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Visualizza Versione Completa : [LIBRO] “Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno”



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25-04-09, 01:58
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COME IL FEDERALISMO PUO' SALVARE IL MEZZOGIORNO
di Carlo Lottieri e Piercamillo Falasca
Rubbettino - 2008, Pagine 215 Prezzo €14,00

Solo maggior dosi di libertà possono salvare il meridione d'Italia

Dopo essere stato per decenni una palla al piede dell'economia nazionale, il Mezzogiorno è oggi chiamato a riconoscere spazio al mercato e alle logiche imprenditoriali, divenendo la frontiera di un'Italia inedita e ricca di potenzialità.

È questa la tesi sostenuta da Piercamillo Falasca e Carlo Lottieri, persuasi che tale obiettivo possa essere raggiunto sposando l'idea di un federalismo fiscale per il Sud.

Anzichè invocare una maggiore redistribuzione a loro favore, la classe politica e l'opinione pubblica meridionale devono accettare la sfida della competizione tra territori, rinunciare allo status quo e proporre al Centro-Nord uno "scambio": alla riforma federale e all'abolizione di ogni sussidio si accompagni l'abbattimento generalizzato e per dieci anni dell'imposta sul reddito di impresa per chi investe al Sud. Il costo per l'erario sarebbe sostenibile e si creerebbero quelle condizioni favorevoli allo sviluppo economico che mezzo secolo di trasferimenti miliardari non ha prodotto.

Il sogno degli autori è quello di veder sorgere nel Mezzogiorno una nuova Irlanda, calda e multicolore, tra Pompei e la Valle dei Templi: una "tigre mediterranea" quale solo una svolta coraggiosamente federalista e in direzione del mercato può permettere.

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25-04-09, 02:02
Il sud e la sfida del Federalismo fiscale

Una recensione al volume di Carlo Lottieri e Piercamillo Falasca

di Carlo Cipiciani

Il federalismo fiscale può essere la soluzione per il sud, evitando però luoghi comuni e scorciatoie semplicistiche. Un’analisi su sfide, criticità ed opportunità del federalismo fiscale per il nostro mezzogiorno

Il federalismo fiscale è sempre in primo piano, con il ministro Bossi che tiene alta l’attenzione. Federalismo che alcuni temono, e altri vedono come unica salvezza per l’Italia. Le resistenze più forti sembrano venire dal mezzogiorno, che ne teme gli effetti dirompenti sulla spesa pubblica. Invece, il presidente della Repubblica ha invitatole classi dirigenti del sud a darsi una mossa. Un libro di Piercamillo Falasca e Carlo Lottieri “Come il federalismo fiscale può salvare il mezzogiorno” invita politici e opinione pubblica meridionale ad accettare la sfida della competizione tra territori, invece di continuare a battere cassa e fare uno scambio tra una riforma federale molto spinta, abolendo tutti i sussidi per il sud, a cui si accompagni l’abbattimento generalizzato per 10 anni dell’imposta sul reddito di impresa per chi investe nel mezzogiorno.

IL FEDERALISMO COMPETITIVO – La tesi eccheggia quella del cosiddetto federalismo competitivo, elaborata da Albert Breton, un economista neoclassico sostenitore delle virtù della “concorrenza perfetta” e del mercato: le classi politiche meridionali dovrebbero domandare alla loro gente i soldi che servono per la spesa pubblica, ci sarebbe una concorrenza virtuosa tra i territori su tasse richieste e servizi offerti, i cittadini e le imprese potrebbero “votare con i piedi”, secondo una frase ad effetto di Tiebout, un altro economista. Andrebbe abolita ogni forma di perequazione e di aiuti a favore delle aree più povere. Perché si sostiene che non è giusto che un euro di spesa pubblica “costi” al contribuente 28 centesimi in Calabria o 41 in Campania, mentre in Lombardia il costo è di 2,45 euro. Dato che spiegherebbe la preferenza per la spesa pubblica del sud: perché, sempre secondo questa tesi, la spesa del sud la pagherebbe qualcun altro. Il ddl di Calderoli sul federalismo fiscale, che prevede invece un meccanismo di forte perequazione delle funzioni essenziali, pur se legato alla definizione dei costi standard, sembra più o meno un vero “tradimento” del nord.

