della nostra Fede in questa terra d’esilio, come ne sarà il consumatore nella patria celeste (cfr. Hebr. XII, 2). Egli infonde nei fedeli il lume della Fede; Egli arricchisce divinamente i Pastori e i Dottori, e specialmente il suo Vicario in terra, dei doni soprannaturali della scienza, dell’intelletto e della sapienza affinché custodiscano fedelmente il tesoro della Fede, lo difendano strenuamente, e pienamente lo spieghino e diligentemente lo ravvivino; Egli infine, sebbene non visto, presiede e guida i Concili della Chiesa (cfr. Cyr. Alex., Ep. 55 de Symb; Migne, P. G., LXXVII, 293).

Cristo è causa prima ed efficiente della santità, giacché non vi può essere nessun atto salutare se non promani da Lui come da fonte suprema: "Senza di Me, Egli ha detto, voi non potete far nulla" (cfr. Joan. XV, 5). Se, per i peccati commessi, il nostro animo è mosso dal dolore e dalla penitenza, se con timore e speranza filiale ci rivolgiamo a Dio, è sempre la Sua forza che ci spinge. La grazia e la gloria nascono dalla inesausta pienezza. Il nostro Salvatore arricchisce di continuo tutte le membra del Suo Corpo mistico e specialmente le più eminenti, con i doni del consiglio, della fortezza, del timore e della pietà, affinché tutto il Corpo aumenti sempre di più nella santità e nella integrità della vita. E quando dalla Chiesa vengono amministrati con rito esteriore i Sacramenti, è Lui che produce l’effetto interiore (cfr. S. Thom. III, q. 64, a. 3). È Lui che nutrendo i redenti con la propria Carne e con il proprio Sangue, seda i moti concitati e turbolenti dell’animo. È Lui che aumenta la grazia e prepara alle anime e ai corpi il conseguimento della gloria.

E questi tesori della divina bontà, li partecipa alle membra del Suo Corpo mistico, non solo perché li impetra dall’eterno Padre quale Vittima eucaristica sulla terra e quale Vittima glorificata nel cielo, col pregare per noi e mostrare le Sue piaghe, ma ancora perché Egli stesso sceglie, determina e distribuisce a ciascuno le grazie "secondo la misura del dono di Cristo" (Eph. VI, 7). Ne segue che dal divin Redentore come da fonte principale "tutto il corpo ben composto e connesso per l’utile concatenazione delle articolazioni efficacemente, nella misura di ciascuna delle sue parti, compie il suo sviluppo per la edificazione di se stesso" (Eph. IV, 16; Col. II, 19).

Venerabili Fratelli, quelle cose che abbiamo sopra esposte, spiegando brevemente il modo con cui Gesù Cristo vuole che l’abbondanza dei Suoi doni dalla propria divina pienezza affluisca nella Chiesa affinché essa quanto più è possibile sia a Lui somigliante Ci introducono a spiegare la terza ragione per cui il Corpo sociale della Chiesa si fregia del nome di Cristo: ragione che consiste nel fatto che il nostro Salvatore sostenta Egli stesso divinamente la società da lui fondata.

Come osserva acutamente e sottilmente il Bellarmino (cfr. De Rom. Pont., I, 9; De Concil., II, 19), questo appellativo del Corpo di Cristo non deve spiegarsi semplicemente col fatto che Cristo debba dirsi Capo del Suo Corpo mistico, ma anche col fatto che Egli talmente sostenta la Chiesa e talmente vive in certo modo nella Chiesa, che essa sussiste quasi come una seconda persona di Cristo. Anche il Dottore delle Genti lo afferma, quando, scrivendo ai Corinti, senz’altra aggiunta, denota la Chiesa col nome di "Cristo" (cfr. I Cor. XII, 12), imitando in ciò lo stesso Maestro il quale a lui che perseguitava la Chiesa aveva gridato dall’alto: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?". (cfr. Act. IX, 4; XXII, 7; XXVI, 14). Anzi, se crediamo al Nisseno, spesso la Chiesa vien chiamata dall’Apostolo semplicemente "Cristo" (cfr. Greg. Nyss. De vita Moysis; Migne P. G., XLIV, 385); né vi è ignoto, Venerabili Fratelli, quel detto di Agostino: "Cristo predica Cristo" (cfr. Serm., CCCLIV, 1; Migne, P. L., XXXIX, 1563).

Tuttavia tale nobilissima denominazione non deve essere presa come se appartenesse all’intera Chiesa quell’ineffabile vincolo con cui il Figlio di Dio assunse un’individua umana natura; ma consiste in ciò che il nostro Salvatore comunica talmente con la sua Chiesa i beni Suoi propri, che questa, secondo tutto il suo modo di vivere, quello visibile e quello invisibile, presenta una perfettissima immagine di Cristo. Poiché, per quella missione giuridica con la quale il divin Redentore mandò nel mondo gli Apostoli come Egli stesso era stato mandato dal Padre (cfr. Joan. XVII, 18; XX, 21), è proprio Lui che battezza, insegna, governa, assolve, lega, offre, sacrifica, per mezzo della Chiesa.

Con quell’alta donazione poi, del tutto interna e sublime che abbiamo sopra accennata nel descrivere il modo d’influire del Capo nelle Sue membra, Gesù Cristo fa vivere la Chiesa della sua propria superna vita, permeando con la Sua divina virtù tutto il Corpo di lei, e alimentando e sostentando le singole membra, secondo il posto che occupano nel Corpo, come la vite nutre e fa fruttificare i tralci che le sono uniti (Leone XIII, Lett. Enc. "Sapientiæ Christianæ"; "Satis cognitum").

Se poi consideriamo attentamente questo divino principio di vita e di virtù dato da Cristo, in quanto costituisce la stessa fonte di ogni dono e grazia creata, capiremo facilmente che esso non è altro se non lo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio e che vien chiamato in modo proprio "Spirito di Cristo", ossia "Spirito del Figlio" (Rom. VIII, 9; II Cor. III, 17; Gal. VI, 6). Per opera di questo Spirito di grazia e di verità, il Figlio di Dio dispose la propria anima nel seno incontaminato della Vergine; questo Spirito pone le Sue delizie nell’abitare nell’anima del Redentore come nel suo tempio preferito; questo Spirito ci fu meritato da Cristo sulla Croce, spargendo il proprio sangue; questo, Egli donò alla Chiesa per rimettere i peccati, alitandolo sopra gli Apostoli (cfr. Joan. XX, 22); e mentre soltanto Cristo ricevette questo Spirito senza misura (cfr. Joan. III, 34), alle membra del Corpo mistico vien distribuito dalla pienezza dello stesso Cristo secondo la misura del dono di Cristo (cfr. Eph. I, 8; IV, 7). Dopo che Cristo fu glorificato sulla Croce, il Suo Spirito vien comunicato alla Chiesa con copiosissima effusione, affinché le sue singole membra di giorno in giorno siano sempre più simili al Redentore. È lo Spirito di Cristo che ci ha resi figli adottivi di Dio (cfr. Rom. VIII, 14-17; Gai. IV, 6-7), sicché un giorno "noi tutti, mirando a faccia svelata la gloria del Signore quasi in uno specchio, siam trasformati di gloria in gloria nella stessa Sua immagine" (cfr. II Cor. III, 18).

A questo Spirito di Cristo, come a principio invisibile, bisogna anche attribuire l’unione di tutte le parti del Corpo tra loro e con l’eccelso lor Capo, risiedendo esso tutto nel Capo, tutto nel Corpo, tutto nelle singole membra: a queste Egli è presente con la Sua assistenza in maniere diverse, secondo i loro diversi uffici e il loro maggiore o minor grado di perfezione spirituale. Egli, col suo celeste soffio di vita, è il principio d’ogni azione vitale ed efficacemente salutare nelle diverse parti del mistico Corpo. Egli, sebbene sia personalmente presente in tutte le mistiche membra e in esse divinamente agisca, tuttavia nelle parti inferiori opera per ministero delle membra superiori. Infine, mentre spirando la Sua grazia produce sempre nuovi incrementi, pure non vuole abitare con la grazia santificante in quelle membra che siano completamente separate dal Corpo. E questa presenza di attività dello Spirito di Gesù Cristo fu con vigorosa sintesi espressa dal Nostro Predecessore Leone XIII d’immortale memoria, nella Lettera Enciclica "Divinum illud", dicendo: "Basti affermare che, essendo Cristo il Capo della Chiesa, lo Spirito Santo è l’anima di essa".

Se poi quella forza e virtù vitale con cui tutta la comunità dei Cristiani vien sostentata dal suo Fondatore, la consideriamo non in se stessa, ma negli effetti creati che da lei promanano, essa consiste nei doni celesti che, quale causa efficiente della luce soprannaturale e della santità, il nostro Redentore insieme col Suo Spirito dà alla Chiesa, e produce insieme allo stesso Spirito.

Sicché la Chiesa non diversamente che tutte le sante sue membra, può far sua questa grande sentenza dell’Apostolo: "Vivo non più io, ma vive in me Cristo" (Gal. II, 20).

