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Visualizza Versione Completa : Gli editoriali di Notizie Radicali



il Gengis
31-03-09, 20:51
Carceri: continua la strage-suicidi. Il 25 % dei detenuti risulta positivo al test TBC, il 15% in fase di AIDS conclamato


di Valter Vecellio

La strage continua, in quell’inferno che, a detta dello stesso ministro della Giustizia Angiolino Alfano, sono la stragrande maggioranza delle carceri italiane. Il 26 marzo, a Poggioreale, il carcere napoletano. Francesco Esposito, un giovane di 27 anni, ha atteso che i suoi compagni di cella uscissero per la “passeggiata”; una volta rimasto solo, si è annodato al collo un lenzuolo e si è tolto la vita. Esposito era finito in carcere per rapina e spaccio di stupefacenti il 17 febbraio scorso. E’ il terzo suicidio che si verifica nel carcere di Poggioreale dall’inizio dell’anno.



Caso analogo quello che si è consumato il 28 marzo. Un ragazzo di vent’anni, se ne hanno solo le iniziali, C.C., recluso nella casa circondariale di Catania, si è ucciso impiccandosi nella sua cella. Il ragazzo era in carcere appena da una settimana. Sufficiente per fargli preferire alla detenzione la morte. Secondo l’accusa, assieme a due complici, avrebbe rapinato una tabaccheria. Le immagini della telecamera lo avevano immortalato, lui si era difeso sostenendo che si trovava casualmente nel negozio. Non importa qui stabilire se C.C. era o no innocente. Conta che sette giorni di detenzioni lo hanno fatto crollare, e ha preferito suicidarsi, dopo appena sette giorni di detenzione.



Una settimana prima il presidente della commissione per i diritti umani del Senato Pietro Marcenaro aveva effettuato un sopralluogo presso tre penitenziari siciliani: l’Ucciardone di Palermo; la casa di reclusione di Favignana e il carcere di Catania. Hanno confermato, al termine della visita, quello che più volte ha denunciato la parlamentare radicale Rita Bernardini: gravissimi problemi infrastrutturali, organizzativi e di sovraffollamento; condizioni di vita disagiate, carenze di personale.



In particolare, all’Ucciardone si segnala la “scarsa presenza di attività rieducative, circostanza questa che rende difficile ogni azione di recupero e reinserimento sociale”. La situazione di

Favignana “costituisce un esempio di come non debba essere un carcere in una società civile…le celle si trovano sotto il livello del mare, sono umide, prendono luce solo dalla porta, non dispongono di finestre e l’attività della magistratura si sorveglianza appare del tutto insufficiente e approssimativa soprattutto per quanto attiene al trattamento degli internati, nei confronti dei quali si opera alla stessa stregua dei detenuti, privando gli stessi di attività lavorative adeguate”.



E veniamo alla situazione catanese, definita semplicemente e brutalmente “drammatica”: “Nonostante i lavori di ristrutturazione, puntualmente eseguiti dalla direzione, nelle celle vivono fino a tredici reclusi, alcuni costretti a dormire per terra per mancanza di adeguati spazi. E’ urgente che si dia rapida attuazione alle recenti disposizioni varate dal Parlamento in materia di edilizia penitenziaria, così come è urgente che la regione siciliana recepisca le norme in materia di sanità carceraria, al fine di evitare il pericolo della sospensione delle cure mediche”.



Nel frattempo, la situazione incancrenisce. Entro la fine della settimana, denuncia l’OSAPP, l’organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria, i detenuti nelle carceri italiane raggiungeranno quota 61.000, a fronte di una capienza di 43.000 posti. “E’ inammissibile”, si legge in una nota dell’OSAPP, “che tutto sia rimandato a maggio, quando il Commissario straordinario presenterà il piano per l’incremento dei posti letto negli istituti di pena. Nel frattempo non si muove nulla, e il numero dei detenuti cresce”.



Viene fatto un esempio emblematico, quello della casa circondariale Lo Russo-Cotugno di Torino: sono presenti 1.600 detenuti, quando in realtà le strutture ne possono ospitare solo 923: “Qui si pratica la carcerazione ginnica, che consiste nel tenere i reclusi in palestra, costretti con un materasso a dormire per terra. E’ uno dei tanti casi dove le condizioni igieniche sono estreme e i carichi di lavoro per tutto il personale delle sezioni detentive, della matricola, del casellario, della sala avvocati e così via, si sono praticamente quadruplicati”.



Prima di finire, una notizia allarmante: la tubercolosi, insieme all’HIV e alle epatiti virali, è tra le malattie più diffuse in carcere. Gli ultimi dati sulla presenza di questa e delle altre patologie in carcere sono stati diffusi – ma da tutti ignorati – dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, che ha stimato che sulla popolazione presente nelle carceri sono circa tremila i detenuti affetti da HIV e ben il 15 per cento in fase di AIDS conclamata, il 38 per cento dell’intera popolazione detenuta è colpita dall’epatite virale da HCV e il 25 per cento risulta positivo al test per l’infezione da tubercolosi.


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il Gengis
31-03-09, 20:52
Una mostruosità italiana: la storia contemporanea viene studiata quasi esclusivamente sulle carte di polizia
Fini e Schifani: liberalizzate l’accesso agli archivi delle Commissioni parlamentari d’inchiesta


di Salvatore Sechi

Le condizioni degli archivi italiani sono da Terzo Mondo. Per passare una manciata di giorni negli Uffici storici del Ministero della Difesa, degli Affari Esteri, dei Carabinieri, della Fondazione Gramsci è necessario prenotarsi mesi prima. L’ora di apertura è intorno alle 9,45, la chiusura intorno alle 17. Il sabato incombe la santissima festa del week end. Non c’è un battente che si schiodi, per la felicità degli studiosi che vengono da regioni e Stati lontani da Roma e anche dall’Italia.



Il servizio più esteso è fornito dall'Archivio Centrale dello Stato, che è aperto dalle 9 fino alle 19 del pomeriggio, compresa la mattinata di sabato.



Purtroppo questo archivio soffre di un limite gravissimo. Mette a disposizione degli studiosi quanto scartano (ma non tutto quel che dovrebbero scartare) i principali ministeri. Soprattutto esso si alimenta di quanto gli destina quello degli Interni.



Questo significa una cosa molto precisa: nel nostro paese le ricerche di storia contemporanea si svolgono quasi esclusivamente sulle carte di polizia. Poichè gli Interni sono un Ministero molto sensibile alle preoccupazioni politiche del ministro e del governo in carica, il fatto che sia il principale fornitore di documentazione ai nostri archivi non è una bella immagine che la democrazia antifascista e repubblicana offre di sè.



Non possono essere condotte, com’è indispensabile per un elementare studio a carattere scientifico, ricerche a carattere comparativo, dal momento che le altre fonti presentano limiti di fruibilità ancora più gravi.



Infatti, le carte dell'Arma dei carabinieri (esiste dal 1814, ed è presente in ogni città e paese, mentre polizia e prefetture hanno un radicamento solo provinciale) cominciano solo da pochissimo - grazie al colonnello G.Barbonetti e al maresciallo G. Salierno - ad essere messe a disposizione e sono comunque impoverite da una scellerata politica di mancata conservazione. Mi riferisco alla licenza attribuita alle singole stazioni dei carabinieri di cestinare le loro carte,invece di trasferirle e centralizzarle in un luogo unico a Roma. Penso, però, anche alla consultazione centellinata come avviene nell'Archivio della Difesa.



Ho anche potuto constatare come le stesse questure delle principali città (Genova, Torino, Reggio Emilia, Bologna, Milano ecc.), in assenza di regolamenti autorizzativi dall'alto (cioè da parte del Ministero dell'Interno), tengono a muffire in sottoscala e buggigattoli decine di migliaia di carte. Volentieri le destinerebbero agli archivi provinciali dello Stato. Ma i ministri, di destra (Giuseppe Pisanu) e di sinistra (Giuliano Amato e Arturo Parisi) , ai quali ho segnalato questa disponibilità, hanno fatto orecchioni da mercante.



Dove, come all'Archivio Centrale dello Stato, non si è sottoposti al cilicio della prenotazione, la li-bertà di accesso si paga con la più assoluta inefficienza. A parte le condizioni disastrose dei servizi igienici e dell’assenza di un bar interno, come sanno gli studiosi, il numero dei faldoni (o buste che dir si voglia) che si possono ricevere in un intero giorno è di appena 4.

Siamo tornati alla media di quando ero studente, cioè negli anni Sessanta.



Per rendersi conto di ciò che questo significa, ricordo al lettore che presso The National Archives di Washington e di Londra la consegna dei faldoni avviene a un ritmo continuo, e dura praticamente tutto il giorno, fino al sabato.



In secondo luogo, in Italia nelle 4 buste che riceve lo studioso sfortunato può trovare poco o nulla di quanto ricerca, e quindi in una manciata di minuti il suo lavoro è bello che esaurito.Può consultare i cataloghi per predisporre degli ordini di altri 4 faldoni per il giorno dopo, ma intanto è sulle spese vive di albergo, trasporti, pasti in una città non più a buon mercato come Roma.



Mi pare corretto denunciare la politica malthusiana del Ministero per i beni culturali, le miserrime risorse (a cominciare dagli spazi fisici e dalle attrezzature) che i Comandi delle nostre Armi riservano agli archivi,la scarsità di personale (per la verità non di rado mal distribuito e utilizzato, quando non scarsamente qualificato) e di strutture (macchine per fotocopie, microfilm ecc.),e in generale il disinteresse dei governi per la ricerca storica.

Ma a questo risultato deplorevole concorrono i treni persi dai sovrintendenti degli archivi statali. Infatti, quando in saccoccia c’era qualche soldo non hanno provveduto nè a microfilmare il materiale nè a digitalizzarlo.



Si è trattato di decisioni semplicemente irresponsabili. In primo luogo si sarebbe evitato lo stato attuale di distruzione (per consunzione della carta) della documentazione raccolta. In secondo luogo si sarebbero potuti vendere i microfilm ai singoli studiosi, e ai numerosi istituti e centri di ricerca in Italia e all’estero, evitando viaggi e soggiorni nel nostro costosissimo paese.



E' la politica che da molti decenni hanno invece seguito, con successo, gli Stati Uniti.

Una mano imprevista, ma decisiva, a questa devastazione della possibilità di una ricerca storica seria (cioè fondata sul confronto di fonti diverse) la fornisce il parlamento. I presidenti Fini e Schifani ignorano che le commissioni parlamentari d’inchiesta invece di de-secretare le carte di cui sono destinatari nel corso dei lavori di indagine, le trasmettono all’Archivio Storico del Senato con tre micidiali vincoli.



Il primo: recependo passivamente la richiesta di non consultabilità disposta dagli enti erogatori (eppure un organo bi-parlamentare sovrano come una Commissione parlamentare non può essere assoggettata ai vincoli disposti, spesso oltre 50-60 anni fa, da ministeri, dell’intelligence, delle Armi ecc. , a meno che non si tratti di documenti contenenti elementi di comprovata e attuale “sensibilità”). Il secondo: stabilendo,comunque, un periodo di 20 anni,una volta trasmessi all’archivio del Senato, per la loro consultabilità. Il terzo: imponendo (come fa il Ministero della Difesa) un controllo ulteriore nei confronti anche su documenti non secretati.



Il principio dello Stato etico, a ragione contrastato da Gianfranco Fini nella pessima legge sul testamento biologico, deve essere stroncato anche quando si applica al diritto di accesso degli studiosi alla documentazione archivistica.

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il Gengis
31-03-09, 20:52
Perché i radicali debbono chiudere (i motivi per cui debbono resistere)


di Michele Rana

Mi inserisco, in punta dei piedi, nel dialogo tra Guido Biancardi e Valter Vecellio.

Comprendere il perché i radicali e i Radicali, nelle loro diverse forme organizzate, debbono chiudere credo ci aiuterà a comprendere anche come e meglio resistere, conservare la vitalità, anche ambigua, che da più di cinquant’anni continua a contraddistinguerci.



“Il non essere riconoscibili” è sicuramente nei mezzi e nelle modalità di approccio alla vita politica: il fine, l’obiettivo ultimo, la cifra della nostra azione è stata sempre quella della “vita del diritto”, della vita dello “stato di diritto”, della legalità democratica esistente quale piattaforma, anche inadeguata ma necessaria, dalla quale far maturare e vivere anche ipotesi di riforma.



Se c’è una ragione determinante per dare, infatti, seguito ad una nostra esclusione è davvero proprio questa. Prima ancora di ogni routine imposta dall’agenda setting dei media - quale presupposto ineludibile per il gioco democratico e per il concreto esercizio di ogni libertà - abbiamo costantemente richiamato il potere, i massimi organi costituzionali, all’osservanza della Costituzione (non quella materiale, quella vivente) ma quella scritta e vigente, alla legalità.



Insomma questo assetto oligarchico, produttore del consolidamento delle premesse esplicite di uno stato etico e di uno stato di polizia, abbisogna, oggi più di ieri, a livello dell’introduzione e della non applicazione delle regole fondamentali e costituzionali, dell’assenza dell’occhio vigile e delle lotte radicali e dei Radicali.



La reintroduzione di leggi elettorali proporzionali, al cospetto invece di chiari esiti referendari, la restrizione del godimento dei diritti civili e politici mediante la possibilità di realizzare una totale esclusione di intere opzioni politiche organizzate (il Parlamento dei nominati frutto di sbarramenti, premi e liste bloccate, l’informazione totalmente e fuori da ogni regola controllata dall’assetto partitocratrico) oggi si accompagna con un movimento franoso – travolgente - che sempre di più, contro Costituzione, esclude il Parlamento e l’azione del singolo parlamentare dall’iter legislativo e che mette in discussione l’esercizio libertà individuali frutto delle conquiste dei due secoli precedenti.



E’ vero che solo noi Radicali continuiamo ad imprecare e lavorare - dopo aver tentato una dialogo nei primi anni novanta - contro il fare, come fa da quasi venti anni a questa parte, di chi predica la “rivoluzione liberale” di Gobetti e la “religione della libertà” crociana, di chi invoca fasi costituenti e riformatrici ma poi razzola malissimo nella più ostinata conservazione delle regole costituzionali che vi sono e, nei fatti, a produrre la vigenza di prassi (magari presidenzialiste) non scritte in alcuna Carta.



Rispetto a questo tanto “i capaci di tutto” – che a sentire ben due passaggi di Berlusconi alla convention di Roma del PDL si preparano a modificare i Regolamenti Parlamentari come se vigesse un presidenzialismo che invece non si rinviene nelle norme vigenti – quanto “i buoni a niente” – complici della pessima gestione dell’affaire della Commissione di Vigilanza ancora inerte ai suoi adempimenti, ai suoi obblighi – per portare a casa le loro convenienze, la loro occupazione, hanno sempre più bisogno di annichilire la “cicala radicale” (e con essa anche la Radio) capace ancora di far venire fuori questa strage, sempre più grave, di legalità istituzionale e costituzionale.



Temo che anche il buon riflesso dell’attuale Segretario del PD Franceschini nel denunciare che, per le regole vigenti di incompatibilità, costituisce un inganno nei confronti dei cittadini elettori che l’attuale Presidente del Consiglio si presenti come capolista ovunque e in ogni circoscrizione – verrà presto messo nel dimenticatoio, sottovalutato.



Invece, di contro, c’è da giurarci che l’invito di D’Alema e dei suoi accoliti ad una nuova Commissione bicamerale “costituente”, al cospetto invece delle chiare procedure previste dall’art. 138 della Costituzione, verrà ben alimentato dagli organi di informazione nei prossimi giorni, poiché necessita dell’accordo e del dialogo tra le segreterie e non all’interno della sede propria, il Parlamento.



Se, insomma, il fine radicale è (deve continuare ad essere) sempre lo stesso, esso è il filtro con cui soprattutto guardiamo anche le prossime scadenze elettorali, in primis quella europea, ma anche la nostra stessa r-esistenza organizzata che questo regime, sempre meno implicitamente, vuole mettere in discussione.



E’ la scelta del mezzo (e non la messa in discussione del fine) che deve divenire l’ennesima riprova di una ambiguità vitale; non un mezzo qualsiasi ma un mezzo che renda giustizia al fine, che gli sia coerente e non costituisca la sua contraddizione.



Certo è sempre più difficile immaginare un esserci politico che non divenga oppure venga fatto leggere come una forma di complicità, di compromissione (e non semplicemente una legittima difesa) con il regime antidemocratico che occupa l’Italia; come d’altronde il tentare di esserci partendo da noi, con le nostre lotte di legalità, giustizia e diritto – oggi più di ieri – ci espone alla mannaia di coloro non vedono loro, al di qua e al di là del Tevere, di ridurci all’irrilevanza se non all’annientamento mediante quella che verrà esposta come l’ennesima sconfitta di chi, proprio radicale, non si rassegna a questo bipartitismo.



La nostra situazione non solo non è semplice ma è grave per le sorti dei brandelli di democrazia che residuano, proprio perché esplicitamente ci poniamo la lotta contro questo regime partitocratrico che ci opprime.



Di certo - per chi ci circonda e per chi conta sulla nostra esistenza per dare corpo alle sue speranze ma senza aver dato mai un sostegno economico, mai un voto, senza averci mai garantito un riconoscimento pubblico e politico ovvero aver sostenuto i nostri diritti – sempre più costituiamo un alibi alla loro inazione, se si vuole al loro parassitismo.



Gli esiti di Chianciano e del post- Chianciano così come l’esperienza della Rosa nel Pugno ne sono un esempio.



Una forma di astensione, di “mutismo organizzato” della galassia radicale, compresa la Radio nella parte non relativa al servizio pubblico potrebbe, di certo, portare con sé il rischio di un aggravamento e di una precipitazione della frana antidemocratica e anti-legalitaria ma potrebbe far coagulare, in un tempo breve, attorno a noi chi è effettivamente non solo preoccupato ma consapevole di dover fare qualcosa per e con i Radicali.



Far scontare un’anticipazione della nostra assenza, fin da ora, non credo lascerà inerti molti di quelli che ora confidano in noi pur non muovendo nemmeno un dito per le nostre urgenze, per l’urgenza dello stato democratico e di diritto (che manca).



In questo caso ne vivrebbero, consapevolmente, gli effetti, essendovi ancora margini per mandare a casa gli occupanti; nel caso in cui il regime, per restrizione definitiva dei margini di agibilità democratica, chiuda ai radicali e i Radicali organizzati potrebbe essere troppo tardi, persino per la nonviolenza per uno scivolamento vissuto come ineluttabile, a cui non si è capaci e non ci si vuole opporre.

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zulux
03-04-09, 18:49
Che laico, quello Stendhal. Sembra quasi Barney*


di Angiolo Bandinelli

Scopro, tardi, i “Souvenirs d’egotisme” di Stendhal. Ci ritornano in una nuova e accattivante veste ma ancora nella traduzione di Silvia Croce, buona e fresca come quando apparve nella grigia BUR, la collana di Rizzoli che consentì agli italiani, immiseriti dalla guerra, di leggere i classici di tutto il mondo. Non conoscevo queste pagine, nella presunzione della gioventù pensavo di dovermi spendere solo sulle opere cosiddette maggiori di un autore, non sulle minori o meno citate dai critici. Le scorro ora con il fiato sospeso, ne sono travolto e decido di dedicar loro l’odierna colonnina laica. Sì, perché poche altre pagine conosco che mi cantino, come queste, le virtù, o anche le debolezze se non le nefandezze dell’io (del soggetto, dell’individuo). Siamo continuamente sballottati qua e là tra le ondate di testi filosofici, economici, politici, moralistici, religiosi, ecc., che esaltano l’io (il soggetto, l’individuo) o affondano spietatamente il coltello nelle sue viscere. Non se ne può più, ad ogni affermazione corrisponde il suo controcanto; c’è l’elogiatore e c’è il denigratore, inquisitivo contro questa figura, fiore all’occhiello - o sottoprodotto - dell’illuminismo. Al filosofo scettico, materialista, cinico, laicista, segue il moralista, il credente, il devoto (anche ateo, non fate caso all’antinomia, il mondo oggi vive di antinomie). Impossibile dare retta all’uno o all’altro, le loro ragioni, benché in conflitto, si somigliano e si sovrappongono.



L’io invano cercato nelle opere di filosofi e moralisti lo troviamo invece, integro, in questo Stendhal: un impasto profondamente vitale di densi e variopinti ingredienti. Chi di quei pedanti oserà puntare il dito, condannare le pagine deliziose nelle quali un cinquantenne ripercorre e ripensa la sua vita? Nella “Vie d’Henry Brulard”(ahimè, non l’ho letta, correrò a comperarla) Stendhal aveva scritto: “Ah!…Je vais avoir cinquante ans, il serait bien temps de me connaître”… E lo fa, con il candore di una Maddalena dagli occhi liquidi rivolti al cielo; lei offre al lubrico ammiratore le tette candide e fragranti, Stendhal ci apre un cuore “mis a nu”, schietto nella sua voglia di mostrarsi, senza reticenze, spudorato, libertino, infantile e leggero, anche o soprattutto quando ci racconta i suoi intrighi amorosi, veri o immaginari, fortunati o, spesso, infelici e delusi. No, per favore, non tirate in ballo l’agape cristiana o l’eros pagano. Qui non c’è agape e non c’è eros, c’è solo la follia eterna dell’amore, della gioia e dei tormenti irreparabili del cuore. Certo, Stendhal non ci sarebbe stato senza Agostino e senza Rousseau, ma lasciateci dire che di fronte a Stendhal Agostino è un barboso pedante e Rousseau un bugiardo svergognato. Stendhal è, per quel che oggi mi si chiarisce, l’uomo, l’individuo consapevole di quanto sia effimera, tormentosa e turbolenta la vita, ma attento a goderla come dono prezioso, senza volgarità o eccessi ma anche nella più assoluta libertà. Stendhal non avrebbe concesso ad un prete di confessarlo, la confessione è, in lui, una prerogativa esclusiva del borghese al top della sua fenomenologia storica; è un laico che vive la propria antropologia come un mistero, forse come una condanna irredimibile, ma anche con tutta la passione e l’energia che ne è il misterioso motore.



Delizie dell’egotismo! Meraviglie dell’introspezione! Aveva scritto: “J’ecris, je me console, je suis heureux”. Vorrei poterlo imitare. Mi pare sia stato Goethe a scrivere che la profondità è nella superficie, e credo si possa dire che in Sterne il soggetto, l’io narrante, non compie, non completa mai un percorso, un progetto, che gli viene sempre spezzato e disperso dalle ondivaghe occasioni cui l’io si piega. In Sterne, e forse in questo Stendhal, cosa - se non il caso, o quantomeno il capriccio - fa girare l’io qua e là come una banderuola leggera? Baudelaire definisce Constantin Guys come il prototipo dell’artista moderno, “flaneur” nella contemporaneità. Anche Stendhal vive nella sua contemporaneità, trasvolando tra le mille figurine di una società pulsante di frivolezze settecentesche e di passioni romantiche. Non trovate che somigli già un po’ a Barney?



Il moralista mi rimprovera perché esalto l’egoismo? No, io non esalto l’egoismo, mica sono un liberista, ammiro invece la pianta delicata dell’egotismo. L’egoismo è torbido, non gli interessa ed evita di conoscersi, occupato com’è a riempire il ventre. L’egotista stendhaliano è tutto intento a conoscere se stesso, apre e chiude i mille specchi del suo io, della sua vita. Non provate a inseguirlo, a trattenerlo, voi preti, confessori, politicanti, moralisti. Di questa specie d’uomo ce n’è in giro troppo poca, forse è per questo che il mondo potrà pure essere laicista, ma è scarsamente laico.


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NOTE



(*) Da “Il Foglio”
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zulux
03-04-09, 18:50
4 aprile. Da occasione di piazza a occasione di idee di riforme che servono al paese, ai lavoratori


di Michele Rana

Nell’imminenza della manifestazione del 4 Aprile della CGIL la tentazione sarebbe di aggiungersi alla schiera - c’è da giurarci - del milione, poco più o poco meno, di persone che imprecheranno, giustamente, contro la pochezza demagogica delle misure prese da questo Governo contro la crisi.

Ma qualche migliaio di radicali italiani (questi sono i numeri a cui ci ha ridotto quest’infame regime partitocratico), unici volontari della politica nostrana (che si sarebbero pagati comunque di tasca propria anche la trasferta a Roma) di certo non avrebbero aggiunto nulla al colpo d’occhio, alla folla colorata di lotta (?) che vi sarà.

Quello che si ritiene più utile è provare ad instaurare un dialogo, un interlocuzione possibile con la CGIL, di più con le ansie dei suoi lavoratori iscritti.

Si è già detto anzi scritto, in merito all’Accordo separato, dell’apparente scorciatoia percorsa nel provare a scaricare i costi della crisi sempre sui soliti noti: i lavoratori dipendenti; come di quella più pericolosa di ingabbiare le rivendicazioni sociali che comunque vi saranno annullando, di fatto, il diritto individuale allo sciopero.

Al Circo Massimo, ne sono sicuro, ci saranno rivendicazioni giuste, lavoratori prossimi alla cassa integrazione o già cassa integrati, atipici e lavoratori a tempo determinato a cui non verrà rinnovato il contratto, lavoratori dipendenti che non ce la fanno proprio ad arrivare a fine mese.

Il tema centrale, la lotta da non rinviare, proprio in questo momento di crisi - dura, vera e si teme prolungata – anche il 4 Aprile, dovrebbe essere quello della riforma del welfare, di un sistema di protezione degli individui che in Italia raggiunge poco più del 30 % dei lavoratori che perdono il loro lavoro e che affrontano periodi, più o meno lunghi, di non lavoro.

La lotta dovrebbe essere per una riforma complessiva verso un sistema davvero universalistico: l’abbandono dell’iniqua cassa integrazione, pensata e peggio ancora attuata in favore degli “imprenditori amici” che la chiedono ad ogni piè sospinto per statalizzare il loro rischio di impresa o le loro incapacità, in favore di un’indennità di disoccupazione, non solo per questo periodo di emergenza, reale e concreta, che raggiunga, come avviene nei paesi nord europei, la stragrande maggioranza delle persone senza lavoro.

Passare da un sistema di welfare particolaristico ad uno universalistico consentirebbe, inoltre, di affrontare anche l’altra piaga, quella dei precari tra i precari e cioè dei lavoratori in nero – costretti all’illegalità dallo stato di necessità in cui versano - che non si può pensare di sconfiggere solo con la repressione, con gli Ispettori del Lavoro, i Carabinieri, la Polizia e la Guardia di Finanza.

Gli ultimi degli ultimi, i lavoratori in nero (oggi in stragrande maggioranza stranieri) spesso sono dimenticati o, di fatto, abbandonati dalle rigidità ideologiche della confederazione di Guglielmo Epifani.

E’ davvero necessario tornare a discutere sul come far emergere questo incredibile fenomeno, questo sommerso - oggi escluso da ogni forma di welfare - che di certo cospira, a tutto vantaggio dei padroni, con le tutele di questi lavoratori; lavoratori che proprio non esistono né per lo Stato ma nemmeno per le confederazioni sindacali.

C’è da sperare, invece, che il 4 Aprile tutto non si riduca alla mera invettiva, peraltro giustificata, contro il “capace di tutto” magari al fine ottenere, con la convergenza già realizzata anche di UIL, CISL e Confindustria, l’allungamento del periodo di cassa integrazione ordinaria da 52 a 104 settimane; costituirebbe l’ennesima occasione rinviata per lottare per le riforme strutturali di cui il paese avrebbe bisogno e per muoversi verso l’obiettivo del 100% dei lavoratori raggiunti dall’assistenza dello Stato; peggio diverrebbe l’ennesimo concorso col padrone per tutelare, con i soldi di tutti, le solite grosse famiglie di imprenditori amici.

In favore dei più deboli, dei miserabili e contro le oligarchie parassitarie delle risorse statali, mutuando molto se non tutto dall’ “Abolire la miseria” di Ernesto Rossi, al nostro paese servono idee autenticamente riformatrici, serve un confronto di idee, a partire da quelle di Marco Biagi che, al di là di ogni retorica celebrativa, questo Governo sembra aver proprio dimenticato.

Noi radicali al dialogo ci teniamo e ci terremo; ed Epifani ?

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zulux
03-04-09, 19:11
I possibili terreni per una riscossa democratica. A partire da una riflessione di Salvati
Se il Vaticano vuole aiutare il paese autoriduca prebende e finanziamenti


di Valter Vecellio

Michele Salvati, in un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” del 25 marzo (“Ritorno a sinistra”), conclude il suo articolato ragionamento sulla crisi dei “liberal” e le prospettive dei riformatori (a dire il vero Salvati parla di “sinistra riformista”), sostenendo che “se vuole tornare a vincere, è probabile che il centrosinistra, se è all’opposizione, deve sfruttare in questa fase gli errori e l’impopolarità dei governi o argomenti locali, diversi da Paese a Paese. Una strategia unificante, com’è stata quella della Terza Via di Tony Blair e Tony Giddens alla fine degli anni Novanta, sembra in un momento sembra fuori dalla sua portata”.



Per quel che riguarda gli errori (non l’impopolarità) l’opposizione in Italia ha solo l’imbarazzo della scelta: ogni giorno ce ne sono in quantità industriale, l’incredibilità della situazione è data da due elementi: che ci sia un presidente del Consiglio ed un esecutivo che riesca a commetterne di gravissimi ogni giorno, da una parte; dall’altra un’opposizione che non sa e non riesce sfruttarli, e anzi spesso gioca a favore dell’avversario. Per quel che riguarda gli “argomenti locali”, anche qui si nutre un certo pessimismo: nelle regioni del nord del paese è più che probabile che la Lega di Umberto Bossi mieta ulteriori successi. Un fenomeno che meriterebbe analisi più accurate di quanto finora sia accaduto di leggerne: il personale politico della Lega sembra essere uno strano mix: da una parte protagonista di un’azione demagogica e populista che fa esplicitamente leva sulla pancia degli elettori, e gli istinti peggiori dei cittadini. Al tempo stesso sarebbe opportuno che un centro studi o un istituto di ricerche realizzasse inchieste sul modo di amministrare la cosa pubblica nei comuni e negli enti locali gestiti dalla Lega. Se ne ricaverebbero – è un’impressione a pelle – delle sorprese. Evidentemente si può essere demagoghi, populisti e insieme buoni amministratori. E questo senza che vada in conflitto con una politica di “occupazione” esplicita (e rivendicata) di ogni postazione occupabile. Un metodico, programmatico assalto alla diligenza con piena soddisfazione dei passeggeri, insomma.



Se a questo dato si somma la pessima prova data dagli amministratori del centro-sinistra nelle regioni meridionali, il quadro è completo; e il PD su questo fronte ha poco o nulla da sperare. Pagherà in modo drammatico le scelte e le non scelte in Campania, in Calabria, in Basilicata. E’ indicativa, al riguardo, la lettera degli oltre mille amministratori e dirigenti locali della Basilicata che annunciano di abbandonare il PD; si aggiunga la spregiudicata, populista campagna di Antonio Di Pietro, cui uno dei giornali del PD, “l’Unità”, continua a dare masochisticamente spazio, se ne ricava abbastanza per poter fare la facile e semplice profezia: andrà male.



E dire che esiste un terreno su cui il fronte progressista potrebbe agevolmente risultare vincente, solo che lo volesse. Due sondaggi di queste ore forniscono dati inequivocabili. Tenato Mannheimer sul “Corriere della Sera” osserva che in materia di Bio-testamento tre italiani su quattro auspicano la possibilità di richiedere liberamente l’interruzione delle cure qualora ci si trovasse in una situazione di coma irreversibile: “Questa opinione risulta più diffusa tra chi si dichiara laico, ma coinvolge anche il 55 per cento – vale a dire la maggioranza assoluta – di chi si professa credente e frequenta regolarmente le funzioni religiose”.



Anche sulla questione più spinosa, la possibilità di interrompere la nutrizione l’idratazione nel caso di coma irreversibile, il 68 per cento auspica di poter decidere liberamente in merito al testamento biologico: “Ancora una volta questo desiderio è espresso anche dalla gran parte dei cattolici praticanti: tra costoro il 47 per cento è favorevole, il 24 per cento contrario, ben il 29 per cento dichiara di non riuscire a formarsi un’opinione precisa al riguardo”. Come sia, nell’insieme, “emerge come il 68 per cento degli italiani auspichi una piena libertà di scelta, comprese la nutrizione e l’idratazione, nel testamento biologico”.



L’altro sondaggio significativo (sarà per questo che è scivolato via tra l’apparente indifferenza di tanti e la certa irritazione di qualcuno?), è quello curato dal professor Ilvo Diamanti per “Repubblica”: “Bio-testamento e preservativo: gli italiani bocciano il papa”. Anche qui, risultati in equivoci: l’80 per cento dei cittadini dice sì al testamento biologico e alla fecondazione assistita. Sull’utilizzo e l’utilità dei preservativi solo 2 italiani su 10 sono d’accordo con Ratzinger. Insomma, se ne ricava: più Pannella, Bonino, radicali, meno Binetti, Roccella, Quagliariello teo-dem, curia vaticana. Insomma, l’opposto di quanto accade. Una riflessione di Salvati su questo sarebbe probabilmente utile e preziosa e certamente benvenuta.



Per inciso: qualcuno consigli Sandro Bondi di dedicare più tempo alle sue liriche, e di non avventurarsi su terreni per lui accidentati, come compiti e prerogative della Corte Costituzionale. E ancora: possibile che nessuno abbia osservato che la CEI invece di istituire fondi con cifre risibili di assistenza a bisognosi, meglio avrebbe fatto ad annunciare anche una riduzione dell’10, del 5, dell’1 per cento di quel fiume di denaro che il Vaticano e tutte le articolazioni ecclesiastiche incassa dallo Stato, dalle regioni, dalle province?

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Burton Morris
06-04-09, 15:01
Quando la responsabilità può uccidere

di Guido Biancardi

Si santificano gli embrioni e si eternizza la non-vita di una donna bianca che vegeta mentre non si vogliono vedere le carrette del Mediterraneo che scaricano i loro rifiuti umani nella tomba del mare.



Si dà (su “la7”) spazio (da Bruxelles!) a Beppe Grillo che insolentisce e denuncia, assieme tutti coloro che non siano giovani della società civile che operano con, nel e per la Rete e si sequestrano in Francia, per ora, i manager delle multinazionali, guarda caso, straniere; ed a Londra viene la notizia della tragica morte di un manifestante noglobal anti G20. Grillo chiama tutti i finanzieri ed i componenti dei consigli d'amministrazione delle aziende italiane “criminali” (e senza bisogno che ce ne siano, con loro, di “accertati”), ma è una populistica invettiva che fa accenno ad una differente caratterizzazione identitaria, quasi genetica, sociale (remember “le classi”?) e non il richiamo al crimine come mancato rispetto del dettato della legge.



Non è una denuncia solo dell'illegalità come causa e fonte dell'assenza di garanzie civili, ma anche di una “responsabilità oggettiva “dei politici di mestiere dovuta alle differenze (di censo , di status, di ruolo, di posizione sociale e potere insomma) pretese e conquistate da ceti che si sono ritagliati postazioni di privilegio che intendono difendere con le unghie ed i denti per perpetuarsi. L'analisi non è così distante dalla nostra ma ne differisce sostanzialmente nel merito delle soluzioni Come fare a far lasciare loro la presa, infatti? Il passaggio fra l'invettiva, l'agitazione sociale e la soluzione violenta, lecita in quanto “ giustizialista”, è quasi inavvertibile quando il bollore della condizione socioeconomica raggiunge l'intensità eccezionale delle grandi crisi. Questa “responsabilità sociale” può uccidere con o senza sostegno delle tricoteuses. L'ha già fatto anche in tempi non lontani, quelli degli anni di piombo in Europa. Che si riaffacciano in Grecia ed in altri paesi in difficoltà.



E la “nostra” responsabilità ? Quella di essere già stati quel filone di contenimento-deviazione della violenza di più di una generazione richiamando i massimalisti al dovere del rispetto e della difesa dell'individuo e dei suoi diritti civili garantitigli solo da uno Stato di diritto liberale in Democrazia. Con il “dovere” di disobbedienza civile e l'impegno trasnazionale per il riconoscimento di una formale oltre che sostanziale eguaglianza fra le persone ( senza preclusione per sesso età condizione sociale, credo religioso e politico...); e contro i proibizionismi di tutte le intolleranze verso comportamenti che non vengano subìti da alcuna vittima, quindi” non criminalizzabili”.



Questa responsabilità può uccidere come l'altra; ma, senza violenza, il suo oggetto è stavolta proprio il soggetto agente e responsabile che può non essere in grado di reggere il peso di tale responsabilità sino a soccomberne, fisicamente e psichicamente.



Gran parte della sofferenza che i Radicali percepiscono in questo momento di tragedie annunziate (la morte del diritto è prima forma della morte di persone) e che li attanaglia anche nelle scelte apparentemente più “normali” quale la presenza alle elezioni e la presa di posizione negli schieramenti è da attribuire ad essa: dobbiamo salvare la speranza democratica della pace non solo nel nostro paese “esistendo”; ma per non contraddirci e con questo rendere impossibile il riconoscimento delle istanze di civiltà di cui ci sentiamo latori, siamo di fronte ad un dilemma irresolubile. O resistere in solitudine fatti oggetto di persecuzione da parte di un Regime di occupazione antidemocratica sia“con strumenti legali”, quali ad es. i regolamenti parlamentari e le leggi elettorali , ed allo stesso tempo con un uso disinvoltamente illegale delle istituzioni di garanzia democratica ( della comunicazione in primis), oppure accettare di condividere parte di quel sistema di sopravvivenza che permette alla partitocrazia in veste oligarchica di costituirsi in monopartitismo (più o meno) perfetto sotto vesti democratiche qualunque sia la formula istituzionale assunta (parlamentare o presidenziale o...).



Nel primo come nel secondo caso la conseguenza più probabile è la morte dei Radicali rispettivamente a mezzo di suicidio politico rituale o di un 'eutanasia procurata da una reazione autoimmune (sarebbe proprio “il corpo Radicale” a produrre le tossine contro sé stesso riconoscendolo come corpo estraneo).



Dobbiamo resistere alla tentazione pur così seduttiva di un depressivo “cupio dissolvi” allo stesso tempo in cui non possiamo fingere un'impossibile, pur se generoso, fideistico e cieco, ottimismo.



Con quale stratagemma? Rivendicare la non limitatezza delle nostre posizioni (vedi Englaro, la legge 40, il Tibet, Israele e la patria Europea...) nella prudenza del rifiuto di autocensure opportunistiche ed agire su tutta l'ampiezza del ventaglio delle nostre responsabilità politiche: cioè “essere nel e non di questo PD” e, contemporaneamente, non negarci al riconoscimento di proposte di partecipazioni personali altamente simboliche di “discriminati” nelle liste di nuovi raggruppamenti in formazione in una sinistra che è alla ricerca di un solido e credibile punto di attracco democratico e carente del relativo marchio di garanzia; o, addirittura, di offerte, a destra, di ospitalità “ riconoscente“ per una contiguità culturale antitotalitaria ed antinazionalista offerta ed alfine conquistata attraverso una lunga e faticosa, ma felice, traversata.

Burton Morris
06-04-09, 15:01
Consumare meno suolo: la sfida del nuovo secolo*
Uno strumento per limitare i danni ambientali

di Igor Boni

La strategia tematica per la protezione del suolo, emanata dalla Comunità Europea nel settembre del 2006, indica le principali minacce che incombono sui nostri terreni. Tra queste, non vi è dubbio che l’impermeabilizzazione (la cementificazione) è quella che maggiormente grava sulla realtà italiana. Una riduzione della superficie disponibile per l’agricoltura, i pascoli e le foreste, conduce infatti inevitabilmente ad una riduzione della capacità di infiltrazione delle acque, con il progressivo ridursi della ricarica delle falde idriche; impedisce o limita le principali funzioni ecologiche del suolo: stoccaggio di carbonio, capacità di filtraggio degli inquinanti, spazi di vita per i numerosissimi organismi che vi abitano. A tutto questo, com’è ovvio, si aggiunge una graduale perdita di superficie per le produzioni agrarie, con una contemporanea diminuzione delle capacità produttive dell’intero comparto. Ma per comprendere appieno il livello di degrado a cui stiamo assistendo occorre fornire qualche dato. L’Apat (Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e per i servizi Tecnici) nel 2008 ci dice che quasi il 7% del territorio nazionale è urbanizzato o coperto da infrastrutture di varia natura e genere. In alcune regioni tale dato sfiora il 10% (Lombardia, Puglia, Veneto e Campania). Questi valori, occorre sottolinearlo, fanno riferimento all’intera superficie nazionale e regionale, che comprende aree collinari e montane meno intensamente urbanizzate e altrettanto meno sfruttate dall’agraricoltura. Concentrandosi su superfici attualmente in produzione, di pianura, è facile notare come lo sviluppo infrastrutturale (industriale e commerciale innanzitutto) sia in una fase espansiva molto accentuata in tutte le aree periurbane e nei pressi dei principali assi di trasporto e di comunicazione viaria. Fa impressione rilevare come in alcuni territori provinciali della Lombardia in 6 anni (dal 1994 al 2000) si sia visto un incremento dell’impermeabilizzazione dell’ordine del 5-6% a Mantova e Cremona fino al 9-10% a Pavia e Lodi. Il tutto in una regione che ha numerosi comuni con la maggioranza assoluta del proprio territorio che è attualmente cementificato. Analoga situazione si verifica nei comuni delle cinture di Napoli, Roma, Bologna e Torino.

Questi dati sono un segnale rosso d’allarme che dovrebbe illuminare i Governi nazionali e gli amministratori locali. Malgrado questo ad oggi la situazione sta peggiorando e rischia di peggiorare ancor più nel futuro. Molti degli oltre 8000 comuni italiani (dei quali addirittura 1207 sono concentrati nel solo Piemonte), di fronte all’abolizione dell’Ici, senza alcun coordinamento, stanno utilizzando le varianti ai piani regolatori per lottizzare nuovi territori e fare cassa. Nascono così, con una velocità ancor maggiore degli ultimi anni e senza razionale programmazione, numerosissimi e giganteschi capannoni e nuove unità abitative, che vedranno ulteriore incentivo dal “piano casa” dell’attuale Governo. Si distrugge, per sempre e in modo miope, un valore paesaggistico che è una delle principali ricchezze del paese. Quindi che fare? In Italia come altrove già accade, occorre una normativa sulla protezione del suolo. Una legge, che seguendo la strategia europea, riconosca al suolo le sue funzioni produttive, protettive e naturalistiche, che imponga a chi propone nuove infrastrutturazioni di considerare le potenzialità dei terreni che si eliminano per sempre. Occorre mettere in stretta relazione il suolo e l’ambiente con le leggi urbanistiche. La metodologia è quella della “Capacità d’uso dei suoli”, elaborata e utilizzata da decenni negli Stati Uniti d’America. Un metodo che consente di classificare i terreni a seconda delle loro capacità produttive agro-silvo-pastorali e che può (che deve) essere utilizzato e confrontato con i nuovi progetti che si promuovono. Ad oggi esiste una proposta di legge in tal senso che è ferma in Parlamento, presentata dai Deputati radicali. Sarebbe opportuno discuterne, confrontarsi e giungere all’approvazione di un testo che possa farci fare un passo in avanti nella direzione qui brevemente evocata. Stiamo assistendo, impotenti e in parte complici, ad uno scempio ambientale progressivo che deve vedere un’inversione di rotta nel più breve tempo possibile. Tra pochi anni è probabile che la diffusa consapevolezza di quanto accaduto modificherà le politiche urbanistiche e di pianificazione del territorio; se non forniremo oggi strumenti adeguati e se non sapremo da subito arginare questa deriva, probabilmente sarà però troppo tardi.