LE COSE SONO PIU’ COMPLICATE - Le tesi sono forse un po’ provocatorie, e le opinioni più controverse. Intanto non tutti pensano che sia scontato a priori che un sistema federale sia più efficiente di uno centralista: anzi, per molti se si escludono alcuni settori in cui la scelta tra livello centrale e livello locale è più aperta, per molte funzioni pubbliche una gestione centralizzata è tecnicamente più efficiente. L’eventuale preferenza per un sistema federale deriva semmai dall’effetto virtuoso della maggiore responsabilizzazione degli amministratori locali, la cosiddetta accountability. Ma che si può ottenere anche con modelli federali meno “hard”. Il federalismo competitivo, e in particolare il meccanismo allocativo di Tiebout si basa peraltro su ipotesi poco realistiche: assenza di economie di scala (come dire, banalizzando, che Lombardia e Basilicata sono la stessa cosa), perfetta informazione di tutti, assenza di costi di mobilità. Secondo altri economisti questo modello porterebbe ad una polarizzazione ricchi-poveri e ad elevati costi di transazione, nonché ad effetti di traboccamento. Senza andare nel complicato: difficile impedire in uno stato unitario di farsi curare in un ospedale di un’altra regione, oppure di eleggere la residenza legale in una città e vivere in un’altra. Il risultato ultimo sarebbe che le regioni più povere potrebbero addirittura subire un deflusso di base imponibile e quindi avrebbero più difficoltà a coprire le spese; oppure, che quelle con servizi migliori sarebbero chiamate ad un impegno di spesa maggiore. A meno che non si pensi davvero di impedire (e bisognerebbe capire come) ad un cittadino sardo di andare a curare il figlio ammalato al Gaslini di Genova, in Liguria.

EFFICIENZA ED EQUITA’ – Il dibattito sull’efficienza è quindi molto controverso. Ma soprattutto c’è un aspetto che il modello competitivo sottovaluta: l’equità. Perché oltre al “principio del beneficio”, va considerato anche il “principio di equità orizzontale”, per il quale due individui che pagano una stessa quantità di tasse devono ricevere la stessa quantità e qualità di servizi pubblici, sia che abitino a Milano che a Napoli: uguale trattamento degli uguali. In caso contrario è indispensabile l’intervento della perequazione. Che, e questo è un punto importante, è diversa dai sussidi. Non a caso, la nostra Costituzione all’art. 119 distingue tra le risorse destinate alla copertura delle funzioni proprie delle regioni e degli enti locali (in cui è ricompresa la perequazione per quelle con minore capacità fiscale) dalle risorse aggiuntive per rimuovere gli squilibri economici e sociali di quelle più povere (che sono aiuti veri e propri). A proposito di Costituzione, va ricordato anche l’art 53, che afferma il principio della capacità contributiva per il quale “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” ovvero che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività“.

LA PROGRESSIVITA’’ – E questo merita una riflessione, perché sposta l’attenzione dal tema del trasferimento di risorse tra regioni (regioni ricche e regioni povere) alla questione della redistribuzione del gettito fiscale tra persone (ricchi e poveri). Perché a parità di tasse pagate un cittadino deve ricevere gli stessi servizi pubblici, a Milano come a Catanzaro, e la progressività del fisco prevista dall’art.53 deve servire a ridistribuire i soldi tra chi è più ricco e chi è più povero, come accade in tutti i paesi civili, USA inclusi. Impostare la questione dicendo che i lombardi pagano le tasse per “mantenere” i calabresi o i campani, non è corretto: semplicemente, sono i “più ricchi” che pagano parte delle tasse anche per i “più poveri”, come dice l’art.53 della Costituzione. Il fatto che ci siano più ricchi in Lombardia che in Calabria produce l’effetto del “trasferimento territoriale”. Ma quello è l’effetto, non la causa. Altrimenti, estremizzando questa tesi, potremmo arrivare a dire che non è corretto che ci siano trasferimenti tra una provincia ricca (Venezia) ed una meno ricca (Rovigo) del Veneto, o tra comuni ricchi e poveri di una stessa regione.