Questi Nostri ragionamenti intorno al "Capo mistico" (cfr. Ambros. De Elia et jejun., 10, 36-37 et In Psalm. 118, serm. 20, 2; Migne, P. L., XIV, 710 et XIV, 1483) rimarrebbero certamente monchi, se non accennassimo, almeno brevemente, ad un’altra sentenza dello stesso Apostolo: "Cristo è Capo della Chiesa: Egli il Salvatore del Corpo di lei" (Eph. V, 23). Con queste parole, infatti, viene indicata l’ultima ragione per cui il Corpo della Chiesa è fregiato del nome di Cristo. Cioè Cristo è il divino Salvatore di questo Corpo.

Egli infatti a buon diritto vien proclamato dai Samaritani "Salvatore del mondo" (Joan. IV, 42); anzi senza alcun dubbio dev’essere chiamato "Salvatore di tutti", sebbene con Paolo bisogna aggiungere che lo è "specialmente dei fedeli" (cfr. I Tim. IV, 10), in quanto, a preferenza di tutti gli altri, conquistò col Suo sangue le membra che costituiscono la Chiesa (Act. XX, 28). Avendo già detto abbastanza sulla Chiesa nata dalla Croce, su Cristo datore della luce, causa della santità e sostentatore del Suo Corpo mistico, non è il caso di soffermarCi ancora su questo argomento, ma piuttosto è opportuno meditare queste verità con animo umile e attento, rivolgendo a Dio sentimenti di gratitudine perenne. Pertanto quello che il nostro Salvatore pendente dalla Croce iniziò, non cessa di perpetuarlo nella beatitudine celeste: "Il nostro Capo — dice Agostino — interpella per noi: alcune membra egli riceve, altre flagella, altre purifica, altre consola; altre ne crea, altre ne chiama, altre ne corregge, altre ne rinnova" (Enarr. in Ps., LXXXV, 5; Migne, P. L., XXXVII, 1085). Noi dobbiamo pertanto cooperare con Cristo in quest’opera salutare, giacché "da Uno e per mezzo di Uno veniamo salvati e salviamo" (Clem. Alex., Strom. VII, 2: Migne, P. G., IX, 413). Adesso, Venerabili Fratelli, passiamo a un altro punto nella esposizione di questa dottrina, per spiegare cioè perché il Corpo di Cristo (che è la Chiesa) deve chiamarsi mistico. Tale denominazione, in uso presso parecchi antichi scrittori, è comprovata da non pochi documenti dei Sommi Pontefici. Quest’appellativo infatti deve adoperarsi per varie ragioni, poiché per mezzo di esso si può distinguere il Corpo sociale della Chiesa, di cui Cristo è Capo e condottiero, dal corpo fisico dello stesso Cristo, che nato dalla Vergine Madre di Dio, è ora assiso alla destra del Padre in cielo e nascosto in terra sotto i veli eucaristici: e, ciò che maggiormente importa per gli errori moderni, per mezzo di questa determinazione lo si può distinguere da qualunque altro corpo sia fisico sia morale.

Mentre infatti nel corpo naturale il principio della unità congiunge le parti in modo che le singole manchino completamente della propria sussistenza, invece nel Corpo mistico la forza di mutua congiunzione, sebbene intima, unisce le membra tra loro in modo che le singole godano del tutto di una propria personalità. Se poi consideriamo il mutuo rapporto del tutto e delle singole membra, esse in ogni corpo fisico vivente sono in ultima istanza destinate soltanto a profitto di tutto il composto; mentre, in una compagine sociale di uomini, nell’ordine della finalità dell’utilità, l’ultimo scopo è il bene di tutti e di ciascun membro, essendo essi persone.

Così (per ritornare al nostro argomento), come il Figlio dell’eterno Padre discese dal cielo per la salvezza eterna di noi tutti, così fondò il Corpo della Chiesa e lo arricchì del divino Spirito per procurare ed assicurare la beatitudine delle anime immortali, secondo il detto dell’Apostolo: "Tutte le cose sono vostre; voi siete di Cristo: Cristo poi è di Dio" (I Cor. III, 23; Pio XI, Lettera Enciclica "Divini Redemptoris"). La Chiesa, infatti, è costituita per il bene dei fedeli e per la gloria di Dio e di Gesù Cristo che Egli ci ha mandato.

Se poi confrontiamo il Corpo mistico con quello morale, allora bisogna notare tra i due una differenza di somma importanza. Nel corpo morale, il principio di unità non è altro che il fine comune e la comune cooperazione ad uno stesso fine, mediante l’autorità sociale; invece nel Corpo mistico, di cui trattiamo, a questa comune tendenza allo stesso fine si aggiunge un altro principio interno, che esiste ed agisce vigorosamente nell’intera compagine e nelle singole sue parti, ed è di tale eccellenza da superare immensamente per se stesso tutti i vincoli di unità che compaginano sia un corpo fisico sia un corpo morale. Ciò, come sopra abbiam detto, non è qualche cosa di ordine naturale, ma soprannaturale, anzi in se stesso infinito ed increato, cioè lo Spirito divino che, come dice l’Angelico, "uno e identico per numero, riempie ed unisce tutta la Chiesa" (De Veritate, q. 29, a. 4. c.).

Il retto significato dunque di questa voce rammenta che la Chiesa, la quale deve ritenersi una società perfetta nel suo genere, non consta soltanto di elementi ed argomenti sociali e giuridici. Essa è certamente molto più eccellente di qualunque altra società umana (Leone XIII, Lettera Enciclica "Sapientiæ Christianæ") e le supera come la grazia supera la natura e come le cose immortali trascendono tutte le cose caduche (Leone XIII, "Satis cognitum"). Certo le altre società umane, e specialmente la società civile, van tenute in non poco conto; ma nel loro ordinamento non vi sono tutti gli elementi della Chiesa, come nella parte materiale del nostro corpo mortale non vi è tutto l’uomo. Sebbene, infatti, le ragioni giuridiche sulle quali anche la Chiesa è fondata e costruita abbiano origine dalla costituzione divina datale da Cristo e contribuiscano al conseguimento del suo fine soprannaturale, tuttavia ciò che eleva la società cristiana a quel grado che supera assolutamente ogni ordine naturale è lo Spirito del nostro Redentore che, come fonte di tutte le grazie, doni e carismi, pervade intimamente la Chiesa e opera in essa. Come la compagine del nostro corpo mortale, benché sia opera meravigliosa del Creatore, pure dista moltissimo dall’eccelsa dignità dell’animo nostro, così la struttura della società cristiana, benché sia tale da mostrare la sapienza del suo divino Architetto, tuttavia è qualche cosa di ordine del tutto inferiore se si paragona ai doni spirituali di cui essa è dotata e con cui essa vive e con la loro divina sorgente.

Da ciò che finora abbiamo spiegato, Venerabili Fratelli, appare il grave errore sia di coloro che s’immaginano arbitrariamente la Chiesa quasi nascosta e del tutto invisibile, sia di coloro che la confondono con altre istituzioni umane fornite di regola disciplinare e riti esterni, ma senza comunicazione di vita soprannaturale. Invece, come Cristo, Capo ed esemplare della Chiesa, "non è tutto il Cristo se in Lui si considera o soltanto la natura umana visibile... O soltanto la natura divina invisibile..., ma è uno con le due nature e nelle due nature, così il Suo Corpo mistico". Il Verbo di Dio assunse l’umana natura soggetta ai dolori, affinché, fondata la società visibile e consacrata col sangue divino, "l’uomo fosse richiamato alle cose invisibili attraverso un governo visibile" (S. Thom. De Veritate, q. 29, a. 4 ad 3).

Perciò compiangiamo e riproviamo anche il funesto errore di coloro che sognano una Chiesa ideale, una certa società alimentata e formata di carità, alla quale (non senza disprezzo) oppongono l’altra che chiamano giuridica. Ma erroneamente suggeriscono una tale distinzione: non avvertono infatti che il divin Redentore volle che il ceto di uomini da Lui fondato fosse anche una società perfetta nel suo genere, fornita di tutti gli elementi giuridici e sociali per perpetuare in terra l’opera salutare della Redenzione (Conc. Vat. Sess. IV, Const. dogm. de Eccl., prol.); perciò la volle arricchita dallo Spirito Santo di celesti doni e grazie. L’Eterno Padre la volle, è vero, come "regno del Figlio del suo amore" (Col. I, 13); ma un regno vero, nel quale cioè tutti i credenti gli offrissero la completa sottomissione dell’intelletto e della volontà (Conc. Vat., Sess. III, Const. de fide cath., cap. 3), e con animo umile ed obbediente si cono formassero a Lui che per noi "si fece ubbidiente sino alla morte" (Phil. II, 8). Dunque, nessuna vera opposizione o ripugnanza può esistere tra la missione invisibile dello Spirito Santo e l’ufficio giuridico che i Pastori e i Dottori hanno ricevuto da Cristo. Anzi queste due realtà si completano e perfezionano a vicenda (come in noi il corpo e l’anima) e procedono da un solo identico Salvatore, il quale, quando alitò sugli Apostoli, non solo disse "Ricevete lo Spirito Santo" (Joan. XX, 22), ma comandò anche a voce alta: "Come il Padre mandò me, così anche io mando voi" (Joan. XX, 21), e "Chi ascolta voi, ascolta me" (Luc. X, 16). Se nella Chiesa si scorge qualche cosa che denota la debolezza della nostra condizione, ciò non deve attribuirsi alla sua costituzione giuridica, ma piuttosto alla deplorevole tendenza dei suoi singoli membri al male, tendenza che il divin Fondatore permette che esista anche nei membri più ragguardevoli del suo Corpo mistico, affinché venga messa alla prova la virtù sia delle pecorelle sia dei Pastori e in tutti si accumulino i meriti della Fede cristiana. Cristo infatti, come abbiam detto sopra, dal ceto che aveva fondato non volle che fossero esclusi i peccatori: se dunque alcuni membri soffrono malattie spirituali, non c’è motivo di diminuire il nostro amore verso la Chiesa, ma piuttosto di aumentare la nostra pietà verso le sue membra.