NOTE

* da "L'Opinione"

Burton Morris
06-04-09, 15:02
Punto economia. Questa è l’ora delle regole non della caccia alle streghe

di Piero Capone

Appariva molto soddisfatto il segretario dei vetero comunisti Oliviero Diliberto nel constatare lo svilupparsi in diversi paesi di una nuova forma di lotta sindacale: il sequestro dei dirigenti d’azienda. Come al solito, il nostro “caro leader” (come direbbero i compagni nord coreani) non ha capito niente delle cause profonde e vere della crisi, per aderire ad una nuova “caccia all’untore”. Che, come accade in questi casi, spesso non c’entra per niente.



Il problema è che Diliberto e molti esponenti della sinistra “antagonista” (a parole) hanno omesso di utilizzare (ma poi, l’hanno mai fatto?) – il metodo marxiano dell’analisi della struttura del capitalismo. Che, nelle grandi corporazioni, soprattutto finanziarie, si è molto avvicinato – quanto ad assetti di potere – al sistema del capitalismo monopolistico di stato, caratteristico dei paesi del cosiddetto socialismo reale, così caro a Diliberto & Co.

La questione di fondo è la trasformazione dei massimi dirigenti di una compagnia, da grandi manager super pagati, ma sempre “dipendenti”, in veri “detentori” del capitale. Ovvero capitalisti senza capitale proprio, e senza rischi. Proprio come erano gli oligarchi delle grandi società statali sovietiche.



La “proprietà” dal punto di vista strettamente giuridico è di altri: degli azionisti – nelle corporazioni capitalistiche – era dello Stato nel socialismo reale. Ma le due classi oligarchiche detengono (e detenevano) il vero controllo dei mezzi di produzione. Nel socialismo “realizzato” era inevitabile: la ristretta classe di potere (espressione del Partito), in assenza di alcuna forma di libertà economica e politica, si veniva a trasformare in monopolista assoluto del potere politico ed economico. Di qui i grandi conflitti sociali che si sono avuti in quei paesi tra classe operaia (sfruttata) e classe politica ed economica del Partito (sfruttatrice).



L’enorme differenza sta però nel fatto che questi fenomeni nel capitalismo hanno riguardato una parte dei grandi gruppi, ma non la generalità del mercato. E la presenza di governi democraticamente eletti, di parlamenti funzionanti, di serie autorità di controllo e di vigilanza, possono fare da “contraltare” a questi poteri eccessivamente forti. Basti pensare al rispetto della concorrenza o della trasparenza; sempre però che tutti questi meccanismi non vengano ad essere inceppati e che le istituzioni siano rispettose del mandato avuto.

Che ciò non accada può succedere, come è avvenuto in questa fase; ma non è detto che sia inevitabile.



Indubbiamente occorrono una serie numerosa e complessa di fattori concomitanti, fortunatamente non verificabili con facilità. Per quanto attiene all’odierna “caccia al manager” poi bisogna distinguere tra i “detentori del capitale”, che non sono stati oggetto di alcuna violenza (se non di critica feroce), e i dirigenti di aziende industriali coinvolti in una crisi che certamente non è avvenuta per loro responsabilità; e che invece sono oggetto di azioni violente di sequestro di persona.



Ma anche nei confronti dei primi (quelli che di fatto controllano il capitale) la “demonizzazione” ha riguardato soltanto la “punta dell’iceberg” del fenomeno: i loro profitti stratosferici. Uso questo termine appunto perché il suo significato è quello di partecipazione agli utili d’impresa e non sotto forma di “retribuzione” – seppur altissima, della loro prestazione di lavoro.

I discorsi che abbiamo sentito son stati tutti di tipo “etico”: l’orrida ingiustizia di avere compensi dell’ordine di 500 o 1000 volte di quelli di un qualsiasi funzionario della società!

Ma in un’economia capitalistica non valgono i discorsi “etici” o moralistici: vale il rispetto o meno delle regole che sovraintendono al buon funzionamento del mercato. E, in caso di violazione, se questa abbia danneggiato, e in che misura, la società.



Ma se queste regole (per esempio la trasparenza, la concorrenza, il non conflitto di interessi, la non assunzione di rischi “sistemici” troppo elevati, ecc.) vengono “allentate”, se non addirittura dismesse, dagli organi preposti alla “regolarità” del mercato, o comunque della superiore autorità politica, saranno poi questi super oligarchi i responsabili veri? Oppure sono soltanto il portato di una politica criminogena delle autorità? I super oligarchi hanno interpretato quello che lo spartito del “potere economico e politico” aveva loro assegnato.



Ovviamente con normali regole di buon funzionamento del mercato, l’ideologia dello “shortismo”, ossia della logica di massimizzare in maniera spropositata il profitto nel più breve termine possibile, anche a costo di rischi assolutamente non sopportabili, non avrebbe avuto alcuno spazio.



Quindi il super manager della banca che “gioca” con capitali altrui, senza rischiare nulla, per avere dei profitti a brevissimo termine, e poi, incassato il “dividendo”, andarsene senza rendere conto di niente e, come qualsiasi lestofante, “scappare col malloppo”, è certamente persona moralmente riprovevole, ma non merita una “caccia all’untore”. Perché, casomai,

gli “untori” risiedono in ben altre istituzioni e in altri poteri dello stato.



Ma il momento è così grave che più di “prendersela” con i responsabili (veri o presunti), sarebbe assolutamente necessario, prioritariamente, dettare quelle regole rimosse o violate, e far sì che vi siano gli strumenti per farle sempre rispettare. In modo tale che non ci siano più spazi per “untori” e per crisi così devastanti. Che fare quindi?



Molti spunti positivi sono venuti, e da diverso tempo (purtroppo) dalle elaborazioni del Financial Stability Forum, presieduto dal Governatore Draghi. Per esempio, posto che è strutturalmente dannoso e pericoloso affidarsi ad una visione di brevissimo termine, i compensi dei super manager (peraltro da ridimensionare notevolmente, comunque, proprio per la buona gestione dell’impresa) dovrebbero essere legati a risultati di medio periodo, e assolutamente improponibili laddove si verifichino perdite per l’azienda. Cioè tutto il contrario di quello successo finora. Il medio termine da solo potrebbe scoraggiare avventure troppo rischiose. Ma, se non bastasse, si dovrebbe porre dei più adeguati “paletti di garanzia” (nel settore finanziario) tra erogazioni e mezzi propri.



In questi ultimi anni è andato fuori controllo (anche perché le “vigilanze” non funzionavano) il prudenziale livello del rapporto tra quelle due attività. E poi la necessità che per qualsiasi prodotto, in caso di cessione a terzi, vi sia sempre una adeguata quota di rischio che debba essere assunta dalla azienda emittente. Anche questo elementare principio non è stato rispettato in questi anni. In un mondo globalizzato non è possibile continuare ad operare con strumenti di controllo del rispetto delle regole a livello nazionale. Per noi occorrerebbe una “vigilanza europea” e per il mondo, l’attuale Financial Stability Forum , dovrebbe trasformarsi in una vera e propria Commissione per la Stabilità, collaborando con il Fondo Monetario Internazionale per assicurare un monitoraggio ed una capacità di intervento su tutte le situazioni di pericolo emergente.



E tra i monitoraggi non possono sfuggire quei “mondi paralleli” rappresentati, per esempio, dalle enormi risorse degli “Hedge Funds”. Fortunatamente questi temi sono entrati nell’ agenda mondiale. Il G.20 di Londra ha fatto un ulteriore passo in questa direzione. La gravità della crisi potrebbe quindi trasformarsi in opportunità se riuscissimo a porre le basi di regole che facciano funzionare bene i mercati; regole serie ed efficaci ma non oppressive.

In modo tale che vengano scongiurate, in futuro, situazioni come quelle che attualmente sconvolgono la vita di tanti paesi e di decine di milioni di lavoratori. Se pensassimo solo al pur necessario rilancio dell’economia, senza curare il male alla radice, avremmo sì un sollievo temporaneo, ma non estirperemmo il virus di una prossima grande crisi.

Burton Morris
06-04-09, 15:02
La rottamazione edilizia

di Giovanni De Pascalis

L’Italia ha un bisogno disperato di rottamazione edilizia. Negli ultimi 60 anni il nostro paese è stato letteralmente sommerso dal cemento. Si è costruito ovunque in modo selvaggio, indiscriminato, irresponsabile. L’interesse privato ha largamente prevalso sull’interesse pubblico, la speculazione fondiaria ed edilizia ha quasi sempre prevalso – nel Mezzogiorno la sua egemonia è stata pressoché totale – la corruzione del ceto politico locale si è tradotta, e si traduce, costantemente, nella svendita del territorio. Naturalmente, la qualità architettonica ed urbanistica media risultante è quanto mai bassa: nelle maggiori città del centro-sud e del sud la situazione urbanistica è quasi sempre vergognosa, indegna di un paese civile.



Il risultato di tutto ciò è che nelle grandi aree urbane italiane la qualità della vita è oggi molto più bassa di quanto avrebbe potuto essere, anche a causa dell’esplosione della motorizzazione di massa e della drammatica insufficienza dei trasporti pubblici urbani e metropolitani. Il territorio appare complessivamente aggredito e soffocato dallo sprawl urbano, i paesaggi largamente sfregiati quando non irriconoscibili, le coste cementificate e privatizzate, il patrimonio storico-artistico in moltissimi casi assediato dalla marea dell’edilizia spazzatura. Ne deriva un’immagine – ma che è anche sostanza – complessiva del nostro paese assolutamente penosa. In questa situazione viene oggi a collocarsi il cosiddetto piano casa di Berlusconi.



Concedere agli italiani che possiedono ville e villette la libertà di ingrandire i propri immobili in misura compresa tra il 20 e il 35 per cento, senza oneri per lo Stato e le Regioni, che significa concretamente? A me pare evidente: l’occasione sarà colta soprattutto dalla parte più ricca della popolazione, in particolare si rischia un’ulteriore drammatica colata di cemento sulle coste dei mari e dei laghi e in tutte le più rilevanti ed attrattive località turistiche. Ma, soprattutto, ci si muoverà in modo casuale, ciascun cittadino per proprio conto e la strutturazione urbanistica complessiva della nazione, oggi per lo più pessima, come già detto, non verrà in alcun modo modificata. Cosa dunque ha a che vedere tutto ciò con la rottamazione dell’edilizia spazzatura auspicata da Aldo Loris Rossi e da tanti altri architetti e urbanisti? Praticamente nulla. Non fosse altro perché la rottamazione edilizia è qualcosa che riguarda più i poveri che i ricchi, più le città che le campagne e perché non può essere immaginata senza un imponente apporto di risorse pubbliche che vadano ad affiancare i risparmi dei privati cittadini. Da parte del Governo si perde dunque un’occasione, l’ennesima occasione dopo quelle del 1967-68, del 1985 e del 1994-95-96.



Cosa si dovrebbe fare, invece? E’ evidente: un piano straordinario e strategico di rottamazione edilizia e di ridisegno urbanistico del territorio. Un piano che dovrebbe, per almeno il 50 per cento, essere finanziato con denaro pubblico e dovrebbero essere lo Stato e le Regioni a pianificare e guidare l’operazione. Poiché siamo al culmine della peggiore crisi economica dalla seconda guerra mondiale e tutti gli Stati più ricchi e industrializzati del mondo stanno investendo enormi quantità di danaro pubblico in piani di stimolo economico e di sostegno alla nuova “green economy” non si vede perché proprio l’Italia non debba cogliere questa occasione per mettere mano, finalmente, al proprio orrendo disordine urbanistico ed iniziare, quindi, un’opera di restauro del territorio, di rigenerazione urbana, di riconquista della bellezza e della qualità della vita. Puntando anche, naturalmente, ad incrementare fortemente, per quanto possibile, l’efficienza energetica delle case e la mobilità sostenibile. Se l’investimento totale finalizzato a realizzare il piano di rottamazione edilizia qui ipotizzato fosse pari a 12 miliardi di euro all’anno e se la parte pubblica dovesse finanziare il 51% di tale spesa allora tale apporto pubblico sarebbe pari a 6 miliardi e 120 milioni. Il 31,65% della spesa totale sarebbe la parte assicurata dallo Stato: 3 miliardi e 800 milioni. Il resto delle risorse pubbliche verrebbero dai fondi per il Mezzogiorno, dalla tariffa A3 della bolletta elettrica (quella finalizzata a sostenere l’energia rinnovabile), dalla Cassa depositi e prestiti, dalle Regioni, dagli enti locali, dall’ENI (che potrebbe divenire lo sponsor dell’operazione), dalla Banca d’Italia, ecc.



I proprietari immobiliari privati coinvolti parteciperebbero alla spesa totale nel limite di un 35-36 per cento. Gli aumenti di cubatura per gli immobili privati coinvolti nell’operazione potrebbero limitarsi ad un 15-16%. Più significativo sarebbe invece il ruolo giocato dal raggiungimento di livelli molto più alti di efficienza energetica e di qualità architettonica e urbanistica nelle nuove case ricostruite e nei nuovi quartieri. Se proviamo a immaginare cosa significherebbe tutto questo, un simile grandioso investimento in ciò che il nostro paese ha di più caro: le case, le città, i paesaggi, la bellezza, la ricchezza storica e artistica, possiamo facilmente prevedere le implicazioni, i vari soggetti coinvolti. Oltre ai singoli proprietari immobiliari e alle istituzioni pubbliche, le imprese di costruzione, le banche, le assicurazioni, gli interessi del settore turistico-alberghiero, ma anche l’industria e l’agricoltura di qualità. E, alla fine, in realtà, l’immagine e la credibilità complessiva dell’Italia.

Burton Morris
06-04-09, 15:02
La legge sul testamento biologico: figlia di un liberalismo non risorgimentale, ma intinto nella concezione statolatrica del Reichstaat germanico

di Salvatore Sechi

Caro Direttore, spero vorrai consentire ad un elettore del governo in carica di prendere le distanze da un provvedimento appena votato da un ramo del parlamento.



Intendo dire che il testo sul testamento biologico non emana un forte aroma di costituzionalità. Sarà probabilmente necessario mobilitare il popolo, in un referendum che lasci arbitri le coscienze morali, i sentimenti, il vissuto e l’immaginario interiore degli elettori, se non si riesce a modificarlo radicalmente nel prossimo dibattito alla Camera di deputati.



Chi è in fin di vita non può essere privato del diritto di decidere di sé riconosciuto a chi è pienamente cosciente. E neanche del diritto del poter disporre del proprio corpo (articolo 13 della Costituzione).



Suona, infine, come la negazione dell’art. 3 sulla dignità umana della nostra carta fondamentale il fatto che un malato nelle condizioni di Eluana Englaro non possa avere altra esistenza dignitosa che quella legata al tondino, cioè alla nutrizione artificiale. Ma la legge approvata dal Senato non sembra neanche stivare molta acqua santa, cioè non è precisamente una legge che si possa chiamare cattolica.



In materia di fin di vita e di libertà di cura (il diritto alla salute sancito dall’articolo 32 della costituzione) il catechismo insegnato nelle facoltà di teologia e nei seminari nega quanto il testo appena licenziato prescrive. Mi riferisco al primato del medico, che nella versione accolta dalla proposta legislativa di Raffaele Calabrò, ha il ruolo dell’asso-piglia-tutto. I principali documenti cattolici (ricordati di recente da Filippo di Giacomo) hanno titoli inequivoci: come, per esempio, Il rispetto della dignità del morente della Pontificia Accademia Pro Vita, del 2000.

In essi le cure speciali non sono considerate come equipollenti a suicidio, e possono essere rifiutate.



Per gli insegnanti cattolici di bioetica è centrale non la decisione, il parere del medico, ma la liceità per il malato di ricorrere alle terapie, anche rischiose e dolorose, che possono dare dei benefici a chi è colpito da un male incurabile.



A prevalere debbono essere le cure che, secondo il desiderio dello ammalato, dei familiari e dei “medici veramente competenti”, e anche "la volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia e alla collettività", come sollecita il senatore Ignazio Marino.



La legge sul testamento biologico, ispirata alle idee di Quagliariello e Roccella, ha poco a che fare col cattolicesimo liberale della catechesi, ma molto, temo, con quello fondamentalista.

Poco o nulla recepisce del liberalismo di origine risorgimentale. Il che è il rilievo più severo che si possa fare a due politici che vengono da un’esperienza liberal-democratica come quella del Partito Radicale.



Esso si fonda sulla libertà di scelta (che comporta l’obbligo di fornire, a livello locale e nazionale, mezzi e risorse per assistere i malati gravi) e in particolare sul rispetto della volontà dell’individuo, quindi anche del rifiuto delle cure da parte sua. La libertà del cittadino è l’unico antidoto al carattere sempre più pervasivo, anzi aggressivo, della penetrazione dello stato e dei suoi apparati nella sfera personale.



Tale libertà ha un rapporto col dolore, col piacere o col rifiuto della vita, col proprio corpo. Fa parte della sfera impermeabile della propria intimità. Il mondo delle emozioni esige discrezione e grande sobrietà. Lo ha ricordato bene nel suo blog Nando Dalla Chiesa.



L’idea che si possa farne materia di 9 articoli di legge, prevedere dichiarazioni anticipate di trattamento, l’intervento di una batteria di medici specialisti, obblighi di durata e quindi di modificarle dopo un certo lasso di tempo (5 anni), spese di notai e avvocati, delinea un liberalismo di puro rango statolatrico.



Quello al quale temo si rifacciano Roccella e Quagliariello ha avuto un preciso esito. Ha impoverito la storia d’Italia, perchè appartiene ad un momento cruciale e tragico. E’ Il periodo successivo all’unificazione nazionale quando la modernità degli ideali e delle istituzioni statali del Regno (che si ispiravano, come nel caso di Cavour, a uomini del peso di B. Constant e di J. Bentham) si scontrò col carattere assai arretrato della società civile.



L’obiettivo di fare dell’Italia un paese di uomini liberi che facevano propri i principi della responsabilità individuale e della autonomia della persona umana, non trovò accoglimento, se non in parte, nell’elite liberale dell‘Italia dopo il 1871, ma soprattutto dopo la caduta della Destra, nel 1876. Il legame con l’interesse generale nella classe dirigente liberale si attenua o addirittura si perde, e si afferma il primato della politica estera sulla politica interna.



Dovendo la Destra storica supplire all’estrema povertà di quest’ultima, ha finito per identificarsi nello strumento usato per regolarla e anche modernizzarla, cioè lo stato. Di qui sono venute le teorie gramsciane dell’egemonia, della rivoluzione passiva, delle supplenze ecc. Ma di qui è pervenuta la convinzione, che anima gli scritti del 1923-1925 di Giovanni Gentile per esempio, secondo cui il fascismo fu una continuazione, e non un’opposizione, dell’Italia liberale, dei suoi ideali. Il che spiega il consenso di molti esponenti liberali a Mussolini.



Alla domanda cruciale per un liberale.”A chi appartiene la mia vita, e il mio corpo?” i due parlamentari del Pdl temo siano disposti a rispondere “allo stato”. Eppure è proprio contro il suo potere coercitivo, ma anche solo invasivo, che nasce e reagisce la cultura politica liberale.Mi pare di scorgere questa vena nelle posizioni critiche di esponenti del Pdl come A. Martino, M. Pera, L. Malan, B. Contini, A. Paravia, F. Saro, M. Saia, B. Pisanu, G. Pecorella ecc.

Tutto cambia nella storia dell’Italia liberale allorchè alla concezione di uno stato popolare, democratico come quella di Antonio De Viti De Marco e del gruppo dei suoi amici liberisti del “Giornale degli Economisti” (Mazzola, Pareto, Papafava ecc.) segue, e si afferma, la dottrina dello Stato di Vittorio Emanuele Orlando e le idee del Reichstaat germanico.



Sono quelle che Antonio De Viti De Marco, in contrapposizione ai costituzionalisti inglesi, chiamava le “elucubrazioni filosofiche dei professori tedeschi di diritto pubblico, che erano pagati per legittimare sotto formule liberali il regime assolutista”.



E’ auspicabile che Quagliariello e la Roccella non finiscano per imitarli, malgrado ogni intenzione (Quagliariello è uno studioso di Gaetano Salvemini). Fu proprio questo liberalismo nella sua degenerazione che aprirà la strada e si concilierà col fascismo e, peggio ancora, col clerico-fascismo. Meglio tornare a Giustino Fortunato, a De Viti, a Luigi Einaudi.



L’odore forte di statolatria distillato nella legge approvata è assai inquietante anche, me lo lasci ripetere, per un elettore di questo governo quale personalmente sono.



La società civile, cioè la maggioranza assoluta degli italiani, compresi i cattolici praticanti, hanno manifestato, come ricordava giovedì scorso Valter Vecellio, di non condividere, anzi di contrastare la posizione sostenuta dal governo. Sia per l’idratazione e la nutrizione sia più in generale ad una regolamentazione legislativa che, però, preveda la possibilità di chiedere l’interruzione delle cure.

Burton Morris
06-04-09, 15:03
Marco Pannella fece il "fascista" proiettando quel film*

di Pier Paolo Segneri

Recentemente c`è chi ha scritto che "cinema è teatro". Forse non è proprio così, ma è bello pensare che sia vero. Soprattutto quando ci sono dei film che sembrano avvalorare questa tesi fino a renderla credibile, palpabile e anche plausibile. Una di queste pellicole è sicuramente un ormai lontano film del 1945, ormai pressoché dimenticato dalle nuove generazioni - anche da parte dei cinefili - e che la televisione non trasmette più. Forse tranne che nel "fuori orario" delle profonde notti della televisione pubblica. Mi riferisco al meraviglioso Les enfants du paradis di Marcel Carné. Un film stupendo e da assumere anche come sintomo del dibattito politico-culturale dell`epoca in cui apparve. A tal proposito, all`inizio degli anni Novanta, Marco Pannella rilasciò un`intervista a Francesca Fragapane in cui, tra le altre cose, spiccava questa dichiarazione: «Alla fine degli anni Quaranta creammo, insieme con altri, dei cineclub universitari in polemica con cattolici e comunisti. Era il periodo della grande sbronza neoralista. Se non si era neorealisti, si era considerati fascisti. E quindi a quel punto scelsi di fare il fascista. Così un giorno andai fino a Parigi per prendere la "pizza" di Les enfants du paradis di Marcel Carnet, allora, mi pare, sotto sequestro». E così, il giovane Marco Pannella organizzò le prime proiezioni integrali del film. Senza tagli e senza censure. In Italia uscì successivamente con il titolo Gli amanti perduti e il tema centrale di tutta la storia è - appunto - l`amore, visto e svelato sia nel suo apparire più platonico e poetico, teso all`infinito, sia nei suoi aspetti più romantici, espressionisti, bui, reconditi, nascosti. Quindi, indicibili e inconfessabili. Neppure a se stessi. Il film è un grandioso affresco ottocentesco, omaggio alla grande letteratura romantica francese di Hugo e Balzac, sceneggiato da Jacques Prevert. L`opera, alla sua uscita, scatenò alcune polemiche in Francia e, considerata l`eccessiva lunghezza, uscì suddiviso in due episodi Il boulevard del delitto e L`uomo in bianco. Da noi il film uscì mutilato di ben settantanove minuti. Gli attori principali sono Arletty, JeanLouis Barrault, Marcel Herrand e Pierre Brasseur, ma al centro c`è sempre il teatro, la scena, la maschera. Lì dove similitudini e metafore, finzioni e convenzioni, costumi e gesti trovano il senso più alto e nobile nella forma e nella bellezza del teatro e, dunque, del cinema. La trama è complessa, ma bastano pochi elementi per capirne la forza e l`essenza: siamo nella Parigi del 1840, il mimo Baptiste Debureau (Barrault), romantico e malinconico, riesce ad ammaliare la platea del teatro dei Funambules, emozionando i ragazzi del loggione (Les enfants du paradis). Baptiste si innamora perdutamente di Garance, donna di indescrivibile fascino, resta indelebile lo sguardo di Arletty quando pronuncia la celebre battuta: «Je m`appelle Garance». Lei lascia Lacenaire (Herrand), bandito dandy, proprio per abbandonarsi all`amore per quel mimo dall`animo così grande. Ma Garance, dopo un po`, lascia anche Baptiste. E i due innamorati si perdono... Si ritroveranno a distanza di molto tempo, tanto che lui è ormai sposato con Nathalie, e fra loro si riaccende la scintilla. La notte d`amore con Garance porta all`estasi Baptiste, ma a carnevale gli amanti si perdono un`altra volta. Garance fugge per le strade tumultuose di Parigi, nel boulevard. Baptiste, disperato, la insegue. Senza speranza. Il film è vibrante di emozioni. Di una poesia inarrivabile. Eppure, in quell`Italia e in quell`Europa egemonizzate dal neorealismo - cinseguente alla doppia morsa cattolico-conservatrice e marxista-comunista - anche una pellicola del genere finiva per apparire di disturbo... L`amore viene indagato dal regista e dall`autore mostrando il conflitto tra il tema principale e il controtema che gli si oppone nelle sue varianti immutabili ed eterne: l`odio, il tempo, la gelosia, la passione, l`abbandono. Eppure la storia non si ferma a questa lotta tra opposti e scende fin nelle viscere del conflitto smascherando le sfumature dei vari intrecci possibili: l`indifferenza, la paura d`amare, il mutamento dei sentimenti, la fragilità dei legami, la volubilità delle passioni. Resta nell`ombra il dolore che si lascia quando il sipario di una storia d`amore si chiude sull`inganno di una messa in scena che ha avuto la forza di diventare realtà. Quando il teatro diviene vita stessa e il palcoscenico si è trasformato in verità. Una forza che solo l`amore possiede, anche quando la storia finisce, anche quando l`amore è nel suo momento più accecante. E rimane ancora aperto. Come una ferita. Viva. Dentro chi ha saputo amare. Malgrado la fuga di chi lo ha rubato e portato via.

Burton Morris
06-04-09, 15:03
Dalla lunga resistenza, alla radicale riforma “americana”
L’impegno politico e il compito pregiudiziale dei prossimi giorni che vedrà impegnati i radicali

di Valter Vecellio

L’invito a tutte le compagne e a tutti i compagni, e a noi stessi per primi, è di leggere con molta attenzione la mozione che il Comitato dei Radicali italiani ha approvato al termine dei suoi lavori, parole che sono state attentamente soppesate e sono il frutto di un lavoro collettivo durato molte ore; è opportuno accompagnare questa lettura con quella del documento dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, che ha sostanzialmente accolto, per l’ennesima volta, la denuncia dei radicali. C’è poi un terzo documento di cui è utile, opportuno fare tesoro: l’ascolto della tradizionale conversazione domenicale di Marco Pannella con il direttore di “Radio Radicale” Massimo Bordin. In sostanza, Pannella e i radicali sostengono come sia assolutamente necessario assicurare “al dibattito politico ed elettorale-referendario la conoscenza documentata dei connotati e degli episodi che dimostrano l’assoluta scomparsa della legalità costituzionale della democrazia e dello Stato di diritto dell’attuale Regime italiano”. Si ritiene questa opera di verità urgente e necessaria, e che compito dei radicali sia quello di fornirla, perché dalla lettura di questa documentazione si avrà la lettura dell’attuale regime. Per questo motivo si è deliberato che d’intesa, e in concreto collegamento operativo con la presidenza del Senato del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito e gli altri soggetti politici della galassia radicale, “di fornire questa documentazione entro un massimo di quindici giorni”.



In estrema sintesi, quello che si sostiene è che oggi si è giunti dalla fase della lunga, profonda, fortissima resistenza del popolo italiano a quella di passare all’obiettivo della Liberazione, per restaurare la legalità democratica, con l’obiettivo di una radicale riforma “americana” del regime. In vista di questo obiettivo, in questi quindici giorni siamo chiamati a raccogliere e realizzare una documentazione su una storia – quella radicale – letteralmente incredibile, sconosciuta, silenziata e vissuta; e in questo impegno gravoso, urgente e faticoso potrà comportare anche la sospensione di altre attività che ci vedono in questi giorni impegnati.



Si parlava delle deliberazioni dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni; nella sua delibera 36/09/CSP si accerta in modo inequivocabile e al di la di ogni possibile ragionevole dubbio che la Concessionaria di servizio pubblico “non ha assicurato, nel ciclo di puntate dei programmi “Porta a porta”, “Annovero”, “Ballarò”, la presenza dei soggetti politici segnalanti (ndr.: i radicali) venendo meno ai principi di completezza e correttezza dell’informazione, obiettività,lealtà, imparzialità, pluralità dei punti di vista tra le forze politiche in condizioni di parità di trattamento”, e “non ha ottemperato in misura congrua, al richiamo formulato con la delibera n.6/09/CSP”.



Sempre con la stessa delibera, si ordina alla società RAI di “prevedere, nelle prime puntate utili e comunque prima della convocazione dei comizi per le elezioni europee ed amministrative del 6 e del 7 giugno 2009, la presenza dei soggetti politici segnalanti nei programmi di approfondimento informativo “Porta a porta”, “Annovero”, e “Ballarò”, dando così concreta attuazione al richiamo contenuto nella delibera n.6/09/CSP del 28 gennaio 2009, al fine di assicurare, anche attraverso spazi compensativi, il rispetto dei principi di completezza e correttezza dell’informazione, obiettività, equità, lealtà, imparzialità, pluralità dei punti di vista tra le forze politiche in condizioni di parità di trattamento”.



L’accenno a “spazi compensativi” è importante. E’ il riconoscimento di come un leader e una forza politica sono stati e sono quotidianamente cancellati, sfregiati, falsificati, e vadano per questo risarciti. Del resto è un’affermazione che può essere dimostra molto facilmente: Pannella, per quel che riguarda la televisione – quella pubblica, quella per cui si paga il canone, ma la cosa riguarda salvo pochissime, insignificanti eccezioni, anche quella cosiddetta privata – è semplicemente un desaparecido. In quanto a dati è di facilissima esposizione: per quel che riguarda le presenze, la somma di zero più zero, anche moltiplicata all’infinito per zero: fa sempre e solamente zero... PANNELLA ZERO.



In dieci anni l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha accolto ben 43 volte le denunce radicali nei confronti della RAI TV, per violazioni degli obblighi di legge, di norme, indirizzi, contratti di servizio. Già di per sé questo è un fatto di gravità inaudita, unica tra le democrazie occidentali. Si tratta del “visivo” e concreto di quanto siano fondati i corposi e dettagliati dossier forniti dai radicali; dossier che documentano in modo ineccepibile e incontestabile come l’intero soggetto politico radicale e il suo leader di maggior prestigio, Marco Pannella, siano stati espropriati del loro diritto a essere conosciuti e valutati dai cittadini e dagli elettori.



Una situazione resa ancora più grave e intollerabile dal fatto che la Concessionaria, nonostante le denunce e le condanne, le formali sollecitazioni e diffide, non ha mai ritenuto di dover adottare provvedimenti che affrontassero e risolvessero in maniera complessiva la situazione che si è determinata. Ed è inquietante constatare che le stesse pronunce dell’Autorità si sono mostrate inefficaci. Una situazione che non ha precedenti e comparazione. Contro questa situazione di inaudita illegalità costituzionale – un vero e proprio, letterale e sostanziale attentato ai diritti del cittadino – i radicali hanno fatto ricorso a ogni possibile strumento di lotta nonviolenta: dagli scioperi della fame e della sede, all’occupazione di luoghi e sedi istituzionali, alle iniziative giudiziarie.



Pannella, tra le tante sue peculiarità, ne ha una: pur essendo uno dei leader più longevi, in politica da oltre cinquant’anni, animatore e creatore di una quantità incredibile di iniziative di portata e respiro nazionale e internazionale, è oggetto di una feroce, sistematica, pervicace censura, una programmatica opera di cancellazione, una sistematica azione di falsificazione. Non c’è nessuno, che, come lui abbia patito e subito quello che Pannella ha subito e patito dalla cosiddetta informazione televisiva. Più che opportuna, e più che mai attuale, dunque, la definizione data da Francesco Storace, che, da presidente della Commissione Parlamentare di Vigilanza parlò di “genocidio politico e culturale”.



Le presenze di Pannella nel corso di un decennio si contano sulle dita delle mani. Per tornare allo “zero” informativo non mancherà qualcuno tentato di dire che non è del tutto vero: che in fin dei conti accade di ascoltare radicali che riescono a dire cose radicali. E’ agevole osservare che si tratta di briciole, “frattaglie” che confermano, non smentiscono, la denuncia e l’analisi radicale.



Si prenda la vicenda relativa al “testamento biologico”. E’ vero, se ne è parlato in numerose trasmissioni (“Porta a porta”, “Italia sul Due”, “Anno zero”, “TV7”, ecc.). Ma il tutto è stato fatto in modo assolutamente insoddisfacente, il tema quasi sempre viene affrontato in modo incomprensibile per l’ascoltatore. Il tutto si risolve per lo più in un “teatrino” dove in rapide battute ad effetto gli “invitati”, devono strappare l’un l’altro qualche secondo e catturare l’attenzione del pubblico con battute ad effetto. Nessuno ha la possibilità di chiarire i termini delle questioni, il conduttore-domatore concede o toglie il microfono a seconda del suo umore; e accade, come è accaduto a “Porta a porta”, che l’audio di un interlocutore che dice cose sgradite (nel caso specifico Maria Antonietta Farina Coscioni) venga “curiosamente” abbassato, in modo che la sua voce e il suo “messaggio” sia meno comprensibile, e più facilmente “annullato” dalle “interruzioni” di altri partecipanti.



Per contro non è stata dedicata alcuna trasmissione sulle decine di iniziative politiche che hanno visto, in questi anni, i radicali come protagonisti e promotori: si tratti della proposta d’esilio a Saddam per scongiurare il secondo conflitto in Irak, all’impegno per il Tibet; si tratti dell’anagrafe pubblica degli eletti alle proposte sul lavoro e la riforma delle pensioni; l’eutanasia o per restare a un tema di queste ore, l’ “apertura” e i riconoscimenti di Pannella a Gianfranco Fini e la “simpatia” riservata dal “Secolo d’Italia” ai radicali. Una situazione ottimamente descritta nei suoi termini sostanziali, nella lettera indirizzata al presidente e al direttore generale della RAI, al presidente dell’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni, ai responsabili delle reti e delle testate giornalistiche RAI (e per conoscenza ai presidenti della Repubblica, del Senato e della Camera), a cui si rimanda, e che da sola costituisce un prezioso “dossier”.



Si possono aggiungere considerazioni ulteriori. Quando si dice informazione non si dice tanto – o solo – l’opinione di una Eugenia Roccella da contrapporre a quella di Emma Bonino, di Maurizio Gasparri da opporre a Ignazio Marino. Informazione significa spiegare cosa vuol dire “alimentazione” e idratazione”, che per alcuni è trattamento medico, per altri no. Significa spiegare cosa sia il sondino nasogastrico, la PEG, e come per fare un esempio, i malati di sclerosi laterale amiotrofica spesso siano abbandonati a loro stessi e alle cure che assicura la famiglia, perché hanno fatto tagli indiscriminati alla Sanità, e non garantiscono quell’assistenza specialistica di cui pure avrebbero diritto.



Informazione è spiegare che uno stupro è uno stupro, sempre e comunque: quando lo fa un romeno contro un’italiana, e quando lo fa un italiano contro una romena. Che “certezza della pena” significa processo subito, e poi una volta condannati si sconta la pena; e non che si va in galera e si resta in attesa del processo chissà fino a quando…O realizzare servizi esaustivi sul caso di Rita Bernardini: “colpevole” di aver accertato che due romeni accusati di aver stuprato una ragazza a Guidonia, erano stati massacrati di botte subito dopo l’arresto e in cella. Per essersi battuta per il rispetto del diritto e della legge, Bernardini è stata letteralmente linciata, ricevendo centinaia di lettere offensive e anche con gravi, circostanziate minacce: un documento sicuramente interessante e rivelatore degli umori che percorrono la “pancia” del paese.



Si può anche prendere l’informazione che riguarda il Vaticano e le sue articolazioni, la Conferenza Episcopale dei Vescovi, per esempio. La regola non scritta è questa: c’è la prolusione del presidente, presentata dai notiziari come se parlasse a nome dei vescovi; è quella che fa testo. C’è una discussione, un dibattito, un dissenso, un confronto durante la riunione? Non si sa, e non si deve sapere.



Si può andare, a questo punto a palazzo Madama e a Montecitorio: quello che accade là “dentro” lo sappiamo grazie a “Radio Radicale” o se ci si collega con i canali satellitari della Camera e del Senato. Ma di quello che accade in commissione, le decisioni, il dibattito, non se ne sa nulla, e nulla se ne riferisce. La politica è ridotta a barbosi pastoni: si dà una voce per una manciata di secondi al solito Gasparri, al solito Cicchitto, al solito Donati, al solito Tonini, recitano la loro giaculatoria e via, l’informazione politica è fatta…



Dunque vietato Pannella, vietate l’informazione in quanto tale. Ma per un attimo occorre guardare quello che riguarda l’estero: esistono paesi, interi continenti che evidentemente non sono considerati interessanti a prescindere, Africa e Sud America, in testa. Cosa sia Mosca e la Russia, Pechino e la Cina un ricercatore che fra cinquant’anni volesse ricostruirlo con l’aiuto delle teche RAI avrebbe grossissime difficoltà; e ne ricaverebbe dati che non corrispondono se non in minima parte alla realtà: per la Francia Nicholas Sarkozy nella sua veste di marito di Carla Bruni; la Spagna per registrare la contrarietà della gerarchia cattolica verso la politica di Zapatero; a Londra gli unici eventi degni di nota sembrano essere le “imprese” della famiglia reale… Eppure è da supporre che siano paesi con governi, parlamenti, politici che prendono decisioni, che hanno riverberi, conseguenze e influenza anche per noi italiani… La regola sembra essere questa: la notizia deve essere divertente, non basta che sia interessante. E allora divertire e per non annoiare, ecco mogli che squartano mariti, padri che massacrano figli, figli che arrostiscono i nonni e via così. Un enorme mattatoio, insomma, e anche qui il ricercatore fra cinquant’anni sarà legittimato a credere che l’Italia è stata invasa da orde di vandali dall’Africa e di barbari dalla Romania, dove ogni giorno donne, vecchi e bambini venivano massacrati, stuprati, sottoposti a ogni tipo di sevizie, e non avrà probabilmente modo di accertare che l’80 per cento e passa di questi massacri, di questi stupri e di queste sevizie sono fatte da italiani.



Per tornare ai radicali: siamo nella stessa situazione del luglio 1974: quando Pannella e un gruppo di altri militanti e dirigenti fecero un lungo digiuno (una novantina di giorni), per ottenere uno spazio “riparatore” di un 15 minuti per la Lega per l’Istituzione del Divorzio e per la comunità di don Giovanni Franzoni, esponente di quel cattolicesimo allora come ora silenziato; alla fine si ottenne quella simbolica riparazione; il 18 luglio 1974 Pannella, intervistato “ufficialmente” sul diritto di famiglia, ignorò ostentatamente l’argomento e parlò invece di aborto e di affermazione di coscienza; 15 minuti storici.



Allora ci fu un Pier Paolo Pasolini a sostenere quella lotta sulla prima pagina del “Corriere della Sera”, che innescò quel processo che consentì e permise di rompere la cortina del silenzio. Oggi non c’è nessun Pasolini nel nostro orizzonte, c’è un altro, diverso “Corriere della Sera”.



Anche oggi, tuttavia, si deve lottare per ottenere una formale riparazione dell’enorme, irrisarcibile, irreparabile danno che abbiamo subito e che Pannella per primo patisce. A Pannella va garantita possibilità di essere conosciuto e apprezzato per quel che dice e propone, e non tanto o solo per Pannella, quanto per noi come cittadini: che di quell’informazione abbiamo diritto. La lotta per il diritto alla vita e per la vita del diritto oggi passa da qui.

il Gengis
08-04-09, 01:20
Se la terra è ballerina è necessario rottamare gli edifici non adeguati a resistere alle scosse
Morti e sfollati: a provocarli non è il terremoto ma il tetto che ti crolla in testa

di Giuseppe Candido*

Oggi la notizia riguarda l’Abruzzo: lunedì 6 aprile ore 3.32 un sisma di Magnitudo 5.8 della scala Richter (8-9° scala Mercalli) ha colpito Paganica in provincia di L’Aquila. La macchina dei soccorsi si è subito attivata, il Governo ha dichiarato lo stato di emergenza e subito si è avviato lʼintervento della Protezione Civile. Il bilancio, destinato ad aggravarsi anche perché non è dato ancora il numero dei dispersi, si aggiorna ora per ora e parla di oltre cento vittime accertate e oltre 50.000 sfollati. I telegiornali ci mostrano immagini di gente in lacrime per strada senza la casa e di palazzi, chiese crollate, rovinate. Persino una “casa dello studente”.

Ma se la notizia di oggi riguarda l’Abruzzo, la nostra amata Calabria, ancor più dell’Appennino umbro marchigiano, è una terra ballerina che da milioni di anni si muove al centro della convergenza tra le placche tettoniche europea ed africana e che, periodicamente e sistematicamente, si è fatta sentire in passato. La fine del 2008 è stata dedicata da questo giornale al centenario del terremoto di Reggio e Messina del 28 dicembre del 1908. Un terremoto, e un conseguente tsunami, catastrofici che mietettero 150 mila morti. Un’apocalisse!



Ma Reggio era stata ricostruita soltanto cento anni prima, nel 1807, dopo che era stata precedentemente distrutta dai sismi le cui scosse iniziarono nel 1783 e perdurarono sino alla fine del 1786. A Vibo Valentia, le cronache dei giornali dell’epoca riportano le notizie delle scosse distinguendole in quattro classi a seconda del loro grado di violenza. Da un lavoro di Charles Lyell tradotto dall’Ingegnere Gabriele Pepe e pubblicato su “L’Avenire Vibonese” nel 1885 per commemorare il centenario di quell’evento, sembra che nell’anno 1783 le scosse siano state addirittura in numero di 949, delle quali 501 di primo grado d’intensità e negli anni successivi 151, delle quali 98 di primo grado.



La prima scossa del 5 febbraio 1783 abbatté in due minuti la maggior parte delle case in tutte le città, paesi e villaggi, dai fianchi occidentali dell’Appennino, nella Calabria Ulteriore, sino a Messina e sconvolse tutta la superficie della regione. Un’altra scossa avvenne il di 28 marzo con quasi egual violenza. La catena granitica che attraversa la Calabria da Nord a Sud e raggiunge l’altezza di molte migliaia di piedi, risentì debolmente la prima scossa, più bruscamente però le scosse successive.