LA SPESA PUBBLICA AL NORD E’ PIU’ ALTA CHE AL SUD! – Anche perché, guardando i dati, vengono fuori verità non sempre conosciute e si sfatano luoghi comuni: secondo molte fonti dati del governo, ad esempio, i Conti pubblici territoriali, la spesa pubblica totale in Italia è più alta al nord che al sud: nel periodo 2000-2006 è stata in media di 12.930 euro all’anno per abitante. Le regioni dove si è speso di più sono quelle a statuto speciale del nord, Lazio (che risente di Roma capitale), Liguria e Lombardia. E le regioni del nord hanno tutte una spesa pro capite più alta della media, a parte il Veneto (11.206 euro), mentre quelle del sud sono tutte al di sotto del dato medio nazionale. Le differenze regionali sono quindi prodotte dalla capacità fiscale, che al nord è molto più alta. Ma le entrate alte del nord che vanno al sud non sono elemosina: sono redistribuzione del reddito secondo il principio costituzionale della capacità contributiva. Una simulazione a suo tempo condotta dal Cifrel di Massimo Bordignon assieme alla Regione Umbria mostra che in un’ipotesi di federalismo spinto (tipo la vecchia proposta di legge della Lombardia, che comunque prevedeva una forma di perequazione) le regioni del Sud non sarebbero semplicemente in grado di finanziare le funzioni devolute solo con le loro entrate fiscali. E’ un dato di cui non si può non tenere conto. Come ha difatti fatto il ddl Calderoli.

IL DDL CALDEROLI – Il ddl Calderoli, che pure ha diversi problemi applicativi, da questo punto di vista infatti è molto equilibrato, come si è già detto più volte. Infatti distingue correttamente il finanziamento di alcune funzioni (sanità, istruzione, assistenza) che investono diritti fondamentali di cittadinanza dalle altre. Solo per le prime viene garantito il finanziamento integrale per tutte le regioni dei fabbisogni per i livelli essenziali, calcolato in base ai costi standard, tenendo anche conto delle diverse capacità fiscali, attraverso l’intervento di un fondo di perequazione. La perequazione limitata al solo costo standard serve proprio a non perequare le inefficienze provocate da classi politiche locali non all’altezza. Senza dimenticare comunque che l’equazione che chi spende meno è più efficiente è semplicistica. Se fosse davvero così, le regioni del sud con la loro spesa pro capite più bassa, sarebbero l’esempio da imitare: va quindi considerato anche il livello di servizio offerto. Per questo si parla di costi standard per livelli di prestazione. E va anche ricordato che le modalità tecniche per calcolare i costi standard saranno complesse. Invece per le altre spese, di minore significato equitativo (comunque importanti: formazione professionale, sostegno delle economie locali, turismo, ecc…), la perequazione coprirà solo le diverse capacità fiscali, provocando differenze anche sensibili tra le diverse regioni, come mostra una stima di Arachi e Zanardi, ma rispettando comunque il principio di capacità contributiva.

LA CONCORRENZA FISCALE - La proposta poi di introdurre forme di fiscalità di vantaggio a favore delle regioni del Sud, che abbassino le aliquote dei tributi loro assegnati con l’obiettivo di attrarre investimenti dall’esterno è possibile, ma ricordando che si tratterebbe di concorrenza fiscale, quindi sottoposta al vaglio della Corte di giustizia europea. E la Corte, come dimostra una recente sentenza sui Paesi Baschi, ha sottolineato che l’autonomia fiscale degli enti territoriali sub-statuali non deve avere carattere “selettivo” e che l’eventuale importo dei trasferimenti finanziari tra i vari livelli di Amministrazioni non deve produrre delle compensazioni occulte. Insomma, come insegna l’esperienza relativa all’armonizzazione fiscale in ambito Ue, la desiderabilità della concorrenza fiscale è molto controversa ed è un punto da esplorare ma che va approfondito. Ricordandosi che la Pubblica amministrazione deve comunque fornire beni pubblici fondamentali, là dove il mercato “fallisce”, anche per i teorici più “liberisti”.