Sì, certamente, senza alcuna macchia risplende la pia Madre nei Sacramenti con i quali genera ed alimenta i figli, nella fede che conserva sempre incontaminata, nelle santissime leggi con le quali comanda, nei consigli evangelici con i quali ammonisce, nei celesti doni e carismi con i quali nella sua inesausta fecondità (cfr. Conc. Vat., Sess. III, Const. de fide catholica, cap. 3) genera innumerevoli eserciti di martiri, di vergini e di confessori. Ma non si può ascriverle a difetto se alcune membra languiscono inferme o ferite: in nome loro ogni giorno essa stessa prega Dio dicendo: "Rimetti a noi i nostri debiti" e nella loro cura spirituale si applica senza indugio e con forte e materno animo. Quando dunque chiamiamo "mistico" il Corpo di Gesù Cristo, dal significato stesso di questa parola riceviamo i più gravi ammaestramenti, che risuonano in questo detto di San Leone: "Riconosci, o cristiano, la tua dignità, e, divenuto partecipe della natura divina, non voler con un ignobile tenor vita, ritornare all’antica bassezza. Ricordati di quale Capo e di quale Corpo sei membro" (Serm. XXI, 3; Migne, P. L., LIV, 192-193).

II. Ci piace ora, Venerabili Fratelli, trattare in modo particolarissimo dell’unione nostra con Cristo nel Corpo della Chiesa. Questo argomento (come giustamente osserva Agostino: cfr. August. Contra Faust. 21, 8; Migne, P. L., XLII, 392) è cosa grande, arcana e divina, e perciò spesso avviene che da alcuni sia compreso e spiegato male. Anzitutto è chiaro che quest’unione è strettissima.

Infatti, nella Sacra Scrittura, vien raffigurata nel vincolo d’un casto matrimonio e paragonata ora all’unità vitale dei tralci con la vite, ora alla stretta compagine del nostro corpo (cfr. Eph. V, 22-23; Joan. XV, 1-5; Eph. IV, 16). Si presenta inoltre nei libri ispirati talmente intima, che antichissimi documenti costantemente tramandati dai Padri e fondati sul detto dell’Apostolo "Egli (Cristo) è il Capo della Chiesa" (Col. I, 18) insegnano che il divin Redentore costituisce con il Suo Corpo sociale una sola Persona mistica, ossia come dice Agostino: tutto Cristo (cfr. Enarr. in Ps., XVII, 51 et XC, 11, 1: Migne, P. L., XXXVI, 154 e XXXVII, 1159). Anzi lo stesso Salvatore nostro nella sua preghiera sacerdotale non dubitò di paragonare tale unione con quella mirabile unità per la quale il Figlio è nel Padre e il Padre è nel Figlio (Joan. XVII, 21-23).

Questa nostra compagine in Cristo e con Cristo nasce anzitutto dal fatto che la società cristiana, per volontà del suo Fondatore, è un Corpo sociale perfetto, per cui in essa l’unione deve consistere nel concorso di tutte le membra allo stesso fine. Quanto infatti è più nobile il fine cui questa cooperazione tende, quanto più divina è la fonte dalla quale essa procede, tanto più sublime diventa senza dubbio l’unità. Orbene, il fine è altissimo: continuare cibò la santificazione delle membra dello stesso Corpo, per la gloria di Dio e dell’Agnello che è stato ucciso per noi (Apoc. V, 12-1 3). La fonte è divinissimo: il beneplacito dell’eterno Padre, l’amabile volontà del nostro Salvatore, e specialmente l’interna ispirazione ed impulso dello Spirito Santo negli animi nostri. Se infatti senza lo Spirito Santo non si può produrre neppure un minimo atto che conduca alla salvezza, come possono innumerevoli moltitudini d’ogni popolo e di ogni stirpe aspirare con lo stesso intento alla gloria di Dio uno e trino, se non per le virtù di Colui che procede dal Padre e dal Figlio in un solo eterno amore?

Poiché, come abbiamo detto, questo Corpo sociale di Cristo deve essere visibile per volontà del suo Fondatore, quella cospirazione di tutte le membra deve anch’essa manifestarsi esternamente, sia per mezzo della professione d’una fede, sia per la comunione dei medesimi Sacramenti, sia per la partecipazione dello stesso sacrificio, sia per un’operosa osservanza delle stesse leggi. È poi assolutamente necessario che sia manifestato agli occhi di tutti il Capo supremo, cioè il Vicario di Cristo, dal quale venga efficacemente diretta la cooperazione dei membri al conseguimento del fine proposto. Come, infatti, il divin Redentore inviò il Paraclito Spirito di verità che per suo mandato (cfr. Joan. XIV, 16 e 26) governasse invisibilmente la Chiesa, così ordinò a Pietro e ai suoi Successori che, rappresentando in terra la Sua Persona visibile, governassero la società cristiana.

A questi vincoli giuridici, tali in se stessi da trascendere quelli di qualsiasi altra società umana anche suprema, è necessario aggiungere un’altra ragione di unità proveniente da quelle tre virtù con le quali noi ci uniamo a Dio nel modo più stretto, cioè: la fede, la speranza e la carità cristiane.

Certo, come osserva l’Apostolo, "uno solo è il Signore, una sola la fede" (Eph. IV, 5), quella fede cioè con la quale aderiamo a Dio e a Colui ch’Egli mandò, Gesù Cristo (cfr. Joan. XVII, 8). Quanto intimamente restiamo congiunti a Dio con questa fede, lo insegnano le parole del discepolo prediletto: "Chiunque confesserà che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio" (I Joan. IV, 15). Né siamo meno congiunti tra di noi e col nostro Capo divino, mediante questa fede cristiana. Infatti, tutti i credenti, "avendo il medesimo spirito di fede" (II Cor. IV, 13), siamo illuminati dalla medesima luce di Cristo, siamo nutriti al medesimo convito di Cristo, siamo governati dalla medesima autorità e magistero di Cristo. Ché se fiorisce in tutti il medesimo spirito di fede, tutti anche "viviamo (la stessa vita) nella fede del Figlio che ci amò e diede Se stesso per noi" (cfr. Gal. II, 20). E Cristo nostro Capo, che per la viva fede abbiamo ricevuto in noi ed abita nei nostri cuori (cfr. Eph. III, 17), come è Autore della nostra fede, così ne sarà il perfezionatore (cfr. Hebr. XII, 2).

Come per mezzo della fede qui in terra aderiamo a Dio, fonte di verità, così per mezzo della speranza cristiana lo desideriamo quale fonte di beatitudine, "attendendo quella beata speranza che è l’apparizione gloriosa del grande Iddio" (Tit. II, 13). Per quel comune desiderio poi del Regno celeste, per cui non vogliamo avere qui sulla terra una dimora permanente ma cerchiamo quella futura (cfr. Hebr. XIII, 14) e aneliamo alla gloria superna, l’Apostolo delle Genti non dubitò di asserire: "Un colpo solo, un solo spirito, come siete stati chiamati in un’unica speranza" (Eph. IV, 4); anzi Cristo risiede in noi come la speranza della gloria (cfr. Col. I, 27). Ma se i vincoli della fede e della speranza, con i quali siamo congiunti al nostro divin Redentore nel suo Corpo mistico, sono di grandissima importanza, di non minore gravità ed efficienza sono i vincoli della carità. Infatti, se anche in natura è cosa eccellentissima l’amore, dal quale nasce la vera amicizia, che cosa deve dirsi di quell’amore soprannaturale che viene infuso nei nostri cuori dallo stesso Dio? "Dio è carità: e chi sta nella carità, sta in Dio e Dio in lui" (I Joan. IV, 16). La quale carità, quasi per legge istituita da Dio, fa sì che Egli, riamandoci, discenda in noi che Lo amiamo, conforme alle parole divine: "Se uno mi ama.... anche il Padre mio l’amerà e verremo a lui e faremo sosta presso di lui" (Joan. XIV, 23). La carità dunque, più strettamente di qualsiasi altra virtù ci congiunge con Cristo, dal cui celeste ardore infiammati, tanti figli della Chiesa tran gioito nel poter essere oltraggiati per Lui e nell’affrontare sino all’estremo anelito i più ardui sacrifici, anche l’effusione del sangue. Perciò il nostro divin Salvatore ci esorta ardentemente con le seguenti parole: "Perseverate nel mio amore". E poiché la carità è una cosa inutile e del tutto vuota, se non è attuata e manifestata dalle buone opere, soggiunge: "Se osserverete i miei comandamenti, persevererete nel mio amore, conte io stesso ho osservato i comandamenti del Padre e rimango nel suo amore" (Joan. XV, 9-10).