Gli Accademici inviati dal Re di Napoli riferirono che, in alcuni paesi della Calabria, “si produssero effetti che sembravano indicare movimenti di rotazione o vorticosi: così per esempio due Obelischi situati alle estremità di una magnifica facciata nel convento di S. Bruno, nella piccola borgata di S. Stefano del Bosco, si osservò che aveano subito un singolare movimento”.



A Messina la costa presentò diverse fenditure; il suolo lungo il porto, che, prima della scossa, era perfettamente livellato fu trovato poscia inclinato verso il mare, il mare presso la banchina cresciuto in profondità ed il suo fondo, in parecchi punti fu trasposto. Il molo ancora s’affondò circa 14 pollici sotto il livello del mare e le case in vicinanza furono molto lesionate dal cambiamento.



A Terranova alcune case furono sollevate al di sopra del comune livello, mentre altre attigue furono abbassate. In parecchie vie il terreno fu slanciato in aria e sbattuto contro i muri delle case. Le sorgenti termali di S. Eufemia, in terra di Amato, aperte nel terremoto del 1638, aumentarono in quantità e temperatura nel Febbraio del 1783. “La spinta del suolo in alto fu detta dagli accademici sbalzo, per il quale i massi poco aderenti alla superficie furono lanciati in aria per l’altezza di parecchi piedi”. In qualche paese gran parte delle pietre del lastricato furono lanciate in aria e trovate dopo con la parte inferiore rivolta in su: ... “spinti dal momento che avevano acquistato e che, essendo l’adesione d’un lato del masso maggiore di quella del lato opposto, fu al masso comunicato un movimento rotatorio”. Testimonianze, queste, che forse possono ricordarci che – noi calabresi - abitiamo una terra assai ballerina in cui i terremoti rovinosi sono di casa. 1638, 1783, 1908. Una periodicità impressionante con cui si sono ripetuti questi eventi sismici distruttivi che dovrebbe far riflettere: se non si possono prevedere ma si sa di certo che accadranno perché non si realizzano strutture antisismiche in grado di resistere al terremoto? Perché con il famoso “piano casa” non si decide di incentivare la rottamazione di tutti gli edifici – almeno quelli di interesse pubblico come scuole, carceri, uffici pubblici - che non sono adeguati dal punto di vista antisismico? Il concetto di vulnerabilità sismica degli edifici assieme a quello di micro zonazione sismica del territorio, sono di fondamentale importanza per fare prevenzione e non limitarsi alla gestione delle emergenze che puntualmente si verificano.



La cronaca di queste tragedie annunciate come quella che oggi vede l’Abruzzo in prima pagina, deve servire a ricordare che non è mai il terremoto che uccide ma la casa, la scuola, la chiesa o l’edificio in cui ti trovi che ti crolla in testa. La vera causa delle morti e degli sfollati è proprio la vulnerabilità sismica degli edifici, perlopiù costruiti durante il boom edilizio degli anni sessanta, settanta e ottanta e che frequentemente non hanno un’adeguata struttura per resistere. In Calabria il fenomeno, in relazione anche all’abusivismo edilizio che fu dilagante, sarebbe ancora più forte: in caso di terremoto le conseguenze potrebbero essere disastrose proprio in considerazione del fatto che assai numerose le strutture, sia abitative private sia di edilizia pubblica (si pensi solo alle condizioni dell’edilizia scolastica), a non essere adeguate dal punto di vista sismico.



E mentre la notizia è ancora soltanto della televisione e dei notiziari radiofonici, subito già scattano le polemiche sul perché non sia stato possibile dare l’allarme prima affinché non vi fossero vittime. La risposta è molto semplice: le conoscenze attuali non consentono di prevedere, con i dettagli di tempo e spazio necessari, quando vi sarà la prossima scossa sismica in una data regione. Però si conosce bene la pericolosità sismica del territorio e la frequenza con cui eventi sismici si possono verificare nelle varie zone dell’Italia. Quindi, se non è possibile prevederli con sufficiente anticipo, l’unica cosa che si potrebbe e dovrebbe fare è una seria prevenzione antisismica. Una prevenzione basata sul concetto di edilizia resistente alla scossa e di rottamazione, appunto, dei fabbricati non adeguati e non adeguabili per resistere ai terremoti.

NOTE

* geologo, membro del comitato nazionale di Radicali Italiani e segretario dell'associazione radicale calabrese per la resistenza nonviolenta

il Gengis
08-04-09, 01:21
La tragedia in Abruzzo pone con urgenza la necessità di un piano straordinario di rottamazione del patrimonio immobiliare post-bellico privo di qualità e di criteri antisismici

di Valter Vecellio

C’è chi ha osservato, con una punta di compiacimento, che questa volta la politica non ha offerto il solito teatrino litigioso; ci si è risparmiati la ridda di accuse e contro-accuse, perché ora è il momento del “fare”, e questo fare consiste nel cercare di limitare per quanto possibile il danno. Ovvio, tutto ciò è positivo. Del resto, questo paese già altre volte, nel momento dell’emergenza ha saputo trovare le energie e le risorse per rialzarsi. Del resto cos’altro si può e si deve fare nel momento dell’emergenza?



Il problema – e non si vuol fare i causidici ad ogni costo – non è tanto che in queste ore le polemiche siano state messe al bando, polemiche che comunque ci saranno, e si vedrà se fondate o meno; non è tanto il fatto che in occasione delle emergenze si riesce a dare le risposte adeguate e giuste; la domanda cui dobbiamo finalmente dare una risposta è: perché questo paese è sempre in emergenza?



La riflessione immaginiamo sia sorta spontanea a chiunque ha avuto modo di vedere le fotografie, le immagini del terremoto: devastate abitazioni vecchie, e questo probabilmente era da mettere in conto; ma che dire della Casa dello Studente, di ospedali e alberghi, sedi comunali, questure, altri edifici pubblici, tutti evidentemente costruiti negli anni Cinquanta e Sessanta, se non dopo?



E’ esemplare, al riguardo quanto scrive Gianantonio Stella sul “Corriere della Sera”: “…I morti sì, possono essere limitati. I danni sì, possono essere contenuti, quando le case sono costruite con i progetti giusti e gli accorgimenti giusti e i materiali giusti. E nessuno dovrebbe saperlo meglio di noi italiani. Che viviamo in una terra tra le più inquiete di un mondo in cui avvengono ogni anno un milione di terremoti piccolissimi e tra questi almeno un centinaio del quinto grado della scala Richter, cioè uno ogni tre-quattro giorni e ogni tanto ne arriva uno che sconquassa tutto. E per giorni giurano tutti che basta, occorre cambiare le regole e bisogna adottare una volta per tutte i sistemi che aiutano a limitare i danni perché è stupido spendere i soldi come per decenni ha fatto lo Stato che secondo i dati del Servizio geologico nazionale è riuscito a spendere solo dal 1945 al 1990 per tamponare i danni di catastrofi naturali varie oltre 75 miliardi di euro e cioè quasi 140 milioni di euro al mese.Più quelli spesi dal 1990 in qua per il sisma nella Sicilia Orientale nel dicembre 1990 e per quello nell’Umbria e nelle Marche del settembre 1997 e per quello a San Giuliano di Puglia dell’ottobre 2002… Tutti lutti seguiti da una promessa solenne: mai più. E presto dimenticata sotto la spinta di nuovi condoni, nuove elasticità urbanistiche, nuove regole più generose… Mentre cala la notte, nei paesi sotto il Gran Sasso la terra, ogni tanto, dà un nuovo scossone. Piccolo. Leggero. Sinistro. Così, tanto per ricordare chi comanda”.



Ha dunque ragione Elisabetta Zamparutti, quando osserva che “La tragedia che ha colpito l’Abruzzo, più che in termini di prevedibilità, deve essere affrontata nei termini di un’edilizia non a norma antisismica. Questo pone con urgenza la necessità di avviare un piano straordinario di rottamazione del patrimonio immobiliare esistente, a partire da quello post-bellico privo di qualità e di criteri antisismici”.



Bisognerà pubblicarli, gli atti del convegno dell’altro giorno su “Piano casa, rottamazione edilizia e riforma della legge sul governo del territorio”. Un documento importante, da far circolare e conoscere; perché nessuno possa dire più: non sapevo. Un’autorità indiscussa in materia come il professor Aldo Loris Rossi ha detto - anzi, ripetuto, perché sono anni che lo fa – cose precise, concrete, puntuali, di ottimo buon senso, realizzabili in tempi ragionevoli. Se si vuole, si può; se si può, si deve.

il Gengis
08-04-09, 01:21
on aggredite il mio corpo in nome di una politica sciagurata*
L’appello di un malato mentre il Parlamento discute di testamento biologico

di Paolo Ravasin**

Mi chiamo Paolo Ravasin. Il 4 aprile compirò 49 anni. Vivo a Monastier, Treviso, in una casa-soggiorno per disabili. Sono gravemente malato, da molto anni, di sclerosi laterale amiotrofica (Sla), la stessa malattia di cui soffriva Luca Coscioni, nel cui nome vive e lotta l’associazione della quale io mi considero un militante. Il 21 luglio scorso ho espresso chiaramente le mie volontà, in un video-testamento che si può facilmente trovare su internet, digitando il mio nome.

Ancora oggi voglio ripetere che, nel caso in cui le mie condizioni si aggravassero e non fossi più in grado di nutrirmi in via ordinaria, oppongo il mio netto rifiuto a ogni forma di idratazione e alimentazione artificiali, sostitutive della modalità naturale. Tale rifiuto deve essere considerato efficace, anche nel caso in cui dovessi perdere la capacità di esprimere e confermare la mia volontà. Inoltre, da quel momento, rifiuto qualsiasi terapia medica per la mia malattia, o per eventuali complicazioni che dovessero insorgere, ad esclusione dei farmaci necessari ad alleviare la mia sofferenza, derivante in particolare dalla disidratazione. Infine, oppongo il mio rifiuto ad ogni trasferimento in strutture ospedaliere. Sono perfettamente informato, e dunque pienamente consapevole, delle conseguenze cui vado incontro con queste decisioni, che ancora una volta confermo.

Ma adesso ho paura. Giovedì scorso il Senato ha approvato un testo di legge che rappresenta per me – ma in realtà per tutti gli italiani - una minaccia grave e intollerabile. La mia volontà, secondo i fautori di questa politica sciagurata, non conta nulla. Se non sarò più in grado di esprimermi, verrò aggredito in nome della legge. Lo Stato intende arrogarsi il diritto d’ufficio di bucare il mio stomaco per introdurvi acqua e cibo; oppure, in alternativa, di inserirmi un sondino nel naso, attraverso il quale iniettare allo stomaco il nutrimento, con l’ausilio di una “nutri-pompa”. Io ribadisco che non voglio, assolutamente non voglio essere sottoposto a questi trattamenti. Eppure non potrei impedirlo, perchè la “mia” vita e il “mio” corpo, dicono i sostenitori di questa legge, non sono veramente miei. (E di chi sono, allora?). Dicono anche che idratazione e alimentazione artificiali non sono terapie, neppure se somministrate in questa forma, contro ogni evidenza e nonostante il parere opposto di tutta la comunità scientifica internazionale. Perciò la vita artificiale potrebbe venirmi imposta, se necessario con la forza, in nome di un principio pseudo-religioso, oscurantista e dogmatico.

E’ in corso il tentativo di trasformare l’Italia in uno Stato confessionale, o addirittura teocratico, sulla pelle dei tanti che si trovano nella mia stessa condizione. Ebbene, io non ci sto. Non ho intenzione di sottostare a questo malvagio arbitrio. Se questa legge contro il testamento biologico - dunque contro tutti gli italiani - dovesse essere approvata in via definitiva, mi opporrò in tutte le sedi possibili, con le mie poche forze e l’aiuto dei miei cari, per rivendicare il rispetto della mia volontà. Intendo sottrarmi a questa violenza inaudita e gratuita, a qualsiasi costo, sino alle estreme conseguenze. Mi auguro che tanti cittadini, di tutti gli orientamenti politici o religiosi, facciano sentire nei prossimo giorni la loro voce, affinché non venga portato a termine questo scempio contro lo Stato laico e di diritto.

NOTE

*da “Vanity Fair
** Malato di sclerosi laterale amiotrofica (Sla), 49 anni, lotta per non essere alimentato artificialmente se le sue condizioni si aggraveranno.

il Gengis
10-04-09, 00:57
Il pennello laico che creò gli illumisti (*)

di Angiolo Bandinelli

Pompeo Batoni, chi era costui? A chi non è un critico o storico dell’arte il nome dice poco o niente; ma anche gli addetti ai lavori poco o nulla diranno di questo pittore, ai suoi tempi invece – più o meno l’arco del XVIII secolo – celebratissimo. Ho fatto recentemente una scappata a Lucca, sua città natale, in occasione di una bella mostra a lui dedicata. Voi mi chiederete: che c’entra, questo Batoni, con i temi della laicità? Abbiate pazienza, ve lo spiego tra un momento.

Pompeo Batoni fu dunque un pittore. Nato a Lucca, giovanissimo si trasferì a Roma, dove visse tutta la vita. Eccellente disegnatore, padrone dei virtuosismi della tecnica, con picchi anche di indiscutibile genialità, salì prestissimo in fama europea (all’epoca Roma allevava ed esportava grandi talenti, come il contemporaneo Metastasio e l’appena più giovane Canova). Cominciò con opere dai toni e dai sentimenti religiosi, della religiosità un po’ mondana tipica dell’epoca, che amava intrecciare i suoi personaggi con quelli della mitologia classica: ecco quindi le allegorie delle Arti - la Pittura, la Scultura e l’Architettura, oppure Apollo, la Musica e la Geometria, o anche Mercurio che incorona la Filosofia o, infine, l’Educazione di Achille - affiancarsi ai dipinti devozionali e alle pale d’altare, con San Giuseppe o San Matteo, la Vergine che legge, le estasi di Santa Caterina da Siena. A un certo punto, però, nello studio dell’affermatissimo professionista del pennello si presentano dei clienti un po’ speciali. Sono giovani gentiluomini, per lo più britannici, che stanno percorrendo l’Italia nel Grand Tour, indispensabile tappa della loro educazione prima di assumere le responsabilità cui il rango, sempre elevatissimo, li avrebbe chiamati. A quei tempi non c’era la fotografia patinata di Luxardo o di Cecil Beaton, quelli chiedono a Batoni il ritratto da appendere sopra il caminetto delle loro “Stately Homes”. Sono una clientela diversa dei committenti devoti, pii o semplicemente conformisti delle altre opere. Il pittore si adegua al volo, e i ritratti che eseguirà loro non hanno il più lontano richiamo religioso o devozionale: niente santi, madonne o angeli alati. Quasi sempre di grandi dimensioni e a figura intera, rappresentano il personaggio in piedi su uno sfondo d’ambiente romano, per lo più con il gomito appoggiato a un capitello o a un frammento architettonico classico, le gambe incrociate in bella nonchalance, la mano sul bastone da passeggio, negli abiti ricchi ma insieme semplici del viaggiatore. Spesso, ai suoi piedi c’è un cagnetto che saltella e abbaia al padrone. Più di 150 sono stati i britannici da lui ritratti in queste pose. Per farla breve: questi sono forse i primi ritratti che raccontano di un mondo, una società consapevolmente laica. Una pittura “civile” ugualmente laica nei toni era apparsa nell’Olanda del XVII secolo, con gli interni, i volti, le costumanze familiari di una borghesia mercantile aliena dall’enfasi della coeva pittura barocca italiana, intrisa di spiritualità e di retorica controriformista. Con Batoni, ci si presenta una vicenda diversa ma parallela. Ne avevo avuto un preannuncio visitando anni fa, a Londra, una splendida mostra di Sir Joshua Reynolds. Reynolds è il ritrattista delle aristocrazie dirigenti e politiche che stanno costruendo l’Impero Britannico. Reynolds, insomma, dipinge i reduci dal Grand Tour romano, ormai incardinati nelle istituzioni. Pittore senz’altro a lui superiore, aveva però avuto come necessario predecessore Batoni, che probabilmente (mi attendo la smentita di un qualche informatissimo critico d’arte) inventa i canoni del genere. E con l’apparizione di questi nuovi ceti dirigenti e politici si configura la nascita di una Europa che abbandona (almeno fuori d’Italia) i percorsi del classicismo cattolico e si inventa un classicismo laico e mondano.

Ebbene, a me questa pittura dice che quando si denuncia la laicità, o il laicismo di un’Europa decadente, responsabile della morte di dio, della perdita dei grandi valori nei costumi, nella società e nella vita, si pratica una reticenza se non un infingimento, o quanto meno si commette un errore di prospettiva, che vanno smentiti o corretti. Osservate i ritratti di Batoni o di Reynolds: in quei volti, rappresentativi di fondamentali ceti dirigenti e politici, non c’è traccia o sospetto di nichilismo. Sono immagini di benpensanti, attivi, ottimisti, costruttivi, socialmente pragmatici e poco portati alle speculazioni astratte: non hanno nemmeno letto i “Dialoghi sulla religione naturale” di David Hume, che usciranno solo nel 1779, ma sono figli (o padri) di un illuminismo al quale è storicamente sbagliato imputare (tutte) le accuse che gli vengono rovesciate addosso.

NOTE

(*) Da “Il Foglio”

il Gengis
10-04-09, 00:57
La lezione abruzzese

di Guido Biancardi

Pierluigi Battista ci segnala nell'editoriale di prima pagina del “Corriere della Sera”, a due giorni dal disastro annunciato dell'Aquila denunziato come tale da Emma Bonino, una “lezione” da trarne. Abruzzese stavolta, dopo il Belice, il Friuli, il Vajont.... e prima della madre di tutte le lezioni possibili, la più severa, il Vesuvio. Sarebbe una lezione di solidarietà nazionale quella che “emergerebbe “dai meandri più reconditi di una società sconvolta nelle sue viscere da rigurgiti terrorizzanti di intolleranza ogni volta che altre emergenze si impongono per la loro tragicità.



E' l'emergenza quindi che unifica, mentre la normalità delle situazioni divide? E' questa la lezione abruzzese? E, se è questa, allora perché non auspicare ogni possibile occasione emergenziale di sospensione dell' “ordinario”(legislativo, sociale, addirittura politico-istituzionale); e, se non basta, causarla quell'emergenza che “pacifica ed unisce”?

La pace è anche quella dei grandi cimiteri sotto la luna di George Bernanos, e si è sempre (ri)uniti, spalla contro spalla, addirittura scambiandosi “un segno di pace” nelle solenni celebrazioni liturgiche anticipazioni della situazione in cui “il lupo giacerà con l'agnello...”.

Specie nei funerali, soprattutto se “di Stato” in cui il celebrante è il Vescovo o l'esponente istituzionale più elevato secondo il protocollo concordatario mentre le Autorità sono schierate compuntamente in ordinate prime file.



Rivedremo presto questo spettacolo di coesione istituzionale, penitenzialmente sciorinato ad assoluzione del “peccato di contrasto democratico“ delle posizioni e delle opinioni? Lì, forse, si dirà che mai più si devono dimenticare le cose che ci rendono uguali e che ci uniscono e che si deve tendere tutti a metterci al servizio l'uno dell'altro in spirito di puro disinteresse civile.



Sarà! Ma eleggere, pardon nominare, un “mio” e poi un” tuo.”...e così via, e dare a ciascuno di coloro che danno e soprattutto ricevono le “carte del gioco“ il più possibile (!?) di quel che è reso disponibile dalla generosità dei cittadini più o meno supportata da un fisco severo e vorace quanto selettivo e discriminatorio non mi sembra che una forma della solita lezione di un Regime che cavalca cinicamente ogni occasione di popolarità e, violentemente se necessario, è (pre)disposto a non ostacolare o favorire sempre altri eventi tragici di cui celebrare, poi, la fine. Con bande musicali ed organi, corone d'alloro e candele, bandiere e fiori bianchi ...



Se “questa “ la chiamassimo lezione abruzzese, allora essa potrebbe rivelarsi davvero preziosa.

il Gengis
10-04-09, 00:58
Con Paolo Mieli esce di scena anche il mielismo? Ha fatto cadere l’autorevolezza del “Corriere della Sera” e messo in fuga i lettori

di Salvatore Sechi

Perché la proprietà del Corriere della Sera ha fatto sloggiare Paolo Mieli dalla poltrona di direttore sostituendolo, per la seconda volta nel giro di un decennio, con un suo sodale e amico, Ferruccio De Bortoli, da 4 anni insediato in maniera eccellente al Sole-24 Ore?

Purtroppo si deve constatare che 12 uomini di impresa e di affari quali i soci del RCS (Mediobanca, Intesa-San Polo, Generali, Fiat, Pirelli, Dorint Holding, Edison, Fonsai, Mittel, Indesit ecc.) non fanno un editore. Si dilaniano in poteri di veto e magari nel gioco degli specchi.



E’ stata avanzata da molti l’ipotesi che a Mieli sia stato fatto pagare la decisione di schierare, nel marzo 2006, il Corriere a favore di Romano Prodi e di essere stato sempre ostile a Berlusconi. Diverso fu il responso dei lettori. In circa il 10% avrebbero voltato le spalle a Via Solferino per beneficiare la concorrenza (a cominciare da Libero di Vittorio Feltri). Ma Mieli ha smentito sciogliendo un inno alla sua capacità di recuperare questo bel gruppo di pecorelle smarrite.



E’ vero che il Corriere conservò la sua autonomia e non mancò di criticare, e anche attaccare, Prodi e il suo governo. Il problema è che Mieli commise l’imprudenza grave di non dare le dimissioni. Un atto di responsabilità dovuto. Egli ha sottovalutato la domanda di cambiamenti che viene dai lettori. Ad essi non piace il gerontocomio, cioè che a rifriggere la minestra siano sempre le stesse persone.



I commentatori di Via Solferino sono gli stessi da più di ventanni. Anche La Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore hanno avuto editorialisti dell’importanza di Angelo Panebianco e di Ernesto Galli della Loggia, ma Ezio Mauro (che ama conservare molto, e intristire altrettanto), Giulio Anselmi e Ferruccio e Bortoli hanno saputo allevare, e immettere, forze nuove (a volte anche di pasta frolla grazie alle cantonate di Gianni Agnelli), preparando l’inevitabile transizione tra generazioni.



Le pagine delle Opinioni e Commenti non mi pare siano state concepite a questo fine di favorire il passaggio del testimone. E i tre piccoli editoriali, a imitazione del The New York Times, sono volatili e soprattutto privi del mordente e della autorevolezza che Piero Ostellino intese dare loro.



Molto deboli, altamente casarecce sono le pagine culturali del Corriere. Non vanno oltre il buon gusto di non allinearsi al perbenismo dominante tra gli intellettuali sulla storia del fascismo, del comunismo, dell’inossidabile Sessantotto. Non ricordo nessuna analisi su questo ceto e il suo rapporto con la società civile e quelal politica di cui è mancipia.



Ma ciò che è insopportabile e quasi incredibile è che il principale quotidiano italiano non sia mai stato in grado di creare un vero e proprio settimanale culturale. Non parlo di un una raccolta di recensioni (al quale provvede ogni domenica l’inserto di Riccardo Chiaberge sul Sole-24 Ore), ma un luogo di dibattito in cui finalmente le culture politiche, storiografiche, artistiche ecc. possano dimostrare che esistono (il che non è per nulla detto) e discutere anche aspramente, come da decenni fa il Times Literary Supplement. Perché non affidare a Pigi Battista questo incarico, liberandolo dal cilicio del bon a tout faire politico-culturale al quale è stato destinato, e in cui si è estenuato?



Il desiderio di Mieli di imitare Scalfari come creatore e garante di equilibri (e disegni) politici, avendo sempre una voce, se non una mano, nei palazzi romani, è fallito. Ha avuto solo un certo success nel sostituire, magari appaiare, Il Corriere a La Repbblica nella stabilizzazione del ruolo (interventista) della stampa nel sistema politico. Era un esito dal quale il quotidiano di Albertini si era tenuto saggiamente lontano. Con Mieli le cose sono cambiate. Via Solferino ha puntato non a informare, ma a guidare l’opinione pubblica. Servendosi della carta stampata per stimolare i politici a fare il loro mestiere.



E’ nato così quello che si chiama mielismo. E’ due cose insieme. Da un lato metodo di ripudio delle scelte, delle alternative; e dall’altro è desiderio di dare vita ad uno spazio politico in cui un buon nucleo di lettori/elettori si sarebbero dovuti riconoscere come una possibile (il famoso “partito che non c’è”) forza distante dai partiti di massa e non più incatenata alla tradizione dei partiti minori della liberal-democrazia.



Si è trattato di un mito politico che è durato lo spazio di un mattino. Prodi e l’Ulivo, che Mieli aveva sponsorizzato, si sono rivelati essere partiti di cartapesta,e sono naufragati miseramente, mentre Berlusconi ha consolidato il suo consenso ribadendo la propria eteronomia rispetto alla Prima Repubblica. Fino a creare un nuovo grande partito di massa.

Il Cavaliere è stato la sonda della maggioranza della società italiana. Ne ha interpretato e coagulato gli interessi e i bisogni offrendo un’immagine di populismo ancora misurata. Non è detto che non possa (e forse voglia) tracimare ( e sarebbero dolori), ma la sua versione fino ad oggi sostanzialmente prudente è bastata a funzionare come un forcipe, di rottura e di trasformazione micidiale.



E’ quell’uscita dagli argini, il saper parlare al paese, sfidare le cariatidi seriose e sentenziose dei giornali, ad essere mancata alla sinistra nel momento in cui avrebbe dovuto liberare gli armadi dal comunismo e dalle leggende del cattolicesimo politico progressista.



Lo straripamento di Berlusconi, e la sua capacità di sopravvivere al linciaggio quotidiano di fogli-partito come La Repubblica o pretendenti tali come il Corriere della Sera, hanno tarpato le ali, rendendo impossibili mediazioni e ruoli di gloria come quelli perseguiti dai ragazzi di Via Solferino. De Bortoli dovrebbe farne tesoro, evitandole come la peste. Fortunatamente non è nel suo stile fare due mestieri.



Basta dare uno sguardo alle costole locali del Corriere (ho presente Bologna, ma anche Napoli, Padova ecc.) per rendersi conto di come siamo in presenza di una debacle de sogno di fare il kingmaker della politica.



Questi quotidiani riecheggiano passivamente la politica delle istituzioni locali (Comune, Provincia e Regione) esaurendo la politica nelle vicende interne del centro-sinistra, trattando il centro-destra come il nemico da battere. In assenza di qualunque analisi dei mutamenti radicali indotti dall’immigrazione, dal carattere di massa della ’università, della violenza e del degrado, sono ridotti a fare i ventriloqui del Pd.



De Bortoli non dovrebbe sottovalutare la crisi di credibilità, e di autorevolezza, del Corriere. Essa è figlia di fenomeni che non dipendono da Mieli. Mi riferisco in parti colare a due elementi.

In primo luogo, la crisi economica e il ridursi dei consumi hanno determinato le attuali difficoltà di raccogliere pubblicità sull’web e quindi una continua erosione degli introiti provenienti dalla pubblicità dei giornali stampati su carta.



In secondo luogo si assiste ad una progressiva estraniazione dei lettori della carta stampata perché sul cellulare, sul computer e ormai su decine di web trovano molte più notizie. Le acquistano gratis per il fatto che Google, come dice Carlo Roseella, sta diventando una prima edicola, dove anche quotidiani e settimanali si prendono stendendo il braccio senza pagare l’obolo.

il Gengis
10-04-09, 00:58
Reato di sciacallaggio: più che nuove leggi si assicuri la certezza della pena

di Valter Vecellio

“Il Governo ha intenzione di introdurre un nuovo reato penale per punire gravemente lo sciacallaggio. Non sappiamo quale nome avrà, ma le pene saranno molto severe”, promette il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Poco prima la Protezione Civile aveva parlato di sciacalli provenienti da diverse parti d’Italia. E contemporaneamente si era diffusa la notizia (poi rivelatasi falsa) che due persone, trovate in possesso di alcune decine di migliaia di euro erano state fermate a Onna; poi si è accertato che quel denaro era loro e non era frutto di razzie, non erano “sciacalli”.



Al di là dei casi specifici, episodi di “sciacallaggio” comunque si “accompagnano” spesso a tragedie come quella che ha colpito l’Abruzzo. Sono fatti inevitabili anche se questo naturalmente non significa che li si debba accettare e subire come una ineluttabile maledizione. Bene, dunque, il pugno di ferro nei confronti degli sciacalli; ma l’annuncio di misure esemplari lascia perplessi. Davvero c’è bisogno di una nuova norma, nei nostri codici non ci sono già leggi sufficienti che consentono di punire gli “sciacalli” e mettere questi delinquenti nella condizione di non nuocere?



Qualcuno obietterà che l’annuncio di pene draconiane può servire come deterrente. Forse. A parere di chi scrive, però, questo annuncio si iscrive piuttosto nella vocazione del presidente del Consiglio di mostrare efficientismo e determinazione del “fare”. Che corrispondenza poi abbiano gli annunci con l’efficienza reale e il “fare” effettivo, lo testimonia la quotidiana azione di governo: deludente sotto mille aspetti, e prima o poi la “luna di miele” finirà, mostrando chiaramente come il re di palazzo Chigi sia nudo (anche se tanti e difficilmente riparabili danni saranno stati fatti). Per tornare alle norme anti-sciacallaggio, si confessa che sembrano piuttosto qualcosa di molto simile alle proverbiali grida manzoniane.



Già dai tempi di Cesare Beccaria si ammoniva che una pena per essere efficace, deve essere soprattutto “certa”: si deve insomma sapere che un determinato comportamento illegale sarà sanzionato, e lo sarà in tempi rapidi. Il che non accade. Una politica anti-sciacallaggio, dunque, dovrebbe assicurare soprattutto l’applicazione delle pene, e che queste siano effettivamente scontate. Che senso ha promettere un indurimento di pena se si sa già in partenza che difficilmente verrà applicato?



Sarebbe auspicabile, per esempio che gli sciacalli arrestati siano processati per direttissima. Accade invece a un ribaltamento di quello che dovrebbe essere: si va in galera per qualche settimana o mese prima della sentenza; poi, una volta condannati, ci sono mille scappatoie che consentono di evitare il carcere. Riuscire ad invertire questa specie di “regola”, sarebbe già un grande successo. Forse sarà opportuno, come annuncia il governo, che questi reati particolarmente odiosi siano puniti con maggiore severità. Quello che certamente va garantito è tuttavia che lo siano; che, nello spirito di Beccarla, si garantisca certezza della pena e celerità nella condanna.

Cyrus
10-04-09, 18:41
Un Paese sempre in emergenza


• da L'Opinione del 9 aprile 2009, pag. 1


di Valter Vecellio

C’è chi ha osservato, con una punta di compiacimento, che questa volta la politica non ha offerto il solito teatrino litigioso; ci si è risparmiati la ridda di accuse e contro-accuse, perché ora è il momento del "fare", e questo fare consiste nel cercare di limitare per quanto possibile il danno. Ovvio, tutto ciò è positivo. Del resto, questo paese già altre volte, nel momento dell`emergenza ha saputo trovare le energie e le risorse per rialzarsi. Del resto cos`altro si può e si deve fare nel momento dell`emergenza? Il problema - e non si vuoi fare i causidici ad ogni costo - non è tanto che in queste ore le polemiche siano state messe al bando, polemiche che comunque ci saranno, e si vedrà se fondate .o meno; non è tanto il fatto che in occasione delle emergenze si riesce a dare le risposte adeguate e giuste; la domanda cui dobbiamo finalmente dare una risposta è: perché questo paese è sempre in emergenza? La riflessione immaginiamo sia sorta spontanea a chiunque ha avuto modo di vedere le fotografie, le immagini del terremoto: devastate abitazioni vecchie, e questo probabilmente era da mettere in conto; ma che dire della Casa dello Studente, di ospedali e alberghi, sedi comunali, questure, altri edifici pubblici, tutti evidentemente costruiti negli anni Cinquanta e Sessanta, se non dopo? Prevedere il terremoto è, evidentemente, un sogno. Evitarne i danni, quello si può. Si può e non si fa. E` vero o no che lo Stato, secondo i dati dei Servizio geologico nazionale ha speso, solo dal 1945 al 1990 per tamponare i danni di catastrofi naturali varie oltre 75 miliardi di euro e cioè quasi 140 milioni di euro al mese? Più quelli spesi dal 1990 in qua per il sisma nella Sicilia Orientale nel dicembre 1990 e per quello nell`Umbria e nelle Marche del settembre 1997 e per quello a San Giuliano di Puglia dell`ottobre 2002... Pensate come, più utilmente, poteva essere utilizzato quell`enorme fiume di denaro, per la prevenzione e la costruzione di edifici a norma. Dice cose ragionevoli la parlamentare Elisabetta Zamparutti, affiancata da uno dei massimi esperti, Aldo Loris Rossi: "La tragedia che ha colpito l`Abruzzo, più che in termini di prevedibilità, deve essere affrontata nei termini di un`edilizia non a norma antisismica. Questo pone con urgenza la necessità di avviare un piano straordinario di rottamazione dei patrimonio immobiliare esistente, a partire da quello post-bellico privo di qualità e di criteri antisismici". Cose precise, concrete, puntuali, di ottimo buon senso, realizzabili in tempi ragionevoli. Se si vuole, si può; se si può, si deve.




non è un editoriale di notizie radicali in senso stretto, ma l'autore è il direttore vecellio

santiago
17-04-09, 15:31
Pannella in Europa: un’altra grande occasione persa

di Piero Capone

Il Partito Democratico aveva (ha ancora?) una grande occasione: la candidatura di Marco Pannella come capolista del PD per le prossime elezioni europee.



Oggi fa scalpore quella di Sergio Cofferati nella circoscrizione del Nord-Ovest: lontano da quel Nord-Est dove pur ha amministrato la più importante città, molto cara al cuore della sinistra.



Dove però, dopo essere stato paracadutato per riportare Bologna nei binari dell’ortodossia del “regime” emiliano, e dopo non essere mai stato sopportato dai bolognesi anche per la sua scadente e opaca amministrazione, ha fatto “una scelta di vita”: la famiglia a Genova; salvo poi preparare subito le valigie per Strasburgo!



Quando fu catapultato a Bologna in effetti si certificò il totale fallimento di una classe dirigente (dell’allora DS) costretta a ricorrere ad uno “straniero” (presunto fuori classe, poi dimostratosi un “patacca”, come dicono in Romagna) non potendo far emergere nessuna personalità di spicco dalla sinistra bolognese! E dopo 60 anni di potere incontrastato e invasivo in tutti i gangli della realtà locale.



Ma cosa sarebbe stato se il Partito Democratico avesse avuto il coraggio politico e la lungimiranza di candidare Pannella invece di Cofferati?



Innanzitutto il partito si sarebbe risparmiato la figura decisamente ridicola di “riciclatore” di personaggi in declino. E in fuga dalle proprie responsabilità.



Ma poi avrebbe dimostrato la capacità e l’intelligenza politica di garantire che la figura più eminente del nostro europeismo, potesse continuare la sua battaglia ideale e politica per quella Patria Europea, federalista, liberale, democratica, non violenta che molti di noi sognano.



Ma non solo. Avrebbe mostrato finalmente la sua apertura, vera, nei confronti della cultura liberale, democratica, laica, radicale espressa dalla figura di Marco Pannella.



Con indubbie conseguenze positive per il futuro del Partito Democratico in Italia.







In realtà ci sono già state altre due occasioni perse nel recente passato; con evidenti conseguenze nefaste per il processo di costruzione del Partito Democratico.



La prima fu la mancata accettazione di una presenza di Pannella alle primarie del PD.



La seconda, il rifiuto di apparentamento di una lista Radicale a sostegno di Veltroni nelle ultime elezioni politiche. Allora si preferì dare un’immeritata copertura mediatica ed elettorale alla compagine personale di Di Pietro, con gli splendidi risultati che tutti possono vedere.

E, conseguentemente all’inserimento dei radicali nelle loro liste, il vergognoso diktat nei confronti di Pannella e di D’Elia.



La terza occasione – assolutamente da non sprecare - sarebbe stata quella di candidare Marco Pannella come capolista PD alle elezioni europee.



Invece si opta sul riciclaggio di Cofferati, guardandosi ovviamente da candidarlo nel Nord-Est, dove lo hanno conosciuto bene e dove lo punirebbero severamente alle elezioni.



Anche da questo mancato segnale si conferma la non esistenza di alcuna crepa nel muro del “monopartitismo imperfetto” che difende il castello del regime italiano.



Se poi, il vento dovesse continuare a soffiare dalla parte del sistema di potere berlusconiano – l’altra faccia del regime - non potranno i “democratici” invocare il “destino cinico e baro”: trattandosi solamente di un altro fatale errore – forse voluto – della loro massima dirigenza.

santiago
17-04-09, 15:32
Progressista, moderato o populista?*

di Furio Colombo

Candidare Marco Pannella nelle liste Pd alle elezioni Europee? Comprensibile il dibattito, la preferenza, l’indifferenza, l’ostilità. Nel Pd ciascuno è lontano da un punto e vicino a un altro punto, ma il più delle volte non è lo stesso punto. Però intorno a una candidatura di Pannella
- che più europeo di formazione e di esperienza non si può - si è creato un clima alla Jannacci, un «no, tu no» rigoroso che un po’ meraviglia in un partito che, se non è liquido, almeno è elastico, e lo ha dimostrato con due o tre vittorie negli ultimi giorni. Il comunicato - ufficioso
però autorevole - è a firma del generale Fioroni, uno dello stato maggiore. Constata che «il percorso dei radicali ormai è cambiato e non resta più alcuna strada da fare insieme».

Poiché sono alla Camera, mi capita di vedere ogni giorno i parlamentari del Partito radicale sempre nei loro banchi, area Pd da eletti nel Pd, li trovo sempre fermi nella difesa dei diritti umani e civili che sono un impegno mai interrotto da molti decenni di quel partito, vedo i loro voti, in tutte le situazioni cruciali, uniti ai voti del Pd. C’è stato l’episodio della loro ostinata opposizione al trattato di integrazione militare tra l’Italia e la Libia. Ma i lettori ricorderanno
che anch’io mi sono battuto contro quel trattato, per la stessa ragione (difesa dei diritti umani in un paese che li nega). So, d’altra parte, che molti colleghi del Pd avrebbero volentieri fatto a meno dell’abbraccio con la Libia (che purtroppo ci riserverà brutte sorprese) se l’indicazione
di voto (per me misteriosa) non fosse stata così pressante e autorevole. Ma tutto ciò non è che una piccola parte delle contraddizioni e tensioni, per fortuna molte volte utili e creative (non è sempre Libia) che attraversano il Pd e sono il suo sciame di tremori e - speriamo - di assestamento.

Sui giornali di questi giorni c’è un bel repertorio. Per esempio c’è il campione anagrafico Matteo Renzi, candidato Pd sindaco di Firenze, che afferma che giovane come lui non c’è nessuno e chi non è giovane si tolga di mezzo. E’ un atteggiamento che gli toglie la voglia di sapere che nel «Paese più vecchio del mondo» l’età media della Camera dei deputati italiana è appena sopra i 50 anni, dunque alquanto più giovane della Camera americana (per dire che non è l’età che fa la crisi).

Per esempio, un bel gruppo di giovanissimi Pd trenta-quarantenni, uniti dal nuovissimo slogan «I giovani vogliono contare di più» e subito dopo (in contraddizione) «vogliamo superare il recinto generazionale», ha deciso di riunirsi a Piombino «per fare rete», come si dice da giovani invece di «organizzare una corrente». I vegliardi tipo Enrico Letta sono avvisati. Ma proprio Enrico Letta ci guida, con la chiarissima intervista data ad Aldo Cazzullo sul “Corriere
della Sera” (10 aprile), a sapere come è variamente popolata e animata la cittadella del Partito democratico. Dunque ascoltiamo Letta: «Questo bipolarismo è finito. L’elettorato non è bipolare ma tripolare: diviso non tra destra e sinistra, ma tra progressisti, moderati e populisti.
Si tratta di unire progressisti e moderati in un patto che non potrà includere né la Lega da una parte né Di Pietro e i comunisti dall’altra. Dobbiamo costruire un nuovo centro-sinistra con la C di Centro maiuscola. E’ evidente che dobbiamo rimpacchettare tutto. Il Pd, così com’è, è condannato alla sconfitta».


Parole pesanti che spingono a domandarsi: ma se la vera ragione di sconfitta non fosse il «Pd così come è» ma «il Pd così come non è»? Per esempio, dove è finito Berlusconi in questa foto di gruppo della nuova famiglia? Torna a casa, tutto è perdonato? E vero che il populista Sansonetti, nuovo direttore del nuovo quotidiano “L’Altro” ci fa sapere che si asterrà «dall’antiberlusconismo spinto, che dobbiamo superare con le idee». “L’Altro” andrà a ruba, per capire cosa vuol dire.


Ma - per esempio - su tutto il fronte in movimento non troviamo traccia dell’offensiva del Cardinal Bagnasco: «Tre sì alla vita». (intende dire: curare gli ammalati). E «Tre grandi no». Intende dire: niente testamento biologico, scordatevi di imporre la vostra volontà (cito da
”L’Espresso” del 12 aprile). Il Cardinale come lo ri-impacchettiamo? E perché, in questa fase movimentista e dunque in sé non negativa del Partito democratico, non affiora mai la questione della profonda divisione fra laici e credenti adulti da un lato e teocon disposti a qualunque gesto di cieca obbedienza vaticana dall’altro? Dove è finita la Binetti? E’ tra i
progressisti, i moderati o i populisti? E siamo sicuri che la sua distanza rispetto a un Partito democratico che cerca ragionevolmente consenso dentro e fuori su tanti fronti (primo
fra tutti i diritti umani) sia meno grande e meno incompatibile della storia, vita e testimonianza di Marco Pannella?

santiago
17-04-09, 15:33
Perché il PD non candida Pannella?*

di Luigi Manconi

Trovo singolarissimo che nulla sia stato ancora detto e fatto affinché Marco Pannella possa far parte del prossimo Parlamento europeo, come eletto nelle liste del Partito democratico. Che ciò debba avvenire, infatti, mi sembra ragionevolissimo: anzi, pressoché ovvio. E ho grande difficoltà a immaginare ragioni perché, invece, ciò rischi di non accadere. C’è innanzitutto una questione di merito, lampante: la politica europea e internazionale di Pannella e dei Radicali
coincide largamente (dopo averla anticipata su molti punti) con quella del Pd. Ed è indubbio che i Radicali, da decenni, svolgono un ruolo decisivo nel tematizzare problemi - e soluzioni per quei problemi - che sono al centro dell’agenda politica sovranazionale: e sui quali, magari tortuosamente, finiscono col convergere le principali culture presenti nel Partito democratico. Non è un caso che, appena pochi giorni fa, Emma Bonino risultava tra i pochissimi politici italiani con Giuliano Amato e Massimo D’Alema, firmatari di un impegnativo documento
sull’Europa, pubblicato dal “Corriere della Sera”. Ma anche sulle questioni controverse (si pensi al recente trattato tra l’Italia e la Libia) il ruolo dei Radicali, quando pure è divergente svolge una funzione preziosa: in questo caso ha evidenziato contraddizioni e rischi (ahi, quanto immanenti) di quell’accordo, in particolare a proposito del pattugliamento congiunto delle coste del Mediterraneo. Ma c’è un’ulteriore ragione, solo in apparenza di metodo, che dovrebbe indurre a favorire l’elezione di Marco Pannella e di altri Radicali nelle liste democratiche. Da una anno, i Radicali hanno costituito una delegazione all’interno dei gruppi democratici di Camera e Senato: il loro comportamento è, a mio avviso, esemplare di un’idea sanamente
conflittuale e tenacemente unitaria del rapporto tra culture diverse (già emerso nell’inossidabile realtà mostrata durante il Governo Prodi). La presenza di una posizione radicale (nei molti significati di quel termine) ha rappresentato un’importante occasione di confronto per i gruppi parlamentari democratici: fin troppo palese nella vicenda del Testamento biologico, quando quella posizione è stata capace di una costante vigilanza e di
un assiduo richiamo a principi fondamentali. E di una paziente mediazione intorno a opzioni in grado, infine, di farsi maggioranza. Ma ciò è accaduto anche sui temi della sicurezza e delle garanzie in campo processuale e penale. Sarebbe un errore gravissimo se una politica così mobile e, insieme così efficace, tanto intensa nelle idee quanto meritoriamente acribiosa nell’approssimazione agli obiettivi, non trovasse spazio in un’arena cruciale come il Parlamento europeo.