MA QUALCOSA SI PUO’ FARE – Attenzione però: il fatto di non condividere alcune delle tesi più “estreme” di Falasca e Lottieri non significa non condividere invece il loro sogno: quello di veder sorgere nel sud una nuova Irlanda, calda e multicolore, tra Pompei e la Valle dei Templi, superando decenni di politiche fallimentari di incentivazione. E’ giusto ad esempio puntare ad una standardizzazione della spesa: una funzione nazionale come l’istruzione non può costare in Calabria il doppio che in Lombardia. E si possono anche riavvicinare nel medio periodo i livelli di spesa regionale ai rispettivi livelli di entrate regionali, tenendo presenti e quindi governando gli inevitabili problemi equitativi che si porrebbero. Ma, guardando ad altri paesi come la Spagna che hanno ridotto nel tempo le forti differenze regionali, ci sono molti fattori di convergenza su cui intraprendere coraggiose politiche pubbliche per ridurre i divari nord-sud e accompagnare un federalismo utile per tutti, trovando il giusto equilibrio tra modello cooperativo e modello competitivo. A partire dal capitale sociale, inteso come il livello di fiducia, impegno civile e di valori condivisi all’interno di un tessuto sociale (si vedano inchieste internazionali, come il World Values Survey). E poi, l’istruzione, gli investimenti infrastrutturali, la criminalità ed anche altro. Ma ci torneremo.

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25-04-09, 02:05
Italia confederale? Le conclusioni di Alvi

Alvi non è un secessionista per scelta ideale, non girava l’estate di dodici anni fa sulle rive del Po

di Gilberto Oneto
Da L’Opinione, 14 gennaio 2009

Recensendo il bel libro di Carlo Lottieri e Piercamillo Falasca (Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno, Rubbettino Editore), giorni fa su Il Giornale, Geminello Alvi ha concluso scrivendo che “il rischio è che solo la rottura dell’Unità nazionale possa salvare il resto d’Italia e il Meridione da se stessi. Il che richiederebbe una Confederazione radicale o la stessa soluzione che separò, anni fa, Cechia e Slovacchia”.

Alvi non è un secessionista per scelta ideale, non girava l’estate di dodici anni fa sulle rive del Po: è arrivato a queste conclusioni alla fine di un percorso personale dignitosissimo e di un ragionamento assolutamente ineccepibile. Quello che in tanti temono, in ancora pochi auspicano e in sempre più numerosi ritengono inevitabile, sembra proprio essere l’unica soluzione che possa portare vantaggi per tutti o – come si vedrà – per quasi tutti. Quando in un matrimonio si scopre che non c’è più niente da fare, che marito e moglie litigano e non si sopportano più, che si accusano reciprocamente delle peggiori nequizie ma, soprattutto, di gravare sul bilancio comune senza contribuire in forma adeguata, o – peggio – di fregarsi o nascondere i quattrini, allora non c’è altra soluzione che la separazione. Consensuale e pacifica fra gente matura e civile, litigiosa e sanguinosa fra nevrastenici e trogloditi. Lo stesso vale per una comunità che passa buona parte del suo tempo a rinfacciarsi le troppe spese o l’insufficiente contribuzione, che dedica una larga fetta del proprio impegno a dissertare di questione meridionale e di questione settentrionale.
C’è anche la scusa “esterna” per farlo, ed è la stessa che utilizzano gli unitaristi d’acciaio per difendere la loro creatura, che Miglio chiamava “finzione verbale, auspicio dell’impossibile”: la crisi economica globale che ha bisogno – dicono - per essere adeguatamente affrontata di coesione, di un governo centrale forte, di massicci interventi statali. E che i separatisti ritengono invece sia assai più facile fronteggiare riducendo il carico pubblico e frammentando lo Stato in parti più omogenee, in grado di muoversi nel mercato globale con maggiore agilità economica e duttilità strutturale.