È necessario però che all’amore verso Dio e verso Cristo corrisponda l’amore verso il prossimo. Come possiamo infatti asserire di amare il divin Redentore, se odiamo coloro ch’Egli redense col suo Sangue prezioso per farli membra del suo Corpo mistico? Perciò così ci ammonisce l’Apostolo prediletto: "Se uno dirà: io amo Dio e odierà il suo fratello, è mentitore. Infatti, chi non ama il suo fratello che vede, come può amare Dio che non vede? E questo comandamento abbiamo da Dio: che chi ama Dio, ami anche il proprio fratello" (I Joan. IV, 20-21). Anzi, bisogna anche affermare che noi saremo sempre più uniti con Dio e con Cristo, a misura che saremo membri uno dell’altro (Rom. XII, 5) e vicendevolmente premurosi (I Cor. XII, 25); come d’altra parte, quanto più saremo stretti a Dio e al nostro Capo divino con un ardente amore, tanto maggiormente noi saremo compatti ed uniti mediante la carità. Il Figlio Unigenito di Dio, già prima dell’inizio del mondo, con la sua eterna infinita conoscenza e con un amore perpetuo, ci ha stretti a se. E perché potesse manifestare tale amore in modo ammirabile e del tutto visibile, congiunse a sé la nostra natura nell’unione ipostatica donde avviene che "in Cristo la nostra carne ami noi", come, con candida semplicità, osserva Massimo di Torino (Serm. XXIX; Migne, P. L., LVII, 594).

In verità, questa amantissima conoscenza, con la quale il divin Redentore ci ha seguiti sin dal primo istante della sua Incarnazione, supera ogni capacità della mente umana, giacché, per quella visione beatifica di cui godeva sin dal momento in cui fu ricevuto nel seno della Madre divina, Egli ha costantemente e perfettamente presenti tutte le membra del Corpo mistico e le abbraccia col Suo salvifico amore. O ammirabile degnazione della divina pietà verso di noi; o inestimabile ordine dell’immensa carità! Nel presepio, sulla Croce, nella gloria eterna del Padre, Cristo ha presenti e congiunti a Sé tutti i membri della Chiesa in modo molto più chiaro e più amorevole di quello con cui una madre guarda il suo figlio e se lo stringe al seno, e con cui un uomo conosce ed ama se stesso.

Da quanto detto fin qui si vede chiaramente, Venerabili Fratelli, perché l’Apostolo Paolo tanto frequentemente scriva che Cristo è con noi, e noi in Cristo. Il che egli dimostra ancora con una ragione alquanto sottile. Cioè: Cristo, come sufficientemente abbiamo detto sopra, è in noi per il Suo Spirito che ci comunica e per mezzo del quale Egli talmente agisce in noi, da doversi dire che qualsiasi cosa divina si operi nello Spirito Santo in noi, viene operata anche da Cristo (cfr. S. Thom. Comm. in Ep. ad Eph., cap. II, lect. 5).

"Se uno non ha lo Spirito di Cristo (dice l’Apostolo), non è dei suoi: se invece Cristo è in voi..., lo spirito vive per effetto della giustificazione" (Rom. VIII, 9-10).

Per la medesima comunicazione dello Spirito di Cristo, avviene poi che la Chiesa sia quasi la pienezza ed il complemento del Redentore, perché tutti i doni, le virtù e i carismi che si trovano eminentemente, abbondantemente ed efficacemente nel Capo, derivano in tutti i membri della Chiesa e in essi si perfezionano di giorno in giorno a seconda del posto di ciascuno nel Corpo mistico di Gesù Cristo: quindi Cristo in certo modo e sotto ogni riguardo Si completa nella Chiesa (cfr. S. Thom., Comm. in Ep. ad Eph., cap. I, lect. 8) Con le quali parole tocchiamo la stessa ragione per cui, secondo il parere già accennato di Agostino, il Capo mistico, che è Cristo, e la Chiesa, la quale rappresenta in terra la sua persona come un altro Cristo, costituiscono un unico nuovo uomo, per il quale, nel perpetuare l’opera salutare della Croce, si congiungono il cielo e la terra: ragione per cui possiamo dire come in sintesi: Cristo, Capo e Corpo, tutto Cristo.

Certo, non ignoriamo che nel comprendere e nello spiegare questa dottrina riguardante la nostra unione con il divin Redentore e, in modo particolare, l’inabitazione dello Spirito Santo nelle anime, vi sono velami che l’avvolgono come caligine, a causa della debolezza della nostra mente. Ma sappiamo anche che dalla retta ed assidua indagine di questa materia, dal conflitto delle varie opinioni, dal concorso delle diverse teorie, purché in tale indagine siamo diretti dall’amore della verità e dal debito ossequio verso la Chiesa, scaturiscono e balzano fuori preziosi lumi, per mezzo dei quali si fa un vero profitto negli studi sacri di questo genere. Non biasimiamo quindi coloro che intraprendono diverse vie e metodi per trattare ed illustrare con ogni sforzo l’altissimo mistero di questa nostra unione con Cristo. Però tutti abbiano questo per certo ed indiscusso, se non vogliono allontanarsi dalla genuina dottrina e dal retto insegnamento della Chiesa: respingere cioè, in questa mistica unione, ogni modo con il quale i fedeli, per qualsiasi ragione, sorpassino talmente l’ordine delle creature ed invadano erroneamente il campo divino, che anche un solo attributo di Dio eterno possa predicarsi di loro come proprio. Inoltre fermamente e con ogni certezza ritengano che in queste cose tutto è comune alla Santissima Trinità, in quanto tutto riguarda Dio quale suprema causa efficiente.

Devono anche aver presente che in questo argomento si tratta di un mistero occulto, il quale, in questo terrestre esilio, non può mai essere intravveduto libero da ogni velame, né può mai essere espresso da lingua umana. Si dice che le Persone divine inabitano, in quanto che, presenti in modo imperscrutabile negli esseri dotati di intelletto, questi Si pongono con esse in relazione mediante la conoscenza e l’amore in un modo del tutto intimo e singolare che trascende ogni natura creata. Per tentare di comprendere alquanto questo modo, bisogna aver presente il metodo tanto raccomandato dal Concilio Vaticano nelle cose di tal genere, per cui si paragonano gli stessi misteri tra di loro e col loro fine supremo, sforzandosi di attingere quel tanto di luce che faccia almeno intravvedere gli arcani divini. Quindi opportunamente il sapientissimo Nostro Predecessore Leone XIII di felice memoria, parlando di questa nostra unione con Cristo e del divin Paraclito inabitante in noi, volge gli occhi a quella beata visione con la quale un giorno questa mistica unione otterrà il suo compimento nel cielo; e dice: "Questa mirabile unione, detta con norie suo proprio inabitazione, si differenzia da quella con cui Iddio abbraccia e fa beati i celesti, soltanto per la nostra condizione (di viatori sulla terra)". In quella celeste visione, sarà concesso agli occhi della mente umana rinvigoriti da luce soprannaturale di contemplare in maniera del tutto ineffabile il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, di assistere per tutta l’eternità al procedere delle divine Persone l’Una dall’Altra, beandosi di un gaudio molto simile a quello con cui è beata la santissima e indivisa Trinità.

Quanto finora abbiamo esposto di questa intima unione del Corpo mistico di Gesù Cristo col suo Capo, ci parrebbe imperfetto, se qui non aggiungessimo almeno poche parole intorno alla santissima Eucaristia, con la quale una siffatta unione in questa vita mortale raggiunge il grado più alto.

Gesù Cristo volle che questa mirabile unione, mai abbastanza lodata, per la quale veniamo congiunti tra di noi e col divino nostro Capo, si manifestasse ai credenti in modo speciale per mezzo del Sacrificio eucaristico. In esso infatti i ministri dei Sacramenti non solo rappresentano il Salvatore nostro, ma anche tutto il Corpo mistico e i singoli fedeli; in esso i fedeli, uniti al sacerdote nei voti e nelle preghiere comuni, per le mani dello stesso sacerdote offrono all’eterno Padre, quale ostia gratissima di lode e di propiziazione per i bisogni di tutta la Chiesa, l’Agnello immacolato, dalla voce del solo sacerdote reso presente sull’altare.

E come il divin Redentore, morendo in Croce, offrì all’eterno Padre Se stesso quale Capo di tutto il genere umano, così "in quest’oblazione pura" (Mal. I, 11), non offre quale Capo della Chiesa soltanto Se stesso, ma in Se stesso offre anche le sue mistiche membra, poiché Egli nel Suo Cuore amantissimo tutte le racchiude, anche se deboli ed inferme. Il Sacramento dell’Eucaristia, vivida e mirabile immagine dell’unità della Chiesa in quanto il pane da consacrarsi deriva da molti grani che formano una cosa unica (cfr. Didaché, IX, 4), ci dà lo stesso Gutore della grazia santificante, affinché da Lui attingiamo quello Spirito di carità con cui viviamo non già la nostra vita ma la vita di Cristo, e in tutti i membri del Suo Corpo sociale amiamo lo stesso Redentore.