NOTE

* Da “l’Unità”

santiago
17-04-09, 15:34
Lettera a Dario Franceschini sul PD
La senatrice Magda Negri ha reso nota la seguente lettera aperta al segretario del PD Dario Franceschini

di Magda Negri

Caro Franceschini,

Forse siamo ancora in tempo. Il voto alle prossime europee - come continuano e continuiamo a dirci - sarà discriminante x le sorti del Pd. Per quanto mi riguarda non riesco ad attribuire significati tanto salvifici o drammatici ad ogni singola prova elettorale, ma tant'è... siamo nel solco.

La soglia d'accesso al 4% - che abbiamo giustamente voluto per qualificare ed europeizzare la rappresentanaza del nostro paese - insieme al profilo non transitorio dei candidati del Pd sono i tratti nuovi e caratterizzanti della nostra offerta politica per queste elezioni.

Non è in gioco, come pure comunemente si dice la nostra storia di sopravvivenza. Penso che non dobbiamo rinunciare a proporci, anche per le europpe, come partito a vocazione maggioritaria, europeista, capace di attrarre ed unire tutti quelli che sono altro dal PPE.

L'offerta politica trova però nelle liste, nelle storie di uomini e donne in carne ed ossa il suo attualissimo e concreto precipitato politico. Faccio due esempi: Sinistra e Libertà non ha voluto stare nel e con il Pd in questa sfida. Peccato. I Radicali, che già stanno con noi in parlamento - in un rapporto leale le cui modalità abbiamo sempre accettato - pare non siano stati coinvolti nella costruzione delle liste del Pd.

Possiamo rassegnarci a tutto questo? Possiamo pensare di costruire le liste solo accostando, con diligenti equilibri, candidati della ex margherita agli ex ds? Forse siamo ancora in tempo per una generosa apertura ed offessiva unitaria verso personalità ed eletti di questi campi politici per aggiungere e non perdere altre forze. Abbiamo certo voluto la soglia del 4% non per escludere ed allontanare, ma per includere, unire in condivisione e libertà. O no?

santiago
17-04-09, 15:34
Radicali-PD: i radicali sono sempre stati leali. I “fedeli” li si cerchi altrove

di Valter Vecellio

Bisognerà trovare il tempo e il modo di ricostruirla e di scriverla la storia dei rapporti tra radicali e Partito Democratico (questo Partito Democratico); e recuperare alla memoria di tutti, anche di noi stessi, il percorso, faticoso, intrapreso dai radicali da anni fautori e “costruttori” di quel Partito Democratico che è, ancora purtroppo, come “l’isola non trovata”. Altro che la stolta affermazione relativa all’ “albergo ad ore”, evocata da chi, quando i radicali negli anni Settanta e prima ancora, già proponevano e lavoravano per il “Partito Democratico”, impegnava le sue “furbizie” alla corte andreottiana in Ciociaria. Ne emergerà un quadro diverso, e per tanti aspetti opposto a quello descritto e raccontato – sia pure nella sommarietà di una pagina di giornale – da Bruno Miserendino sull’ “Unità” (“PD e radicali verso l’addio. Alle Europee ognuno per sé”). Verrà fuori dove e cosa facevano tanti che oggi sono gli alfieri di una “purezza” del PD, che verrebbe pregiudicata dalla presenza radicale; perché i comportamenti di “ieri” spesso sono “figli” di quelli di “oggi”; e possono spiegare tante cose.



Per limitarsi alle cose di oggi, e alle sue miserie. Cosa rispondere a un Beppe Fioroni, che pure dovrebbe spiegare ragioni e motivi di qualche fallimento (politico, s’intende) non ancora sbiadito nel tempo? Dice che “non sono ammesse furbizie”. Evidentemente abituato a misurare persone e cose con il suo metro di giudizio, ritiene che tutti si comportino come sua abitudine. La furbizia (che è cosa diversa dall’intelligenza, non solo politica) è dote che gli si riconosce e che i radicali non hanno.



Impareggiabile, poi il passaggio successivo: “Certo, una vaga promessa per la sua candidatura europea (di Pannella, ndr.) da parte di Goffredo Bettini, che al tempo delle politiche aveva gestito la pratica radicali, c’era stata. Poi però, ricordano, Pannella si mise a fare lo sciopero della sete dicendo che gli eletti radicali erano meno del numero pattuito, e nemmeno sicuri…”.



Si ripropone la mai risolta questione della “parola data”. Par di capire che ai radicali si rimprovera di dire quello che fanno, e di fare quello che dicono; dovrebbero assumere la pratica e il costume degli “altri”, quella secondo la quale quando si dice “Sì”, significa “forse”; quando si dice “forse” significa “No”; e “NO” è parola che non bisogna in ogni caso mai dire.



Si può, e certamente lo faranno, continuare a banalizzare i termini della questione. Ma davvero si pensa e si crede che una persona come Marco Pannella e un’organizzazione politica come i radicali, con tutta la loro storia, siano lì a pietire un posto in lista, a elemosinare una candidatura? Ma davvero faticano a comprendere che se ci si fosse voluti “vendere”, ben altri sarebbero stati gli acquirenti, si sarebbe realizzato un incasso molto più elevato, e molto prima? E’ l’ultimo sfregio, l’ultima offesa, quella che viene fatta a Pannella e ai radicali: quella di credere, di pensare che le questioni poste e il confronto siano al livello in cui di solito loro riducono il “loro” far politica.



Ad ogni modo, c’è solo da attendere. Anche a dar credito ai sondaggi più benevoli, il PD è avviato verso l’ennesima, rovinosa sconfitta. Il PdL trionferà anche grazie agli errori e alle clamorose miopie del PD; trionferà la Lega, e vincerà l’Italia dei Valori: due facce della stessa demagogia. A quel punto il PD imploderà: Miserendino li chiama, con un eufemismo, “scricchiolii”. Vedremo dove approderanno e cosa proporranno i “puri” del PD di oggi; i tanti che oggi, silenziosi, pensano di salvarsi confidando nella sconfitta di questo o di quello. Il loro “Titanic” è destinato ad affondare, e la colpa non è dell’iceberg Berlusconi: sono loro che hanno sbagliato la rotta, capitani ed equipaggio che definire incapaci è poco. Dovranno spiegare ai loro elettori (quelli rimasti) e all’intera opinione pubblica perché ritengono che il PD non sia compatibile con Marco Pannella, Emma Bonino, Maria Antonietta Farina Coscioni, Mina Welby: che incarnano valori e temi sentiti e condivisi dalla maggioranza del paese; e sia invece compatibile Paola Binetti, sempre d’accordo con le Eugenia Roccella e i Gaetano Quagliariello. Questo non è un problema. Dovranno pur spiegarlo in cosa, e quando, e dove, i radicali hanno “tradito”. E sarà anche vero che si contano sulle dita di una mano quanti dicono, ad alta voce, di condividere le riflessioni di Furio Colombo, Luigi Manconi, Magda Negri. Ma intanto: pochi o tanti che siano, le loro obiezioni e riflessioni sono fondate o no? Cosa si risponde loro? Oppure, reprobi al pari dei radicali, quando dei radicali condividono il “sentire”, vanno anche loro cassati, sbianchettati? Per i radicali le elezioni prossime sono un’occasione di lotta, non di occupazione di potere; è facilmente prefigurabile cosa accadrà, e fin da ora ci si sta preparando. Chissà, allora, gli alfieri della “purezza” del PD dove saranno, dove cercheranno di approdare.



I radicali sono sempre stati leali. I “fedeli” li si cerchi (chi li vuole) da altre parti.

santiago
17-04-09, 15:34
New Town? Purché non sia un equivoco. (*)

di Angiolo Bandinelli

L’idea di edificare, di far crescere dal nulla una “new town”, ha in sé qualcosa di seducente, ma forse anche di ovvio. La “città nuova” si configura subito gradevolmente, nell’immaginazione, come una città dotata di ogni confort, ariosa, pulita, con belle strade dritte, case con il riscaldamento autonomo (o centralizzato, secondo i gusti), ascensori e balconi con vista, parcheggi, antenne centralizzate e supermarket sottocasa, finalmente liberata dalle angustie di una città vecchia - o antica - scura e disagevole. Il modello più o meno consapevole è quelle delle “new town” sorte in Inghilterra nel dopoguerra, sulla scorta del “New Town Act” del 1946 e di successive, analoghe leggi. Queste “new town” vennero studiate, ammirate e decantate ma poco o nulla servirono alla ricostruzione italiana. Mi pare si possa dire che in Inghilterra funzionava una cultura (una “civiltà”?) della pianificazione, non solo urbana, del tutto assente in una Italia dove, per la ricostruzione, ci si affidò alle forze endogene, popolari, immediate, con al massimo il contributo collaterale di leggi, contributi e sovvenzioni statali che facevano sorgere, più che “new town”, quartieri popolari. Il risultato fu l’occupazione del territorio con una proliferazione disordinata, spontaneista, e comunque di scarsissima qualità architettonica e urbanistica; altro che “new town”.



Nell’Inghilterra del XX secolo c’era già una tradizione di “Garden Cities”, divenute modello anche fuori d’Inghilterra. A Roma, per dire, c’è una “Città Giardino”, progettata da Gustavo Giovannoni negli anni ’20, che mutua dal modello inglese il grande rispetto per la morfologia ambientale: le strade seguono l’andamento della collina, la piazza centrale, con i suoi eleganti edifici, appare la rivisitazione armoniosa di una esemplare città medievale-rinascimentale italiana. Città Giardino non rispondeva però alle esigenze di una città, Roma, comunque in forte espansione. E difatti, più che Città Giardino, nella capitale vennero costruiti nel decennio successivo grandi palazzoni di edilizia popolare, di massa (alcuni, peraltro, di qualità). Un maggior successo ebbero invece le “new town” che il fascismo disseminò per le paludi pontine bonificate - Sabaudia, Latina, Pomezia, Aprilia, Pontinia - o nelle sabbie della Libia, la “Quarta Sponda”. Molte di queste città offrono ancora oggi un colpo d’occhio non privo di fascino. Questo si spiega con il fatto che quegli insediamenti erano stati affidati ad architetti anche di grande valore, come il Luigi Piccinato cui si deve (oltre a Latina) Sabaudia, forse la più bella di queste realizzazioni mussoliniane. Per capire il clima in cui nascevano le città della bonifica pontina, bisogna ricordare che quella fascista fu epoca di grosse progettazioni urbanistiche e architettoniche di committenza pubblica, e comunque sempre sotto l’occhio attento del regime.



Nel 1931 si sviluppava sulla stampa un intenso dibattito, a seguito di un articolo di Pier Maria Bardi dall’eloquente titolo, “Architettura, arte di Stato”. L’esperienza pianificatrice fascista, verso la quale oggi si manifesta una nuova, vivace attenzione, si concluse con il piano regolatore dell’Esposizione Universale ’42, il quartiere oggi noto come EUR. La passione per un’urbanistica di progettazione venne ancora coltivata nel dopoguerra da Adriano Olivetti, ad Ivrea, pensata come città armonica, equilibrata, organizzata attorno ai suoi centri produttivi e ricca di esemplari di ottima architettura. In questo, Olivetti era l’erede della cultura delle Utopie ottocentesche, di ambito soprattutto anglosassone, che sviluppavano l’idea di una città armoniosa, nella quale i conflitti sociali fossero assorbiti e sciolti proprio grazie alle virtù educatrici dell’architettura: l’architettura come culla del socialismo dal volto umano. Era una visione paternalistica e intellettualistica, ma aveva una sua esemplarità. Il dopoguerra ha sguaiatamente liquidato questi patrimoni, per decenni la figura dell’architetto venne guardata con sospetto, la committenza pubblica decadde a livelli penosi, tranne poche eccezioni. E’ questo il periodo, piuttosto, dell’architettura di bassa qualità e ovviamente ignara di normativa antisismica di cui parla oggi l’architetto Aldo Loris Rossi.



E’ possibile pensare oggi ad una inversione di rotta, ad un ravvedimento virtuoso di comportamenti, pubblici e privati? Il “piano casa” di Berlusconi prevedeva, aa appena pochi giorni dal sisma abruzzese, che gli ampliamenti potessero essere realizzati anche a prescindere dalla normativa antisismica e contro il parere delle Sovrintendenze. Un brutto esempio che accentuava, se possibile, la nostra tendenza endemica all’ignoranza, alla violazione o al voluto abbandono, sotto la spinta di interessi particolari e corporativi, di norme e regole di controllo, anche quando stabilite sotto la spinta di eventi drammatici come il terremoto in Irpinia. La tendenza è stata secondata peraltro anche dalla magistratura, che non ha assunto le sue responsabilità nella sanzione degli illeciti accertati (o da accertare). Pare che le norme lassiste del “piano casa” governativo siano state in tutta fretta cancellate e sostituite da altre, più rigorose e rispettose del bene pubblico (che possano funzionare, è altra cosa, come ci insegna la lezione del passato). In questa situazione oggi viene lanciata l’idea di ricostruire l’Abruzzo, a partire da L’Aquila, adottando il modello della “new town”. Temo ci sia, in questa indicazione dal forte impatto mediatico, un qualche equivoco.



Una “new town” è figlia di un serio progetto urbanistico, se è davvero una “New Town” e non invece una di quelle città fantasma che sorsero nel Far West, fiorite in una notte e scomparse la notte successiva, per le quali ovviamente di piano regolatore non si parlava (non si pensi neanche del modello Los Angeles, disordinato ma in qualche modo funzionante modello urbano privo di modellistica di piano, reso possibile dalla pressoché infinita disponibilità di spazi). Davvero, lo Stato è in grado di assolvere il compito di progettare insediamenti urbani di questo tipo? O non si pensa invece di affidarsi ancora una volta allo spontaneismo dell’arrangiarsi all’italiana, limitandosi a contrabbandarlo sotto il fascinoso richiamo alla “new town”? E, d’altra parte, è possibile immaginare lo svuotamento, se non proprio l’abbandono, dell’attuale abitato del capoluogo d’Abruzzo? L’Aquila è città di grandiosa eredità storica, con splendidi monumenti, un autentico centro spirituale e culturale. Certamente, molta dell’edilizia andata in rovina non potrà essere ricostruita. Dresda o Varsavia sono state ripristinate, fino all’impossibile, dove erano e “come erano”, ma sono esempi eccezionali, che hanno richiesto uno sforzo diretto dello Stato giustificato dall’impegno di salvare una eredità civile di insostituibile valore nazionale. A me non è piaciuto, comunque, che Berlusconi abbia detto che con i soldi inviati da Obama verranno ricostruite le chiese: San Bernardino e Santa Maria di Collemaggio, per non parlar di altro, appartengono al patrimonio primario e indisponibile della cultura italiana. Certamente, a L’Aquila occorrerà una ricognizione attenta su cosa è possibile restaurare e/o ricostruire, e cosa non potrà essere salvato. Anche, se necessario, andrà vagliato cosa occorrerà spostare in sedi nuove. Ma questa scelta, a mio parere, lo Stato, il governo, dovrebbero affidarla a uno o più architetti di valore, persino a livello internazionale. Sarebbe possibile allora pensare che L’Aquila divenga, nella sua nuova veste, un modello, una attrattiva di grande impatto culturale. Bilbao lo è diventata grazie al museo dell’arte moderna, il Guggenheim firmato da Frank Gehry: non si tratta precisamente di una villetta mono- o bifamiliare ampliata, grazie a un mutuo, su progetto del geometra del paese vicino.

NOTE

(*) Una redazione sensibilmente ridotta ne è apparsa su “Il Foglio” di venerdì 10 aprile 2009.

santiago
17-04-09, 15:35
Quanti padre Georg a L'Aquila?

di Guido Biancardi

All'Aquila c'erano i Rappresentanti e poi “ i Rappresentanti Speciali”. Per i secondi spiccava il Segretario particolare del Pontefice, officiante in sua vece. Ma quanti altri “Padre Georg“ erano schierati ad assistere alla celebrazione solenne? Ed, in rappresentanza ordinaria di interessi anche molto poco italiani, quanti?



Del “Popolo Italiano”, all'apparenza, moltissimi invece, con il vertice dei vertici alla loro testa.

Al di là delle assonanze fortuite dei nomi si fronteggiavano, da un lato, la massima espressione istituzionale della Nazione, il Presidente Giorgio Napolitano, mentre, dall'altra, un delegato pur se di rango, portava il messaggio del suo mandante Universale (“cattolico”, appunto).

E' stato l'incontro di establishment di Paesi diversi uniti da un patto “concordatario”di reciproco sostegno, o più semplicemente sono stati dei rappresentanti democratici di una partitocrazia elitaria che si è costituita in Regime di falso bipolarismo che si ritrovavano” per autoconferma rituale” attorno a dei pubblici feretri, quasi rappresentassero le esequie della democrazia italiana, assistiti da altri celebranti di alcuni confessioni religiose, quelle “rappresentate dalle proprie vittime”? Tutti più o meno commossi, ma “(com)partecipi“. C'erano Padri, Imam , esponenti di cleri all'apparenza diversi ed in contrasto fra loro che si mescolavano con, e nello stesso tempo orientavano paternamente,” tutti i fedeli”.



E i Bertolaso, ed i Letta, quale religione rappresentavano?

Noi laici, da chi eravamo rappresentati anche se non “particolarmente”? E la nostra mancata presenza come tali non avrebbe dovuto turbare le coscienze della rappresentanza democratica?



E' stata, mediaticamente, una panoramica inquietante quella rappresentata da passerelle continue, replicate “a ripetizione” di Potenti Incaricati cui, a reti tanto unificate da trasmettere servizi diversi ma identici fra di essi, dalle televisioni pubbliche e private, all'unisono nella ricerca della retorica più ridondante e della più nauseante piaggeria verso tutti i Poteri; dei tecnici di tutte le competenze e corporazioni ufficiali, di quelli del volontariato organizzato di tutti i generi e colori, di Vigili e Militari e Protettori Sociali e Civili...



Salmodianti in coro il ringraziamento a Dio per l'occasione offerta perché cessassero le dispute e si facesse un compunto, solidale silenzio attorno ai caduti. Era quella la forma del nuovo corso del Regime? Sono già pronte le acclamazioni degli eroi dell'Aquila con targhe e promozioni, medaglie ed altri riconoscimenti ai petti ed ai labari oltre che “alla memoria”. E nuove istituzioni, forse miste fra Stato e Chiesa, “naturalmente assolutamente no-profit”, approntate per veicolare verso direzioni ben note flussi di finanziamento alimentati da ogni fonte pubblica o privata (ma l'8 per mille è escluso, perchè? ); a disseccare, desertificare ulteriormente le istituzionali forme ordinarie di solidarietà e servizio pubbliche per dar sempre più spazio ad oasi di privilegio sorte su ogni pozza di denaro disponibile, comunque accumulata. Per “adozione” di un'opera d'arte o di culto, di un orfano o, meglio ancora, di un embrione, magari per mezzo di SMS pasquali propiziatori oltre che a dimostrazione di interessato investimento mediatico-elettorale. Istigando sempre più a considerare come “più che civile” la garanzia della cessione alla religione dell'esclusiva ormai chiaramente pretesa dalle associazioni parareligiose, oltre che dei Valori, anche delle Opere.



E la fiera dell'ipocrisia è continuata con la vignetta di Giannelli in prima pagina del “Corriere della Sera” in cui la sorpresa annunciata ed iscritta nell'uovo pasquale è rappresentata dalla stretta di mano fra Berlusconi e Franceschini sottotitolata dal Nuovo Precetto di ”Almeno una volta a Pasqua”.



Come si fa ad augurarsi una Buona Pasqua così in un, questo sì, “momento grave e serio”...?

Bisogna agire, da parte di chi non si arrende e non collabora, come in emergenza, prima che il corpo del reato, la Costituzione democratica soffocata e distorta, venga distrutto e sottratto all'esame ed al giudizio politico oltre che della storia, proprio da un'agognata“ riforma democratica bipartizan” .

santiago
17-04-09, 15:35
Tibet, dramma senza fine

di Francsco Pullia

Che succede in Tibet? Nonostante la censura imposta dai cinesi ai conniventi regimi occidentali continuano a filtrare notizie purtroppo drammatiche.



Due tibetani, Losang Gyaltse e Loyar, coinvolti secondo l’accusa nei moti di Lhasa del 14 marzo dello scorso anno, sono stati condannati a morte dai tribunali di Pechino. L’annuncio è stato dato dalla stessa agenzia di stampa governativa, Nuova Cina. Ad altri due - Gangtsu e Tenzin Phuntsog - la pena capitale è stata, invece, rimandata di due anni. Un quinto, Dawa Sangpo, sconterà una condanna all’ergastolo.



Va ricordato che già in febbraio a settantasei detenuti, arrestati sempre per le proteste, erano stati inflitti dai tre anni all’ergastolo. I processi ovviamente, secondo la prassi cinese, si sono sempre svolti a porte chiuse e senza che gli imputati abbiano potuto avere diritto alla difesa.

Sette tibetani sono stati, inoltre, condannati per spionaggio e divulgazione illegale di notizie riservate ad organizzazioni all'estero mentre non si hanno notizie di oltre mille persone in prigione da tredici mesi per i disordini.



Il 25 marzo il ventisettenne Phuntsok Rabten, del monastero nella contea di Drango, prefettura di Kardze, ha distribuito volantini invitando i contadini a non coltivare la terra per protesta contro la persecuzione cinese e a pregare per i tibetani uccisi nel 2008. All’arrivo della polizia è fuggito ma è stato preso, picchiato e ucciso sul posto. Il corpo è stato, poi, gettato in un burrone. I monaci lo hanno, però, recuperato e portato alla polizia che ha rifiutato qualsiasi responsabilità. Le autorità si sono limitate a parlare (pensate un po’…) di suicidio o di caduta accidentale da un motociclo.



Sempre il 25 marzo la polizia ha arrestato due monaci del monastero Minyak, nel Drango, che avrebbero anch’essi invitato i contadini ad aderire alla campagna di disobbedienza civile in atto nel Tibet orientale. Due giorni dopo sono stati arrestati circa venti contadini che protestavano e altri undici sono stati feriti.



Jampa Sonam, 21 anni, è stato arrestato a Kardze mentre, da solo e all’esterno del palazzo del governo, gridava “Lunga vita al Dalai Lama e “Indipendenza per il Tibet”. I poliziotti lo hanno subito portato in una località sconosciuta dopo averlo picchiato.

Il 20 marzo, oltre cento tra funzionari di pubblica sicurezza e militari sono entrati nel villaggio di Kara e, setacciando casa per casa, hanno costretto i contadini a recarsi a lavorare nei campi. Le autorità cinesi minacciano gravi provvedimenti, inclusa la confisca dei terreni, nei confronti di chi intende incrociare le braccia contro la brutalità dell’occupazione cinese.

Samdhong Rinpoche, dall’esilio di Dharamsala, ha intanto commentato i dati recentemente diffusi dal rapporto del China Tibetology Research Centre, ente che dipende dal governo di Pechino, secondo cui il Tibet sarebbe “una regione florida” dove i tibetani vivrebbero “felici e tutelati”.

“Se questo è vero – ha affermato il premier – perché non è permesso a tutti di venire a vedere il felice popolo tibetano e si pongono divieti a stranieri e giornalisti? Se la gente fosse felice, non ci sarebbero le proteste che invece ci sono, anche se la Cina lo nega”.

I tibetani sono ormai una minoranza nel loro stesso paese, ridotti ad essere sei milioni rispetto a non meno di 7,5 milioni di cinesi (con riferimento anche alle altre zone tibetane nelle popolose province del Gansu, Qinghai e Sichuan) e vivono soprattutto nelle zone rurali a differenza dei cinesi che occupano le città, i centri commerciali.



“La Cina – ha proseguito l’esponente democratico tibetano - proclama di avere investito grandi somme per il progresso economico e il benessere della regione. In realtà si è impadronita delle immense risorse della zona, ha saccheggiato persino gli ampi boschi e le piante medicinali degli altopiani. Non più del 6-7% del valore di queste risorse è stato investito nello sviluppo della regione ma a beneficiarne sono state soprattutto le etnie non tibetane e i militari presenti. I cinesi hanno, inoltre, saccheggiato reliquie e manufatti antichi, confiscati negli anni Sessanta e Settanta da monasteri e case, compresi preziosi, gioielli e ornamenti in oro e argento”.



E i capi di governo delle democrazie occidentali che fanno?



Lasciamolo dire a Federico Rampini: “Ogni paese che ha osato dare udienza al leader tibetano in esilio è stato oggetto di dure condanne e minacciato con pesanti ritorsioni. Molti si sono piegati, vista la potenza economica della Repubblica Popolare. L’ultimo caso è stato quello del presidente francese Nicolas Sarkozy. L’anno scorso i cinesi fecero saltare un vertice

bilaterale con l’Unione europea per “castigare” Sarkozy dopo la visita del Dalai Lama in Francia. Al vertice del G-20 a Londra il presidente francese ha incontrato il suo omologo cinese Hu Jintao e ha sottoscritto una dichiarazione sull’appartenenza del Tibet alla Repubblica Popolare, un gesto che la stampa di Parigi interpreta come una umiliante sottomissione”.

“A meno di improbabili colpi di scena”, ha aggiunto, da parte sua, Piero Verni in un articolo apparso domenica su “il Riformista” in cui si accennava, tra l’altro, all’amarezza e alla delusione espresse da Kelsang Gyaltsen, inviato del Dalai Lama, nell’audizione promossa il 31 marzo dalla Commissione per gli Affari Esteri del Parlamento Europeo, si deve “concludere che le numerose concessioni unilaterali degli inviati del Dalai Lama non sono riuscite a modificare la durezza delle posizioni cinesi e i loro diktat. Difficile prevedere quali potranno essere le prossime mosse del Dalai Lama e del suo governo che da oltre vent’anni hanno puntato tutto sulla speranza di poter trovare una soluzione moderata alla questione del Tibet. Pechino invece continua a tirare dritto per la solita strada. Nessuna concessione, nessun compromesso, nessuna pietà per chi protesta”.



Se questo è innegabile, è altrettanto vero che qualora i tibetani abbandonassero la scelta nonviolenta finirebbero inevitabilmente per fare il gioco della tirannia di Pechino che continua ad additare il Dalai Lama “e la sua cricca” come fomentatori di una fantomatica cospirazione indipendentista. Si darebbe al governo cinese il pretesto migliore (e atteso) per accelerare il processo di disintegrazione definitiva del Tibet e portare a termine la “soluzione finale”.

santiago
17-04-09, 15:35
La Farnesina convoca i corrispondenti stranieri. Quando un giornale critica l’Italia (o di Berlusconi) intervenga l’ambasciatore

di Valter Vecellio

Bernardo Valli su “Repubblica” di martedì 14 aprile ha scritto un articolo, (“E ‘Le Monde’ scopre che criticare l’Italia non si può”), che avrebbe dovuto provocare qualche reazione; al momento invece niente, e questo è forseancora più significativo di quello che racconta Valli.



In sostanza (chi volesse leggere l’articolo integrale lo può trovare su “Notizie Radicali” del 24 aprile), Valli racconta che il presidente del Consiglio Berlusconi è particolarmente suscettibile e infastidito dalle critiche che gli possono venire da giornali esteri. Questo si sapeva. Si sapeva meno che il fastidio e l’irritazione dell’inquilino di palazzo Chigi si esprimono con “una raffica di proteste dei nostri ambasciatori invitati dal loro ministro a reagire quando i quotidiani stranieri parlano male dell’Italia”.



Se le parole appena lette hanno un senso: il ministro Franco Frattini (o qualcuno comunque autorizzato a farlo) incarica e sollecita gli ambasciatori perché protestino e intervengano quando un giornale straniero pubblica articoli critici. E qui la prima questione: critici nei confronti dell’Italia in quanto tale, o critici nei confronti dell’attuale governo, dell’operato del presidente del Consiglio? E come si può concepire che un ambasciatore protesti perché un giornale liberamente pubblica articoli non graditi? Si badi: sgraditi, non con notizie false che se di questo si tratta c’è la querela, la rettifica, il diritto di replica. Non si conoscono le risposte alle proteste degli ambasciatori, ma nel caso di un giornale serio si possono comunque immaginare.



Per tornare all’articolo di Valli. Si racconta che le reprimende del ministero degli Esteri hanno colpito i britannici “Times” e “Guardian”, lo spagnolo “El Pais”, il tedesco “Spiegel”. Facile supporre che ce ne saranno stati altri. Se ne potrebbe avere la lista completa? Si potrebbe conoscere quali istruzioni sono state impartite alle ambasciate? La reprimenda avviene in forma scritta oppure orale? E nel caso in cui la replica consista in una scrollata di spalle, quale la successiva ritorsione, la disdetta dell’abbonamento? Si sorride, però la questione ha una sua serietà, se è vero che il corrispondente di “Le Monde” Philippe Ridet, assieme a un suo collega del “Wall Street Journal” è stato appositamente convocato alla Farnesina, “invitati a spiegare come vedevano l’Italia, e con quali criteri la raccontavano nelle loro corrispondenze”.



Non si finisce mai di imparare, perché si ignorava che tra i compiti della Farnesina vi sia anche quello di convocare i giornalisti stranieri, e chiedere loro spiegazioni su quello che scrivono. Philippe Ridet ne ha scritto con ironia e garbo su “Le Monde”; ma c’è poco di che sorridere, molto da spiegare.



Per esempio: da quanto tempo va avanti questa pratica? Coincide con l’insediarsi di questo Governo, o era pratica anche dei precedenti? Quali giornalisti sono stati “avvicinati”? Da chi sono stati “avvicinati”? Che cosa si è rimproverato loro esattamente? Quanti sono stati invitati a “giustificarsi” direttamente alla Farnesina?



“L’operazione diplomatica”, scrive Valli, “è destinata ad alimentare la cattiva immagine della nostra democrazia, incapace di sopportare le critiche. E accentua la caricatura del presidente del Consiglio”. Vero, anche se l’imbarbarimento del paese, delle istituzioni, della sua classe politica, lo si ammetterà, viene da molto più lontano; c’è qualcosa di ben altro che la caricatura evocata da Valli; Berlusconi è certamente un demagogo, come tale si comporta, come tutti i demagoghi è pericoloso. Ma è l’ultimo anello di una lunga catena, e il problema è costituito appunto da questa catena, non dal singolo anello. Tra qualche giorno si sarà anche in grado di documentarlo, e c’è da augurarsi che per una volta almeno sia contraddetta la ferrea legge che vuole condannato al silenzio e all’indifferenza ogni cosa che “puzzi” di radicale. Ce lo si augura, ma lo si crede poco. La “peste italiana” ha ammorbato tutti molto più di quanto non si creda.

santiago
17-04-09, 15:36
Derive (*)

di Angiolo Bandinelli

C’è una teoria – chiamatela pure, altrimenti, una chiave di lettura - che si insinua obliquamente in ogni dibattito sui temi che alcuni definiscono etici e che invece, in una interpretazione laica, sono i temi dei diritti civili. Ed è la teoria - o chiave di lettura - della cosiddetta “deriva”. Quando in un dibattito su quei temi tu riesci a definire e stabilire un qualche punto fermo, il tuo interlocutore, se è seguace di quella teoria, ti tira per la manica. Sembra il monumento alla compunzione: “Sarà anche come tu, con onestà indubbia, sostieni, ma se si va avanti per quella strada c’è il forte rischio di scivolare nella deriva…”. Per dire: si sta discutendo di laicità? Il tema è difficile, occorre circoscrivere esattamente la definizione del termine, ecc. Ebbene, quello lì scavalca questa fase ricognitiva e subito, esibendo un occhio ansioso, ti obietta: “Alt! O la laicità è sana, oppure si finisce col cadere nella deriva laicista”. Si tratti invece dell’accanimento terapeutico o del testamento biologico, ecco che subito risuona la sinfonia: “Sono problemi enormi; dietro di essi, anche quando siano esposti utilizzando argomentazioni scientifiche, con tutta evidenza appare la deriva eutanasica”. Non sono mie maligne battute: il disegno di legge Calabrò sul testamento biologico - osserva Stefano Ceccanti - “è più rigido anche della morale cattolica”: con questa legge, infatti, grazie a una matrioska di combinati disposti, “non si potrebbe mai evitare la somministrazione di idratazione e nutrizione o interromperla ai pazienti incoscienti, anche qualora ciò sfociasse nell’accanimento terapeutico”: tanta “rigidità estrema è stata giustificata con i consueti argomenti del rischio di pendio scivoloso, di deriva eutanasia”. Ironizzando un po’: grande e inarrestabile è la deriva di panico di quelli che temono le derive…



Ricordate la deriva “autoritaria”? Sulla falsariga di tutte le derive via via lamentate, dovrebbe essere conseguenza di uno scivolone dalla o dell’autorità: l’autorità si deforma, si degrada, e a un certo punto ci si ritrova impantanati nella deriva autoritaria. Invece è esattamente il contrario: una deriva autoritaria, se e quando c’è, è conseguenza di una mancanza, di un vuoto, di autorità (che è un dato oggettivo) ma forse soprattutto di autorevolezza (che è un dato soggettivo). Delle derive “scientiste” abbiamo appena detto; ma c’è anche la deriva “giustizialista”. Anche qui: deviazione dalla giustizia, o della giustizia? Non è domanda oziosa o capziosa: come può, da un bene, discendere un male? Dovrà esserci, a un certo punto, una rottura, uno iato che , nel caso in questione, separi la giustizia dall’ingiustizia frutto della deriva. Quale sarà il punto in cui la giustizia non è più tale ed è diventata invece l’ingiustizia del giustizialismo? E chi lo stabilirà, il confine, il come, perché e quando si è incappati in una deriva? Ma, in generale, come può un bene degenerare? Se degenera, vuol dire che è già insidiato da un germe di male, cioè del suo contrario.



Questa cultura della deriva è un po’ subdola: il mondo è tutto uno scivolo saponoso, guai a non aggrapparsi a salde corde, cinture, salvagente; se ne sei privo scivoli e nulla ti trattiene più, fino all’abisso: la deriva è come il maelström di Gordon Pym, quando arrivi al bordo del vortice, quello ti risucchia e ti inghiotte senza possibilità di scampo. Cosa puoi rispondere, incastrato non da un argomentare ma da un sofisma fieristico, da un sospetto privo di consistenza e di pezze d’appoggio, da un vero e proprio atto di terrorismo ideologico, bandierina rossa che ti viene sventolata dinanzi per disorientarti, farti arretrare nello sgomento, se non nel più bieco senso di colpa? Sotto a queste convinzioni c’è una antropologia che più pessimista non si può. L’uomo è un povero fuscello, un travicello in balia delle onde: contro la deriva c’è solo da aggrapparsi al qualcuno che ti può salvare, e l’unico soggetto che può farlo – ammicca il tuo interlocutore - è la chiesa. Questo spiega bene la denuncia agostiniana: l’uomo è “massa damnationis” e il conseguente monito: “Extra ecclesiam nulla salus”. Il mondo è luogo di irremissibile perdizione. Penso al bellissimo racconto della Genesi. Eva, Adamo, innocenti nel paradiso terrestre, attraverso la mela conoscono il bene e il male. Ebbene, è così che essi diventano uomini. Prima erano esseri perfetti, ma non erano esseri umani. Secondo Roberta de Monticelli, i due caddero nel peccato (o fu un errore?) per una “libera decisione”, mica per una deriva dal bene al male. I due caddero, fallirono, non per cupidigia di dissoluzione: non scivolarono nella “deriva”. Loro, almeno, erano capaci di scegliere liberamente tra il bene e il male.

NOTE

(*) Dal “Foglio”

santiago
17-04-09, 15:36
Dalla partitocrazia allo Stato corporativo?

di Zeno Gobetti

L'intera prima repubblica, dalla fine della II Guerra maondiale fino alle inchieste di tangentopoli, è stata senza dubbio un regime di partiti in cui le più importanti decisioni politiche (compresa la formazione dell'esecutivo) erano completamente abbandonate nelle mani delle segreterie. La presenza di un unico partito dominante (DC) e del più grande partito comunista d'Europa (PCI) all'opposizione, ha imposto formule di compromesso e di spartizione del potere in un modo talmente dettagliato che il termine "lottizzazione" è senza dubbio appropriato. Questo ha generato una frammentazione della decisione politica e una irresponsabilità politica delle istituzioni (Parlamento e Governo) che si sono trovate a rattificare decisioni prese altrove. Per questi motivi, giustamente, si è parlato di partitocrazia. Nei partiti e sui partiti si è concentrato non solo l'effettivo potere politico, ma spesso anche strutture di potere economico (Banche, assicurazioni, cooperative ecc...) e di potere "culturale-informativo" (giornali, radio, TV...). Questa concentrazione di potere e di poteri non può certo piacere ad un liberale. Per questo motivo i radicali, che hanno sempre lottato per la rivoluzione liberale in Italia, hanno combattuto la partitocrazia per molti anni.
Su questo quadro che ho appena descritto credo che tutti i radicali concordino pienamente. Su quanto invece scriverò ora, sono certo, molti avranno motivo di critica e di dissenso. Spero vivamente che ci siano delle forti critiche perchè credo che sia necessario approfondire ancora questo argomento.

Quanto ho descritto sopra rappresenta un tipo di regime che a mio parere sta tramontando.
In primo luogo, la partitocrazia prima repubblica si reggeva interamente sui partiti della "resistenza". Questi partiti erano caratterizzati da un forte contenuto "ideologico" e solide classi dirigenti formate nelle "scuole" di partito. Erano anche partiti di massa con un radicamento territoriale capillare, con una loro burocrazia e con i loro strumenti di potere economico e culturale come ho detto sopra.

Oggi si può dire lo stesso del PDL o del PD? Certamente no per il PDL. Contenuto ideologico assente. Non c'è nessuna "visione del mondo" comune fra gli elettori del PDL e, forse, neanche tra quelli del PD. Le classi dirigenti del partito hanno una formazione extra-partitica (o sono imprenditori e manager "prestati" alla politica, o sono ex-burocrati dei precedenti partiti). Cosa più importante è che il partito non ha il controllo degli strumenti di potere economico e culturale. Nel caso del PDL, questi strumenti sono interamente in mano del Leader. Non c'è più bisogno di un radicamento territoriale capillare perchè le masse sono mobilitate con i mezzi di comunicazione.
In secondo luogo, i partiti della I repubblica erano sostanzialmente "corporazioni" forti che dominavano le istituzioni e facevano da riferimento alle altre corporazioni del paese. I segretari di partito usavano il loro potere per trovare mediazioni con gli altri partiti in favore delle corporazioni che rappresentavano.

Ora è ancora così? Personalmente ho dei dubbi. Mi sembra che le "corporazioni" più forti del paese abbiano capito che non conviene più farsi rappresentare da un solo partito (vedi Chiesa, Confindustria, sindacati ecc...). Infatti l'alternanza al governo ha fatto si che dal 1993 esista un vincitore e uno sconfitto alle elezioni. Ciò significa che le corporazioni "sconfitte" perdono benefici, cosa che prima non poteva mai avvenire per il semplice fatto che non poteva esistere altro vincente che non fosse la DC e alleati e un grande sconfitto con cui cercare compromessi. Ora le corporazioni sono presenti direttamente con i loro uomini dentro i due partiti del regime partitocratico. Ne influenzano le decisioni molto più di prima perchè ora i partiti sono estremamente deboli. Mi sembra che si vada sempre più verso un sistema in cui le vere decisioni politiche non son più prese nelle segreterie di partito, ne nelle istituzioni. Mi sembra che le corporazioni si stiano spartendo le competenze dello Stato con lo scopo di avere il potere senza responsabilità da scaricare ai partiti. Di fronte a questo la vecchia partitocrazia reagisce cercando di penetrare ancora di più le istituzioni della repubblica. Certamente questo è un "male" che va combattuto con molta forza. Ma il vero pericolo, mi sembra, non siano più i partiti in sè. Ormai le corporazioni fanno da sole. Ciò che si sta producendo è un vero e proprio Stato corporativo con partiti deboli che fanno al massimo da tramite.

Concludendo, a mio pare, la lotta anti-partitocratica, colpisce solo un aspetto del Caso Italia e forse non il peggiore. La storica, e mai superata, cultura corporativa di questo paese oggi ha trovato nuove strade per esprimersi. Per chi vuole una rivoluzione liberale è il momento di riflettere e di domandarsi, ancora una volta, "che fare?".

santiago
17-04-09, 15:36
Quella metafora che è il terremoto

di Michele Rana

Il terremoto è anche una metafora, così come la flessibilità necessaria alle strutture di cemento (e non solo) per resistere al sisma. Insomma se c’è una sollecitazione grave per evitare le rotture e i cedimenti bisogna che si contrapponga non l’inerzia ma l’attività, si possa dunque generare un altro lavoro che demoltiplichi l’urto: stare fermi non servirebbe.

Resistere mediante la rigidità, l’ordine tetragono, l’assoluta apparente impermeabilità agli stimoli esterni farebbe collassare, prima o poi, ogni cosa; al pari dell’assenza di legami tra una parte e l’altra.

Sembra sia una lezione che possa avere un valore universale, anche per che le cose umane, quelle individuali e per lo stare assieme in un collettivo, in un partito.Conoscere in anticipo, “auto-osservare” con una rete di sensori, i rischi a cui ci si espone, a cui è esposta l’azione, la vita stessa di un corpo singolo o di un’organizzazione, in un determinato momento storico, in una determinata fase, è essenziale per determinare quale organizzazione e quale “contro-azione” darsi.

Uno sciame ultradecennale non democratico e di assenza di legalità costituzionale, continuamente supportato da quell’opera di omologazione informativo-mediatica già denunciata negli anni settanta da Pasolini – al pari di uno sismico - potrebbe aver affinato le capacità di analisi, di monitoraggio e, al più, di riduzione del danno.