Naturalmente l’indicazione di Alvi troverà critici feroci (ma ancor più censori che cercheranno di ignorarla e di seppellirla nel silenzio) che obietteranno che l’Italia non è la Cecoslovacchia, che la lingua, la storia, il Piave, la nazionale di calcio, la signora Ciampi, eccetera eccetera, che insomma non esiste nessun presupposto né giustificazione per una separazione. La loro scarsa frequentazione con le regole della libertà e della democrazia reali fa loro dimenticare che prima di tutto una separazione consensuale non necessita di altro che del consenso: tutto il resto è surplus per discussioni e arringhe.
In ogni caso non è neppure vero che Cechia e Slovacchia avessero ragioni più valide per spartirsi: erano unite da quasi 500 anni (che – anche in una storia multimillenaria come quella europea – non sono proprio un batter d’ali), parlano lingue assolutamente simili, professano la stessa religione, hanno usi e costumi assimilabili. L’Italia ha poco di tutto questo, religione compresa: la Chiesa – che la sa lunga – aveva ufficializzato in tempi non sospetti le differenze con la creazione delle Diocesi di Milano e di Aquileia che, quando le disquisizioni teologiche erano importanti, godevano di straordinarie autonomie.

Cechi e Slovacchi hanno deciso di fare per conto proprio e l’hanno fatto: niente risse, niente rancori, niente violenza. Oggi sono grandi amici e partners commerciali ed entrambi stanno molto, ma molto, meglio di quando dovevano condividere lo stesso angusto appartamento. Non sono i soli: neanche novant’anni prima Norvegesi e Svedesi avevano fatto lo stesso, e poi Danesi e Islandesi. Tutta gente civile che – come succede fra coppie per bene – si è spartita serenamente il mobilio ed è, così si dice in questi casi, “restata buona amica”. In più, rispetto agli esempi citati, Italia e Padania avrebbero anche il vantaggio di continuare a convivere sotto lo stesso tetto europeo, di avere la stessa moneta, le stesse regole per la lunghezza dei cetrioli, e la stessa sbrindellata politica estera comune.

A chi non può stare bene? A quelli che di unità ci vivono, alla casta politica che sul grande mucchio prospera, alle organizzazioni criminali che hanno bisogno di pascoli sempre più ampi, ai milioni che dallo Stato italiano ricevono uno stipendio grande o piccolo, ma sempre sproporzionato a quello che fanno. E poi ai patrioti inossidabili, a quelli che hanno le scalmane alle note dell’Inno, che vogliono salvare Alitalia solo per vedere il tricolore alto nei cieli, che – come uno dei più fulgidi eroi del libro Cuore – da quando hanno dato la mano a Mastella o a Scalfàro, non se la sono più lavata. È un esercito numeroso, elettoralmente pesante, bene incistato nei mezzi di comunicazione, abbarbicato in Parlamento e nei posti che contano come su un roccione del Montello.
Un vantaggio i Cechi e gli Slovacchi l’avevano sicuramente rispetto a noi: non c’era un’armata di opliti che viveva di Cecoslovacchia.

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25-04-09, 02:07
Per salvare il Sud bisogna bloccare la spesa pubblica

Una recensione di "Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno" di Lottieri e Falasca