Se dunque, nelle tristissime circostanze in cui ora versiamo, vi sono moltissimi i quali aderiscono talmente a Gesù Cristo nascosto sotto i veli eucaristici da non poter essere separati dalla sua carità né dalla tribolazione né dall’angoscia né dalla fame né dalla nudità né dal pericolo né dalla persecuzione né dalla spada (cfr. Rom. VIII, 35), allora senza dubbio la sacra Comunione, non senza consiglio del provvidentissimo Iddio ritornata in questi ultimi tempi d’uso frequente anche per i fanciulli, potrà diventare fonte di quella fortezza che non raramente suscita e fomenta anche eroi cristiani.

III. Venerabili Fratelli, se i cristiani comprenderanno piamente e rettamente queste cose e diligentemente le riterranno, più facilmente potranno guardarsi anche da quegli errori che, con grande pericolo della fede cattolica e turbamento degli animi, scaturiscono dall’investigazione, da alcuni arbitrariamente intrapresa, di questa difficile materia.

Infatti non mancano coloro i quali non considerano abbastanza metaforicamente e senza distinguere (com’è assolutamente necessario) i significati particolari e propri di corpo fisico, di corpo morale, di Corpo mistico, e quindi danno di questa unione una spiegazione pervertita. Costoro fanno unire e fondersi in una stessa persona fisica il divin Redentore e le membra della Chiesa: e mentre attribuiscono agli uomini cose divine, fanno Gesù Cristo soggetto ad errori e a debolezze umane. Dalla falsità di questa dottrina ripugnano la fede cattolica e i precetti dei Santi Padri, rifuggono la mente e la dottrina dell’Apostolo delle Genti, il quale, sebbene congiunga tra loro con mirabile fusione Cristo e il Corpo mistico, tuttavia oppone l’uno all’altro come lo Sposo alla Sposa (cfr. Eph. V, 22-23).

Né men lontano dalla verità è il pericoloso errore di coloro che dall’arcana unione di noi tutti con Cristo si studiano di dedurre un certo insano quietismo, con il quale tutta la vita spirituale dei cristiani e il loro progresso nella virtù vengono attribuiti unicamente all’azione del divino Spirito, escludendo cioè e tralasciando da parte la nostra debita cooperazione. Nessuno certamente può negare che il Santo Spirito di Gesù Cristo sia l’unica fonte donde promana nella Chiesa e nelle sue membra ogni forza superna. Infatti, come: dice il Salmista, "il Signore largisce grazia e gloria" (Psal. LXXXIII, 12). Ma che gli uomini perseverino costantemente nelle opere di santità, che progrediscano alacremente nella grazia e nella virtù, che infine non soltanto tendano strenuamente alla vetta della perfezione cristiana, ma spingano secondo le proprie forze anche gli altri a conseguire la medesima perfezione, tutto questo, lo Spirito celeste non vuoi compierlo se gli stessi uomini non cooperano ogni giorno con diligenza operosa. "Infatti — come osserva Ambrogio — i benefici divini non vengono trasmessi a chi dorme, ma a chi veglia" (Expos. Evang. sec. Luc., IV, 49; Migne, P. L., XV, 1626). Poiché, se nel nostro corpo mortale le membra si corroborano e si sviluppano con ininterrotto esercizio, molto più ciò accade nel Corpo sociale di Gesù Cristo, nel quale le singole membra godono di una propria libertà, coscienza, azione. Perciò chi disse: "Vivo, non più lo, ma vive in me Gesti" (Gal. II, 20), quello stesso non dubitò di asserire: "La grazia di Lui, cioè di Dio, verso di me non fu cosa vana; anzi ho faticato spiò di tutti loro, non già io, ma la grazia di Dio con me" (I Cor. XV, 10). Quindi è chiarissimo che in queste fallaci dottrine, il mistero di cui trattiamo non sarebbe diretto allo spirituale profitto dei fedeli, ma si volgerebbe miseramente alla loro rovina.

Dalle loro false asserzioni proviene anche che alcuni asseriscano non doversi molto inculcare la frequente confessione dei peccati veniali, poiché meglio si adatta quella confessione generale che ogni giorno la Sposa di Cristo con i suoi figli a sé congiunti nel Signore fa per mezzo dei sacerdoti sul punto di ascendere all’altare di Dio.

È vero che in molte lodevoli maniere, come voi o Venerabili Fratelli, ben conoscete, possono espiarsi questi peccati, ma per un più spedito progresso nel quotidiano cammino della virtù, raccomandiamo sommamente quel pio uso, introdotto dalla Chiesa per ispirazione dello Spirito Santo, della confessione frequente, con cui si aumenta la retta conoscenza di se stesso, cresce la cristiana umiltà, si sradica la perversità dei costumi, si resiste alla negligenza e al torpore spirituale, si purifica la coscienza, si rinvigorisce la volontà, si procura la salutare direzione delle coscienze e si aumenta la grazia in forza dello stesso Sacramento. Quelli dunque che fra il giovane clero attenuano o estinguono la stima della confessione frequente, sappiano che intraprendono cosa aliena dallo Spirito di Cristo e funestissima al Corpo mistico del nostro Salvatore.

Vi sono inoltre alcuni i quali o negano alle nostre preghiere ogni vera efficacia d’impetrazione, ovvero si sforzano d’insinuare nelle menti che le suppliche rivolte a Dio in privato bisogna ritenerle di poco valore, mentre piuttosto quelle pubbliche usate nel nome della Chiesa realmente valgono come quelle che partono dal Corpo mistico di Gesù Cristo. Ciò è affatto erroneo: poiché il divin Redentore non ha a Sé strettissimamente congiunta soltanto la Sua Chiesa, quale amantissima Sposa, ma in essa, anche gli animi dei singoli fedeli, con i quali desidera ardentemente trattenersi in intimi colloqui, specialmente dopo che si sono accostati alla mensa eucaristica. E benché la preghiera collettiva, come procedente dalla Madre Chiesa, superi tutte le altre per la dignità della Sposa di Cristo, pure tutte le preghiere, dette anche in forma privatissima, non sono prive di dignità né di virtù e conferiscono moltissimo anche all’utilità di tutto il Corpo mistico, in quanto che tutto ciò che si compie di bene e di retto dai singoli membri ridonda anche in profitto di tutti, grazie alla Comunione dei Santi. Né ai singoli uomini, appunto perché membra di questo Corpo, si vieta di chiedere per se stessi grazie speciali anche per quanto riguarda la vita presente, serbando tuttavia la conformità alla volontà di Dio: essi infatti rimangono persone libere e soggette ai propri individuali bisogni (cfr. S. Thom. II-II, q. 83, a. 5 et 6). Quanto poi debbano tutti grandemente stimare la mediazione delle cose celesti, è comprovato non soltanto dai documenti della Chiesa ma anche dall’uso e dall’esempio di tutti i Santi.

Certuni infine dicono che le nostre preghiere non devono essere dirette alla stessa persona di Gesù Cristo, ma piuttosto a Dio o all’eterno Padre per mezzo di Cristo, poiché il nostro Salvatore, in quanto Capo del suo Corpo mistico, dov’essere considerato semplicemente "mediatore di Dio e degli uomini" (I Tim. II, 5). Ma ciò non solo si oppone alla mente della Chiesa e alla consuetudine dei cristiani, ma offende anche la verità. Cristo infatti, per parlare con esatto linguaggio, è Capo di tutta la Chiesa (cfr. S. Thom. De Veritate, q. 29, a. 4, c.) secondo l’una e l’altra natura insieme, la divina e l’umana, e del resto Egli stesso asserì solennemente: "Se mi domanderete qualche cosa in mio nome, io lo farò" (Joan. XIV, 14). E sebbene le preghiere sian rivolte all’eterno Padre per mezzo del suo Unigenito di preferenza nel Sacrificio eucaristico, nel quale Cristo, essendo Egli stesso Sacerdote ed Ostia, compie in modo speciale l’ufficio di conciliatore, tuttavia non poche volte e persino nello stesso santo Sacrificio, si usano preghiere rivolte allo stesso divin Redentore, giacché tutti i Cristiani devono conoscere e comprendere chiaramente che l’uomo Gesù Cristo è lo stesso Figlio di Dio e il medesimo Dio. Anzi, mentre la Chiesa militante adora e prega l’Agnello incontaminato e la sacra Ostia, sembra che in certo modo risponda alla voce della Chiesa trionfante che canta in eterno: "A colui che siede sul trono e all’Agnello, la benedizione e l’onore e la gloria e il potere per i secoli dei secoli" (Apoc. V, 13).