Potrebbe però aver generato anche assuefazione, abitudine e dunque sottovalutazione di quello che va continuamente ed inesorabilmente accadendo; potrebbe aver dato la sensazione di un’assenza di soluzione di continuità verso il peggio e verso il male ma, al contempo, la sottovalutazione della possibilità che l’ultimo scossone non solo sia ormai possibile ma anche altamente probabile (forse inevitabile ricerca di una parvenza di materna efficienza) e che esso stesso possa divenire mortale anche per la vita dei diritti umani fondamentali o per alcuni di essi, per la stessa vita fisica delle persone.

I quesiti sono molti. Come un individuo o un corpo collettivo che intende resistere e non abbandonarsi all’esito finale, che si annuncia prima o poi, e alle sue macerie drammatiche che già si prospettano può immaginare la flessibilità e dunque l’odierna contro-azione che avrebbe la capacità portarlo a costruire e costituire i germi positivi di quello che dovrà essere riedificato? Dobbiamo ancora del tempo e le energie per rottamare le parti negative, le scorie di oppressione, della nostra storia antidemocratica e illiberale?

Gli occupati, pur riconoscendo il problema, l’allarme che ne segue sono ancora disposti a barattare la felicità immediata con l’incertezza e il rischio dell’esito della “resistenza democratica”?

La flessibilità è, in realtà, la capacità di ripensare la propria azione mentre si è in movimento; è caratteristica delle persone adulte, capaci di ri-formarsi anche in seguito a quelli che possono, superficialmente, essere letti come meri fallimenti e apparenti inadeguatezze.

L’adultità non ha dunque bisogno di padri o madri, né quelli di sangue né quelli nobili o storici; abbisogna solo della consapevolezza del proprio vissuto, del proprio percorso, della rilettura di quello sciame degradante a cui si è stati sottoposti (e di come si è provato ad opporvisi).

Così mi appare sempre più necessario oggi, fin da adesso, saper leggere per il futuro chi sarà il nuovo diverso, il nuovo subalterno quando il terremoto arriverà.

Forse proprio in questo modo, magari, si guadagneranno le interlocuzioni, il tempo e la flessibilità necessari per la riforma anglosassone delle istituzioni, della politica e della società (oppure si sarà semplicemente pronti ad affrontare l’emergenza prima che la peste dilaghi).

santiago
17-04-09, 15:36
Radicali cancellati anche dalla stroria? Da Stella a Signore a Troncino…cinquant’anni evaporati

di Valter Vecellio

“Razza padana” è un bel libro di qualche mese fa, scritto da Adalberto Signore e Alessandro Trocino (Rizzoli, pagg.398, 11,50 euro). E’, insieme, la storia e l’analisi del fenomeno Umberto Bossi e Lega Nord. Libro di utilissima lettura, che aiuta a comprendere molte delle cose dell’oggi e di quelle che, presumibilmente, accadranno “domani”: raccontare la Lega, come suggeriscono Signore e Trocino, “significa provare a spiegare senza tesi preconfezionate, senza pregiudizi, ma anche senza fare sconti alle sue derive populiste, un’evoluzione che ha segnato gli ultimi vent’anni della politica nazionale”.



Non è comunque della Lega e di Bossi che qui ed ora si intende parlare (se ne avrà senz’altro l’occasione nei prossimi giorni). Si prenda l’incipit del libro: “Nel 2008, la Lega è ormai il più antico partito italiano, l’unico a conservare simbolo, nome e leader a distanza di anni…”.



Signore è giornalista parlamentare del “Giornale”. Trocino giornalista politico del “Corriere della Sera”. Non v’è dubbio che entrambi sappiano quello che scrivono, e scrivano conoscendo bene la materia di cui si occupano. Come Gian Antonio Stella: che ieri, sul “Corriere della Sera” ha pubblicato un interessantissimo articolo: “E il Carroccio ora è il partito più antico”. Due esempi, ma certamente a cercarne, se ne potrebbero fare moltissimi altri.



Per riassumere: da tempo è in corso un’operazione che consiste nel saccheggio e nell’espropriazione del patrimonio e della cultura (ci si passi il termine) radicale; va bene così, nessuno ha intenzione di porre dei copyright e dei brevetti di denominazione di origine controllata. Meno bene quando questo patrimonio e questa cultura vengono sfregiate e dilapidate; ma – come si dice – ogni botte dà il vino di cui è capace.



E’ comunque un fatto che nel lessico politico comune d’abitudine e da tempo viene definita come “sinistra radicale” quella che propriamente andrebbe definita “sinistra comunista”: quella sinistra che rigetta con forza qualsiasi cosa che “puzzi” di radicale e – secondo la raffinata definizione data da Oliviero Diliberto – considera i radicali “una rogna”; tuttavia, si guarda bene dal chiedere di non essere più qualificata come “sinistra radicale”. Vai a capire il perché.



Ora il processo di annullamento raggiunge un ulteriore stadio: espropriati dal “presente” , si cancella anche il “passato”; del resto, smarrire la memoria è la premessa necessaria perché il regime possa completare la sua opera.



I radicali sono sulla scena politica, attivi e operanti da 55 anni; parlamentari radicali sono stati eletti e sono attivi come tali alla Camera dei Deputati, al Senato, al Parlamento Europeo da svariate legislature; i radicali sono stati – e continuano a essere – protagonisti di innegabili iniziative politiche, il cui valore e la cui portata non sono discutibili; per non parlare di Marco Pannella, che fra qualche giorno festeggerà i sessant’anni di presenza sulla scena politica…



Anche con questo, con questo costante, incessante processo di cancellazione – accompagnato da un simmetrico processo di sfregio – siamo chiamati a misurarci e a fare i conti.

santiago
17-04-09, 15:37
Punto economia. Continua l’emorragia della spesa pubblica

di Piero Capone

A febbraio 2009 abbiamo raggiunto un nuovo record del Debito Pubblico: 1.708 miliardi di euro. Lo certifica il “Bollettino Economico” n.56 (aprile 2009) della Banca d’Italia. Ogni nuovo nato che viene al mondo in Italia è già gravato di un debito di quasi 28.500 euro: oltre 55 milioni delle vecchie lire!



Negli ultimi 12 mesi abbiamo aumentato il nostro stratosferico Debito Pubblico di un ulteriore 5% pari a 82 miliardi di euro. L’ accelerazione appare molto significativa e preoccupante. Infatti nell’analogo periodo del 2008 avevamo registrato sui 12 mesi un incremento di 23 miliardi pari ad una variazione dell’1.4%. Lo stock del debito raggiungeva l’ammontare di circa 1.664 miliardi a fine 2008 (+105.8% del Pil) aumentando nei 2 mesi successivi di ben 44 miliardi di euro.



La spesa primaria corrente (quindi al netto degli interessi passivi) – dato fondamentale per monitorare lo stato dei nostri conti – cresce in maniera consistente (+4.5%) contro una media dell’ultimo biennio del +3.4%. In rapporto al PIL, questa voce raggiunge un nuovo record storico (40.4%) Il dato è preoccupante: ormai oltre il 40% del Prodotto Interno viene assorbito solo dalle spese pubbliche correnti.



Altro dato negativo: quello relativo all’avanzo primario (al netto degli interessi passivi) che passa dai 54 miliardi del 2007 agli attuali 38 miliardi circa. Nel 2007 il rapporto avanzo primario/PIL era stato del 3.5%: a fine 2008 si attesta al 2.4%.

Il dato è molto preoccupante: stante l’enorme stock del nostro Debito Pubblico per poter “aggredire” il debito ed avviare una politica di “rientro”, il livello minimo di avanzo primario da perseguire dovrebbe attestarsi sul 5% annuo.

Come si vede siamo ancora purtroppo molto lontani da quell’obiettivo virtuoso.



Le spese per interessi passivi sfiorano gli 81 miliardi di euro, pari al 5.15% del PIL.

Quindi ogni residente in Italia di fatto “deve farsi carico” di 1.350 euro all’anno per onorare il debito pubblico.



Le previsioni della Ragioneria Generale dello Stato, “rebus sic stantibus”, ci danno un quadro fosco per i prossimi anni: crescita progressiva e continua degli importi destinati al “servizio del debito”, fino a raggiungere nel 2013 la cifra di 90 miliardi di euro!



Da evidenziare che in una generalizzata espansione delle spese, una voce che decresce è quella relativa alle spese in conto capitale (investimenti ecc.): quasi -4 miliardi di euro.

Altro dato piuttosto preoccupante: il totale delle spese pubbliche arriva a quasi 775 miliardi di euro, pari al 49.3% del Prodotto Interno.



Sull’altro versante, quello delle entrate, come era prevedibile alla luce della crisi, si registra una contrazione del 5.1% delle imposte indirette (riduzione dei profitti e dei consumi, sgravi ICI e IRAP sul costo del lavoro) contro un aumento del 3.1% nel 2007. Anche le imposte dirette risentano della situazione e, contro un aumento del 9.1% avuto nel 2007, mostrano una contrazione di un quarto, fermandosi nel 2008 a quota +3.5%.



Inevitabilmente tutto questo si ripercuote sul versante cruciale del deficit di bilancio che passa da circa 23 miliardi di euro a 43 miliardi (+ 85%). Comunque, grazie ad una certa cautela negli interventi di sostegno all’economia, questa miscela ( maggiori spese correnti/contrazione delle entrate tributarie) determina certamente un’impennata nel rapporto deficit/PIL (da 1.5% a 2.7%) ma ancora contenuta all’interno dei limiti stabiliti dal Patto di Stabilità (3%).



Comunque stiamo analizzando soltanto il 2008, anno ancora non intaccato troppo pesantemente dalla crisi.



Molti dei punti meno problematici del 2008 rischiano invece di trasformarsi in dati molto negativi nel 2009. Secondo la “Nota informativa 2009-2011” del Governo il rapporto indebitamento netto/PIL dovrebbe alzarsi al 3.7%. Il famoso avanzo primario in rapporto al PIL (ricordiamo:sarebbe auspicato che arrivasse al 5%) si prevede che scenda ulteriormente ad un modesto 1.3%



Conseguentemente da tutti questi indicatori molto negativi, il famoso rapporto tra il Debito Pubblico e il Prodotto Interno Lordo dovrebbe far registrare un altro pesante peggioramento fino ad arrivare al 110.5%.



Come si vede da tutti questi dati, la linea del “galleggiamento” che sembra essere seguita dal Governo forse non farà affondare la barca, ma certamente aggraverà la nostra situazione: in un contesto così deteriorato non si dovrebbero procrastinare alcune riforme strutturali atte a rilanciare e risanare il paese, quali, in primis, quella delle pensioni e quella del totale “rovesciamento” e trasformazione del sistema del welfare.

Ma sono “temi difficili”, impopolari (per non essere anti popolari): quindi poco graditi al “regime” vigente, sia di una sponda, sia dell’altra.

santiago
17-04-09, 15:37
Dal corpo del malato al cuore della politica*

di Maria Antonietta Farina Coscioni

Il fascicolo n.2 della rivista “Micromega” è interamente dedicato alle questioni relative ai cosiddetti temi etici: testamento biologico, eutanasia, fine vita; con interventi di Beppino Englaro, Mina Welby, Maria Antonietta Farina Coscioni, Maddalena Nuvoli, Gianni Vattimo, Paolo Di Modica, Paolo Flores d’Arcais, Angelo Panebianco, Stefano Rodotà, Carlo Alberto Defanti, Gian Domenico Borasio, Luca Tancredi Barone, monsignor Giuseppe Casale, Daniele Garrone, Alessandro Speciale, Roberta De Ponticelli, Giovanni Reale, Lorenza Carlassarre, Andrea Camilleri, Furio Colombo, Umberto Eco, Margherita Hack, Pancho Pardi, Barbara Spinelli, Antonio Tabucchi, Gad Lerner, Giorgio Cremaschi, Piergiorgio Odifreddi, Vittorio Bellavite, Lidia Ravera, Gabriele Polo, dom Giovanni Franzoni, Dacia Maraini, Emma Bonino.



Quello che segue è l’intervento di Maria Antonietta Farina Coscioni.



Il mio impegno personale e politico nasce dalle lunghe riflessioni scambiate in undici anni di rapporto direi viscerale, fisico, con Luca: un’azione quotidiana mossa da un bagaglio forte e arricchito. Attraverso i mezzi d’informazione, il dibattito attuale cerca di imporre, nella società, l’idea della morte come incubo: come se la fine della vita non appartenga, di per sé, all’esistenza di ognuno di noi. Sia da una parte che dall’altra degli schieramenti politici, la paura viene sistematicamente sollecitata, rendendo la morte un pensiero da esorcizzare dalle emozioni, mediante il controllo della volontà individuale. Alla fine, più che la paura della morte ci viene imposto il pensiero che il percorso del morire non sia parte integrante della vita.



Al lettore di “Micromega” che probabilmente ha molto sentito parlare di Luca Coscioni, ma al tempo stesso pochissimo della sua vicenda umana e politica, suggerisco innanzitutto di procurarsi il suo libro “Il Maratoneta”, pubblicato da Stampa Alternativa: racconta, attraverso i suoi interventi, le sue lettere, le sue parole la storia di una persona che confinata nel “caso pietoso”, si trasforma in “caso pericoloso” (pericoloso, ovviamente per il “regime”, per i fautori dello status quo). La storia insomma di una battaglia di libertà: da lui cominciata e che – vedi le vicende di questi giorni sul cosiddetto testamento biologico) siamo chiamati ancora a combattere.



Più che mai attuali le parole con cui aprì il primo Congresso Mondiale per la Libertà di Ricerca Scientifica del febbraio 2006 a Roma; il suo testamento politico posso permettermi di dire, perché due giorni dopo morì: “…E’ proprio la democrazia ad essere messa in discussione quando l’acquisizione del sapere, risorsa inesauribile per la sopravvivenza dell’umanità, come luogo di discussione e di libertà su temi che riguardano direttamente la vita, la morte, la salute, la qualità della vita degli individui, è negata ad essa…Alla violenza di questo cinico proibizionismo sulla ricerca scientifica, sui diritti fondamentali dei cittadini ho risposto con il mio corpo che molti, forse, avrebbero voluto ridurre ad una prigionia senza speranza e rispondo oggi con la mia sete d’aria, perché è il respiro a mancarmi, che è la mia sete di verità, la mia sete di libertà”.



E’ triste constatare che, a tre anni da quel congresso, così poco sia cambiato in questo paese, e non sempre in meglio; e che se Luca fosse ancora con noi, potrebbe usare ancora quelle stesse parole senza cambiare una sillaba.



La storia, il “caso”, comincia alla fine del 1995: è ottobre Luca si sta allenando per la grande maratona di New York. La corsa e la vela sono da sempre la sua grande passione. Ha il primo “blocco” fisico. Esami, accertamenti, visite mediche per cercare di capire cosa accade, e qualche mese dopo - Luca ha 28 anni – arriva la prima diagnosi; non c’è ancora sicurezza, però per la prima volta ci viene comunicato un nome con cui saremo chiamati a convivere dolorosamente per una decina d’anni: Sla, la Sclerosi Laterale Amiotrofica. Una malattia progressiva e irreversibile, perché la scienza ancora non riesce a individuare metodi di guarigione. Ancora esami, accertamenti, consulti, poi, un anno e mezzo dopo, il verdetto sicuro: è proprio SLA.



Chi si ammala di questa malattia, nel nostro Paese assume immediatamente un nuovo status di “figlio di un dio minore”: perché di colpo perde tutti quei diritti che sono garantiti a una persona sana. Una privazione tanto maggiore quanto più gravi sono le condizioni in cui il malato si viene a trovare: lo affermo con assoluta certezza, la certezza di chi questa situazione l’ha dovuta vivere in prima persona a fianco di Luca: quando ti ammali di malattie neurodegenerative, ecco che emergono tutti i vuoti latenti sulla salvaguardia dei diritti della persona.



Il primo, concreto effetto lo incontriamo quando si tratta di garantire a Luca la terapia riabilitativa, la cosiddetta fisioterapia. Ci rivolgiamo alla Asl di Orvieto, la città dove allora abitavamo. La risposta ci gela: ci viene detto che Luca ha diritto solo a cicli annuali: per un malato inguaribile, in Italia la fisioterapia serve esclusivamente a recuperare le funzioni perse; nel caso della Sla le funzionalità che si perdono non sono più recuperabili.



Gli studi di Luca e le mie ricerche hanno mostrato che in altri Paesi, non solo europei, il trattamento di fisioterapia è considerato essenziale per i malati incurabili, perché serve, per esempio, per prevenire le tromboflebiti e le piaghe provocate dall’immobilità. Insomma, è necessario per evitare ulteriori complicazioni della malattia. Così Luca si trova costretto a rivendicare il suo inalienabile diritto alla salute e alla dignità, diritti solennemente sanciti dalla Costituzione; ma trova la porta della sanità pubblica sbarrata. Decide di denunciare la Asl di Orvieto, poiché la mancanza di trattamenti specifici non esonera la struttura sanitaria dall’affrontare i diversi sintomi nel corso della malattia, e proprio le cure palliative, tra le quali il trattamento fisioterapico, offrono approcci diversi ai diversi problemi.



Luca era consigliere comunale all’opposizione, eletto in una lista civica. Si dimette e comincia la sua lotta per il riconoscimento di una vita dignitosa dei malati e dei disabili.



Grazie a internet Luca “viaggia” praticamente in tutto il mondo, “naviga” ed eplora i siti di altri Paesi, alloggia e stringe contatti con i maggiori esperti di neurologia in Europa e negli Stati Uniti.



Internet diventa essenziale, insieme al suo sintetizzatore vocale, perché nel frattempo Luca perde la possibilità di esprimersi con la sua voce; può comunicare con l’utilizzo di una tecnologia sofisticata, software e hardware particolari.



La sua è stata una lotta a tutto campo: ricordo la forza, la determinazione del suo voler strenuamente esprimere il suo pensiero, e le difficoltà degli altri a comprenderlo.



Le persone che venivano in contatto con noi non nascondevano il loro scetticismo: «Ma le parole sul monitor sono davvero sue? E se fossero già scritte? Le interpretazioni della sua volontà sono certe?», chiedevano. La loro “non conoscenza” contribuiva a rallentare la comunicazione.



Ero io a tradurre i suoi suoni, che uscivano piano, sempre più lenti: e ricordo bene i pregiudizi su possibili errori ed incomprensioni della mia traduzione. Ribattevo: perché i traduttori di una lingua straniera sono accettati e riconosciuti, e noi, invece, ci troviamo a dover sempre dare garanzie di attendibilità?



Luca è stato uno dei rari malati al mondo a comunicare con voce virtuale. Riuscirci fu una sorpresa, oltre che un’impresa, dopo che la Sla lo aveva reso muto. Mi ha raccontato spesso di come sentiva i suoi pensieri nascere nella mente e morirgli in bocca.



A Cambridge, in Inghilterra, Stephen Hawking: nonostante la Sla e la voce metallica, continuava a insegnare. In Italia invece, a Luca non veniva rinnovato il contratto per la cattedra di Politica economica. Una decisione evidentemente dovuta al fastidio per le sue crescenti difficoltà nei movimenti e nella parola. Purtroppo il Servizio Sanitario Nazionale non garantisce ancora questi sistemi informatici, molto costosi, a tutte le persone rese mute dalla malattia.



Così alla rivendicazine del diritto all’accesso alle cure palliative, Luca affianca quella per la “libertà di parola”: metallica, nel suono, ma pur sempre la sua parola.



Una terza rivendicazione, anche questa legata alla sua condizione, consisteva nella possibilità di trovare speranze di cura grazie alla libertà di ricerca scientifica sulle cellule staminali. Significa eliminare i paletti che limitano questo campo d’indagine, studiare le staminali embrionali oltre che quelle adulte, significava incoraggiare alcuni risultati piuttosto che altri, innescare un nuovo percorso di conoscenza.



Navigando in rete, informandosi sui diversi studi in corso negli Stati Uniti e in Europa, Luca si rende conto che la sua battaglia non può restare confinata tra le mura di Orvieto. Decide di riprendere in mano la sua vecchia passione per la politica, scommettendo sul suo programma per i diritti civili, umani e politici dei malati e dei disabili: “Dal corpo del malato al cuore della politica”.



L’occasione di tornare a far politica arriva nel 2000: Luca legge sui giornali che il Partito Radicale ha deciso di eleggere parte del suo Comitato Nazionale attraverso elezioni on line, aperte a tutti coloro – iscritti o no che siano al partito – vogliono partecipare: sia come candidati, sia come elettori.



Luca presenta una lista antioproibizionista sulla scienza, viene eletto, e successivamente diventa presidente del Comitato. Un anno dopo, alle elezioni del 2001, si candida alle elezioni politiche, e attraverso lui cominciano a farsi strada temi e questioni che gli altri partiti non hanno in coraggio di affrontare in una campagna elettorale che si annuncia tesa e difficile.



Luca è un anticipatore, porta alla luce realtà altrimenti escluse dalla politica, destinate al silenzio: sceglie l’area dei radicali, che diventa il suo luogo politico ideale. La sua candidatura raccoglie, è un dato che non ha precedenti e resta unico finora, il consenso e l’appoggio di cinquanta premi Nobel e di oltre cinquecento scienziati e ricercatori di tutto il mondo, e apre la strada a un confronto democratico sui temi della dignità della vita e della morte, della disabilità e della malattia, della libertà di ricerca scientifica.



Ne paga anche un prezzo pesante: lo accusano di essere strumentalizzato dai radicali; è, semmai, il contrario: è lui che utilizza i radicali, imponendo le sue battaglie.



Il deperimento fisico di Luca, cominciato nel 1995, è stato più lento rispetto alla condanna a morte normalmente inflitta dalla sclerosi laterale amiotrofica, probabilmente perché la sua era una forma giovanile e con una diversa evoluzione.



Luca si è ammalato a 28 anni, l’evoluzione della malattia si è stemperata in un arco temporale di dieci anni e mezzo.



Il 20 maggio del 2002 Luca entra nella sala operatoria del reparto di neurochirurgia dell’ospedale San Giovanni Bosco di Torino, per sottoporsi a un trapianto di cellule staminali adulte autologhe. “Decidere di fare da cavia non è stata una scelta facile”, confida. “Non sapevo quale fosse la cosa migliore da fare. Lasciare che la malattia progredisse…oppure tentare la carta dell’autotrapianto”. Nel 2003 vive la prima forte invasività di un trattamento sanitario, quando sceglie di nutrirsi artificialmente con la Peg (gastrostomia endoscopica per cutanea). Si sottopone a un intervento chirurgico, i medici gli impiantano un sondino attraverso un foro all’altezza dello stomaco. Attraverso quel sondino, una nutripompa dosa durante la notte, la quantità di calorie di un composto di proteine, grassi, vitamine e via dicendo per mantenere a un determinato valore il suo peso corporeo. Dalla Peg passavano anche i farmaci per gli spasmi muscolari. Dalla sua bocca non passavano più né acqua né cibo perché potevano causargli una polmonite ab ingestis nell’albero tracheobronchiale.



Nel 2006, le sue condizioni si aggravano di mese in mese: il respiro si fa sempre più affannoso, Luca sente mancare l’aria, la sua capacità di respirare diminuisce sensibilmente. La quantità di ossigeno e di anidride carbonica nel suo corpo sono costantemente monitorate. Agli esami si accompagnano le discussioni con il medico curante e, soprattutto, con il neurologo e con lo psichiatra: gli specialisti ci spiegano che, per la respirazione, è ormai necessario l’intervento di tracheotomia, che permetta di collegare Luca a un ventilatore artificiale. Per molti mesi, in pienamente cosciente, Luca ha avuto il tempo di decidere se voler respirare attaccato a una macchina, oppure no. Ancora oggi, a distanza di tanto tempo rivivo quotidianamente le telefonate di Marco Pannella, che anche alle due, alle tre della notte: parla con Luca, implorandolo di fare la tracheotomia. Lo ringrazio ancora per questo suo sostegno.



Avesse deciso per il sì all’operazione Luca avrebbe avuto il massimo appoggio sia mio che di Marco, anche dopo la tracheotomia. Spesso i malati terminali hanno paura di dover dipendere dall’equipe di assistenza che ruota attorno alla loro vita: noi avevamo garantito a Luca la nostra totale disponibilità. Il suo dubbio dunque non era come vivere attaccato a una macchina; era pienamente consapevole che noi lo avremmo sempre sostenuto e aiutato. Non era questo. Il problema che lui si poneva era se vivere o no attaccato a una macchina.



Luca decise liberamente. Non ha messo mai nero su bianco la sua volontà di rifiutare l’intervento: non esiste alcun suo testamento scritto. La ha detto a me, che ero la moglie, alla famiglia, ai medici che lo avevano in cura: in primo luogo al neurologo, al pneumologo, allo psichiatra. Ha discusso a lungo con loro, e la possibilità di non respirare artificialmente diventa volontà sempre più netta. Il neurologo e lo pneumologo mi avevano spiegato come la morte per sclerosi laterale amiotrofica può avvenire durante il sonno. Allora tutte le sere, prima di addormentarmi, registravo la sua volontà con il telefonino: in questo modo, era chiaro a tutti che stavamo rispettando la sua scelta.



La mattina del 20 febbraio 2006, mentre un infermiere lo assiste, Luca sviene. Un attimo prima che perda i sensi riesco a dirgli di andare in ospedale. Lui risponde di no, che non vuole andarci, è consapevole che là, probabilmente gli avrebbero praticato la tracheotomia. E’ d’accordo che si chiami il medico, ma non vuole andare in ospedale. Quando arriva il rianimatore, gli comunico la volontà di Luca. Tenta di rianimarlo naturalmente, ma non è possibile. Non posso che rispettare la sua scelta: non posso imporgli quello che avrei voluto io. La sua volontà è prevalsa, com’era giusto, sulla mia e su quella dei medici.



Non è stato semplice: mi è costato un’enorme sofferenza. Ma non ho potuto che chinare il capo e, con dolore, rispettare la sua richiesta. Ho poi ho rivissuto quell’esperienza nei giorni del caso di Piergiorgio Welby, quando tanto fango è stato gettato sulla moglie Mina: hanno detto che un malato sceglie di non continuare più a vivere quando attorno non a sé non ha abbastanza amore. A Luca che amava la vela, avevo anche prospettato la possibilità di andare a vivere in qualche posto in riva al mare. Lui però ha scelto diversamente. Credo che tutto ciò non aiutasse più la sua mente: chi vive un disagio simile dentro di sé scivola, a un certo punto, in una dimensione diversa. Solo la persona stessa può conoscere il limite oltre il quale è lecito o meno spingersi.



Questa era la quarta rivendicazione della battaglia di Luca Coscioni: la volontà della persona va in ogni caso rispettata e tutelata anche nel percorso del morire.



Credo che prima o poi si dovrà raccogliere e conservare tutte le dichiarazioni infamanti sul caso di Eluana Englaro, affinché le future generazioni sappiano ciò che in tanti, politici e gerarchie ecclesiastiche, sono stati capaci di dire e di fare, in nome di una pretesa «difesa alla vita» che è solo condanna crudele e disumana alla sofferenza: come se per capire che cosa sia la vita si debba per forza provare l’esperienza del dolore. Mi è spontaneo sollecitare i politici e gli altri miei colleghi parlamentari a un ragionamento di buon senso: quel che conta è la vita, non il sacrificio di Luca Coscioni; è la vita, non il sacrificio di Welby; è la vita, non il sacrificio di Giovanni Nuvoli o di Eluana Englaro, che è durato diciassette lunghissimi anni. L’etica che mi anima non è sicuramente quella del sacrificio, ma quella della vita: la dignità della vita in ogni stadio della malattia terminale, dalla diagnosi alla morte.



Può accadere che nei reparti di rianimazione, che, a porte chiuse, si decida di non sottoporre più a trattamento un malato troppo anziano: io vorrei invece che una terapia, anche inutile, sia garantita al paziente che la vuole e la chiede. Se la chiede lui, non il suo medico o la famiglia.



Viceversa, vorrei che non sia imposto un trattamento a un malato terminale che la rifiuta, anche se giovane, anche se davanti a sé avesse la prospettiva di vivere alcuni anni.



Dieci anni fa, Luca mi ripeteva di voler liberare la ricerca: non tanto per guarire lui, quanto per le future generazioni. Finché i politici promuoveranno campagne sui disabili rivolte solo a persone con disabilità, sarà un fallimento.



E’ stato detto che la questione del testamento biologico riguarda la coscienza, non la politica; ma la coscienza risponde esclusivamente a se stessa e non ai problemi degli altri?



Al contrario: se la politica non si occupa di queste cose, di cosa deve mai occuparsi? L’aver vissuto in simbiosi con Luca la sua malattia fa sì che mi ponga continuamente domande sul tema: non c’è stato e ne c’è attimo in cui abbia pensato, o pensi, di occuparmi di altro.



Dalla legge sul testamento biologico è stata scorporata tutta la parte delle cure palliative e della terapia del dolore: come se questa legge sancisca una sorta di burocratizzazione della morte, tralasciando l’aspetto essenziale della conoscenza e dell’informazione.



Il dibattito parlamentare che si è svolto non è stato purtroppo al livello che avrei voluto: lo affermo sia riguardo alle dichiarazioni anticipate sul testamento biologico discusse al Senato, sia riguardo al dibattito sulle cure palliative avvenuta nella Commissione Sanità di cui faccio parte, alla Camera. Anziché ascoltare fin troppi esperti – dai medici agli operatori del settore – sarebbe stato più utile raccogliere le testimonianze dei malati: il testo della proposta di legge avrebbe probabilmente avuto un altro senso e dato risposte più certe. All’estero le norme sul testamento biologico vengono tecnicamente definite «direttive anticipate di trattamento». Noi continuiamo a chiamarle «dichiarazioni anticipate di trattamento»: tra «dichiarazione» e «direttiva» c’è una sostanziale distinzione di significato. Quanto alle terapie del dolore, il governo e la maggioranza che lo sostiene ci rispondono di non avere denaro, i fondi necessari. Sia in Senato sia alla Camera, avanzano a leggi-manifesto: le richieste dei cittadini restano inevase.



Ci sarà, temo, ancora bisogno di altri “casi”, di cosiddetti «eroi», per rendere il dibattito politico autentico e non, come sta avvenendo, strumento per incutere paura nella collettività. La lotta di Luca resta attualissima. La testimonianza, le indicazioni politiche che lui ci ha lasciato, noi la stiamo continuando, con l’associazione che mio marito ha voluto e creato, da vivo, nel 2002. Mi piace pensare a un giorno in cui il Palazzo sarà finalmente vicino ai bisogni di tutti i cittadini, liberi perché davvero informati. In un mondo del genere, finalmente, non ci sarà più bisogno di alcun «eroe».

NOTE

* da Micromega 2/2009

santiago
17-04-09, 15:37
Quell'assurda preclusione del Pd

di Francesco Pullia

Il Pd annaspa, ha il fiato corto. Non c'è bisogno di leggere i sondaggi. Basta sentire gli umori della gente per strada per rendersi conto di quanto sia perdente, priva di connotati distintivi, all'infuori di un infelice e stucchevole antiberlusconismo, la politica del partito di Franceschini e dei vari Fioroni e c.



E non è di certo con l'esclusione preconcetta, aprioristica, dei radicali dalle sue liste alle europee che potrà pensare di risolvere una crisi di vasta entità. Anzi, proprio questa scelta ne accentuerà la gravità e drammaticità.



Che cos'è in realtà questo Pd? Quale linea e quali battaglie lo contraddistinguono? Persegue davvero un programma riformatore? Difficile rispondere a questi interrogativi.

Appena nominato, anziché mandare un segnale nuovo al mondo politico e all'elettorato, Franceschini si è precipitato ad inscenare un retorico giuramento, con tanto di fazzolettoni partigiani, su quella costituzione diuturnamente dimenticata o ridotta a carta straccia anche (non solo ovviamente) dal suo schieramento. Subito dopo ha sprecato l'occasione di smarcarsi dall'abbraccio esiziale con la Cgil, partecipando alla manifestazione, tanto pomposa quanto inefficace, demagogica e identitaria, del 4 aprile.



Non contento, è andato in cerca di Cofferrati per offrirgli uno scranno a Strasburgo e Bruxelles. Se il suo predecessore Veltroni era specializzato nel “ma anche”, lui predilige, invece, un comportamento escludente, rigidamente fazioso, che tra l'altro non gli si addice, non rendendosi conto che la china è inarrestabile.



Dove vuole arrivare questo Pd? A quali percentuali? Qual è il suo modello?

Di certo, continuando di questo passo, l'attuale maggioranza governativa può stare tranquilla mentre l'Italia si caratterizza sempre di più come un paese in cui manca del tutto un grande partito capace di interpretare una seria e credibile spinta riformatrice, laica, liberale.

Pensa forse il Pd di continuare a sopravvivere a se stesso qualificandosi come partito di amministratori, della territorialità nel senso peggiore, deteriore, del termine, delle cooperative, dell'occupazione di poltrone?



Non è così che si costruisce un'alternativa e neanche un'alternanza. La pattuglia radicale in Parlamento ha dato prova di notevole capacità attuando un’opposizione non pretestuosa ma costruttiva.



Dov'è, se c'è, l'annunciata novità di Franceschini rispetto alla fallimentare gestione veltroniana? Davvero la segreteria del Pd ritiene che la politica possa essere fatta di slogan e non di contenuti? E, ancora, cosa si imputa ai radicali? L'ostinazione e la caparbietà con cui sono riusciti ad imporre all'agenda politica temi avvertiti dai cittadini, come ad esempio la libertà di morire dignitosamente senza torture spacciate per cure, senza essere ostaggi di atteggiamenti ideologici decretati e imposti al di là del Tevere?



Forse si può biasimare e condannare la loro capacità di preveggenza, il loro dichiarato europeismo federalista, l'ambizioso disegno di un'umanità priva di sentenze capitali e rispettosa dei fondamentali diritti individuali, l'avere dimostrato con Radio Radicale come si possa trasformare un’emittente in uno strumento davvero al servizio di tutti?

Ha fatto bene il segretario del Pd a recarsi a Bozzolo per rendere omaggio alla testimonianza cristiana di don Primo Mazzolari (1890 – 1959), sacerdote “scomodo”, “di frontiera”, anticipatore di diverse idee del Concilio vaticano II e per questo punito dalle gerarchie ecclesiastiche del suo tempo, autore, nel 1955, di Tu non uccidere (ed. La Locusta) in cui sosteneva la scelta nonviolenta ed esprimeva la necessità di un movimento di resistenza cristiana alla guerra.



“Ci siamo accorti – scriveva don Primo - che non basta essere i custodi del verbo di pace, e neanche uomini di pace nel nostro in*timo, se lasciamo che altri - a loro modo e fosse pure solo a parole - ne siano i soli testimoni davanti alla povera gente, la quale ha fame di pace come ha fame di giustizia. Certi nostri silenzi, che sembrano dettati dalla pru*denza, possono diventare pietra d’inciampo”. E ancora: “Chi, attraverso l’uomo, vede soltanto la patria, la na*zione, la razza, la classe, il partito, la religione, è nell’occasione prossima di peccare contro l’uomo e di ‘svuotare la croce’ (…) Per avere l’assenso di una testa, si può anche spac*carla o tagliarla: ma spaccandola o tagliandola non si guadagna l’assenso, si elimina un contraddittore. Do*po, però, ci si accorge che ha ragione la testa spaccata o tagliata, anche se prima aveva torto”.



Giusto, dunque, ricordare l’impegno di don Primo. Proprio la riconsiderazione di tale insegnamento, però, si accorda male, molto male, ed appare pertanto fortemente contraddittoria, con una politica ossequiosa nei confronti dell’ingerenza esercitata dagli attuali vertici vaticani, che non solo sono anticonciliari ma, di più e peggio, risultano animati da un’ansia controriformista, integralista, pericolosamente e drammaticamente autoritaria. Si pensi, da ultimo, al trattamento riservato dal Vaticano a Caroline Kennedy, primogenita di John Fitzgerald, bocciata come ambasciatrice degli USA perché, come d’altronde Obama, ritenuta “troppo liberal” e, quindi, non adatta a dialogare con la Chiesa sulle questioni eticamente sensibili.



Franceschini naturalmente è liberissimo di sacrificare, per insano tatticismo, sull'altare dell'antidemocrazia le vittime designate (i radicali). Se fossimo al suo posto, però, non abbracceremmo certe opzioni a cuor leggero.

santiago
17-04-09, 15:38
Pannella vuole radunare ciò che è sparso e spartire ciò che è stato radunato

di Pier Paolo Segneri

Tutti, tranne Marco Pannella. Tutti, tranne i Radicali. Tutti sono i ben accetti dentro e fuori il PD: da Casini a Di Pietro. Vanno tutti bene, ma non andate a proporre ai vertici dei Democratici di avere un rapporto politico con Radicali Italiani e con la galassia pannelliana dei liberali e libertari, cioè non andate a proporre alla nomenclatura del Pd un progetto serio di alternativa laica, liberale, socialista e riformatrice perché non è cosa. Non vi azzardate a parlare del progetto politico della Rosa nel Pugno e non vi permettete di puntare ad un partito democratico sul modello americano. Per carità! Certo, Obama è un riferimento ineludibile, secondo gran parte dei capi carismatici del Pd, l’importante è che resti un’icona d’Oltreoceano. Lontano. Perché di voltare pagina, qui in Italia, non se ne parla. Di cambiare metodi, sistemi, strategie non è possibile. Regnano incontrastati i veti sulle persone, continuano le pregiudiziali contro Pannella, prosegue la ghettizzazione dei Radicali. Ma sono davvero così forti da dover essere esclusi? Fanno davvero così paura?

Ritornano alla mente le parole scritte da Indro Montanelli circa vent’anni fa e che sembrano pensate per l’oggi: “Questa era la prima volta che Pannella aspirava da una poltrona, che fra l’altro non gli sarebbe andata affatto larga, perché, morto Altiero Spinelli, Pannella è probabilmente il parlamentare italiano che meglio conosce i meccanismi Comunitari. Non so se in quegli ambienti riscuota più successi o antipatie. Ma so che inosservato non passa mai. Anche perché quando affronta un problema, levarglielo di bocca è più difficile che levare l’osso dai denti di un mastino”. Ma stavolta Marco non aspira ad alcuna poltrona, semmai rilancia un progetto politico ed apre all’idea di un movimento di Liberazione nazionale dall’attuale “monopartitismo imperfetto”. Pannella denuncia e descrive tecnicamente la storia di oltre cinquant’anni di regime partitocratico, i Radicali avvertono dell’ulteriore e precipitoso deformarsi della democrazia italiana, anzi: lavorano in questi giorni alla realizzazione di un Libro dove si mostrano i segni e gli episodi concreti dell’aggravarsi della non-democrazia italiana. Insomma, secondo l’analisi dei Radicali, la violazione sistematica della legalità e della Costituzione hanno portato al formarsi di un Regime, ancora non definibile, ma il cui nome verrà dato dagli storici quando, in un domani forse prossimo, studieranno la storia di questi anni e si ritroveranno ad approfondire situazioni, scelte, imposture, malcostumi e degenerazioni. Qui non si tratta di dare un posto in lista a Marco Pannella. Qui si tratta di porre un argine alle ingiustizie, alle miserie, alle pregiudiziali, al razzismo, alla paura. Qui si tratta di far crollare un potere fine a se stesso che è incapace di qualsiasi riforma, né grande né piccola. Qui si tratta di avviare in tutto il Paese la rivoluzione liberale, laica, socialista, riformatrice e democratica di cui l’Italia ha estremo bisogno. Ma per far questo è necessario radunare ciò che è sparso e, quindi, spartire tra i cittadini ciò che è stato radunato.

santiago
17-04-09, 15:38
In difesa di Vauro

di Valter Vecellio

Vauro è autore di vignette sgradevoli e irritanti, su questo non ci piove. Un giorno sì, e l’altro pure, sul “Manifesto” pubblica disegni che mostrano israeliani come nazisti, americani come schiavisti assetati di sangue, e da che parte gli batta il cuore non ne fa certo mistero. Vauro è Vauro, basta la parola. Fa una satira greve, pesante, cattiva. Ma per sapere: c’è una satira light, “buona”, gentile?



Anni fa a chi scrive capitò la ventura di essere direttore responsabile del “Male”. Quel settimanale andava giù pesante, sciabolate al cui confronto le “battute” di Vauro sono cose da educande. Una volta qualcuno, sotto pseudonimo, scrisse un articolo per protestare contro la condanna inflitta allo sventurato che in base alle norme (fasciste) sulla stampa mi aveva preceduto come direttore responsabile. Il magistrato che aveva emesso la condanna secondo l’anonimo corsivista era una m… tale che quando camminava, a suo dire, se ne sentiva la puzza.



Il magistrato così pesantemente chiamato in causa presentò querela con ampia facoltà di prova, e s’ammetterà che era arduo dimostrare che camminando spargeva puzza e cattivi odori. Da sventurato direttore (ir) responsabile ne ricavai due anni e sei mesi di condanna senza beneficio alcuno, poi confermati in Appello. Finì bene perché ci si inventò qualche diavoleria che la Cassazione prese per buona, ma per qualche tempo quei due anni e sei mesi senza condizionale sono stati un piccolo incubo.



In quell’occasione non furono molti che spesero qualche parola di solidarietà: tra quei pochi Oreste del Buono, Giorgio Forattini, Giampiero Mughini, Marco Pannella, Salvatore Sechi; dalla Federazione della Stampa e dagli ordini costituiti silenzio e indifferenza, ma erano messi in conto.



Del Buono ne scrisse, e il magistrato piccato, replicò: la satira va bene, ma quella non era satira, bisogna porre dei limiti. Pacatamente del Buono rispose che in materia di satira i limiti servono solo per oltrepassarli. E disse che mi difendeva proprio perché si trattava di una volgarità indifendibile.



Il lungo preambolo serve per spiegare perché oggi si dice: “Giù le mani da Vauro”. Da maledetto senese emulo di Cecco Angiolieri è stato di cattivo, pessimo gusto, ha varcato, al pari di Maurizio Crozza i limiti consentiti? Bene, proprio per questo vanno entrambi difesi. E ridateci i tempi di Giulio Andreotti e Giovanni Spadolini, che neutralizzavano i “satiri” chiedendo gli originali delle vignette!

Burton Morris
22-04-09, 02:22
Un prete radicale nella rivoluzione francese (*)

di Angiolo Bandinelli

Chiunque segua il dibattito in corso sui temi dell’incontro - o scontro - tra laici e cattolici, i vestali dello Stato e gli alfieri della Chiesa, non può non aver avuto, prima o poi, la sensazione di scorrere i capitoli di una apologetica monotona e arida, povera di basi storiche, ideali, religiose e filosofiche, preoccupata soprattutto di nutrire una schermaglia più aggressiva che convincente. I laici appaiono impacciati e sulla difensiva, mentre la parte cattolica si accontenta di giocare una partita evasiva e ripetitiva. La cultura cattolica ha valori grandiosi e rispettabili ma, nell’attuale polemica, solo raramente i suoi paladini avanzano tesi e posizioni di un qualche spessore: più spesso, queste vengono eluse o, se affiorano, sono accantonate con fretta sospetta, quasi per non offrire spazio al nuovo, al profondo, all’essenziale, valori o passioni senza i quali gli slanci della fede intristiscono come piantine rinsecchite.