di Carlo Zucchi
Da La Voce di Romagna, 15 febbraio 2009

In questi giorni è uscito un pamphlet di poco più di 200 pagine, dal titolo Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno, scritto a quattro mani da Carlo Lottieri e Piercamillo Falasca ed edito da Rubbettino. A differenza di quanto avviene nell’attuale dibattito politico, questo libro ha un carattere meramente propositivo e forse, proprio per questo, le raccomandazioni ivi elencate difficilmente verranno prese in considerazione.
Naturalmente, non occorre ricordare come il Mezzogiorno costituisca il problema dei problemi del nostro paese. Ebbene, ciò che salta agli occhi è che subito dopo l’unità d’Italia, nel 1861, fatto 100 il reddito medio del cittadino del nord, il reddito medio del cittadino del sud era 80.
Oggi, sempre fatto 100 il reddito medio del cittadino del nord, il reddito medio del cittadino meridionale è 55! Insomma, oltre un secolo di statalismo progressivo, lungi dall’attenuare le diseguaglianze, le ha fortemente acuite. Statalismo che ha acuito anche un altro fenomeno tristemente famoso, ossia quello della criminalità organizzata. Diversamente da quanto dice Roberto Saviano in Gomorra, il fatto che mafiosi e camorristi vogliano “fare i soldi esattamente come gli imprenditori di Amburgo o di Leeds” non autorizza a introdurre l’equazione tra criminalità organizzata e capitalismo.
Anzi, è vero il contrario, se si pensa che la Ndrangheta è nata nel 1967 grazie ai finanziamenti pubblici della Comunità Europea per la produzione dell’olio. E come non ricordare, negli Stati Uniti degli anni Trenta, la vertiginosa ascesa di Cosa Nostra grazie ai copiosi appalti pubblici dovuti al New Deal rooseveltiano? Del resto, sono proprio gli appalti pubblici a costituire il brodo di coltura in cui nuota la criminalità organizzata.

Purtroppo, oggi il sud sembra aver perduto la speranza nel cambiamento. A un presente tragico si accompagna una visione del futuro intrisa di pessimismo e rassegnazione. D’altronde è comprensibile questo, se si pensa che molte zone dell’Europa dell’est sono cresciute e stanno crescendo in maniera impetuosa grazie a politiche economiche liberoscambiste. Come tutti i paesi più poveri, hanno iniziato sfruttando le classiche armi dei paesi poveri, ossia le rimesse degli emigranti e il basso costo del lavoro per attrarre investimenti esteri. Purtroppo, una politica sindacale miope e ideologica che ha bollato come discriminatorie le gabbie salariali impedisce al nostro Mezzogiorno di sfruttare il basso costo del lavoro, così gli imprenditori del nord bypassano il Mezzogiorno per trasferire le loro produzioni direttamente in Romania e in altri paesi dell’est europeo. Certo, qualcuno obietterà: “Ma come? Se il reddito medio di un lavoratore meridionale è il 55% di un lavoratore del nord, perché abbassarlo ancora?”. Prima di tutto, dato che il costo della vita nel meridione è molto più basso che al nord, conservare gli stessi salari nominali in entrambe le aree significa automaticamente avere salari reali più alti nel Mezzogiorno, che è la parte più svantaggiata. Così, se dobbiamo dare 100 sia al lavoratore del nord sia a quello del sud, avremo che, su 10 persone, per quella cifra avremo 9 o 10 persone occupate al nord e 5 al sud. Cinque persone che prendono 100 e cinque persone che prendono zero, in media fanno 50. Infatti, non è un caso che mentre la disoccupazione giovanile in Lombardia è del 7%, in Calabria è del 39%. Magari, se si riducesse di un quarto il salario nominale nelle regioni del Mezzogiorno, la disoccupazione diminuirebbe e con essa il divario tra salari del Nord e salari del Sud. Insomma, più contrattazione decentrata, ma la Cgil non vuole saperne.

Ma oltre alla contrattazione decentrata, la proposta di Lottieri e Falasca, è quella di bloccare la spesa pubblica che da decenni alimenta il ceto politico meridionale e la criminalità organizzata senza creare sviluppo e fare del Mezzogiorno, per un decennio, una No Tax Area per le imprese. La cosa si potrebbe fare, ma il ceto politico se ne guarda bene, perché tagliare la spesa significherebbe togliere il potere a lorsignori. Inoltre, la proposta cozzerebbe contro il conservatorismo mentale delle nostre élites politiche e culturali, tra le quali primeggiano i sostenitori della spesa pubblica quale motore dello sviluppo, ai quali sarebbe interessante far notare il modo in cui ogni regione contribuisce al finanziamento della spesa pubblica statale. Per un euro di spesa pubblica la Lombardia contribuisce per 2,45 euro (- 1,45 euro di spesa), mentre la Calabria contribuisce per 0,27 euro (+ 0,73 euro di spesa). Con quali risultati in termini di ricchezza è sotto gli occhi di tutti.

(...)

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