Ora che, Venerabili Fratelli, nell’accurata spiegazione di questo mistero che riassume l’arcana unione di tutti noi con Cristo, nella nostra qualità di Maestro della Chiesa universale, abbiamo irradiate le menti con la luce della verità, riteniamo conforme al Nostro pastorale ufficio aggiungere anche uno sprone agli animi, affinché un tale Corpo mistico venga amato con quell’ardore di carità che non si limita ai pensieri e alle parole, ma che prorompe in attività di opere. Poiché, se i seguaci dell’antica legge poterono così cantare della loro Città terrestre: "Se mi dovessi dimenticare di te, o Gerusalemme, cada in oblio la mia destra; resti attaccata al palato la mia lingua se non mi ricordo di te, se non colloco Gerusalemme al disopra di ogni mia gioia" (Psal. CXXXVI, 5-6), con quanta maggior gloria e più ampio gaudio, abbiamo noi il dovere di esultare appunto per questo che siamo cittadini di una Città costruita sul monte santo con vive e scelte pietre e della quale è "pietra angolare Gesù Cristo" (Eph. II, 20; I Petr. II, 4-5). Giacché niente si può immaginare di più glorioso, niente di più nobile, niente senza dubbio di più onorifico, che appartenere alla santa, cattolica, apostolica e romana Chiesa, per la quale diventiamo membra di un unico e così venerando Corpo, siamo guidati da un unico e così eccelso Capo, siamo ripieni di un unico e divino Spirito, siam nutriti in questo terrestre esilio da una sola dottrina e da uno stesso Pane angelico, finché ci ritroveremo a godere di un’unica sempiterna beatitudine nei cieli.

Ma, per non essere ingannati dall’angelo delle tenebre che suol trasfigurarsi in angelo di luce (cfr. II Cor. XI, 14), sia norma suprema del nostro amore l’amare la Sposa di Cristo quale Cristo stesso la volle, conquistandola con il sangue. Quindi non solo ci devono stare sommamente a cuore i Sacramenti con i quali la Madre nostra Chiesa amorosamente ci nutre; non solo devono esserci carissime le grandi feste che celebra a nostra consolazione e gioia, e i sacri cantici e i riti liturgici, con i quali innalza le nostre menti alle cose celesti; ma dobbiamo anche avere in gran conto quelli che si chiamano sacramentali, come pure tutte le pratiche di pietà con le quali la Chiesa stessa mira a pervadere soavemente dello Spirito di Cristo gli animi dei fedeli, per loro consolazione. Né soltanto è nostro dovere il ricambiare come conviene a figli la materna pietà della Chiesa verso di noi, ma dobbiamo anche professarle riverenza per l’autorità conferitale da Cristo, in modo tale da sottometterle pienamente il nostro giudizio, in ossequio a Cristo stesso (cfr. II Cor. X, 5). Onde siamo tenuti ad obbedire alle sue leggi e ai suoi precetti in fatto di costumi, anche se talvolta ciò riesca abbastanza duro alla nostra natura, decaduta qual è dallo stato dell’innocenza originale. Così pure dobbiamo reprimere con volontarie penitenze la nostra carne ribelle, ci viene anzi inculcato di saper talvolta rinunziare a cose piacevoli, anche se non siano nocive. Né dobbiamo limitarci ad amare questo Corpo mistico perché insigne per la divinità del suo Capo e per le sue doti celesti, ma dobbiamo amarlo con amore operoso anche quale si manifesta in questa nostra carne mortale, composta talvolta di membra che hanno tutte le debolezze dell’umana natura, anche se esse siano meno degne del posto che occupano in quel venerando Corpo.

Ad ottenere poi che un tal pienissimo amore regni negli animi nostri e di giorno in giorno aumenti, è necessario assuefarsi a riconoscere nella Chiesa lo stesso Cristo. È infatti Cristo che nella sua Chiesa vive, che per mezzo di lei insegna, governa, comunica la santità; è Cristo che in molteplici forme si manifesta nelle varie membra della Sua società. Se tutti i Cristiani si daranno con impegno a vivere di un così vigoroso spirito di Fede, allora non solo essi tributeranno il debito ossequio d’onore alle più eccelse membra di questo mistico Corpo e specialmente a quelle che per mandato del divin Capo un giorno dovranno render conto delle anime nostre (cfr. Hebr. XIII, 17); ma avranno a cuore anche quelle membra verso le quali il Salvator nostro dimostrò un amore di preferenza: i deboli, i feriti e i malati bisognosi o di medicina materiale o di medicina soprannaturale, i fanciulli la cui innocenza si trova oggi esposta a tanti pericoli e la cui tenera anima è plasmabile come cera, i poveri infine, nei quali, mentre li soccorriamo, dobbiamo ravvisare la persona stessa di Gesù Cristo.

Ben a ragione l’Apostolo ci avverte: "Le membra del corpo che paiono più deboli sono molto più necessarie, e quelle che stimiamo di minor pregio, noi le circondiamo di onore maggiore" (I Cor. XII, 22-23). Tale gravissima sentenza Noi, consapevoli della altissima responsabilità che Ci vincola, riteniamo doveroso ripetere al giorno d’oggi, mentre con profonda afflizione vediamo che ai deformi di corpo, agli amenti ed agli affetti di malattie ereditarie vien talora tolta la vita, come se costituissero un molesto peso per la società.

Peggio ancora, tale espediente da certuni si esalta come una trovata dell’umano progresso, quanto mai giovevole al comune benessere. Ma chi mai, se abbia senno, non vede che ciò ripugna non soltanto alla legge naturale e divina (cfr. Decr. S. Offic., 2 Dec. 1940: A. A. S. 1940, p. 553), impressa nell’animo di ciascuno, ma è violenta offesa contro i nobili sensi di umanità? Il sangue di tali sventurati, al nostro Redentore tanto più cari quanto più degni di commiserazione, "grida a Dio dalla terra" (cfr. Gen. IV, 10).

Affinché poi quella sincera carità, per la quale nella Chiesa e nelle sue membra dobbiamo riguardare il nostro Salvatore, non vada a poco a poco illanguidendosi, è di somma opportunità che teniamo di mira lo stesso Gesù come insuperabile modello di amore verso la Chiesa. Anzitutto, cerchiamo d’imitare l’estensione di tale amore. Unica è la Sposa di Cristo, e questa è la Chiesa: eppure l’amore dello Sposo divino ha tale ampiezza che, senza escludere alcuno, nella sua Sposa abbraccia tutto il genere umano. La causa infatti per cui il Salvator nostro sparse il Suo sangue, fu appunto per riconciliare con Dio nella Croce tutti gli uomini, per quanto diversi di nazione e di stirpe, e farli congiungere in un unico Capo. Il vero amore della Chiesa esige quindi non solo che siamo vicendevolmente solleciti l’uno dell’altro (cfr. Rom. XII, 5; I Cor. XII, 25), come membri dello stesso Corpo, che godono della gloria degli altri membri e soffrono dell’altrui dolore (cfr. I Cor. XII, 26), ma che altresì negli altri uomini, sebbene non ancora a noi congiunti nel Corpo della Chiesa, riconosciamo fratelli di Cristo secondo la carne, chiamati insieme con noi alla medesima eterna salvezza. Purtroppo, specialmente oggigiorno, non mancano coloro che nella loro superbia esaltano l’avversione, l’odio, il livore come qualcosa che elevi e nobiliti la dignità e il valore umano. Noi però, mentre vediamo con dolore i funesti frutti di tale dottrina, seguiamo il nostro pacifico Re, che ci insegnò ad amare non solo quelli che non sono della nostra nazione e della nostra stirpe (cfr. Luc. X 33-37), ma persino i nemici (cfr. Luc. VI, 27-35; Matth. V, 44-48). Noi, con l’animo penetrato del soavissimo sentimento dell’Apostolo delle genti, con lui esaltiamo quale e quanta sia la lunghezza, la larghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo (cfr. Eph. III, 18); quell’amore, cioè, che nessuna diversità d’origine e di costumi può fiaccare, che neppure l’immensa distesa dell’oceano può attenuare; e che finalmente neppure le guerre, siano esse intraprese per causa giusta o ingiusta, potranno mai distruggere. In quest’ora così grave, Venerabili Fratelli, mentre tanti corpi sono dolorosamente straziati e tante anime oppresse di tristezza, è necessario richiamar tutti a questi sensi di suprema carità, affinché nello sforzo collettivo di tutti i buoni si sovvenga a così immani necessità spirituali e materiali, in una meravigliosa gara d’amore e di commiserazione: il Nostro pensiero va particolarmente agli appartenenti a qualsiasi di quelle organizzazioni che esplicano opere di soccorso. Per tal modo, la generosità piena di zelo del Corpo mistico di Gesù Cristo e la sua inesausta fecondità diffonderanno i loro splendori in tutto il mondo. Dato poi che all’ampiezza della carità onde Cristo amò la sua Chiesa corrisponde la Sua amorosa costanza di opere, di questa stessa carità noi tutti, con assidua e zelante volontà, dobbiamo amare il Corpo mistico di Cristo. Ed invero non è possibile trovare nella la vita del nostro Redentore un’ora sola in cui non abbia lavorato fino a spossarsi di fatica, benché fosse Figlio di Dio, per fondare la sua Chiesa o per renderla stabile: dalla Sua Incarnazione, allocche gettò la prima base della Chiesa, fino al termine del Suo corso mortale, con gli esempi della più fulgida santità, con la predicazione, con la conversazione, col radunar le turbe, con l’insegnare.