A chi volesse rintracciare i termini alti della problematica cattolica siamo oggi in grado di consigliare una gratificante lettura, che ci immerge in un clima di discussioni su temi non distanti dall’oggi, però tenuti ad un eccezionale livello. Il libro, compatto ed essenziale, tratteggia la figura e alle opere di un prete, Baptiste-Henri Grégoire (1750-1831), in gioventù partecipe, seppur defilato, dello scontro tra giansenismo (con annessi gallicanesimo, figurismo, richerismo…) e gesuiti, poi invece protagonista originale delle vicende della rivoluzione francese, cui partecipò fin dall’inizio come eletto agli Stati Generali in rappresentanza del basso clero. Nell’acceso clima di Versailles l’abbé Grégoire si segnala come uno dei “venti o trenta deputati più noti, subito riconoscibili già dalla voce”. Sarà tra i promotori della Pallacorda, poi figura eminente della Assemblea Costituente, della Legislativa e della Convenzione. Benché avesse votato contro la costituzione civile del clero accettò, alla fine, di essere nominato vescovo “assermenté” di Blois e di Mans.



Il libro si sofferma in particolare sulla presa di posizione del nostro abate contro la pena capitale irrogata a re Luigi XVI, il sovrano che lui (di passioni repubblicane) aveva contribuito a far processare e condannare. A sottolinearne l’attualità, il curatore Luigi Recupero fa un puntuale riferimento alla campagna per la moratoria della pena di morte dei radicali di “Nessuno tocchi Caino”. Ma l’intervento parlamentare per evitare la decapitazione di Luigi XVI è solo uno dei tanti con i quali l’abbé viene man mano costruendo l’immagine di un credente, un cattolico, fautore coraggioso di grandi principi liberali e di modernissimi valori democratici. A pochi giorni dalla nascita dell’Assemblea Costituente, Grégoire presentava una mozione per chiedere l’ammissione dei delegati ebrei. Interverrà poi a più riprese, a favore del basso clero angariato dalle gerarchie o per chiedere che alla “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” ne venisse allegata una sui “Doveri” e che nel documento fosse fatto esplicito riferimento a Dio quale garante di quei diritti; ma anche per opporsi al sistema elettorale censitario o per fare estendere l’elettorato passivo alla gente di colore. Temi ecclesiali e laici insieme, l’elenco completo sarebbe troppo lungo.



L’abbé Grégoire deve essere considerato uno dei padri del liberalismo, cui arriva non da posizioni laicoborghesi o di stampo protestante, ma da profonde meditazioni sui valori della fede cattolica. Le chiavi filosofico-teologiche di cui egli essenzialmente si serve sono il gallicanesimo e il giansenismo di Port- Royal, con il suo severo agostinismo. Il gallicanesimo propugnava non solo il controllo dei sovrani francesi sulle nomine dei vescovi, ma anche la tesi che il potere del papa trovi un limite nell’autorità dei vescovi riuniti in concilio. E sono ben note le tesi gianseniste sulla grazia, la predestinazione e il libero arbitrio, come anche sulla severità e semplicità del culto e dei costumi ecclesiastici. Il suo gallicanesimo, il suo giansenismo, sono un fecondo humus di valori liberali e democratici i cui frutti si ritroveranno nel pensiero di un Manzoni come di un Buonaiuti, fino a certe indicazioni e percorsi riformatori del Concilio Vaticano II.



Cinque, i testi qui tradotti: i due interventi pronunciati nelle sedute del 12 e 18 agosto 1789, riguardanti la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino; il grande discorso del 15 novembre 1792 per evitare la pena di morte a Luigi XVI e quello “sulla libertà dei culti” del 21 dicembre 1974. Infine, viene presentata la “Lettera del cittadino Grégoire, vescovo di Blois, a Monsignor Ramon-Joseph de Arçe, arcivescovo di Burgos, inquisitore generale di Spagna”, per caldeggiare la soppressione dell’odioso tribunale. Ogni documento si giova di una presentazione di Luigi Recupero, che cura anche il ricco apparato di note e una utile bibliografia generale.



Baptiste-Henri Grégoire

“Non uccidete il re. Per la laicità”

a cura di Luigi Recupero, prefazione di Stefania Mazzone

pp. 170, Euro 13,40

Selene edizioni 2008

NOTE

(*) Da “L’Indice dei libri del mese”, aprile 2009

Burton Morris
22-04-09, 02:24
Radicali, referendum elettorali e l’albero di Bertoldo

di PierVincenzo Uleri

Caro Direttore,



Oramai da settimane partiti di maggioranza e di minoranza discutono sulla richiesta del Comitato promotore dei referendum elettorali di abbinare lo svolgimento della consultazione referendaria con le elezioni per il Parlamento europeo.



È abbastanza difficile capire chi – oltre a Mario Segni, Giovanni Guzzetta, Arturo Parisi a nome e per conto del Comitato promotore – effettivamente desideri lo svolgimento della consultazione abbinato alle elezioni per il Parlamento europeo.



Alcune ragioni per l’abbinamento sono state esposte da Diego Galli («Tre ragioni (fortissime) per l'accorpamento di elezioni europee e referendum», Notizie Radicali, martedì 7 aprile 2009). Non so dire quanti – all’interno della “galassia Radicale” - siano intervenuti e come sul tema, magari obiettando contro le ragioni addotte da Galli.



Marco Pannella nella ormai famosa “conversazione” della domenica di Pasqua (12 aprile) ha liquidato l’argomento referendum con poche parole per dire che lui comunque è per il No.



Sul sito di Radicali Italiani in data 17 aprile è stata pubblicata una dichiarazione di Emma Bonino, Vicepresidente del Senato della Repubblica: «Bonino: rinviare il referendum è una proposta "eversiva"» (http://www.radicali.it/view.php?id=140686).



Emma Bonino denuncia l’ipotesi avanzata da alcuni di rinviare al prossimo anno lo svolgimento della consultazione referendaria. Bonino scrive: «… pare passare per "normale" proposta l'idea, letteralmente eversiva, che si possa rinviare il referendum di un anno solo perché "oggi" sarebbe scomodo sia per la destra che per la sinistra. In questo modo si calpestano la Costituzione, le leggi, i diritti dei cittadini, del comitato promotore e dei firmatari!».



In effetti una sorta di mezzo precedente c’è già stato nel 1987. In quella occasione, lo scioglimento anticipato del Parlamento fu preceduto dall’approvazione di una “legge” che rinviava lo svolgimento della consultazione referendaria (tre quesiti sul nucleare civile, uno sulla responsabilità civile dei magistrati ed uno sulla commissione Inquirente), previsto per la primavera, all’autunno dello stesso anno (8 novembre 1987), invece che alla primavera dell’anno successivo, secondo quanto previsto dalla legge che disciplina lo svolgimento delle consultazioni referendarie. Forse negli Archivi Radicali si potrebbero trovare le valutazioni dell’epoca.



Bonino non si pronuncia sulla richiesta di far svolgere il referendum nella stessa data delle elezioni per il Parlamento europeo; dichiara, invece, la sua idea nel merito dei referendum elettorali: «Sono una convinta sostenitrice del "NO" a questi referendum, perché credo ad un bipartitismo anglosassone fondato sul rapporto tra eletti e territorio e non sulle nomine dei capipartito».



A parte l’intervento di Diego Galli, solo l’Associazione radicale “Adelaide Aglietta” di Torino ha mostrato un interessamento fattivo sulla richiesta di abbinamento tra elezioni europee e referendum.



Su Notizie Radicali o sul sito di Radicali Italiani non mi sembra vi siano stati altri interventi e dichiarazioni; in particolare, mi sembra che non si siano pronunciati gli organi dirigenti di Radicali Italiani (Segretaria, Tesoriere e Presidente, Giunta, Direzione e Comitato Nazionale) e gli altri eletti Radicali al Parlamento con Emma Bonino. Non saprei neppure dire quanto la questione sia stata dibattuta tra gli organi dirigenti di RI.



Sono senza dubbio un ingenuo: tuttavia a me suona assai strana questa “scarsa attenzione” dei militanti-dirigenti di RI alla questione dei referendum elettorali.



Sarei curioso di sapere cosa ne pensino gli iscritti, ma anche lì sembra che tutto taccia. È probabile che vi sia una piena consonanza di iscritti e militanti-dirigenti nel giudicare irrilevanti i referendum elettorali.



I Radicali sono stati i primi a utilizzare la Rete per le loro iniziative politiche. Non dovrebbe essere difficile organizzare una sorta di referendum tra gli iscritti per conoscere le loro opinioni. Tuttavia, se il tema non è rilevante, che bisogno c’è di perdere tempo per sapere cosa ne pensano gli iscritti?



Per concludere. Quando Emma Bonino dichiara che: «Sono una convinta sostenitrice del "NO" a questi referendum perché credo ad un bipartitismo anglosassone fondato sul rapporto tra eletti e territorio e non sulle nomine dei capipartito», mi viene da pensare all’astuto Bertoldo che – saggiamente – non trovava mai l’albero a cui lasciarsi impiccare. In fatto di referendum e leggi elettorali, i Radicali sembrano aver fatto tesoro della lezione dell’astuto Bertoldo.



L’impressione è che, in attesa del perfetto maggioritario uninominale (“secco” naturalmente) e del perfetto bipartitismo british style, che non esiste più neppure nell’Isola al di là della Manica, i Radicali preferirebbero sopravvivere il più a lungo possibile con la più proporzionale delle formule. Desiderio inconfessabile ma legittimo e del tutto comprensibile: Primum vivere, deinde philosophari.



PS. Ancora grazie al Direttore per l’ospitalità e per il sorridente invito a «frequentare un po’ di più i radicali» per non cadere in luoghi comuni così come accade a quanti non conoscono bene gli arcana imperii Radicali. Ci sono tanti modi di frequentare i Radicali. Mi sembra che una volta Adriano Sofri abbia scritto che per voler bene ai Radicali non bisogna stargli né troppo lontani né troppo vicini. Sono circa trentanove anni che mi esercito nella ricerca della giusta misura: «né troppo lontano né troppo vicino». Si vede che non sono pratico in questo genere di misurazioni. In effetti, nuragico silenzioso, amo più le distanze e i silenzi … è una questione di antropologia umana prima che politica … e due interventi in due settimane sono davvero eccessivi … ora è il

Burton Morris
22-04-09, 02:24
De Magistris: se proprio da lui giungerà qualche piacevole sorpresa?

di Valter Vecellio

Sia pure con incredibile ritardo sembra essersene accorto anche quel che resta dello stato maggiore del Partito Democratico. Il segretario Dario Franceschini sostiene che Antonio Di Pietro e la sua Italia dei Valori è una falsa opposizione. Provi a spiegarlo, Franceschini, all’“Unità”, per esempio: che un giorno si e l’altro pure pubblica indimenticabili i paginoni di “forum”, e gli articoli, commenti e analisi di inequivocabile sapore “dipietresco”. E adesso se ne accorgono che Di Pietro è pubblicizzato in tutte le salse da telegiornali e programmi si intrattenimento? Raccoglieranno alle elezioni ormai prossime quello che hanno seminato in tutti questi mesi. Raffinati strateghi, “consiglieri” specialisti in sconfitte e occupazione del potere fine a se stesso sono i responsabili di quanto accaduto e accadrà: dai Goffredo Bettini ai Giuseppe Fioroni. Non sorprende dunque che personaggi come lo scrittore triestino Nicola Pressburger decida di scendere in campo con Di Pietro, perché “è l’unico che fa opposizione”. Curiosissimo oppositore, un oppositore al regime che tre volte al dì, mattina, pomeriggio e sera è ospitato nelle trasmissioni del regime, e ha la possibilità di esprimersi, di “mostrarsi”, di farsi conoscere. Possibile che Pressburger e i tanti come lui non si interroghino, non si facciano alcuna domanda, riguardo a questa anomalia?



C’è un detto, in Sicilia: prima si chiacchiera qualcuno, poi lo si rimprovera di essere chiacchierato. E’ quello che – complice attivo il PD – è accaduto con Marco Pannella e i radicali. Prima li si è screditati, sfregiati, caricaturizzati; poi li si rimprovera per quello che sembra siano: come se non siano loro ad aver lavorato perché quella “rappresentazione” e non altra, risulti quella vera, autentica. Le questioni che sono state poste in tutti questi mesi, sono state ignorate, una infastidita scrollata di spalle. Che il PD, salvo rarissime eccezioni, si accodi silente e compiaciuto, prima a Bettini, poi a Fioroni, è il segno del livello in cui questo partito è precipitato. Al diluvio che presumibilmente saranno, i radicali hanno la forza e le risorse per opporsi, e in quest’ottica già ci si organizza. Il PD ne uscirà frantumato, e anche per questo cresceranno le nostre responsabilità e fatica.



A proposito di Di Pietro è interessante annotare quello che dice Pino Pisicchio, che viene presentato come “l’ideologo dell’Italia dei Valori”. Pisicchio è preoccupato, e al “Corriere della Sera” confida il timore che si stiano costruendo liste “in modo molto caratterizzato…Non so: l’ex magistrato De Magistris…uno molto schierato quasi al limite; mi chiedo: pagherà questo tipologia di candidature?”.



Vedremo; che tuttavia De Magistris lasci perplesso Pisicchio è un punto a favore dell’ex magistrato, del quale abbiamo letto la lunga intervista collettiva che ha rilasciato qualche giorno fa al “Tempo”. A un certo punto a De Magistris viene chiesto se sia a favore o contro la separazione delle carriere del magistrato. Ecco la risposta:



“Sono convinto che in una democrazia compiuta, la separazione delle carriere non sia un tabù. Anzi, dovrà essere un traguardo al quale bisogna arrivare. Ma dopo quello ci dovrà anche essere la discrezionalità dell’azione penale e l’indicazione dei reati da perseguire. Si ovvierebbe così al fatto che il magistrato dipenda dalla politica”.



Piccola cosa? Forse, ma quanto basta per farci pensare che non ha torto Pisicchio a essere perplesso nei confronti di De Magistris; ed è possibile, anzi probabile, che proprio da De Magistris possa giungere qualche piacevole sorpresa.

Burton Morris
22-04-09, 02:25
Liberali e radicali, oggi (*)

di Angiolo Bandinelli

Non è vero - come taluni lamentano - che la pubblicistica o la storiografia ignorino le vicende, la cultura, le personalità del liberalismo italiano postbellico. C’è anzi, per quelle vicende e quelle personalità, un interesse non banale, perfino superiore al peso politico da loro esercitato - se se ne esclude l’irripetibile immediato dopoguerra, quando figure come Benedetto Croce o, per limitarci, Luigi Einaudi, sembrarono aprire orizzonti nuovi al vecchio partito. Un qualche richiamo al liberalismo si intrufola anche nell’attualità, con quella patetica evocazione di un impossibile “partito liberale di massa”. Comunque sia, a tener viva l’attenzione sul Partito Liberale Italiano e i suoi dintorni ci pensa, orgogliosamente, un “Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale” nato sulla scia di un convegno svoltosi presso l’Università di Siena nel 2004 e che a sua volta ha promosso stimolanti, analoghe iniziative. La prima fu, nell’ottobre 2006, un secondo incontro senese su “I liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica” i cui materiali confluiscono ora - sotto lo stesso titolo - in una bella antologia curata da Fabio Grassi Orsini e Gerardo Nicolosi (Rubbettino, 2008, 36 euro): oltre ottocento pagine per una trentina di interventi, di vario peso ma tutti di grande utilità.



Si va da un colpo d’occhio sulla presenza dei liberali nell’antifascismo e nella Resistenza a ricerche sulla loro “organizzazione e diffusione territoriale” tra il ’44 e il ‘46, sulla stampa liberale “dal crollo del fascismo al 1948”, sulla “destra liberale” di Falcone Lucifero, sui “Liberali Indipendenti”, sulla classe politica, la cultura e le istituzioni (“I liberali alla Consulta e alla Costituente”, “La Costituzione repubblicana e la tradizione liberale”), ecc., per concludere con una carrellata su alcune figure eminenti (Giovanni Amendola, Alberto Bergamini, Novello Papafava, Mario Pannunzio, Eugenio Artom, Gaetano Martino, Guido Calogero, Giovanni Malagodi) e puntuali considerazioni sui rapporti tra liberali, socialisti e monarchici. Insomma, una sorta di repertorio enciclopedico, che verrà presto completato da un secondo volume con gli interventi (se abbiamo ben capito) di due analoghi convegni svoltisi a Padova e a Napoli nel 2007.



L’opera è, sul piano storiografico, uno strumento indispensabile. Qualche riserva (da verificare, ovviamente, sulla scorta del secondo volume) resta sull’impostazione e gli obiettivi, se non addirittura le sue aspirazioni più o meno esplicite. Nelle loro sfaccettature, i saggi tendono a restituire ai liberali un posto di rilievo almeno ideale nella storia italiana contemporanea: attorno alle vicende propriamente partitiche vengono fatti confluire figure e momenti che appartengono ad altri filoni: in questo volume compare il liberalsocialista Calogero, nel secondo si parlerà del “radicale” F.Saverio Nitti, del Partito d’Azione o anche dei Demolaburisti (manca, ahimè, qualche eretico tipo Panfilo Gentile). Eppure, scorrendo queste pagine, resta l’impressione di aggirarci dentro una landa arida, fertile solo di ambizioni e di propositi destinati a sfiorire per non più risorgere. Non vi appare alcuno spunto sull’avvenire, nessuna prospettiva. Denunciando e rammaricandosi per la “sconfitta politica” dei liberali nel secondo dopoguerra, Luigi Compagna si attarda su vecchie e scontate situazioni, non apre alcuna finestra. La vicenda politica di Mario Pannunzio viene fatta concludere con il convegno del 1951 che vide i dissidenti della “sinistra liberale”, di cui Pannunzio faceva parte, rientrare nel PLI. E poi? Silenzio sul percorso che portò Pannunzio a promuovere, quattro anni dopo, la nascita del partito radicale. Di questo partito, ci pare, nel volume c’è solo qualche traccia in nota. Come se la sua nascita non fosse stata concepita come naturale e doveroso approdo della esperienza liberale, già consumata - per esplicita ammissione di non pochi - in epoca prefascista. La scelta di Pannunzio e di quanti con lui (Ernesto Rossi, esemplarmente) lavorarono alla nascita del nuovo partito era l’ultimo passo di una consapevole evoluzione che meritava qualche rispetto, magari solo sul piano storiografico. Come l’avrebbe meritata (parliamo non per mera passione militante) l’ulteriore evoluzione – o inveramento storico? - della cultura liberale nel radicalismo di Marco Pannella, innestato con segmenti libertari schietti figli della civiltà del diritto americana e rivelatisi determinanti per vittorie e conquiste civili proprie del liberalismo, nel suo ultimativo significato di movimento liberatorio dell’individuo e delle istituzioni democratiche. Ci pare quanto meno una ipotesi da verificare, magari con un bel convegno.

NOTE

(*) dal “Foglio”

Burton Morris
22-04-09, 02:25
La “Casta” colpisce ancora. Il caso degli appartamenti Enasarco su cui – non a caso – nessuno fiata
E il ministro del Lavoro non vede, non sente, non parla

di N.R.

“Affari in vista per i tanti politici e sindacalisti che hanno la fortuna di essere inquilini dell’Enasarco. L’ente previdenziale degli agenti di commercio sta per vendere il suo patrimonio immobiliare”, scrive Marco Lillo su “L’Espresso”. Sembra che siano partite le gare per individuare gli advisor e molti dirigenti, a partire dal presidente, poco prima della vendita hanno ottenuto per i loro familiari appartamenti in zone di pregio che potranno ora compare a prezzo stracciato”. Osserva il giornalista: “La politica dovrebbe controllare su queste dismissioni, eppure nessuno fiata”. La ragione è semplice: “Sono troppi i politici inquilini, a destra come a sinistra…”.



Vediamo. Viene segnalato per esempio il caso del ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito, definito “istruttivo”: si ricorda come il 26 settembre del 1995, quando infuriava “Affittopoli”, sia intervenuto alla Camera dei Deputati: “Bisogna mettere a reddito il patrimonio immobiliare affittando a prezzo di mercato gli appartamenti in zone di pregio e superiori ai 100 metri”; aggiungendo che occorrevano “norme punitive per gli enti che non mettono a frutto il loro patrimonio”. Quindici anni dopo, sottolinea “l’Espresso”, Vito è inquilino dell’Enasarco, 1400 euro mensili per un appartamento di 120 metri quadrati zona Farnesina. Anche il ministro Vito, se lo vorrà, potrà acquistare l’appartamento a un prezzo che dovrebbe essere dimezzato rispetto a quelli di mercato.



Un altro moralista è il leghista Roberto Castelli: “l’Espresso” rivela che paga 700 euro al mese per 97 metri quadrati in un terzo piano a Monteverde vecchio. “L’ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia potrà acquistare un attico di 190 metri quadri sulla Nomentana…spulciando gli elenchi in zona Ardeatina, troviamo insieme ad alcuni dirigenti, come il direttore generale dell’ente, anche un paio di personaggi noti alle cronache, come l’ex 007 Pio Pompa e l’ex patron del Perugia calcio Luciano Gaucci. Nel verde di uno dei quartieri più belli di Roma, Delle Vittorie, ci sono invece il figlio del segretario della CISL Bonanni e il senatore del PD Benedetto Adragna. Tra pochi mesi politici e vip potranno comprare, assieme agli altri inquilini, ad un importo vantaggioso. Avranno diritto allo scontro del 37 per cento su un prezzo di partenza più basso di quello di mercato…”.



Si ricordano anche precedenti che sono indicativi: “l’ex ministro Giuseppe Fioroni del PD ha comperato per 94mila euro un appartamento di 3,4 vani catastali quando l’Enasarco nel 2003 ha venduto il complesso di Tomba di Nerone, sulla Cassia, offrendo un antipasto della grande abbuffata immobiliare. Meno del 5 per cento delle case sono affittate agli agenti di commercio mentre decine di appartamenti sono finiti a politici, magistrati e soprattutto sindacalisti, protagonisti di tutte le “affittopoli” perché gli enti previdenziali sono controllati dai rappresentanti dei lavoratori.



Val la pena di segnalare una “perla” dell’articolo: “Il ministero del Lavoro dovrebbe vigilare, ma non risultano interventi dell’attuale ministro né del precedente Cesare Damiano. Anzi. Il portavoce dell’ex ministro Damiano Cosimo Torlo il 1 maggio del 2008 ha avuto un appartamento all’Aurelio. Come era accaduto un anno prima alla segretaria dell’ex ministro Barbara Ronchetti. Assegnazioni allo staff dei politici, assegnazioni ai vertici dell’ente, tutto nel silenzio. E così le mogli del capo del servizio immobiliare dell’Enasarco, Carmelo Francot, e di un dirigente del servizio Sandro Tibaldeschi hanno potuto affittare nel 2008 due appartamenti dell’ente senza che nessuno sollevasse la minima obiezione…”.



Politici, sindacalisti, manager, riassume “l’Espresso”, che titola: “Prendo casa con lo sconto”. Nello sterminato elenco di politici, sindacalisti, manager, di amici e mogli e parenti, manca, al solito, qualcuno. Nessun radicale acquista o affitta a prezzi di favore né dall’Enasarco né da altri enti. Significherà pur qualcosa…

Burton Morris
22-04-09, 02:25
Durban 2, le minacce di Ahmadinejad, l’impotenza dell’Occidente

di Valter Vecellio

Solo un ingenuo si può sorprendere per l’intervento del dittatore iraniano Mahmoud Ahmadinejad alla conferenza sul razzismo delle Nazioni Unite a Ginevra. Piuttosto, sarebbe stato sorprendente, avrebbe costituito “notizia”, il contrario: che Ahmadinejad cioè non avesse detto quello che ha detto, qualificando Israele “governo razzista” nel cuore del Medio Oriente insediato dopo il 1945.



Nessuna sorpresa, dunque; e reazione scontata, per quanto opportuna: i delegati dell’Unione Europea presenti che lasciano la conferenza, già disertata da molte delegazioni occidentali (oltre a Israele, Canada, Stati Uniti, Italia, Svezia, Germania, Olanda ed Australia); il presidente francese Nicolas Sarkozy che chiede all'Unione europea di reagire con “estrema fermezza”; il segretario dell’ONU Ban Ki-moon, che ripete la sua condanna per quanti negano l’Olocausto. Peccato solo che poco prima avesse ricevuto a colloquio lo stesso Ahmadinejad, e avesse difeso ad oltranza la “conferenza” criticando l’assenza di numerosi paesi.



Il problema non è dunque condannare le parole e i propositi di Ahmadinejad, ci mancherebbe altro! Il punto è: perché l’Occidente continua ad offrire al dittatore iraniano palcoscenici di visibilità e possibilità di veicolare i suoi messaggi? Soprattutto quello che più lascia l’amaro in bocca è che l’Unione Europea non abbia saputo (o voluto?) trovare una posizione comune.



Quello che è accaduto a Ginevra era ampiamente prevedibile e previsto. Ahmadinejad a parte, i testi predisposti per l’appuntamento svizzero sono caratterizzati da un’impostazione di base inaccettabile: Israele equiparato ad un paese razzista anziché a una democrazia, pur con tutti i suoi limiti e difetti. Che il Vaticano si trovi a suo agio in un consesso convocato con simili piattaforme, anche questo non sorprende. La Chiesa dei Ratzinger e dei Bertone, dei Martino e dei Fisichella (e fino a ieri dei Barragan), è quella che è; quella presenza è una coerenza.

A questo punto conviene chiedersi che cosa si cela dietro le intemerate del leader iraniano; e di quale forza dispone per potersi porre con tale virulenza al centro di uno schieramento che è sempre stato politicamente frammentato, nonostante il potente cemento religioso sconosciuto a Occidente. La risposta, oltre a petrolio e risorse energetiche, si chiama “nucleare”: un deterrente che l’Iran sta creandosi passo dopo passo, senza che nel mondo si apprestino efficaci contromisure.

In proposito è istruttiva, almeno nella sua parte descrittiva, la lettura di un recente saggio di Emanuele Ottolenghi, “La bomba iraniana”. Docente universitario a Oxford e a Gerusalemme, Ottolenghi dirige il “Transatlantic Institute”, un think tank con sede a Bruxelles. Il programma nucleare iraniano, sostiene, prosegue al di là delle tranquillizzanti dichiarazioni. Lo scopo più volte enunciato (il potenziamento del nucleare civile), non trova conferme: nessuna delle ipotizzate centrali è stata mai costruita da vent’anni a questa parte mentre l’intero programma è gestito da istituti legati alle forze armate. Al contrario, gli iraniani continuano ad accumulare l'uranio e a incentivare il lavoro sui missili balistici.

Il “dossier Iran” è una delle questioni di politica estera e di sicurezza più importante e strategica oggi sul tappeto. E’ anche tra le più complesse: sono in gioco giganteschi e divergenti interessi economici legati al petrolio all'interno dello schieramento occidentale. Che può fare la comunità internazionale? Certamente molto di più di quanto non abbia fatto sinora, inasprendo le sanzioni, forte della dipendenza di Teheran con l'Europa in fatto di forniture commerciali e tecnologiche. L’Iran di Ahmadinejad forse non è “la” minaccia per la stabilità mondiale come sostiene Ottolenghi, ma certamente è “una” minaccia; una realtà con cui piaccia o no, dovremo fare i conti.

il Gengis
23-04-09, 11:51
Due stelle, una bandiera

di Guido Biancardi

Ho potuto appena intravvedere rappresentato il logo della formazione Bonino/Pannella con cui ci presenteremo alle imminenti elezioni europee. L'ho in mente come composto da due simboli sovrapposti non concentrici in cui, il primo, la lista Emma Bonino, visivamente sembra coprire l'altro, quello della lista Pannella che fa quasi da base o da sfondo, lasciandone scoperta solo una mezzaluna in cui appare il cognome di Marco. All'apparenza sembra che sia stato concepito e poi realizzato con una tecnica da collage che suggerisce “la successione” (dei materiali, ma anche temporale, storica, politica, esistenziale...?) delle sue componenti; ma potrebbe anche essere “letto“, alla Mimmo Rotella, come un “dècollage di manifesti “ nel quale ciò che appare più in vista costituisce per l'artista il “di nuovo prima“ anche se è riportato alla luce per selezione, quasi un'archeologia del futuro, attraverso lo strappo degli altri strati che si erano sovrapposti.



Vi ho vista realizzata al massimo livello, unendo assieme “sovrapposte” le nostre rivendicate caratterizzazioni allo stesso tempo di partito di Governo e di partito anti Regime quell'ambiguità alla quale, come in una ossessione, affido necessariamente, come unica (e pericolosa) chance le speranze di successo della R-esistenza dei Radicali oggetto di una caccia di sterminio.



Speranze di Successo e non di sopravvivenza. Di un successo per di più che per la smisuratezza delle sue prospettive, di promozione e difesa nel mondo delle e della Democrazia contro ogni tirannide e “peste italiana” e dell'affermazione religiosa della libertà nella legalità, può apparire ad alcuni frutto di un'ambizione “eccessiva”.



Contemporaneamente, a Ginevra, con lo sfondo mondiale delle N.U. si celebra la Conferenza contro il razzismo e la xenofobia, chiamata Durban 2 per confondere le idee dei, molti, per cui il richiamo alla prima città che aveva ospitato la prima Conferenza evocava più che altro la marca di un dentifricio un tempo molto reclamizzato.



E dove il Presidente di uno Regime teocratico, alla presenza di un altro stato in veste di Osservatore Speciale, sfruttava l'occasione per bollare di razzista lo Stato di Israele e gli ebrei.

Dov'erano le civiltà occidentali? Dov'era in particolare l'Europa?



Divise, imbarazzate davanti al fronte compatto dei Paesi che reclamano una radicale revisione dei Diritti Umani così come considerati sin dalla loro Dichiarazione istitutiva in quanto retaggio coloniale e frutto di intollerabile sopraffazione culturale. Le “stelle gialle” dell'U.E. erano in parte, giustamente, assenti e per il resto presenti a tentare di dimostrare timidamente, con sapienti uscite e rientri in aula, una inaccettabile compatibilità fra interessi nazionali e principi costitutivi.



La stella di Davide era ancora una volta richiamata anche come emblema di riconoscimento e di discriminazione. Non solamente in campo internazionale , però. In ambito nazionale, in Italia ma non solo, la caccia o la cacciata del diverso o dello straniero ( rom , rumeno , perseguitato profugo africano o semplice migrante ...) “reclama” in modi anche legali sempre più scomposti ed inaccettabili un “segno di identificazione per l'espulsione”.



Ciò che si persegue senza dichiararlo sino in fondo perché sarebbe intollerabile la sua stessa semplice esplicitazione è la eliminazione dell'avversario, a mezzo della cessazione della sua presenza, civile come culturale e fisica, da rendere impossibili. La cancellazione etnica (l'epurazione, la pulizia etnica, il pogrom...) come instrumentum regni, nella riedificazione del principio unico della sovranità assoluta nazionale su base culturale e soprattutto religiosa e contro la conquista di ogni principio di eguaglianza antropologica o civile.



I Radicali vogliono denunciare questa dimensione crescente ed in via di diffusione, di perdita delle garanzie di cittadinanza e del rispetto della legalità come forma di un nuovo Regime in via di costituzione di cui non è ancora possibile riconoscere compiutamente le fattezze, ma solo di intravedere la tragica pericolosità. Non sarà una riedizione del conosciuto. Sarà forse, dio non voglia, addirittura peggio tanto quanto la strumentazione tecnologica ha fornito di potenziamento delle possibilità di offesa reciproca.



Questo Regime in Italia vuole la sparizione, la cancellazione del nostro partito di cui si contesta persino la maggior durata nel panorama della rappresentanza politica in Italia ed italiana in Europa.



La “stella gialla” di identificazione pubblica è già stata apposta su di noi invisibilmente, nella complicità più sorprendente.



Pannella chiede che venga esibita nella comunicazione pubblica” visibilmente”, stimolando la discussione circa l'opportunità del ricorso a questo simbolo estremo. Lui vi si sofferma e discute sull'”esagerazione” o meno dell' analisi , della denunzia, del modo.



C'è una bandiera in cui compaiono in circolo dodici stelle gialle a cinque punte. E' l'emblema, non più aggiornato della U.E. Una di queste stelle non potrebbe essere a sei punte, come quella che spiccava sui cappotti dei deportati ebrei?



Direbbe, accennandolo per alcuni molestamente, gridandolo per altri che l'attendono come conquista di più verità, che Israele è Europa, che dovrebbe farne parte per rendere impossibile persino alla follia di un fanatico pensare a cancellarla dalla faccia della terra con la forza. Ma, soprattutto che quella stella è l'emblema di ogni rifiuto di violenza, e di affermazione della possibilità di soluzione pacifica, di ogni compromesso risolutore attraverso cui la nostra umanità faticosamente cerca di trascinare più avanti di un passo le sue conquiste di civiltà.

Ed inoltre che responsabilità politica è raggiungere risultati e non cercare occasioni di esibizione.



In una campagna elettorale “per l'Europa” è come se le due stelle gialle, come i nomi dei nostri rappresentanti si sovrapponessero, naturalmente ed eloquentemente. E senza esagerazioni.

il Gengis
23-04-09, 11:51
Ripartiamo da Luca Coscioni e da Piergiorgio Welby

di Tommaso Ciacca

Gli anestesisti rianimatori e i medici dell’emergenza vivono in “prima linea” la propria professione ed è chiara la scelta di campo contro il dolore, per “resuscitare” i pazienti dalle situazioni più critiche, per difenderli dalla aggressione chirurgica e dalle patologie acute invalidanti.



Una data storica per la medicina moderna è il 16 ottobre 1846, quando al Massachusetts General Hospital per la prima volta, un uomo affetto da un grosso tumore del collo, Gilbert Abbott, fu sottoposto ad un intervento chirurgico, senza provare alcun dolore, dopo essere stato invitato a respirare dell’etere. Una pietra miliare della storia ippocratica, che per quanto attiene all’ambito rianimatorio ebbe il suo grande sviluppo nella seconda metà del XX secolo con i primi respiratori meccanici. Grandi passi in avanti per la terapia, ma anche nuovi interrogativi che le tecniche invasive a sostegno delle funzioni vitali sempre di più pongono all’attenzione dei cittadini, della comunità scientifica, di giuristi, legislatori e dell’informazione.

Piergiorgio Welby scriveva nel 2005: “In America, il diritto a morire viene tutelato dall’acronimo DNR: Do Not Resuscitate. Mentre i medici e gli specialisti di un pronto soccorso cercano di riportare in vita il paziente gravissimo, qualcuno esplora i suoi documenti: se viene trovato il Living Will Testament, i protocolli di rianimazione vengono sospesi. Follia? Rifiuto del dolore? Cinismo? O, più semplicemente, consapevolezza…”.



Ecco gli anestesisti rianimatori,gli intensivisti, i medici dei 118, ripartono dalle sue parole e si incontrano a Spoleto, giovedì 23 aprile, nell’ambito di un convegno scientifico, per cercare di riflettere insieme a quei politici, giuristi, giornalisti, cittadini che hanno il coraggio di evitare ipocrisie ponendosi radicalmente dalla parte della libertà di scelta, dell’autodeterminazione, della consapevolezza. A Spoleto quindi alle 15 presso il complesso monumentale di S.Ponziano, per una tavola rotonda aperta al pubblico che vedrà tra gli altri la presenza di Maria Antonietta Coscioni, Mario Riccio, Valter Vecellio, Mario Patrono.

il Gengis
23-04-09, 11:51
Carceri-Giustizia. Avanti con la “mossa”!

di Valter Vecellio

Il governo Berlusconi passerà alla storia come il governo degli “annunci”. Ogni giorno si promette qualche cosa, pazienza se poi alle parole segue il nulla o quasi. L’importante è la “mossa”. Solo che anche la “mossa” occorre saperla fare.



Il ministro della Giustizia Angiolino Alfano annuncia il suo piano carceri; così da evitare in futuro che si sia costretti a fare ricorso ad amnistie e indulti. Bene, bravo, bis! E’ l’uovo di Colombo: le carceri scoppiano, in ogni cella sono stipati il doppio o il triplo dei detenuti rispetto alla norma? Non c’è problema: basta costruire nuove carceri, il gioco è fatto.



Vogliono, dunque, costruire nuove carceri; hanno ragione, ne occorrono di nuove perché molte delle esistenti andrebbero rottamate all’istante. Regina Coeli a Roma, per esempio: da quanto tempo si parla di chiuderla? Quanto ci vorrà perché le nuove carceri siano pronte? Un anno, due anni, cinque anni? Nel frattempo? Si suppone che una volta pronto, nel nuovo carcere bisognerà prevedere un certo numero di agenti di polizia penitenziaria e altri addetti. Ma dove reperire questo nuovo personale se già ora molte carceri funzionano a scartamento ridotto, nel senso che ci sono interi padiglioni chiusi perché non ci sono agenti di polizia penitenziaria sufficienti?



Più carceri è la risposta del Governo e del ministro della Giustizia per evitare amnistie e indulti. L’indulto anni fa venne varato dal Parlamento per decongestionare le carceri italiane. Dopo l’indulto doveva seguire una politica per favorire il reinserimento dei detenuti che avevano beneficiato del provvedimento. Non è stato fatto nulla, ovviamente il problema si è puntualmente riproposto dopo pochi mesi. L’indulto andava accompagnato a un provvedimento di amnistia che però non c’è stato. Dunque non si capisce, in questo caso, cosa intenda evitare, il ministro Alfano.



Se l’indulto ha decongestionato la situazione delle carceri, l’amnistia avrebbe sgomberato le scrivanie dei magistrati. L’amnistia non c’è stata, così i magistrati – sommersi da centinaia di fascicoli – sono costretti a occup arsi di processi sapendo perfettamente che è inutile, perché tanto quei procedimenti e quei processi sono destinati ad andare alla malora per prescrizione. Al punto che la procura di Torino, pragmaticamente, decise che a certi processi non avrebbe neppure messo mano, per non perdere tempo e dedicarsi invece a quei processi che, realisticamente, potevano andare in porto. C’è, in proposito una circolare significativa del procuratore Marcello Maddalena, ed è quello che accade un po’ in tutte le procure: amnistia strisciante e quotidiana da una parte; discrezionalità dell’azione penale di fatto, dall’altro.

A Napoli per esempio in occasione dell’apertura dell’Anno Giudiziario è stato lanciato l’allarme prescrizione: cancellati 32mila reati, poco più di 89 al giorno sabato e domenica compreso Napoli è in testa alla classifica dei reati prescritti, ma non è che altrove le cose vadano meglio, se è vero che in Italia i processi sono (sempre dati ufficiali, più lenti che in Angola. Secondo i dati forniti dal Doing Business della Banca Mondiale siamo, per esempio, al 156 posto nel recupero crediti con 1.210 giorni, e solo nel 2008 sono stati spesi oltre 32 milioni di indennizzi.



Le nuove carceri, evidentemente, non risolvono il problema. Però si è fatto il gesto, la “mossa”. Faranno poco e faranno male, come quasi sempre accade. Bisognerebbe piuttosto puntare sulle misure detentive alternative; e limitare al massimo i casi di carcerazione preventiva o in attesa che il giudizio sia completato. Invece di mortificarla, una legge di grande civiltà come la Gozzini, andrebbe ulteriormente valorizzata. Ma è un discorso di civiltà, e non afferra alla pancia dell’elettore, non ne vellica gli istinti di più belluini. Un discorso che evidentemente non è compatibile con questo governo e con questa maggioranza. Avanti, dunque, con la “mossa”!

il Gengis
23-04-09, 11:51
Satyagraha 2009: sciopero della fame dei radicali per il diritto di voto dei disabili intrasportabili. Il presidente Berlusconi rispetti la parola data

Roma, 21 aprile 2009

Nell’ambito del Satyagraha 2009 che ha preso il via con la documentazione che sta per essere ultimata “per la verità storica sulla scomparsa dello stato di diritto e della democrazia in Italia”, Rita Bernardini (deputata Radicali/PD), Rocco Berardo e José De Falco (rispettivamente Tesoriere e membro della Giunta dell’Associazione Luca Coscioni), Claudia Sterzi (Segretaria dell’Associazione Radicale Antiproibizionista) e Michele Rana (Comitato Nazionale di Radicali Italiani), hanno iniziato dalla mezzanotte di ieri uno sciopero della fame affinché il Governo si faccia carico finalmente di garantire il diritto di voto a domicilio ai malati intrasportabili in vista dei prossimi appuntamenti elettorali e referendari. L’iniziativa nonviolenta è fatta in nome di Luca Coscioni e Piergiorgio Welby, che sono morti senza aver visto approvata la legge per la quale si sono tanto battuti, e di Severino Mingroni, che sta lottando ancora e che in occasione delle elezioni politiche dello scorso anno aveva scritto al Presidente Napolitano: «Benché io sia un disabile gravissimo, sono considerato trasportabile, ma io vorrei votare a casa. Quindi, alle politiche del 13-14 aprile prossimi non voterò al seggio ». Severino è completamente immobilizzato e riesce a comunicare e a scrivere nel suo blog grazie a ridottissimi movimenti degli occhi attraverso i quali digita delle lettere su una tastiera virtuale.



Dichiarazione di Rita Bernardini:



La proposta di legge che porta la mia prima firma (N.907) è stata presentata l’8 maggio dello scorso anno con le firme di deputati appartenenti a tutti i gruppi parlamentari ed è stata assegnata alla Commissione Affari Costituzionali.



Il disegno di legge prevede di consentire anche in Italia, l’esercizio del diritto di voto a migliaia di cittadini italiani che ne sono privi – unico caso in Europa - solo perché impossibilitati a recarsi al seggio elettorale a causa gravi infermità e invalidità.



Tuttavia, come è avvenuto in passato, anche in questi mesi e settimane, invocate “difficoltà tecniche” rischiano di impedire a tante persone disabili gravissime di poter votare alle prossime elezioni, in spregio dell’articolo 48, quarto comma, della nostra Costituzione, che recita: « Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge »..



Per queste ragioni, per il rispetto del principio costituzionale di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, iniziamo uno sciopero della fame di dialogo, con il quale ci rivolgiamo al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e al Ministro degli Interni Roberto Maroni, affinché provvedano al più presto, e comunque entro tempi utili a questo punto assicurati solo da un decreto legge, a superare le “difficoltà tecniche” che, se non fossero risolte, dimostrerebbero solo incapacità visto che a dicembre del 2008 il Presidente Berlusconi aveva fatto sapere, proprio a Severino Mingroni “che la proposta di legge presentata dall’on.le Rita Bernardini sarà seguita con il massimo impegno in tutte le fasi dell’iter parlamentare” e che “Il Presidente Berlusconi conosce il problema e desidera che venga risolto con priorità”.



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UFFICIO DEL PRESIDENTE



Prot. N" 15412 – 22 dicembre 2008



Gentile Consigliere Mingroni,



rispondo alla Sua cortese lettera, con la quale ha voluto sottoporre all’attenzione del Presidente del Consiglio la questione relativa al voto domiciliare degli elettori disabili.

Al riguardo, desidero rassicurarla che la proposta di legge presentata dall’on.le Rita Bernardini sarà seguita con il massimo impegno in tutte le fasi dell’iter parlamentare. Il Presidente Berlusconi conosce il problema e desidera che venga risolto con priorità. Siamo a conoscenza delle enormi difficoltà che affronta ogni qualvolta desidera esercitare il Suo diritto e non per ultimo quelle sopportate in occasione delle regionali in Abruzzo. E’ pertanto necessario velocizzare ogni decisione nel merito e far sì che una norma del nostro ordinamento faciliti per tutte le persone diversamente abili l’esercizio del voto. L’impegno di questa maggioranza non verrà meno.



Cordiali saluti e buon anno



On. Valentino Valentini



Dott. Severino Mingroni

Consigliere Generale

Associazione Luca Coscioni

Via di Torre Argentina, 76

00186 ROMA (RM)

Burton Morris
24-04-09, 20:23
Memorandum. Ironia della sorte: il Governo a lezione di liberismo dalla ex Emilia rossa

di Piero Capone

Come noto il pensiero leghista non si può dire che possa essere accusato di eccesso di liberismo. Inteso questo come libero mercato, quindi nel senso originario di libero scambismo. La libertà di commercio, l’avversione per ogni tipo di chiusura protezionista, alla base dei risultati più straordinari del “mercato comune europeo”, normalmente non sono molto graditi al partito di Bossi. Spesso, per non essere troppo esposti, fanno buon viso a cattivo gioco, ma si capisce che se potessero, ergerebbero nuovamente le mura intorno al “castello”, se non padano, almeno italiano. E fin qui niente di nuovo.



Incuriosisce invece la “bacchettatura” che si è preso il Ministro Zaia per “troppo protezionismo” dalla Regione Emilia Romagna, nella persona dell’ assessore all’agricoltura Tiberio Rabboni. Responsabile di un settore economico di grande rilevanza, anche per il suo forte peso nazionale, l’assessore Rabboni, con un passato di importante dirigente bolognese del vecchio PCI, presentando le attività di ricerca sostenute dalla Regione, ha chiaramente sostenuto che “contro la concorrenza estera non servono i dazi”, come vorrebbe il Ministro Zaia, bensì tutto il contrario: maggiore internazionalizzazione, più innovazione, più ricerca.



Giustamente, come diciamo noi radicali, la sfida dei mercati deve avvenire non chiudendosi – e non permettendo così le chiusure altrui – ma “valorizzando” le nostre produzioni, in termini di qualità.



Per far questo occorre la mobilitazione di risorse e di strutture (Università, centri di ricerca, ecc) per fornire alle imprese le competenze e le conoscenze necessarie per perseguire quell’obiettivo.



Come si vede, grandi sono le contraddizioni e le opportunità italiane: anche quelle di condividere approcci “liberisti” con “amministratori” del PD di antiche radici comuniste.

Radici ovviamente temperate dal tradizionale “rito emiliano”.

Burton Morris
24-04-09, 20:23
Con Montanelli ed Englaro

di Federico Orlando

In occasione del centenario dalla nascita di Indro Montanelli, Federico Orlando che fu con lui al “Giornale” e alla “Voce”, ha scritto per “Articolo 21” un editoriale di cui riportiamo ampi stralci.

…Se fosse rimasto ancora in vita, Montanelli sarebbe stato con “Articolo 21”, cui con Beppe Giulietti, Tommaso Fulfaro e altri amici anche giovani e giovanissimi fondammo proprio nelle ore in cui il nostro maestro se ne andava. Avrebbe continuato a combattere, se vivente, un avversario del quale aveva ormai timore: “Ho visto tante brutte Italie nella mia lunghissima vita – disse a Laura Laurenzi per la “Repubblica” il 26 marzo 2001, alla vigilia del voto: quella della marcia su Roma becera e violenta ma animata forse anche da belle speranze; quella del 25 luglio, quella del’8 settembre e anche quella di piazzale Loreto animata dalla voglia di vendetta. Però la volgarità, la bassezza di questa Italia qui non l’avevo vista né sentita mai. Il berlusconismo è veramente la feccia che risale il pozzo”.

Ce ne vengono conferme in questi giorni, più che da nuove minacce bulgare a giornalisti e a trasmissioni Rai, da attacchi al capo dello stato che osa svolgere ancora la sua funzione di garanzia; alla corte costituzionale che osa giudicare le leggi votate dal parlamento (come se non esistesse proprio per questo); ai pubblici ministeri nati col gusto di far male, come i delinquenti; all’intera funzione giudiziaria che sta lì ad intralciare: e oggi intralcerebbe la ricostruzione delle aree terremotate con la sua pretesa di accertare se appaltatori, ingegneri, direttori di lavori, amministratori locali, hanno fatto il loro dovere o, col loro lassismo, hanno creato le premesse di un disastro che ha ucciso 300 vite. L’indice di gradimento degli italiani per il premier super legem aumenta – dice Mannahimer – quasi a conferma della montanelliana “feccia che risale il pozzo”: dateci la società senza leggi, senza tasse, senza regole, senza controlli, senza proibizioni, riservando queste ultime a Eluana Englaro per compiacere altri poteri altrettanto sprofondati nel pozzo dell’oscurantismo.

Noi stasera consegniamo a Beppino Englaro la litografia della colomba trafitta dagli strali, il nostro modesto attestato di informatori dell’opinione pubblica: attestato di “cittadino esemplare” dell’anno, per aver voluto, nell’Italia del Sultano a cui Sartori e Pannella hanno appena dedicato o stanno per dedicare due analisi che dovete conoscere e meditare, per aver voluto in questo sultanato, dicevo, rispettare la legge fino all’ultimo, lungo un calvario di 17 anni, piuttosto che piegarsi al comune senso italiano dell’immoralità: quello che avrebbe consigliato anche ai genitori di Eluana di fare come si fa in Italia già dall’antico: “Le leggi son, ma chi pon mano ad elle?”.

Montanelli sarebbe stato, in questo spirito, vicino alla famiglia Englaro, come noi, ma con ben altro peso morale in quella parte di italiani che all’etica della legalità credono ancora. Non ancora plagiati dagli Idoli delle gerarchie politiche e religiose, di nuovo convergenti in Italia come nella provvidenziale dittatura fascista.

Mi permetto di dire questo non solo per il ben noto laicismo del maestro, per la sua ben nota e ripetuta affermazione che la Chiesa deve fare il suo lavoro ma lo Stato deve garantire a cittadini di ogni confessione o di nessuna confessione l’eguaglianza di fronte a una legge neutrale e non già derivata da principi di una di quelle confessioni. Mi permetto di dirlo perché questa sua fiducia nella Legge super partes faceva parte del patrimonio della sua teoria politica, di uomo – come si autodefiniva – della Destra Storica (la destra storica del risorgimento, forse da lui mitizzata perché questo povero paese potesse avere una pagina di riandare orgoglioso) ; e perché il suo stesso antiberlusconismo era, in definitiva, lotta alla cultura dell’illegalità, della sacrestia, del tutto s’aggiusta in privato, del condono, dell’amnesia, non certo lotta alla cultura del fare, ce egli amava ance come milanese d’adozione.

Lo Stato della legge è lo Stato di diritto, che è l’antitesi perfetta dello Stato etico. Etico era lo stato totalitario, lo stato gentiliano, che è una chiesa senza paramenti, ma coi suoi dogmi e con le sue divise d, naturalmente, coi suoi tribunali speciali dell’inquisizione. Oggi Sartori di spiega che al califfato etico stiamo arrivando senza marce su Roma e colpi di stato, per un verso svuotando le istituzioni della democrazia e lasciandole come gusci vuoti, occupati da un potere senz’altra regola che il potere stesso; per un altro verso dando ai comportamenti del nuovo potere verniciature pseudoetiche compensate dalle benedizioni. Trono e altare, si diceva una volta. Oggi aggiungerei la sharia.

Indichiamo ai giovani colleghi come esemplare la figura del signor Englaro, come ieri quella di Montanelli. A entrambi, credo lo consenta il signor Englaro, si addice il consiglio ai giovani che Montanelli ripeteva: “Combattete per quello in cui credete. Perderete, come le ho perse io tutte le battaglie. Ma una potete vincerne, quella che s’ingaggia ogni mattina con se stessi davanti allo specchio”.

Io sono meno legato ai ruoli un po’ estremi, e ai giovani colleghi dico che, se si combattono le battaglie per le cose in cui si crede, e le si perde, non è vero che la situazione resti così come sarebbe stata senza aver combattuto: la situazione cambia profondamente, in rapporto ai contenuti della battaglia che voi avete perso ma che la società ha assorbito, come la terra assorbe la pioggia e se ne nutre. “E’ nel sonno della pubblica coscienza – ripeteva Montanelli da Tocqueville – che maturano le tirannidi”. Noi aggiungiamo la modesta osservazione che se quel sonno è impedito dai nostri comportamenti, dai comportamenti alla Englaro, la tirannide non matura.

Burton Morris
24-04-09, 20:23
Satyagraha 2009. La forza della verità e della nonviolenza per gridare: “Piena attuazione all’articolo 48 della Costituzione e rispetto della parola data !”

di Michele Rana

Se non si provvederà subito questo, necessariamente, costituirà un altro paragrafo del libro sulla peste italiana. E’ necessario, però, riassumere le tappe di quest’altra incredibile, se non si fosse in Italia, vicenda.



Grazie alle battaglie radicali di Luca Coscioni e Piero Welby all’inizio del 2006 l’allora Ministro dell’Interno, Giuseppe Pisanu, si rese promotore di un decreto legge, successivamente convertito (Legge n. 22 del Gennaio 2006), avente l’obiettivo di facilitare, che in questi casi vuol dire letteralmente rendere possibile, il voto presso il proprio domicilio dei malati intrasportabili “dipendenti in modo continuativo e vitale da apparecchiature elettromedicali”.



E i malati non dipendenti in modo continuativo e vitale da tale apparecchiature ma comunque intrasportabili? Ne rimanevano e, purtroppo, tuttora ne rimangono irragionevolmente esclusi.



Severino Mingroni, dirigente nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, disabile gravissimo e completamente immobilizzato riesce a comunicare e a scrivere solo attraverso i ridottissimi movimenti degli occhi tramite la sua tastiera virtuale è uno tra questi malati che vorrebbe esercitare quel diritto al voto, previsto dalla Costituzione all’articolo 48, ma ne è impedito nel concreto esercizio dalla, irragionevolmente restrittiva, legislazione vigente.

Vengono interessati il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il nuovo Ministro dell’Interno, Giuliano Amato ed in particolare il primo si manifesta angosciato di fronte alla testimonianza di Severino Mingroni e della sua impossibilità concreta a recarsi al seggio.



Ai radicali, ai dirigenti e i militanti dell’Associazione Luca Coscioni si associano, immediatamente, anche altri deputati, come l’On. Ileana Argentin del Partito Democratico, proprio alla vigilia dell’ultima consultazione elettorale nazionale del 2008, ma l’impegno non serve a produrre una modifica della legislazione precedente.



Si avvia la legislatura in corso e per prima iniziativa della deputata radicale Rita Bernardini viene presentato, l’8 maggio del 2008, un progetto di legge (il n. 907) volto a colmare la lacuna che per taluni cittadini italiani impedisce l’esercizio del diritto di voto, impedisce la piena legalità costituzionale, nell’occasione delle consultazioni politiche, referendarie ed amministrative. Il progetto di legge trova sostegni, come dire, trasversali e vi si aggiungono, infatti, le firme di più di 30 deputati tra cui spiccano i nomi di Buttiglione, Casini, Franceschini, Lehner, La Loggia, Pisicchio, Pistelli, Sposetti e della stessa Argentin.



Sarebbe la premessa di un buon viatico come lascia, ragionevolmente, ben sperare la parola, anche l’impegno pronunciato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri che nel dicembre dello scorso anno così letteralmente si esprime: “la proposta di legge presentata dall’on.le Rita Bernardini sarà seguita con il massimo impegno in tutte le fasi dell’iter parlamentare” e che “Il Presidente Berlusconi conosce il problema e desidera che venga risolto con priorità”





Ad un anno dalla presentazione, a cinque mesi dalla parola data dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, quel progetto di legge - che garantirebbe, per tutta una serie di persone svantaggiate che non hanno voce, la piena applicazione dell’articolo 48 della Costituzione - dopo aver ricevuto pareri positivi in Commissione Giustizia e in quella Affari Sociali, sta invece incontrando difficoltà, compresa una incomprensibile lentezza nella discussione in Commissione Bilancio e Tesoro e in quella Affari Costituzionali, ove dal dicembre 2008 non vengono calendarizzate più di due sessioni al mese.



Una lentezza insopportabile per i diritti dei disabili come Severino Mingroni, una lentezza che temiamo, stante i ristretti margini di tempo dell’avvio della macchina elettorale, porti questi malati intrasportabili a scegliere – loro malgrado - per il non voto anche alle prossime Europee, per il prossimo referendum (semmai non venga rinviato).



Un’altra lesione alla Costituzione Repubblicana che non si può supinamente accettare: c’era il tempo per fare di più e meglio; riteniamo che ci sia ancora ove solo si voglia.

Per questo, con la amorevolezza e la determinazione della pratica della nonviolenza, abbiamo avviato l’ennesimo sciopero della fame affinché il Governo si faccia carico finalmente di garantire il diritto di voto a domicilio ai malati intrasportabili, così come avviene naturalmente – a differenza del nostro – in tutti i paesi europei e non a democrazia consolidata.

Burton Morris
24-04-09, 20:23
La stella gialla, una vignetta di Vincino, i rischi di banalizzazione e caricaturizzazione

di Valter Vecellio

Vincino, con i suoi raffinatissimi ghirigori e “scarabocchi”, è oggi forse il più bravo vignettista su piazza. Prolifico, dovrebbe forse dosarsi di più. Non sempre la quantità premia, e può capitare di scadere nell’ovvio, nello scontato, cosa che un vignettista dovrebbe cercare di evitare come la peste. Ieri per esempio, sul “Foglio”, ha pubblicato una vignetta che ha per protagonista Marco Pannella, effigiato mentre si sistema una stella di Davide in mezzo alle gambe. Nel caso non fosse chiaro, si legge: “Pannella metterà la stella gialla! Dove?”. Segue poi quella che evidentemente è da ritenere l’opinione di Vincino: “Il peggior negazionista della storia contemporanea Marco Pannella che così facendo disprezza radicali e ebrei”. E’ una vignetta, ma c’è poco o niente da ridere.



Dunque: per Vincino, Pannella è “il peggior negazionista della storia contemporanea”. Chissà quali sono le “negazioni” cui allude Vincino; e quali saranno le “affermazioni” che al contrario bisognerebbe fare? Soprattutto: chi glielo avrà mai detto a Vincino che Pannella disprezza i radicali e gli ebrei? Perché propone a tutti noi di assumere come simbolo la stella gialla? Chi scrive è certamente radicale; e ha anche una certa vicinanza con i “fratelli maggiori, perfidi giudei”. Eppure non si sente minimamente disprezzato da Pannella, né è scandalizzato per quella stella gialla. Vincino è decisamente fuori strada, capita anche a un geniale vignettista. Però segnala un rischio, un problema con il quale dobbiamo fare i conti: quello della banalizzazione, della caricaturizzazione.



Quando Pannella ha proposto di adottare la stella gialla (Marco Cappato l’ha già esibita a “Porta a porta”), c’è chi, anche tra i radicali, non ha nascosto perplessità: il timore, per esempio, di offendere la comunità ebraica; di non essere compresi; di essere accusati di strumentalizzare una tragedia come la shoah. E sarebbe già qualcosa, se queste accuse venissero mosse, esplicitate, se gli offesi e i risentiti levassero le loro proteste: ne sorgerebbe una discussione, un dibattito, e chissà, oltre l’unghia del dito, forse – come qualche volta in passato è accaduto – si potrebbe anche parlare della luna che il dito indica.



Il rischio vero, però, non è che amici e persone a noi care si risentano e protestino; credenti come siamo nella forza del dialogo alla fine, ne siamo certi, si riuscirà a farci capire. No, il problema vero, è la banalizzazione, la caricaturizzazione. La prova è fornita dal “Corriere della Sera”, che – al momento – è l’unico giornale ad essersi accorto della cosa. L’altro giorno ha pubblicato un articoletto a pagina 15: “Metterò la stella gialla. Gli ebrei criticano Pannella”.



Si racconta che i candidati della Lista Bonino-Pannella si presenteranno in TV, ai dibattiti e ai comizi con una stella gialla sul petto, “per protesta contro l’emarginazione-discriminazione da parte dell’informazione”. Si raccolgono poi telegrafiche dichiarazioni di esponenti della comunità, da Yasha Reibman a Riccardo Pacifici, da Fiamma Nirenstein a Emanuele Fiano. Quell’articolo, al di là della volontà dell’autrice, proprio per lo spazio tipografico che si è deciso di dedicare alla questione, non spiega nulla, è incomprensibile per chi non sia un addetto ai lavori. La proposta e la denuncia di Pannella e dei radicali certamente sono opinabili, discutibili; e magari venissero discusse, contestate. Accade invece che tutto sia inghiottito nel frullatore della battuta, del bla-bla, del pio-pio, del bau-bau.



Leonardo Sciascia aveva capito quello che molti faticano a comprendere. In un bell’articolo pubblicato solo dal quotidiano spagnolo “El Pais” scrisse che “Pannella, e le non molte persone che pensano e sentono come lui (e tra le quali mi onoro di stare), si trovano ad assolvere un compito ben gravoso e difficoltoso: ricordare agli immemori l'esistenza del diritto e rivendicare tale esistenza di fronte ai giochi di potere che appunto nel vuoto del diritto, o nel suo stravolgimento, la politica italiana conduce. Si fa quello che si può…Pannella è spesso costretto (lui che, a ben conoscerlo, è uomo di grande eleganza intellettuale) a delle "sorties" che appaiono a volte funambolesche e grossolane. Ma come si fa a vincere quella che si può considerare una congenita insensibilità al diritto degli italiani, se non attraverso la provocazione, l'insulto, lo spettacolo?“.



Prima di lui Arrigo Benedetti aveva ricordato che “i radicali comunque vestano, quale che sia il loro ideale di vita privata, hanno sempre il merito di cogliere in anticipo temi in seguito di interesse nazionale fino ad appassionare le masse. I partiti, ad ogni campagna proposta, si sentono a disagio…Non l’ammettono, ma i giullari hanno colto nel segno. Invasati come sono, sarà bene ascoltarli: la loro inquietudine diventerà presto generale…”.



Si può chiudere con Indro Montanelli, di cui festeggiamo il centenario della nascita: “Se ci sarà un regime – ipotesi che si fa sempre più possibile – all’opposizione di questo regime ci saremo solo noi e Pannella, socio scomodo, ma di tutta affidanza… Anche se chiama la sua gente “compagni”, ricordiamoci che Pannella è figlio nostro, non loro. Un figlio discolo e protervo, un giamburrasca devastatore che dopo aver appiccato il fuoco ai mobili e spicinato il vasellame, è scappato di casa per correre le sue avventure di prateria. Ma in caso di pericolo o di carestia, ve lo vedremo tornare portandosi al seguito mandrie di cavalli e di bufali selvaggi, quali noi non ci sogneremmo mai di catturare e domare...”.



Purtroppo ci sono Sciascia, Pasolini, Benedetti, Montanelli nei nostri orizzonti; nessuno che sappia dire, e non solo parlare; che sappia vedere e non solo guardare…Porta lontano, la riflessione a partire dalla vignetta di Vincino.

Burton Morris
27-04-09, 22:04
“Rotta di collusione” nel destino del PD (da un lapsus di Enrico Mentana ad “Anno Zero “del 23 Aprile)

di Guido Biancardi

Non sarà un ritrovarsi occasionale di sbandati reduci dal fronte della sconfitta, ma un appuntamento, quello che ci vedrà riuniti Radicali, Liberali, Socialisti, Repubblicani...dopo le elezioni. Ma certo non saremo soli. Ci saranno, con “noi della Rosa nel Pugno”, anche degli altri dispersi e più drammaticamente “veri”.



Saranno resti del PD dopo che sarà andato incontro alla, ne sono convinto, più tremenda nemesi politica che lo vedrà coinvolto nella sua breve storia, e finito, credo, con essa.

Si potrebbe già chiamarla (annunziandola, così) “rotta/disfatta di collusione” quella che potrebbe scollare, persino frantumandolo, un partito che avrebbe perseguito proprio una tale rotta nautica di forma originaria collusione con l'altra gamba del monopartitismo, coatto quanto dissimulato, che rappresenta la isolata del virus mutante della “peste italiana”. Sarà stata la rotta nel suo senso di direzione tracciata, consapevole e programmata che è stata invece insinceramente dissimulata con tante accostate e rapidi cambiamenti, in corsa, di presunti navigati skippers che lo avrà condotto al disastro; e perduto. Se ciò si verificherà , senza troppi rimpianti, anzi con un filo di speranza che ciò possa restituire una residua soggettività democratica ancora non del tutto compromessa là dove per troppo tempo e per usura morale sono albergati opportunismo mimetico e spregiudicatezza di petizione e spartizione di potere in nome di referenti inconsapevoli o complici, sarà certo stata, quella, anche una “rotta”, ma nel senso militare, una sconfitta devastante e decisiva.



Chi ha, invece di contribuire a nasconderlo ad allevarlo ed a creargli l'habitat più favorevole, “isolato” l'agente patogeno che mina alla radice il sistema immunitario della Democrazia (non solo italiana) che, da difesa da esse, viene ad essere attaccato dalle proprie istituzioni in quanto non più R-iconosciuta, sono stati i Radicali (non solo Italiani) che da R-esistenti alla macchia hanno portato la denunzia “in piazza”, nell'Agorà politica. Con un “Documento” cui fare un riferimento non fideistico o fanatico. Il valore della parola scritta va di pari passo con la fiducia nonviolenta nell'”altro”, e con il suo rispetto garantito da uno Stato di Diritto democratico.



Raccoglieremo, di tutte le sinistre, i naufraghi di una tempesta perfetta che la crisi internazionale contribuirà a suscitare assieme all'illanguidimento delle coscienze democratiche e la smemoratezza degli avvertimenti che non sono mancati; così, mi era detto con l'ausilio di un'altra immagine.



Oggi è piuttosto la verità del Satyagraha che gonfia allo spasimo le vele dei natanti politici avventuratisi in mare aperto sino a lacerarne di deboli ed insicure, di posticce ed improvvisate, di inadeguate. Il Satyagraha che evoca e mette in campo una forza, della verità, che è da ricercare faticosamente e persino dolorosamente contro quella della confortante e complice ”evidenza mediatica”, e che può mutare i protagonisti selezionandoli non per capacità affabulatoria e potere di influenza ma per la ri-conoscibile corrispondenza fra le loro azione ed i principi che professano. C'è qualcun altro disposto a restituire a questo Satyagraha almeno un poco di voce in più?

Burton Morris
27-04-09, 22:04
Berlusconi non è il peggiore. E’ “solo” il più furbo e fortunato

di Ermanno De Rosa*

Caro direttore

è il 25 aprile, ragazzini e ragazzine in testa che suonano tamburi e marce militari, il corteo sfila davanti a noi. Siamo al tavolo radicale in corso Campi a Cremona. A questo tavolo, su decine di fogli, si accumulano firme per il testamento biologico. Resiste la volontà di cittadini che vogliono rispettata la libertà democratica delle scelte personali. Le stesse parole che allora accompagnarono la liberazione dopo il ventennio della dittature fascista: “Libertà” “Resistenza” “Democrazia”. Ci sorprendiamo a ripeterle con un vago senso di allarme e di rinnovata consapevolezza del loro significato. Come se qualcuno fra noi le stesse dimenticando e ci tentasse a fare altrettanto. Ci accorgiamo della loro tragica fragilità di fronte al loro eterno antagonista: l’autoritarismo del potere. In un tempo lungo tre volte quel ventennio, questo male profondo che isola e neutralizza i cittadini refrattari ad essere sudditi, si è nuovamente diffuso a partire dai centri in cui si era arroccato, corporativi, confessionali, partitocratrici. Ha usato a lungo ed in dosi crescenti le droghe dell’illegalità e della corruzione, nelle istituzioni come nell’informazione, tacitando gli allarmi ed anestetizzando le capacità di reazione del corpo sociale.



Chi oggi coglie i frutti dell’opera dei predecessori, il presidente Berlusconi, non è il peggiore, ma il più furbo e fortunato, usa magistralmente populismo e televisione, calciatori e ballerine, giornalisti e terremotati, ex radicali ed ex magistrati. Se qualcuno si alza a parlare fuori dal coro qualcuno spegne l’audio, o lo manda in onda alle ore piccole. I sondaggi dicono che il popolo italiano tace od acconsente. Si tratta di eutanasia o di terapia del dolore?

NOTE

*segretario dell’Associazione Radicale Cremonese P. Welby

Burton Morris
27-04-09, 22:04
Rispettare la Resistenza*

di Adriano Sofri

Sull’edizione del 25 aprile 2009 di “Repubblica” è stato pubblicato un articolo di Adriano Sofri, dove si parla anche delle recenti iniziative radicali; un articolo che riteniamo utile riproporre tra i commenti e le analisi.

Chi gridò con tutto il fiato dei suoi giovani polmoni «La Resistenza è rossa! Non è democristiana!» oggi sorride di se stesso e della Storia (scriviamolo maiuscolo, è permalosa).
Sorride ascoltando la canzonetta affabile e invitante: «Prego, la Resistenza non è rossa! Può essere anche berlusconiana». Partita chiusa, dunque. Anche per gli ex-neo-fascisti, che
possono decidere, chi per vera comprensione, chi perché noblesse oblige, di unirsi alla festa per così dire dall’alto e in vettura ministeriale. Partita chiusa. Ma allora perché questa inquietudine?


Il 25 aprile è la più bella data del nostro calendario civile, e proprio per questo ogni volta viene
da dire che "quest’anno" il 25 aprile ha un significato speciale. Dunque, quest’anno il 25 aprile ha un sapore speciale. Il fatto è che ci si ricorda insieme di una conclusione e di un inizio. La Liberazione fu la fine di una guerra spaventosa e la promessa di un ricominciamento del mondo. Ma anche perché nella bella entrata gioiosa nelle città liberate si riscattava il momento in cui tanti ragazzi si erano trovati di fronte alla decisione di impegnarsi per qualcosa di più
grande della loro vita. La paura e la nostalgia di quel momento hanno accompagnato a lungo la storia della Repubblica, e hanno spinto anche a errori gravi, come nella parabola di nobiltà e miseria dell’antifascismo militante.


Oggi quella spina di nostalgia e paura si fa sentire più pungente. C’è una mutazione della nostra democrazia, e bisogna trovarle un nome. La via più facile è quella di dare alla cosa nuova nomi vecchi: regime, fascismo, sono lì per questo. Vecchi nomi, vecchi simboli. I radicali, che pure sanno di avere a che fare con qualcosa di inedito, esibiscono nella loro
solitaria campagna una stella gialla. Non evocano la Shoah, ma il futuro ancora in gran parte impregiudicato - che la stella gialla annunciava negli anni ‘30 della Germania hitleriana. Hanno scelto il parallelo con un periodo in cui il cielo si gonfiava prima della tempesta, e il simbolo più
"scandaloso" e allarmante fra tutti. Non è nemmeno alla disinvoltura berlusconista sulla legalità, e al suo grembo inesplorato, che si oppongono, ma a un’intera storia di legalità
mancata dell’Italia repubblicana.

Pannella è arrivato a questo perché pensa che le sue aspirazioni, come al tempo del divorzio e dell’aborto, e ancora del finanziamento dei partiti o della responsabilità civile dei magistrati,
coincidano con quelle della maggioranza del popolo italiano, e che questo sentire comune sia tradito dall’ostracismo riservato ai radicali. Credo che sbagli, perché "gli italiani" pensano cose diverse e volubili, e soprattutto perché non votano per quelle cose (il testamento biologico,
la stessa eutanasia, cui riservano nei sondaggi un netto favore) ma magari "nonostante" quelle cose. Votano Berlusconi, proprio lui-magari nonostante quello che dice. Non voterebbero
Pannella molto di più, non abbastanza comunque, anche se andasse una sera sì e una no, Dio non voglia, a Porta a porta.


Il mago incarica, l’illusionista di richiamo, è Berlusconi, il cui numero è largamente indipendente dal contenuto. Berlusconi a questo punto potrebbe farsi scrivere il discorso pressoché da chiunque, da Pannella o da suor Teresa, e non cambierebbe molto. E questa la chiave, diversissima dal fascismo, anche dalla sua variazione caricaturale, del berlusconismo:
l’indifferenza al contenuto, limitata "solo" (non è poco) dalla protezione propria e dei propri interessi. Per il resto, è una macchina a gettone, o nemmeno. Alla fondazione del Pdl, occasione "storica", ha tenuto relazione di apertura e orazione conclusiva e non ha detto niente. Era superfluo. Ha detto bensì ai giornalisti, nell’intervallo, che era d’accordo con Fini, il quale invece al contenuto aveva dovuto badare. Ed è probabile che lo fosse davvero, col piccolo incidente che era d’accordo anche – così è sempre per lui- coi luogotenenti, quelli che Fini l’avrebbero fischiato secco. Il berlusconismo si arresta davanti a questo unico limite: che è
d’accordo con tutti, ma tutti sono in disaccordo fra loro. Ora Pannella- da un po’, perché il
tempo passa, e si va verso la fine - è esasperato dal mancato riconoscimento. Rischia perfino di dimenticare che la nostra patria si distingue per il ripudio dei propri padri - e madri, e che quel ripudio è il più lusinghiero dei laticlavi. Le stelle gialle sono l’ennesimo rincaro dei bravi radicali. Per giustificarle, bisogna che non il mondo d’oggi, ma l’Italia d’oggi somigli alla Germania del 1938. Ma la suggestione non ha senso, neanche in un gioco di caricature. Berlusconi vuole essere il più votato – all’unanimità, eventualmente - non nelle elezioni,
ma nel Grande Reality. Ci sono in Italia persone il cui impegno civile, e lo stesso svolgimento ordinario di un lavoro, costa già la vita, dove spadroneggiano le mafie. La caricatura cede
già al dramma vero per gli zingari, i romeni, gli annegati dalla sponda africana. Ma anche questo non è ancora, e forse non arriverà a essere, paragonabile all’antisemitismo. Zingari
e romeni e africani possono gonfiare un mercato di riserva di capri espiatori, ma non diventare i Grandi Colpevoli, i Grandi Cospiratori: per quello gli ebrei sono insostituibili devono
somigliarci fino a passare inosservati e insieme soverchiarci diabolicamente per cultura, intelligenza, denaro. Altra storia. Non è un caso che servano ancora al vecchio scopo sulla scala di un mondo che non ne ha mai visto uno.


Al capo opposto dell’intelligenza radicale, simboli tratti dallo stesso sacro magazzino vengono evocati alla leggera. Mi parve che il "Bella ciao" canticchiato da Santoro fosse fuori posto. Sempre per la differenza fra i momenti in cui qualcosa reclama di valere più della nostra stessa vita, e i momenti in cui si difende la propria personale dignità al costo tutt’al più di un avanzamento di carriera. C’è stata la censura contro Vauro: odiosa e stupida, poi presto tramutata in farsa (una settimana di sospensione e una lavata di capo, torni accompagnato...).

Io sono dalla parte di Vauro, perché sì, perché abbiamo appreso che guadagna 1.000 euro lordi (!), perché va in Afghanistan e si affeziona ai bambini afgani. Ma anche perché confido che Vauro non dimentichi nemmeno per un minuto la differenza fra quell’Afghanistan e questa
Italia, fra le donne e le bambine cancellate e violate e lapidate e le veline candidate al Parlamento europeo. Ora, nella vasta ribellione alla censura contro Vauro, ho letto mille volte la famosa frase di Voltaire. Quella che suona più o meno così: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu abbia il diritto di dirlo». Più o meno, non
perché ci sia un problema di traduzione, ma perché - mi dispiace di deludere la moltitudine di persone che hanno scoperto quelle parole – Voltaire non le ha mai scritte né pronunciate.
Furono coniate forse da una studiosa inglese all’inizio del Novecento, come un compendio del pensiero volterriano, sicché nelle loro versioni francesi sono una traduzione dall’inglese...



Filologia a parte, quando leggo le mille ripetizioni di quella frase - per esempio sulla rete,
termometro sensibilissimo dei nostri umori -mi chiedo se mai almeno uno dei suoi ripetitori si sia fermato a interrogarsi sull’impegno che la lettera di quel motto pretende: «Mi batterò fino alla morte». E naturale che sia così, ci sono parole che devono restare esonerate da un ricatto letterale. Devo poter dire che questo gelato al limone è buono da morire, senza che mi rinfacciate di non esserne morto. Però appunto: vengono momenti in cui le parole presentano il conto. Per non sembrarvi capzioso, vi farò un meraviglioso esempio opposto, ancora caldo. Alla fine dell’epocale congresso del Pdl, Berlusconi ha cantato con le sue pupe e i suoi vice
l’inno nazionale, e quando è arrivato al verso: «Siamo pronti alla morte...», ha ammiccato al pubblico (cioè: al popolo) e ha fatto così con la manina per dire: «Pronti, be’ fino a un certo punto. Si fa per dire, no?». Il pubblico, cioè il popolo, deve aver trovato senz’altro simpatico il gesto.



Italiani, brava gente, spiritosa. Tutt’al più con un inno anacronistico, l’elmo di Scipio, stringiamoci a coorte. Gli italiani l’hanno già corretto a proposito, senza nemmeno volere:
Stringiamoci a corte. Ecco fatto. Quanto a quelli che si pongono il problema, deve pur esserci una via dignitosa fra la retorica pseudovolterriana e la manina cattivante di Berlusconi. Anche perché abbiamo imparato del regime fascista, quella invenzione di italiani tipici, è che vengono, "scherzando e ridendo", momenti tragici in cui il fiore di un’intera comunità deve decidere che cosa fare della propria vita. E soprattutto che nella ventina d’anni precedenti, benché si sia stati educati molto più rigidamente al libro Cuore e ai precetti
sull’onore, è successo che, neanche per salvare la pelle, ma appena per andare a occupare la cattedra lasciata improvvisamente vacante da un predecessore di razza giudaica, siamo
stati capacissimi di dimenticare che eravamo così pronti alla morte. Può sempre risuccedere.

NOTE

*Da “Repubblica” 25 aprile 2009

Burton Morris
27-04-09, 22:05
Herbert Pagani, la stella gialla, i radicali

di Valter Vecellio

Bizzarra è la memoria, e ancor più bizzarri sono i suoi percorsi. Qualcuno l’ha paragonata a un bimbo in riva al mare: raccoglie quella conchiglia e non l’altra che è vicina, e nessuno può sapere – neppure il bimbo – perché questa e non quella…



Da quando Marco Pannella ha proposto la “stella gialla” come simbolo, “segno” visivo della discriminazione patita dai radicali e dai cittadini tutti, in questo paese di democrazia negata e legalità violata, mi ripetevo, canticchiandola, una filastrocca musicalmente povera, con versi bellissimi e melanconici. Una poesia musicata, scritta tanti anni fa, da un nostro compagno che da tempo non c'è più: Herbert Pagani.



Per chi non l’ha conosciuto: è stato un cantante famoso, autore di “canzoncine” come “Lombardia”, “Hai, le Haway”, “Cin cin con gli occhiali”; ma anche della struggente “Albergo a ore”; e non solo. “Ormai è impossibile parlare di canzone contemporanea senza tener conto del fenomeno Pagani”, ha detto di lui il poeta Louìs Aragon. Oggi pochi lo ricordano, e non è giusto.


Herbert si chiamava Avraham Haggiag Pagani, questo era il suo nome completo; figlio di una coppia di ebrei libici italianizzati dall’amministrazione coloniale. Si era poi trasferito, per ragioni familiari, in Austria, Germania, Svizzera, Francia. Ne aveva ricavato una simpatica babele linguistica, che però era al tempo stesso una sorta di esperanto che gli consentiva di comunicare con tutti.


Ho detto cantante, ma Pagani era molto di più: pittore, incisore, poeta, scrittore... Ad appena vent’anni espose le sue prime opere, alla Galleria Pierre Picard di Cannes. Venduti tutti i disegni, a privati e a collezioni in Francia, Italia, Stati Uniti. E’ stato il più giovane esponente della corrente detta “Realisme fantastique”. Ha disegnato le copertine per alcuni libri importanti, come “La Fantarca” di Giuseppe Berto, le “Cosmicomiche” di Italo Calvino, “Brave New World” di Aldous Huxley. Tra un disegno e l’altro scriveva i testi delle sue prime canzoni; e prendeva così corpo una singolare e curiosa attività: dai quadri alle poesie, dalle canzoni alla prosa, la scenografia teatrale, l’animazione radiofonica, le incursioni nel mondo della pubblicità, praticamente tutte le discipline della comunicazione.



Il suo primo album, “Amicizia”, ha vinto il Premio della Critica. Un crescendo. Nel 1971 il debutto a Parigi con “Concerto d’Italie”, un grande spettacolo dove si muoveva all’interno dei suoi stessi disegni, proiettati su un grande schermo. In parallelo l’impegno per la pace in Medio Oriente, e la scoperta delle sue radici. “Arringa per la mia terra” è una sorta di editoriale scritto all’indomani della mozione ONU che assimilava il sionismo al razzismo. E’ un testo vibrante e coraggioso, che Herbert ha letto nel novembre del 1975 dai microfoni di “Europe 1” e alla televisione francese nell’aprile del 1976, durante un “Grand Echiquier”, dedicato a lui:

“…Di passaggio a Fiumicino sento due turisti dire sfogliando un giornale “Fra guerre e attentati non si parla che degli ebrei, che scocciatori...E vero siamo dei rompiscatole; sono secoli che rompiamo le balle all’universo. Che volete? Fa parte della nostra natura. Ha cominciato Abramo col suo Dio unico, poi Mosè con le tavole della legge, poi Gesù con l’altra guancia sempre pronta per la seconda sberla, poi Freud, Marx, Einstein, tutti esseri imbarazzanti, rivoluzionari, nemici dell’ordine. Perché? Perché l’ordine, quale che fosse il secolo, non poteva soddisfarli, visto che era un ordine dal quale erano regolarmente esclusi; rimettere in discussione, cambiare il mondo per cambiare destino, questo è stato il destino dei miei antenati; per questo sono sempre stati odiati da tutti i paladini dell’ordine prestabilito. Un antisemita di destra rimprovera agli ebrei di aver fatto la rivoluzione bolscevica. E’ vero. C’erano molto ebrei, nel 1917. Un antisemita di sinistra rimprovera agli ebrei di essere i proprietari di Manhattan, i gestori del capitalismo... è vero ci sono molti capitalisti ebrei. La ragione è semplice la cultura, la religione, l’idea rivoluzionaria da una parte, i portafogli e le banche dall’altra sono stati gli unici valori mobili, le sole patrie possibili per quelli che non avevano una patria. Ora che di patria ne esiste una, l’antisemitismo rinasce dalle sue ceneri, o meglio, scusate, dalle nostre, e si chiama antisionismo. Prima si applicava agli individui, adesso viene applicato a una nazione. Israele è un ghetto, Gerusalemme è Varsavia. Chi ci assedia non sono più i tedeschi ma gli arabi e se la loro mezza luna si è talvolta mascherata da falce era per meglio fregare le sinistre del mondo intero. Io, ebreo di sinistra, me ne sbatto di una sinistra che vuole liberare tutti gli uomini a spese di una minoranza, perché io faccio parte di quella minoranza. Se la sinistra ci tiene a contarmi fra i suoi non può eludere il mio problema. E il mio problema è che dopo le deportazioni in massa operate dai romani nel primo secolo d.C. noi siamo stati ovunque banditi, schiacciati, odiati, spogliati, inseguiti e convertiti a forza. Perché? Perché la nostra religione, cioè la nostra cultura erano pericolose. Qualche esempio? Il giudaismo è stato il primo a creare il sabato, il giorno del Signore, giorno di riposo obbligatorio. Insomma il week-end. Immaginate la gioia dei faraoni, sempre in ritardo di una piramide. Il giudaismo proibisce la schiavitù. Immaginate la simpatia dei romani, i più grossi importatori di manodopera gratuita dell’antichità. Nella Bibbia c’è scritto “La terra non appartiene all’uomo, ma a Dio”. Da questa frase scaturisce una legge quella della estinzione automatica dei diritti di proprietà ogni 49 anni. Vi immaginate la reazione dei papi del Medio Evo e degli imperatori del Rinascimento?
Non bisognava che il popolo sapesse. Si cominciò quindi col proibire la lettura della Bibbia, che venne svalutata come Vecchio Testamento. Poi ci fu la maldicenza muri di calunnie che diventarono muri di pietra i ghetti. Poi ci fu l’Indice, l’inquisizione e più tardi le stelle gialle. Ma Auschwitz non è che un esempio industriale di genocidio. Di genocidi artigianali ce ne sono stati a migliaia. Mi ci vorrebbero dieci giorni solo per far la lista di tutti i pogrom di Spagna, di Russia, di Polonia e del Nord Africa. A forza di fuggire, di spostarsi, l’ebreo è andato dappertutto. Si estrapola il significato ed eccoci giudicati gente di nessun posto. Noi siamo in mezzo agli altri popoli come gli orfani affidati al brefotrofio. lo non voglio più essere adottato, non voglio più che la mia vita dipenda dall’umore dei miei padroni di casa, non voglio più affittare una cittadinanza, ne ho abbastanza di bussare alle porte della storia e di aspettare che mi dicano “Avanti”. Stavolta entro e grido; mi sento a casa mia sulla terra e sulla terra ho la mia terra. Perché l’espressione “terra promessa” deve valere per tutti i popoli meno che per quello che l’ha inventata? Che cos’è il sionismo? Si riduce a una sola frase; l’anno prossimo a Gerusalemme. No, non è lo slogan di qualche club di vacanza; è scritto nella Bibbia, il libro più venduto e peggio letto del mondo. E questa preghiera è diventata un grido, un grido che ha più di 2000 anni, e i padri di Cristoforo Colombo, di Kafka, di Proust, di Chagall, di Marx, di Einstein, di Modigliani, e di Woody Allen hanno ripetuta, questa frase, almeno una volta l’anno il giorno della Pasqua. Allora il sionismo è razzismo? Ma non fatemi ridere. Il sionismo è il nome di una lotta di liberazione e come ogni movimento democratico ha le sue destre e le sue sinistre. Nel mondo ciascuno ha i suoi ebrei. I francesi hanno i corsi, i lavoratori algerini; gli italiani hanno i terroni e i terremotati; gli americani hanno i negri, i portoricani; gli uomini hanno le donne; la Società ha i ladri, gli omosessuali, gli handicappati. Noi siamo gli ebrei di tutti. A quelli che mi chiedono “E i palestinesi?” rispondo “lo sono un palestinese di 2000 anni fa, sono l’oppresso più vecchio del mondo, sono pronto a discutere con loro ma non a cedergli la terra che ho lavorato. Tanto più che laggiù c’è posto per due popoli, e due nazioni”. Le frontiere le dobbiamo disegnare insieme. Tutta la sinistra sionista cerca da 30 anni degli interlocutori palestinesi, ma l’OLP, incoraggiata dal capitale arabo e dalle sinistre europee, si è chiusa in un irredentismo che sta costando la vita a tutto un popolo, un popolo che mi è fratello, ma che vuole forgiare la sua indipendenza sulle mie ceneri. C’è scritto sulla carta dell’OLP “Verranno accettati nella Palestina Riunificata solo gli ebrei venuti prima del ’17". A questo punto devo essere solidale con la mia gente. Quando gli arabi mi riconosceranno, mi batterò insieme a loro contro i nostri comuni oppressori. Ma per oggi la famosa frase di Cartesio “Penso, quindi sono” non ha nessun valore. Noi ebrei sono 5000 anni che pensiamo e ci negano ancora il diritto di esistere. Oggi, anche se mi fa orrore, sono costretto a dire mi difendo, quindi sono”.