È Nostro desiderio adunque che tutti, quanti riconoscono la Chiesa per madre, ponderino con diligenza che non solo ai sacri Ministri od a coloro soltanto che tran fatto oblazione di sé a Dio nella vita religiosa, ma anche agli altri membri del mistico Corpo di Cristo, per ciascuno in ragione della propria possibilità, incombe il dovere di affaticarsi con ogni impegno e diligenza alla costruzione ed all’incremento del medesimo Corpo. In modo speciale desideriamo che a ciò pongano mente (come del resto già lodevolmente fanno) coloro che, arruolati nelle schiere dell’Azione Cattolica, cooperano all’apostolato dei Vescovi e dei Sacerdoti nella loro attività apostolica; come pure coloro che, riuniti in pii sodalizi, collaborano allo stesso fine. Non c’è chi non veda come la solerte attività di tutti costoro sia di somma importanza e di massima gravità nelle attuali circostanze.

Né possiamo astenerci dal dire una parola ai padri e alle madri di famiglia, cui il Redentore nostro affidò le membra più delicate del suo mistico Corpo. Li scongiuriamo quindi ardentemente che, per amore di Cristo e della Chiesa, provvedano con tutta sollecitudine alla prole data loro in consegna, affinché si guardi da ogni sorta di insidie con le quali oggi viene con tanta facilità adescata.

In particolar modo il Redentore nostro manifestò il suo ardentissimo amore per la Chiesa con le supplici preghiere innalzate per essa al suo celeste Padre. Giacché (per citar solo qualche esempio) è noto a tutti, Venerabili Fratelli, come Egli mentr’era per salire sul patibolo della Croce, elevò accesissime preghiere per Pietro (cfr. Luc. XXII, 32), per gli altri Apostoli (cfr. Joan. XVII, 9-19), e finalmente per tutti coloro che, alla predicazione della divina parola, avrebbero creduto in Lui (cfr. Joan. XVII, 20-23).

Ad esempio di Cristo, anche noi dobbiamo chiedere ogni giorno che il Signore voglia inviare operai alla sua messe (cfr. Matth. IX, 38; Luc.X,2); ogni giorno la comune preghiera deve salire al cielo per raccomandare tutte le membra del mistico Corpo di Gesù Cristo. In primo luogo i sacri Presuli, alla cui particolare sollecitudine è affidata la propria Diocesi; poi i Sacerdoti e infine i Religiosi e le Religiose che, seguendo la chiamata di Dio, sia in patria che in paesi infedeli difendono, accrescono, promuovono il Regno del Redentore divino. Nessuno dei membri di questo venerando Corpo dev’essere dimenticato nella comune preghiera; ma specialmente si abbiano presenti quelli che o sono oppressi dalle sofferenze o dalle angosce di questa terra o, compiuto il corso mortale, vengono purificati nelle fiamme espiatrici. E neppure debbono essere trascurati coloro che si stanno istruendo nella dottrina cristiana, affinché si possano al più presto mondare nel lavacro delle acque battesimali.

Bramiamo altresì fortemente che le comuni preghiere abbraccino nella stessa ardente carità sia coloro che non ancora illuminati dalla verità evangelica, non sono al sicuro nell’ovile della Chiesa, sia coloro che, a causa di una miserevole scissione dell’unità della Fede, si sono separati da Noi che, pur immeritevoli, rappresentiamo in terra la persona di Gesù Cristo. Per questo ripetiamo l’orazione divina del nostro Salvatore al Padre Celeste: "Che tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me ed io in te, così anch’essi siano in noi una cosa sola; affinché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Joan. XVII, 21).

Anche questi che non appartengono al visibile organismo della Chiesa, come voi ben sapete, Venerabili Fratelli, fin dal principio del Nostro Pontificato, li affidammo alla celeste tutela ed alla celeste direzione, protestando solennemente che dietro l’esempio del buon Pastore, nulla Ci stava più a cuore che essi abbiano la vita e l’abbiano in sovrabbondanza (cfr. Lett. Enc. "Summi Pontificatus"). E quella solenne Nostra affermazione, dopo aver implorate le preghiere di tutta la Chiesa, intendiamo ripetere in questa Lettera Enciclica, con la quale abbiamo celebrato le lodi "del grande e glorioso Corpo di Cristo" (Iren. Adv. Hær., IV, 33, 7; Migne, P. G., VII, 1076): con animo straripante di amore, invitiamo tutti e singoli ad assecondare spontaneamente gli interni impulsi della divina grazia e a far di tutto per sottrarsi al loro stato in cui non possono sentirsi sicuri della propria salvezza (Pio IX "Jam nos omnes", 13 Sett. 1868: Act. Conc. Vat. C. L., VII, 10), perché, sebbene da un certo inconsapevole desiderio e anelito siano ordinati al mistico Corpo del Redentore, tuttavia sono privi di quei tanti doni ed aiuti celesti che solo nella Chiesa Cattolica è dato di godere. Rientrino perciò nella cattolica unità e tutti uniti a Noi nell’unica compagine del Corpo di Gesù Cristo, vengano con Noi all’unico Capo nella società di un gloriosissimo amore (cfr. Gelas. I, Epist. XIV: Migne, P. L., LIX, 89). Senza mai interrompere di pregare lo Spirito dell’amore e della verità, Noi li aspettiamo con le braccia aperte, non come estranei, ma quali figli che entrino nella loro stessa casa paterna. Però, mentre desideriamo che una tale preghiera salga ininterrotta a Dio da parte di tutto il Corpo mistico affinché tutti gli sviati entrino al più presto nell’unico ovile di Gesù Cristo, dichiariamo che è assolutamente necessario che ciò sia fatto di libera e spontanea volontà, non potendo credere se non chi lo vuole (cfr. August., In Joann. Ev. tract., XXVI, 2: Migne, P. L., XXX, 1607). Se alcuni, non credenti, vengono di fatto spinti ad entrare nell’edificio della Chiesa, ad appressarsi all’altare, a ricevere i Sacramenti, costoro, senza alcun dubbio, non diventano veri cristiani, (cfr. August., ibidem), poiché la Fede, senza la quale è impossibile piacere a Dio (Hebr. XI, 6), deve esser libero "ossequio dell’intelletto e della volontà" (Conc. Vat., De Fide cath., cap. 3). Se dunque dovesse talvolta accadere che, in contrasto con la costante dottrina di questa Sede Apostolica (cfr. Leo XIII: "Immortale Dei"), taluno venga spinto suo malgrado ad abbracciare la Fede cattolica, Noi non possiamo esimerCi, per coscienza del Nostro dovere, dall’esprimere la Nostra riprovazione. E poiché gli uomini godono di libera volontà e possono anche, sotto l’impulso di perturbazioni d’animo e di perverse passioni, abusare della propria libertà, è perciò necessario che vengano attratti con efficacia alla verità dal Padre dei lumi per opera dello Spirito del Suo diletto Figlio.

Se ancora molti, purtroppo, vagano lontani dalla cattolica verità e non piegano l’animo all’afflato della grazia divina, ciò avviene perché né essi (cfr. August., ibidem), né i fedeli cristiani innalzano a Dio più ferventi preghiere a tal fine. Noi quindi vivamente e insistentemente esortiamo tutti coloro che sentono amore per la Chiesa, affinché, seguendo l’esempio del divin Redentore, non cessino mai di elevare tali suppliche.

E parimenti, soprattutto nel momento attuale, Ci sembra non solo opportuno ma necessario che vengano innalzate ardenti suppliche per i re, per i principi e per tutti coloro che, attendendo al governo dei popoli, possono con la loro tutela esterna recar aiuto alla Chiesa, affinché, riordinata rettamente la società, "la pace, opera di giustizia" (Is. XXXII, 17), al soffio della divina carità arrida al genere umano tormentato dai terrificanti flutti di questa tempesta, e la Santa Madre Chiesa possa condurre vita quieta e tranquilla nella pietà e nella castità (cfr. I Tim. II, 2). Dobbiamo chiedere con insistenza a Dio che tutti coloro che sono al governo dei popoli amino la sapienza (cfr. Sap. VI, 23) in modo che questa gravissima sentenza dello Spirito Santo non ricada mai su di essi: "L’Altissimo esaminerà le vostre opere e scruterà i pensieri; perché, ministri del suo regno, non avete governato rettamente, né avete osservato la legge di giustizia, né secondo il volere di Dio aver te camminato. Terribile e veloce piomberà su voi, ché rigorosissimo giudizio sarà fatto di quei che stanno in alto. Al misero invero si usa misericordia, ma i potenti saranno potentemente puniti! Non indietreggerà dinanzi a persona il Signore di tutti, né avrà soggezione della grandezza di nessuno; ché il grande e il piccolo Egli ha creato, ed ha cura ugualmente di tutti. Ma ai potenti sovrasta più rigoroso giudizio; a voi pertanto o re, son rivolte le mie parole perché impariate la sapienza e non cadiate" (ibidem, VI, 4-10).

Inoltre, non solo faticando senza posa e pregando ininterrottamente Cristo Signore palesò il Suo amore verso la Sua Sposa incontaminata, ma anche per mezzo dei dolori e delle angosce sopportate volentieri e con amore per essa: "Avendo egli amato i suoi... li amò sino alla fine" (Joan. XIII, 1). Anzi non acquistò la Chiesa che per mezzo del proprio sangue (cfr. Act. XX, 28).

Adunque, su queste orme cruente del nostro Re, come esige la nostra salvezza da mettere al sicuro, intraprendiamo volonterosi il nostro cammino: "Poiché se siamo stati innestati alla somiglianza della Sua morte, lo saremo ancile a quella della Resurrezione" (Rom. VI, 5), e "se siamo insieme morti, con lui anche vivremo" (II Tim. II, 11). Ciò è richiesto anche dalla vera ed operosa carità sia verso la Chiesa, sia verso quelle anime che la medesima Chiesa genera allo stesso Cristo. Sebbene infatti il Salvator nostro con le sue durissime pene e la sua acerba morte abbia meritato alla sua Chiesa un tesoro addirittura infinito di grazie, per disposizione però della provvidenza di Dio esse solo partitamente ci vengono distribuite, e la loro minore o maggior dovizia non poco dipende anche dalle nostre buone opere, dalle quali una tale pioggia di celesti doni volontariamente largita da Dio, viene attirata sulle anime umane. Tale pioggia di grazie celesti sarà certamente sovrabbondante, se non solo faremo uso di fervorose preghiere a Dio, specialmente col prendere parte anche ogni giorno, se si può e con pietà, al Sacrificio eucaristico; se non solo faremo del nostro meglio per alleggerire la sofferenza di tanti bisognosi con servizi di cristiana carità, ma se ameremo i beni imperituri a preferenza di quelli caduchi di questa vita; se con volontarie mortificazioni terremo a freno questo corpo mortale, negandogli ciò che è illecito e imponendogli invece ciò che gli è sgradito e arduo; e se finalmente accetteremo con sottomissione come dalla mano di Dio le fatiche e i travagli della presente vita. In tal modo, secondo l’Apostolo "diamo compimento nella nostra carne, a quello che rimane dei patimenti di Cristo, a pro del Corpo di Lui che è la Chiesa" (cfr. Col. I, 24).

Mentre così scriviamo Ci si svolge, purtroppo, dinanzi allo sguardo una moltitudine sterminata di miseri, che con dolore compiangiamo: infermi, poveri, mutilati, vedove e orfani, e moltissimi che per le proprie sventure o per quelle dei loro cari giacciono talvolta in un vero languore mortale. Tutti coloro dunque che per qualsiasi motivo giacciono nella tristezza e nell’angoscia con cuore paterno vivamente esortiamo affinché, pieni di fiducia, levino gli occhi al cielo, offrano le loro pene a quel Dio che un giorno renderà loro una copiosa mercede. Ed abbian tutti presente che il loro dolore non è vano, ma è oltremodo fecondo di bene per essi e per la Chiesa, se mirando a tal fine sapranno sopportarlo con pazienza. A meglio conseguire tal proposito, giova moltissimo la quotidiana e devota oblazione di se stesso a Dio, quale usano fare i membri di quella associazione che prende il nome dell’apostolato della preghiera: associazione che in questa occasione, come a Dio gratissima, Ci sta a cuore di raccomandare nel modo più vivo.

Se ci fu mai un tempo in cui, per conseguire la salvezza delle anime, dobbiamo unire i nostri dolori agli strazi del divin Redentore, oggi specialmente, Venerabili Fratelli, tale è il dovere di tutti, mentre una guerra immane avvolge nelle sue fiamme quasi tutto l’orbe terrestre, generando tante morti, tante miserie, tante sventure. E particolarmente oggi è doveroso per tutti l’astenersi dai vizi, dagli allettamenti del mondo, dagli sregolati piaceri del senso, come pure da quelle cose terrene, futili e vane che non hanno alcuna relazione né con la cristiana formazione dell’animo, né con il conseguimento del cielo. Dobbiamo, piuttosto, ribadire nelle nostre menti la gravissima sentenza del Nostro Predecessore Leone Magno, il quale afferma che noi, col battesimo, siam fatti carne del Crocifisso (cfr. Serm. LXIII, 6; LXVI, 3; Migne, P. L., LIV, 357 et 366) e quella bellissima preghiera di S. Ambrogio: "Portami, o Cristo, sulla Croce, che è salvezza agli erranti, nella quale soltanto è riposo agli affaticati, nella quale soltanto avranno la vita coloro che muoiono" (In Psal. 118, XXII, 30: Migne, P. L., XV, 15, 1).

Prima di por fine a questo scritto, non possiamo trattenerCi dal tornare ad insistere nell’esortare vivamente tutti ad amare la santa Madre Chiesa con un amore zelante e operoso. Per la sua incolumità, per il suo più fecondo ed ubertoso incremento, dobbiamo ogni giorno offrire all’eterno Padre le nostre preghiere, le fatiche, le angosce nostre, se davvero ci sta a cuore la salvezza della universale famiglia umana, redenta col suo sangue divino. E mentre nubi minacciose offuscano il cielo, e pericoli e minacce incombono in questo consorzio umano e sulla stessa Chiesa, affidiamo le nostre persone e tutto ciò che ci appartiene al Padre delle misericordie, supplicandolo: "Volgi, ti preghiamo, o Signore, uno sguardo su questa Tua famiglia, per la quale il Signore nostro Gesù Cristo non esitò a consegnarsi ai suoi carnefici ed a subire il tormento della Croce" (Or. Major. Hebd.).

Conclusione.

Compia, Venerabili Fratelli, questi Nostri paterni voti, che sono certamente anche i vostri, e ottenga a tutti noi un verace amore per la Chiesa, la Vergine Madre di Dio, la cui anima santissima fu ripiena del divino Spirito di Gesù Cristo più che tutte le altre anime insieme: Ella che, "in rappresentanza di tutta l’umana natura", diede il consenso affinché avesse luogo "una specie di sposalizio spirituale tra il Figlio di Dio e l’umana natura" (S. Thom., III, q. 80, a. 1). Fu Lei che con parto ammirabile dette alla luce il fonte di ogni vita celeste, Cristo Signore, fin dal suo seno verginale ornato della dignità di Capo della Chiesa; fu Lei che poté porgerlo, appena nato, come Profeta, Re e Sacerdote a coloro fra i giudei e fra i gentili che per primi accorsero ad adorarlo. Inoltre il suo Unigenito, accondiscendendo alla sua materna preghiera, in Cana di Galilea, operò quel mirabile prodigio per il quale i suoi discepoli credettero in Lui (Joan. II, 11). Ella fu che, immune da ogni macchia, sia personale sia ereditata, e sempre strettissimamente unita col Figlio suo, Lo offerse all’eterno Padre sul Golgota, facendo olocausto di ogni diritto materno e del suo materno amore, come novella Eva, per tutti i figli di Adamo contaminati dalla sua miseranda prevaricazione. Per tal modo, Colei che quanto al corpo era la madre del nostro Capo, poté divenire, quanto allo spirito, madre di tutte le sue membra, con nuovo titolo di dolore e di gloria. Ella fu che, con le sue efficacissime preghiere, impetrò che lo Spirito del divin Redentore, già dato sulla Croce, venisse infuso nel giorno di Pentecoste con doni prodigiosi alla Chiesa, da poco nata. Ella finalmente, sopportando con animo forte e fiducioso i suoi immensi dolori, più che tutti i fedeli cristiani, da vera Regina dei martiri, "compì ciò che manca dei patimenti di Cristo... a pro del Corpo di lui, che è la Chiesa" (Col. I, 24). Ella, per il mistico Corpo di Cristo nato dal Cuore squarciato del nostro Salvatore (cfr. Or. SS. mi Cordis in hymno ad Vesp.), ebbe quella stessa materna sollecitudine e premurosa carità con la quale nella culla ristorò e nutrì del suo latte il Bambino Gesù.

La stessa santissima Genitrice di tutte le membra di Cristo (cfr. Pio X: "Ad diem illum"), al cui Cuore Immacolato abbiamo con fiducia consacrato tutti gli uomini e che ora in cielo, regnando insieme col suo Figlio, risplende nella gloria del corpo e dell’anima, si adoperi con insistenza ad ottenere da Lui che, dall’eccelso Capo, scendano senza interruzione su tutte le membra del mistico Corpo rivoli di abbondantissime grazie. Ella stessa, col suo sempre presente patrocinio, come per il passato, così oggi, protegga la Chiesa, e ad essa e a tutta la umana famiglia impetri finalmente da Dio un’era di maggiore tranquillità. Noi, fidenti in questa superna speranza, auspice delle celesti grazie e quale attestato della Nostra particolare benevolenza, a voi tutti e singoli, Venerabili Fratelli, ed al gregge a ciascuno di voi affidato, impartiamo con effusione di cuore l’Apostolica Benedizione.

Dato in Roma, presso San Pietro, il giorno 29 del mese di Giugno, nella festa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, nell’anno 1943, V del Nostro Pontificato.

Pio PP. XII

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