Schierato a sinistra, Herbert ha appoggiato il Mapam, l’organizzazione pacifista israeliana; ha sostenuto le campagne elettorali di François Mitterrand e di Mario Soares, e per la salvaguardia di Venezia, cui ha dedica disegni e un pamphlet cinematografico sui pericoli che minacciavano la città e la laguna. Nel 1979 scrive un romanzo, “Préhistoire d’amour”, inedito, e alla pittura. Nel 1987 è nominato Directeur Artistique du Centre Mondial de l’Heritage Culturel du JusaYsme Nord Africain, museo e centro culturale nel cuore di Gerusalemme. Si iscrive al Partito Radicale.


Il suo ultimo intervento politico è la “Lettera ai fratelli, letta a Parigi e in Italia” pubblicata dal “Corriere della Sera”, il 13 aprile 1988:


“Con la vita sospesa tra un telegiornale e l’altro, giro nel mio laboratorio, incapace di lavorare. Cerco nel concerto delle esecrazioni le poche voci oneste, che ricordano il “prima” non per scusare, ma per spiegare il “dopo”, e colleziono i ritagli di questi rari parenti del pensiero, magro album di famiglia. Ho rinunciato alla parola da anni, ma il mio silenzio è sempre più affollato da cose non dette. Nella certezza che nessuno mi darà ascolto, l’urgenza di scrivere a tutti. Fratelli d’occidente. Le svastiche ricominciano a sporcare i vostri muri. Prima di parlare, puliteli. Fratelli yankees. Quella di David non è una stella della bandiera americana. Israele è solo una briciola della grande focaccia medio-orientale. Cosa aspettate a mettervi a tavola con i russi? Più il tempo passa più la briciola indurisce. A qualcuno finirà per restare in gola. Fratelli russi. Mai stati così discreti come da quando vi hanno dato la parola. Troppo da fare tra armeni e afghani o desiderio di apparire neutrali in vista dell’ipotizzata conferenza internazionale? Avreste una strategia più efficace del silenzio lasciate uscire i vostri ebrei; Israele vi riconoscerà titoli morali per proporre al Medio oriente una pace che soddisfi anche voi. Fratelli delle sinistre. La vostra sensibilità al calvario dei palestinesi ha accenti sublimi, e radici malsane. Intrisi in un cristianesimo che credete di aver evacuato, troppi di voi sono ancora convinti che la vocazione degli ebrei sia di abitare esclusivamente la storia altrui. Malgrado l’olocausto continuate a dubitare della necessità di uno Stato ebraico. Lievito per secoli delle vostre culture, la nostra volontà di ridiventare pane vi sembra innaturale. Allora chiedo dopo quanti anni lo schiavo perde il diritto alla libertà e l’esule alla patria? Duemila sono forse troppi? Siamo caduti in prescrizione? E ancora perché un popolo sia legittimo abitante di una terra occorre che l’abbia conquistata con la spada, l’aratro, il tempo, il denaro o un voto internazionale? Scegliete Israele è stato argomento nel tempo (“‘anno prossimo a Gerusalemme” preghiera bimillenaria di Pasqua), ricomprato col denaro (bossoli del Kkl), bonificato con l’aratro (kibbutz), difeso con la spada (4 guerre in 40 anni), e votato dall’ONU (29 novembre 1947, 33 voti a favore, 13 contrari e 10 astensioni). Se oggi Sansone dà bastonate alla cieca è anche colpa della vostra compiacenza nei confronti dei filistei (Palestina deriva da Falastin, filisteo). Fratelli cristiani. Il vostro Salvatore è nato dal grembo di una delle vostre donne. L’antisemitismo, nel grembo della vostra chiesa. Non c’è visita di Papa in Sinagoga che ce lo possa far dimenticare. Riconosca lo Stato di Israele, Santità, e i giudizi del suo gregge cominceranno ad avere per noi un qualche valore. Fratelli musulmani, figli come noi di Abramo. Israele è un paese imperfetto nato da un sogno necessario. Se non potete accettarlo è perché rincorrete un sogno opposto quello dell’Unità Araba. Nato dal ricordo dei vostri splendori passati, fu il vostro cemento nei secoli dell’umiliazione coloniale. Con la fine di questa è crollato. Il “Mondo Arabo” non esiste. Esistono solo dei paesi arabi, dai regimi incompatibili, più o meno legati da una stessa fede, e da una stessa malafede nei confronti di Israele. Il vostro scopo non è mai stato quello di dare una patria ai palestinesi, ma di impedire agli ebrei di averne una. Poiché fummo nella vostra storia ciò che le donne furono nella vostra famiglia - soggetti di second’ordine, senza diritto di parola - il nostro desiderio di partecipazione è sembrato anche a voi scandaloso, contro natura. Incapaci di espellere Israele dal vostro corpo geografico, avete espulso gli ebrei dal vostro corpo sociale. Li avete costretti alla fuga. Così facendo avete confermato la vocazione al rifugio di Israele; avete incrementato gli effettivi del vostro nemico; vi siete privati di uno degli argomenti più trainanti della propaganda araba Israele scheggia occidentale. Oggi la popolazione israeliana è costituita per due terzi da profughi dei paesi arabi, o, come dice sua maestà Hassan II del Marocco, da arabi di religione ebraica. I palestinesi sono rimasti la vostra ultima arma. Li avete caricati come una bomba a orologeria con timer generazionale. Divenuta anch’essa troppo difficile da maneggiare, l’avete abbandonata sul terreno. Oggi esplode a catena, ovunque. Fratelli palestinesi, i campi nei quali siete nati sono opera di una precisa volontà araba. Gli atti terroristici di quelli che si ergono a vostri paladini non fanno che ritardare la vostra liberazione. E’ più conveniente discutere con un nemico sincero che prestar fede a leaders di provata falsità. Oggi siete soli davanti a Israele. Guardate bene questo esecrato avversario.
Non se ne andrà mai. Per due ragioni Israele è l’unico paese al mondo dove sporco ebreo significa un ebreo che non si lava. E’ l’unico in cui “invasori”, quando scavano il suolo della terra occupata, ritrovano le tombe dei loro antenati. E’ inoltre l’unico di questa parte del globo in cui si può votare, esprimersi liberamente e, per assurdo che possa sembrare, è il solo dove abbiate ancora qualche amico. E’ troppo tardi per chiamarli in aiuto? Spero di no. Prego di no. Dio, al quale non credo, al quale credo, al quale faccio tanta fatica a credere, se è vero che un giorno fermasti il sole, ferma per un istante la moviola dei secoli. Congela a mezz’aria pietre, pallottole e bastoni. Gli uomini hanno forse ancora qualcosa da dirsi, e io due parole da dire ai miei. Ascolta, Israele. L’Eterno tuo Dio è Uno, e i suoi figli sono tutti i bambini del pianeta. Secondo me c’è un refuso nella Bibbia tu non sei il popolo eletto ma il popolo elettore. Hai eletto Dio a Presidente della tua storia per l’eternità, e se sei sopravvissuto fino ai nostri giorni allorché tante civiltà son scomparse, è perché sei stato fedele alle sue leggi. Egli ti ordina di difenderti ma anche di amare. Amare assumersi le responsabilità del prossimo. Il tuo prossimo è la davanti a te. Ha demolito la tua immagine davanti agli occhi del mondo, rubato i tuoi amici, ucciso i tuoi figli, e si è servito dei suoi come esca. Guarda chiaro, Israele! Avviene per i popoli come per i bambini. Alcuni si danno una vita violenta per mancanza di genitori vigili alle loro necessità. Prima di te, Israele, i palestinesi come nazione non esistevano. Sono nati dall’averti visto nascere, sono cresciuti all’ombra delle tue vittorie, e se oggi gridano che vogliono tutto, anche Tel Aviv e Haifa, è più per disperazione che per convinzione non hanno più niente. Lo so, avrebbero potuto tenersela quella parte di terra assegnatali dall’ONU nel ’47. Ma chi sbaglia i calcoli nella storia non può essere penalizzato in eterno. Lo so, non c’è con chi parlare. Tutti i palestinesi moderati sono più o meno succubi dell’OLP, e l’OLP prevede ancora, nel suo statuto, la liquidazione dello Stato di Israele. Lo so, non esiste in tutta la diplomazia un caso di uno Stato sovrano disposto a trattare con chi si prefigge la sua distruzione. Lo so, il mondo ti chiede l’impossibile trovare, a rischio della tua sopravvivenza, una soluzione che poggi sulla morale che tu hai insegnato al mondo e che esso ogni giorno, ovunque, trasgredisce. Il mondo, che di te non ha avuto pietà, pretende da te pietà per chi di te non ne ebbe e domani, probabilmente, non ne avrà. Provaci lo stesso. Siamo abituati ai miracoli. E i miracoli oggi sono quelli degli uomini che con un gesto inatteso dirottano il corso della storia. Tendi la mano, Israele, anche se non c’è nessuno a stringerla, e prendi il mondo a testimone di questa mano tesa. Finalmente si saprà chi sei non una scheggia occidentale piantata nel cuore del mondo arabo, ma la punta di diamante del Medio oriente nel mondo. Shalom, Salam”.

Herbert è morto a New York, leucemia. Aveva appena 44 anni. Quello che segue è il testo de “La stella d’oro”:



Quando esisteva ancora Dio
il nonno d'un bisnonno mio
di professione contadino,
tirava avanti con fatica
un campicello da formica,
tre zolle al fuoco del mattino...
Ed era un uomo calmo e pio
che divideva l'esistenza
fra la famiglia ed il suo Dio
e non aveva che un tesoro
Una stella d’oro!

Un giorno ch'era lì a zappare
vide degli uomini arrivare
in una nuvola di guerra.
"Volete acqua? - domandò.
Quelli risposero "Ma no
quel che vogliamo è la tua terra!"
"Ma questa poca terra è mia!"
Loro risposero "Va via!"
Lui prese il Libro del Signore
la moglie, i figli, e il suo tesoro
La sua stella d’oro!

E camminando attraversò
la notte dell'eternità,
chiedendo terra da zappare...
"Datemi anche una palude,
ed io con queste mani nude
ve Ia saprò bonificare!"
"Va via, straniero, o passi un guaio
se vuoi restare, l'usuraio
è tutto quello che puoi fare!
Tanto ce l'hai un tuo tesoro
La tua stella d’oro!

Rimasto senza campicello
si disse ho solo il mio cervello,
e quello devo coltivare!
Divenne scriba e poi dottore
poi violinista e professore
ed Archimede nucleare!
"Ma quanti sono, santo lddio,
come ti volti, c'è un giudio!
Come bollare questa peste?
Gli cuciremo sulla veste
la sua stella d’oro!

E cominciò la grande caccia
E mille cani su ogni traccia
e fu la fiera del terrore.
Braccate in casa e per le strade
erano facili le prede
con quella stella sopra il cuore.
E Il nostro vecchio contadino
perdette tutto in un mattino
moglie, figli, cuore, testa
e disse adesso non mi resta
che la stella d’oro!

E allora corse verso il mare
Lo traversò per ritrovare
La terra che era stata sua...
"Signori, la vorrei comprare !"
"Le dune qui costano care!"
"Fa niente, pago!" "Allora è tua!"
Ficcò la vanga nel deserto
quando uno sparo all'orizzonte
attraversò lo spazio aperto.
Cadde in ginocchio e sulla fronte
una stella d’oro
una stella d’oro!



Dite che Pagani e la sua poesia “La stella d’oro” c’entrano poco o nulla con le nostre denunce, le nostre analisi, la nostra resistenza? Ne siete proprio sicuri?

zulux
30-04-09, 00:54
Ambiente: questioni da affrontare con spirito pragmatico, laico, radicale
Benvenga l’ecologo Carlo d’Inghilterra

di Valter Vecellio

E’ stato tutto meno che tranquillizzante, “soft”, Carlo d’Inghilterra, con il suo intervento alla Camera dei Deputati sui cambiamenti climatici. “Ci rimangono”, ha sostanzialmente detto, “solo 99 mesi prima di raggiungere il punto di non ritorno…”. Poco più di otto anni per invertire la rotta: “Le prove sono davanti ai nostri occhi…soprattutto nell’Artico e nell’Antartico…anche se molti continuano a negare la validità dei dati scientifici la risposta che oggi diamo alla sfida cui siamo di fronte sarà l’unico elemento decisivo nel definire la nostra era, l’elemento inbase al quale verrà giudicata la nostra generazione”.



Un intervento con connotazioni apocalittiche; non sapremmo dire fino a quanto fondato: nel senso che forse la scadenza dei 99 mesi è troppo perentoria; la comunità scientifica appare divisa, e in questi anni si è detto e scritto di tutto e il suo contrario. E’ immaginabile che attorno alla questione ambientale, oltre a sincere preoccupazioni e impegno disinteressato, si muovano interessi economici e potenti lobby. Il mutamento climatico è comunque una realtà che è davvero sotto gli occhi di tutti. Le emissioni non sono un’invenzione. Si può esprimere legittimamente perplessità quando si vedono messi sul banco dell’accusa sempre e comunque gli Stati Uniti e l’Occidente; a molti ambientalisti è giusto e opportuno ricordare che le più potenti “centrali” di inquinamento e devastazione ambientale ora si trovano in Cina, Russia, Africa, centro e sud America. Ma non c’è dubbio che il problema esiste, e occorre predisporre politiche nazionali e globali per affrontarlo e contenerlo.



Carlo d’Inghilterra – evidentemente non dimentico del ruolo che ricopre e del luogo in cui interveniva – ha voluto lodare l’impegno italiano. Un “pedaggio” diplomatico che evidentemente doveva pagare, e ha pagato. Francamente non riusciamo a scorgere, al contrario dell’erede al trono britannico, quei segni che possano farci dire che siamo alla potenziale vigilia di un “nuovo rinascimento ambientale che faccia tesoro delle conoscenze scientifiche, dell’innovazione, dell’immaginazione, di un nuovo rapporto tra uomo e natura e che ci consenta di tornare a partecipare nella natura con armonia e non con un’ostilità arrogante”.



Benvenga Carlo d’Inghilterra se grazie a lui certi temi conquistano le prime pagine dei giornali e se il suo intervento contribuisce a focalizzare l’attenzione su questioni che raramente fanno “notizia”. Fenomeni che si chiamano surriscaldamento terrestre, deforestazioni selvagge, desertificazione che cresce, sovrappopolazione, fame e carestie…e per restare ai problemi “nazionali”: bastano acquazzoni un po’ fuori norma, come quelli di queste ore per provocare tragedie. E ce ne sono sempre di incombenti, che quando si verificheranno (che si verificheranno non è in discussione; ci si interroga piuttosto sul quando), come l’eruzione “annunciata” del Vesuvio, provocheranno disastri da far impallidire il recentissimo terremoto in Abruzzo. Dite che si sta facendo una “macedonia”, mescolando Vesuvio, terremoti, riscaldamento ambientale e quant’altro? Fino a un certo punto: perché si tratta di questioni politiche, che richiedono interventi e investimenti lungimiranti; sono questioni che vanno affrontate con spirito pragmatico, aperto e “laico”, depurato da fideismi e manicheismi. Si può dire: radicale?

zulux
30-04-09, 00:54
Febbre suina e follia degli allevamenti intensivi

di Francesco Pullia

Mucca pazza, influenza aviaria, febbre suina. Fino a quando la natura dovrà continuare a mandarci messaggi sull’insostenibilità dei modelli produzione alimentare e sulla necessità di pervenire ad una svolta radicale anche in questo campo, prima che sia troppo tardi?

E’ ovvio che la responsabilità delle varie epidemie, che con cadenza periodica puntualmente si diffondono, non può assolutamente essere attribuita agli animali ma all’uomo, l’unico vero colpevole di gravissimi squilibri e di drammi irrisolti come lo sterminio per fame e sete nel mondo.



Le Nazioni Unite hanno stimato in 854 milioni, vale a dire il 13% dell'intera popolazione mondiale (quasi due volte la popolazione dell'Unione Europea), le persone sottoalimentate e/o malnutrite a causa anche, ripetiamo anche e aggiungiamo soprattutto, di un sistema alimentare iniquo.



Lo stesso Csis americano, Centro per gli studi strategici ed internazionali, che non può essere tacciato di certo di essere un’associazione animalista, ha lanciato un campanello d’allarme avvalorando di fatto quanto già denunciato da Jeremy Rifkin nel suo Ecocidio.

Occorrono interventi urgenti di sostentamento a lungo termine altrimenti la situazione si aggraverà ulteriormente con evidenti ripercussioni in ambito geopolitico.



In altre parole o si cambia modo di alimentazione oppure inevitabilmente esploderanno ulteriori focolai di violenza il cui esito sarà devastante per l’intero pianeta. Allarmismo? Fantapolitica?



Il sistema di produzione della carne, basato sugli allevamenti intensivi, sulle maledette odierne Treblinka di cui non si parla mai, con gli animali ignobilmente ridotti ad ingranaggi e vittime di una vergognosa gigantesca catena di montaggio, sta all’origine della destinazione di abnormi parti delle superficie terrestre a cereali finalizzati a divenire mangime con incalcolabile spreco di risorse idriche ed energetiche.



Senza considerare, poi, le notevoli emissioni di gas serra causate dall’industria zootecnica: il 18% del totale. Non è folle auspicare il passaggio a un tipo di produzione estensiva sostenibile anziché intensiva e, insieme, una drastica riduzione del consumo totale di carne, in particolare nei paesi industrializzati.



Diminuendo anche solo del 10% la produzione di carne si avrebbe cibo vegetale per sfamare, e salvare, sessanta milioni di persone per non parlare di quanta inutile sofferenza inflitta a diverse specie animali verrebbe risparmiata.



E’ ingenuo, sciocco, anche se sarebbe opportuno, immaginare che il mondo diventi all’improvviso vegetariano ma è da criminali non rendersi conto che a causa del consumo di alimenti di origine animale si condannano alla fame e alla sete milioni e milioni di esseri umani, perpetuando, tra l’altro, quella particolare forma di razzismo che si chiama antropocentrismo.

zulux
30-04-09, 00:55
Pannella, dica 79! Auguri Marco!
(Un libretto, collettivo biglietto di auguri, che basta chiedere per averlo)

di Va.Ve.

“Nasco il 2 maggio del 1930. Alcuni sostengono che mamma dovette sforzarsi per evitare che io nascessi il 1 maggio festa dei lavoratori in pieno fascismo: si diceva che questo sarebbe stato interpretato politicamente. Sono abruzzese, molto abruzzese: è una razza di lupi, di orsi, però abbiamo anche il mare. Dove sono nato a Teramo credo sia proprio esattamente fra il Gran Sasso, la punta del Gran Sasso e il mare, Giulianova…”.



Così Marco Pannella si “raccontava” in una bella trasmissione di qualche anno fa a lui dedicata, Il mio Novecento, andata in onda sulla Terza Rete. Dunque il “lupo” (o “l’orso”) di Teramo compie 79 anni. Francesco Merlo ha dato di questo “lupo” (o “orso”) una descrizione esatta e lusinghiera: “E’ come un personaggio di Pirandello, o forse di Camus, così straniero all’assurdo italiano…un leader che non ha mai creduto al sacrificio, che anzi da sempre ripete che ‘lo spirito di sacrificio, l’etica e l’etichetta del sacrificio non sono per me’…E’ lo scandalo italiano. Al contrario della parabola evangelica, Pannella è il sacerdote delle istituzioni che i mercanti hanno cacciato dal tempio…”.



“Per la vita del diritto, per il diritto alla vita”. Quante volte il “lupo” (o l’ “orso”) ce lo ha detto, ricordato…Alla fine questo è, nell’essenza il “lupo” (o l’ “orso”) Pannella, questo grazie a lui sono i radicali. Questo paese, quanto gli deve, e quanta poca gratitudine mostra di avere. Altrove sarebbe carico di riconoscimenti, premi, onorificenze, lauree ad honorem. Altrove la sua esperienza, la sua capacità, i suoi consigli e le sue critiche sarebbero attentamente valutati e considerati. In questo paese, accade invece che quando Marco è in sciopero della sete e della fame e rischia la vita, non manca mai un cretino a dire che si tratta di digiuni fasulli, e così da sfogo a tutte le volgarità e meschinerie di cui è capace.



Vogliamo dire a questo “lupo” (o “orso”) di Teramo che gli vogliamo bene; che a volte ci inquieta e preoccupa: quando si “sciamanizza”, e intraprende sfide con se stesso, con il suo corpo, che fanno paura. Vorremmo dirgli che forse dovrebbe avere più cura di quanta ne abbia, della sua salute… Lo diciamo sottovoce, e con nessuna speranza di essere ascoltati: farà, come sempre, di testa sua, fidandosi del suo fiuto e della sua saggezza. Del resto, finora, né l’una né l’altro l’hanno (e ci hanno) mai tradito.



Auguri dunque al “lupo” (od “orso”) Teramo. Ancora cento di questi giorni. Per cominciare.



Il compleanno di Marco è stata l’occasione/pretesto per un libretto.



Due parole per spiegare come è nato. Nove anni fa, quando Marco si accingeva a tagliare il traguardo dei 70 anni, mi venne l’idea di confezionare un volumetto che raccogliesse le “antiche” corrispondenze di quando, a Parigi, era giornalista de Il Giorno. Ne veniva fuori, da quegli articoli, un Pannella ad un tempo inedito, sorprendente, per gli argomenti trattati e per la sapienza e la “leggerezza” nel farlo, una non comune eleganza culturale. Uno stile, un fiuto giornalistico, un approccio alle questioni più unico che raro, e che benissimo venivano riassunti nella frase del direttore del Giorno di allora: “Pannella, giornalista nato”. E tuttavia, era anche il Pannella che conosciamo: gran rompiscatole, che si occupa fin da allora di diritti civili e di giustizia; prende a cuore le vicende di un povero diavolo accusato di un omicidio, e riesce a imporre la revisione del processo, da cui uscirà assolto...



Non andò male, quel libretto, 500 copie la tiratura amatoriale, esaurita. Poi, dal momento che si torna nei luoghi del delitto, quel primo “crimine” è stato seguito da altri due: la trascrizione di una bella trasmissione con un Pannella narrante, nell’ambito del ciclo “Il mio 900”; venne registrata a Napoli, nel salotto-studio che fu di Benedetto Croce e trasmessa dalla terza rete della RAI; e la raccolta delle varie prefazioni che Pannella ha “seminato” in questi anni, per libri che ormai si trovano – quando si trovano – solo nel circuito delle librerie antiquarie.



Siamo all’oggi. L’idea è stata quella di chiedere a tanti personaggi che a vario titolo hanno avuto a che fare con Pannella di mandargli una sorta di biglietto d’auguri. Molti hanno risposto, qualcuno non ha trovato il tempo, o la voglia, di farlo; peggio per loro. Accanto a questi “auguri” collettivi, c’è una selezione – minima – dei tanti articoli scritti su Pannella. Una scelta i cui criteri sono assolutamente arbitrari, dettati solo dall’umore del curatore. Alcuni sono belli, acuti; altri “semplicemente” indicativi di un momento, uno stato d’animo, una situazione. Penso per esempio al corsivo – il primo, credo – che “l’Unità” (allora giornale ufficiale del PCI) dedicò al “signor Pannella” colpevole di aver rilasciato una lunga e bella intervista al quindicinale “Nuova Repubblica” di Randolfo Pacciardi; oppure al sonetto di Maurizio Ferrara (il papà di Giuliano), scritto l’indomani della vittoria del 12 maggio 1974, quando il popolo italiano rispose un inequivocabile NO alla richiesta di abrogare la legge sul divorzio



Gli “auguri” sono di: Giorgio Napolitano, Giulio Andreotti, Gianni Baget Bozzo, Enzo Bianchi, Piero Calabrese, Fulvio Cammarano, Sergio Castellitto, Margareth Mazzantini, Piero Ostellino, Gianfranco Pasquino, Flavia Perina, Stefano Vaccara; gli scritti sono di: L’Unità, Arrigo Benedetti, Umberto Bossi, Guido Calogero, Oreste del Buono, Umberto Eco, Maurizio Ferrara, Fortebraccio, Alessandro Galante Garrone, Giuseppe Galasso, Roberto Gervaso, Renato Ghiotto, Nicola Matteucci, Francesco Merlo, Vittorio Messori, Eugenio Montale, Indro Montanelli, Giampiero Mughini, Angelo Panebianco, Fausto Pezzato, Fabrizio Rondolino, Giampaolo Rugarli, Nantas Salvalaggio, Jean-Paul Sartre, Gaetano Scardocchia, Leonardo Sciascia, Michele Serra, Adriano Sofri, Salvatore Veca, Nichi Vendola.



Chi desidera il volumetto: “Pannella, dica 79” non ha che da chiederlo a: v.vecellio@libero.it

Sono inoltre disponibili altri volumetti della collana:



- Aloisio e Giuliano Rendi, Battaglie per la vita.

- Piergiorgio Welby, Il Calibano.

- Valter Vecellio, Quaderno 1.

- Marco Pannella, Il mio Novecento.

- Valter Vecellio, Quaderno 2.

- Luigi Castaldi, Giuliano Ferrara non è una muffa.

- Valter Vecellio, Quaderno 3.

- Loris Fortuna, Io, eretico riformatore.

- Marco Pannella, Le mie prefazioni.

- Valter Vecellio, Quaderno 4

zulux
30-04-09, 00:56
Quella sporca dozzina

di Walter Mendizza

Anzi, bisognerebbe dire “quella mezza sporca dozzina”. Mi riferisco alla manifestazione di Udine organizzata dall’Anpi, la manifestazione dei partigiani che partiva da piazza 1° Maggio Quest’anno si era deciso di partecipare a tale manifestazione con le bandiere europee e con i cartelloni e frasi europeiste di Altiero Spinelli o semplici No ai nazionalismi. Eravamo solo in 7. Nonostante il costo di 1.300 euro per una manchette sul Messaggero Veneto.

Il problema è che non c’erano neppure i radicali della regione. A giustificazione si può dire che i radicali si erano riuniti il giorno prima, sempre a Udine, alla presenza di Marco Pannella. Si trattava di un Convegno sulla storia dei radicali e qualche spunto per il futuro. A Palazzo Kechler pochissime facce nuove nonostante l’annuncio sui giornali, ci siamo alla fine riuniti praticamente tra di noi radicali del FVG. Una cinquantina. Pochi spunti per il futuro. Di immediato bisogna battersi per raggiungere un 4 percento là dove i sondaggi ci danno attualmente uno scarso 1,2%. Rimonta disperata. Rimonta che solo i Radicali possono osare pensare.

Ma lo scoramento da “mission impossible” regna anche tra di noi. La manifestazione vera, quella più simbolica si faceva il giorno dopo, il 25 aprile e come ho detto eravamo in pochissimi. Se fossimo stati la cinquantina di persone del giorno prima, sparsi in mezzo al corteo partigiano avrebbe avuto un peso anche mediatico. Così invece siamo passati per una nota colorata solo agli occhi di qualche osservatore attento. Ma la manifestazione dell’Anpi era un luogo comune nel senso metaforico e letterale. Poco più di un migliaio di persone che si comportavano come una mandria di buoi. All’inizio avevamo deciso di seguire il Corteo che chiudeva con una Banda di ottoni fatti da una decina di ragazzi “dark” con oboe, tromboni e tuba che sonavano una musica da banda in versione blues. Noi eravamo dietro questi. Con le bandiere europee blu che staccavano tra tutte quelle rosse e i nostri cartelloni gialli. Ad un certo momento abbiamo avuto la sensazione di stare ad inseguire un funerale. Poco più di un migliaio di nostalgici rossi, con bandiere rosse e fazzoletti rossi che celebravano sé stessi. Età media, 80 anni. Gente alla quale hanno raccontato mille volte presunte imprese eroiche portate avanti con forza e determinazione di pochi partigiani che si ribellarono al giogo nazi-fascista, insomma la storia dei vincitori scritta dai vincitori. Solo atti buoni e senza episodi biechi, violenti e vili, come invece è stato.

Era la prima volta che avevamo deciso di partecipare al corteo dei partigiani. Solo che è stato, come dicevo, girare in mezzo a un funerale di un vecchio con molti amici, tutti anziani. C’erano solo anziani e gli unici giovani erano giovanissimi, cioè i loro nipotini; molti dei quali, avevano un fazzolettino rosso legato al collo. Nonni con telecamere che li filmavano senza neppure sentire quello che si dice in piazza dagli altoparlanti. Uno spaccato dell’Italia che fu. Discorsi vuoti sulla resistenza partigiana che nessuno ascolta. Ai lati della strada pochissime persone sui balconi, anche queste anziane. L’Italia di oggi.

Abbiamo allora deciso di fare un coraggioso tour e camminare nel corteo e in mezzo alla piazza. La gente che ci vedeva passare non capiva nulla di quanto accadeva, ma nessuno ci chiedeva alcunché: Chi eravamo? Che volevamo? Eravamo con loro o contro loro? Cos’erano quei cartelloni sulla “Patria Europea”? Sull’ “Europa delle patrie”? Ma chi sono ‘sti qua? Non c’era nulla nei loro sguardi che lasciasse trapelare una qualche scintilla di curiosità. Elettroencefalogramma piatto su tutti i fronti. Non sanno nemmeno cos’è quello che festeggiano loro, figurarsi quello che vogliamo comunicare noi. Niente. Solo sguardi di impermeabilità anfibia. Speriamo che non sia questo lo “stato di gravidanza” (come dice Pannella) che misuri lo stato dell’arte delle tesi dei Radicali. Del resto cosa ci si poteva aspettare? Alla sinistra estrema è accaduto come con i socialisti, ogni volta che pensano di unirsi, si dividono. Adesso sono Rifondazione, poi ci sono i Comunisti con Diliberto e poi ancora la Sinistra e Libertà di Vendola. Un macello. Berlusconi se li pappa in un sol boccone a tutti quanti.

Subito dopo questo girare in piazza con le bandiere europee, bisognava correre al Cimitero del Commonwealth a Tavagnacco per depositare una corona ai caduti alleati. Che destino, i nostri veri liberatori condannati anch’essi all’oblio. In Friuli la liberazione arrivò a maggio mentre a Trieste, il 25 aprile non ha proprio alcun significato. Trieste rimase sotto la dominazione tedesca fino al primo maggio del ’45, poi fu occupata dagli jugoslavi (con sparizioni, infoibamenti e morti nelle strade) sino al 12 giugno del’45 e infine dagli inglesi sino al 25 ottobre del ’54. Per questo i radicali della regione non hanno mai visto di buon occhio questa festa che poco rappresenta la realtà storica di queste terre di frontiera. Non solo le ragioni stavano da entrambe le parti ma tutti fanno finta di non ricordarsi che senza gli alleati, oggi non potremmo parlare di libertà e democrazia. Eppure degli alleati, niente. Come se non fossero stati loro a venire a lottare per la nostra libertà, mica per la loro. Eppure, nulla.

Qui in regione siamo solo noi radicali a commemorarli da almeno 5 anni. Cribbio, quanta fatica devono fare i Radicali per avere di ritorno così poca riconoscenza. Dopo 30 anni di farci il mazzo per difendere questa libertà, conquistata col sangue, di essere stati colpevoli di aver previsto cose che gli altri neppure si sognavano, dopo essere gli unici transnazionali e transpartito, in una parola: i più europeisti d’Europa; dopo tutto questo, rischiamo semplicemente di non esserci più. E quel che è peggio, ciò toglierà, di riflesso, un pezzettino di diritto di presenza radicale anche nel nostro Paese. Una disfatta.

Ecco il significato della stella gialla che Marco genialmente propone di indossare. Sta a dirci che non dobbiamo aspettare che sia compiuta la Shoah nei nostri confronti. Ce la mettiamo noi da soli la stella gialla! Un grido di dolore come quello della litania da marciapiede che denuncia: “Il fascismo l’abbiam cacciato via, ora, a casa la partitocrazia!”.

Come sempre, Marco Pannella è avanti decine d’anni. Ma essere troppo avanti in politica è sbagliato tanto quanto essere troppo indietro. Pannella in cuor suo nutre la speranza di essere costituenti di una nuova Costituzione una volta mandata a casa questo regime partitocratico. Per far questo è disposto ad assumersi una responsabilità da leader di una resistenza libertaria, liberale e non violenta, che pone a disposizione del popolo “partigiano”, quello della R/Esistenza, tutto il suo corpo per una nuova liberazione dell’Italia. Una liberazione dalla nazione e della nazione. Pannella in cuor suo culla l’aspettativa che questo suo grido di speranza e responsabilità circolerà e troverà un’eco nelle teste di chi le ascolterà; come ad esempio si è espressa la grande maggioranza (Marco dice il 90%) sul finanziamento pubblico dei partiti.

In questi anni l’organizzazione dei Radicali, divenuta galassia, ha permesso una R/Esistenza a dir poco epica. Però il non essersi messi d’accordo per andare alla manifestazione dell’Anpi la dice lunga sulle difficoltà che vive il nostro associazionismo: la nostra è una galassia fatta da tante piccole stelle e ciascuna con pochi pianetini attorno. Uno spreco di risorse e di opportunità mescolata con una totale incapacità di marciare uniti. Anche qui in FVG abbiamo le nostre pecche e non sappiamo mettere da parte vecchi rancori personali per un qualcosa di superiore, una unità di intenti che abbia un respiro più condiviso. In FVG si sono prese iniziative dai diritti di gay e lesbiche al difensore civico, dall’anagrafe degli eletti all’istituzione di un registro per il testamento biologico. E cosa si fa? Cosa avrà la priorità? Come si pensa di andare avanti? Anche qui, ognuno per conto proprio e dio per tutti. C’è chi pensa di rivolgersi al TAR, c’è chi già si è rivolto alla magistratura ordinaria… insomma non una strategia di fondo, non una visione di largo respiro, non una volontà di cantare in coro. Niente. Solo tanti galletti, ognuno col suo pollaio. Altro che l’afflato di Pannella.

zulux
30-04-09, 01:19
Memorandum. La nemesi di Cofferati: l’ex leader maximo condannato per comportamento anti-sindacale

di Piero Capone

In questi giorni il buon Sergio Cofferati non sembra avere molti amici. Così come era stato osannato dalle “enormi masse popolari” del Circo Massimo, ora viene bistrattato da ogni parte, soprattutto da quella che dovrebbe essere la sua parte. E’ curioso vedere l’ attuale sindaco di Bologna (in scadenza; ma “scadente” per molti bolognesi) trasformato da irriducibile difensore dei diritti dei lavoratori (ricordate l’anatema contro i Radicali, rei di voler mettere in discussione l’art.18 dello Statuto dei lavoratori) a colpevole, davanti alla Giustizia, di comportamento antisindacale proprio per aver violato l’art.28 del sullodato Statuto.



Per uno spirito libero, anti conformista, radicale, malgrado la scarsa simpatia e apprezzamento nei suoi confronti, viene quasi voglia di solidarizzare con il “povero Sergio”. Anche perché i suoi molti detrattori, in questo caso, non sembrano aver proprio tutte le ragioni.

Ma quale grave violazione avrebbe commesso il sindaco nella sua veste di presidente della Fondazione Teatro Comunale di Bologna? Quella di far affiggere un avviso nel teatro, in cui si avvisava che se gli scioperi previsti dal personale (in concomitanza della rappresentazione della “Gazza ladra” di Rossini) avessero impedito l’esecuzione dell’opera, per il periodo corrispondente si sarebbero dovuti decurtare gli stipendi di tutto il personale coinvolto (compreso anche quello non formalmente in sciopero).



Si dà il caso, infatti, che il nostro “cinese”, noto peraltro per essere un grande melomane, lasciati i palchi dei comizi sindacali, nella sua nuova professione, si sia reso conto di una stranezza diventata prassi del Teatro di Bologna. Le frequenti agitazioni dei lavoratori del teatro in effetti si articolavano in modo tale che soltanto piccoli gruppi (a rotazione) scioperassero formalmente, assumendosi – solo loro - (per la prassi bolognese, infatti non è così alla Scala) l’onere della decurtazione dello stipendio. In questa maniera – molto furba – ogni volta piccoli gruppi di lavoratori erano in grado di bloccare tutta l’attività, avendo la possibilità di una grande “potenza di fuoco”, grazie appunto alla rotazione “onerosa” di pochi lavoratori per volta. Cofferati, scoperto “in corpore vili” questo sistema spregiudicato di lotta sindacale, non ha fatto altro che applicare le prescrizioni dell’art.1256 del Codice Civile.



In effetti il giudice del lavoro non contesta questa applicazione, bensì il fatto che sia stata preannunciata formalmente con un avviso scritto. Questo si configurerebbe come una indebita pressione sui lavoratori per dissuaderli dallo sciopero. Per Cofferati invece si tratterebbe solo di un atto “corretto, trasparente, leale”.



Comunque sia, questo provvedimento di prima istanza, sembra mettere sotto accusa solo l’aspetto del preavviso scritto (che parrebbe “intimidatorio”), non il fatto sostanziale che si possa applicare l’art.1256 del Codice Civile, come voluto – per la prima volta a Bologna – da Cofferati.



Forse, in questo caso, per i molti nemici del “cinese” si potrebbe trattare di una “vittoria di Pirro”.



Certo appare curioso come nel coro dei nemici vi siano un po’ tutti. L’estrema sinistra si capisce. I sindacati alla luce delle loro posizioni corporative, anche. Il centro destra meno: si attacca il quasi ex sindaco, anche quando tenta di far rispettare la legalità.



Paradossali infine le imbarazzate prese di distanza del suo partito, il PD, incapace sempre più di tenere con coraggio e chiarezza posizioni ferme, anche se impopolari.

zulux
30-04-09, 01:20
L’intoccabilità del Pubblico Ministero in Italia*

di Giuseppe Di Federico

L’ex procuratore aggiunto di Torino, Bruno Tinti, ha scritto su “La Stampa” un articolo, “Il PM italiano lo fa meglio”. Un articolo che in termini calcistici si potrebbe definire un autogol per la tesi da lui sostenuta, e cioè quella della superiorità dell’assetto del nostro pubblico ministero rispetto a quello di paesi ove viene eletto o nominato. Per convalidare la sua tesi, Tinti ricorda il caso di un Senatore repubblicano degli Stati Uniti, Ted Stevens, condannato per corruzione e non rieletto a causa di tale condanna. Ricorda anche che dopo la condanna si è scoperto che il pubblico ministero aveva tenuto nascoste prove che avrebbero scagionato il senatore. Tinti trae spunto da questo episodio per decantare il nostro sistema dove, a suo dire, tali episodi non possono accadere per una molteplicità di garanzie istituzionali che caratterizzano il nostro PM: perché in Italia il PM “è un giudice” (voleva dire che appartiene alla stessa carriera del giudice), perché non è un avvocato della polizia “come vorrebbe Berlusconi”, perché non è “politicizzato” in quanto non è nominato, come negli USA, da un’autorità elettiva o direttamente eletto. A differenza degli Stati Uniti il nostro PM, “non ha il compito di far condannare l’imputato”. Tinti ci dice che proprio perché il PM americano ha il compito di far condannare l’imputato è “abbastanza normale” che egli nasconda prove che non “vanno d’accordo con la sua tesi, nasconda qualche documento, cerchi di imbrogliare la difesa” per “vincere”. Un PM italiano, secondo lui, non lo potrebbe fare. E’ quindi incomprensibile, a suo avviso, che si voglia modificare l’assetto del nostro PM dividendo la sua carriera da quella dei giudici, sottraendo a lui la decisione di iniziare le indagini autonomamente, modificando il principio di obbligatorietà dell’azione penale. A suo dire dovremo invece essere tutti ben felici di avere un PM come quelli italiano. Dice infatti testualmente: “non si capisce perché non ci si rallegri di vivere in un Paese in cui esiste una Costituzione che impedisce…che possa avvenire” quanto si verifica negli USA. Tutto bene se quanto asserito da Tinti fosse vero. Purtroppo non lo è. Faccio solo uno dei molti esempi possibili, scegliendolo tra i più semplici da esporre e documentare.



Tempo fa un nostro PM nascose al giudice del tribunale delle libertà prove decisive per la scarcerazione di un detenuto, che poi venne scarcerato solo 8 mesi dopo. Per aver nascosto al giudice prove a favore di un cittadino innocente che si trovava ingiustamente in carcere subì un processo disciplinare ma non fu condannato (sentenza disciplinare del 1998). Processo penale a suo carico? Neppure a parlarne. Seguita tranquillamente a fare il PM come nulla fosse capitato.



Vediamo cosa è successo invece al PM americano citato da Tinti. Lui ed i suoi cinque colleghi che avevano avuto parte attiva nel caso del senatore americano sono stati licenziati in tronco con provvedimento dell’Attorney General Eric Holder. Non solo, il 7 aprile scorso il giudice cui non erano state presentate le prove a discarico, Emmet Sullivan, ha ritenuto che il comportamento omissivo dei 5 pm avesse recato “offesa alla corte” (contempt of court) e quindi dovessero essere perseguiti anche penalmente. Non ci risulta che il processo sia stato già celebrato (come abbiamo visto si tratta di eventi recentissimi), ma sappiamo per certo che per quel reato si finisce immancabilmente in galera.



Neppure l’accusa di politicizzazione che Tinti muove ai PM federali americani (sono nominati dal Presidente con consenso del Senato) ha nulla a che fare col caso in questione. L’Attorney General che ha licenziato in tronco i PM è stato nominato da un presidente democratico Obama (e confermato all’unanimità dal Senato), mentre il senatore Stevens, ingiustamente accusato, è invece repubblicano.



Tinti non poteva scegliere un caso peggiore per dimostrare che il nostro PM offre maggiori garanzie ai cittadini di quelle dei PM di paesi in cui i giudici vengono nominati o eletti. Mentre lì i PM che pregiudicano gravemente le libertà dei cittadini commettendo gravi scorrettezze nell’esercizio delle loro funzioni lo pagano spesso a carissimo prezzo, da noi questo non avviene neppure nei rari casi in cui le scorrettezze vengono accertate, come è certamente accaduto nell’esempio che abbiamo citato. Di regola da noi non è neppure possibile accertare se vi siano state delle scorrettezze da parte dei PM quando le loro scelte discrezionali nell’iniziare le indagini e nel promuovere l’azione penale risultano, dopo anni, prive di fondamento a livello processuale. Nulla importa se hanno determinato ingiustificate carcerazioni preventive o irreparabili danni alla vita sociale, politica, economica e familiare di cittadini innocenti. I nostri PM non ne portano comunque responsabilità alcuna. Il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione trasforma formalmente ogni loro atto discrezionale in un atto dovuto. Verifiche sostanziali sulla opportunità o diligenza delle loro decisioni verrebbe considerata una indebita interferenza nell’attività giudiziaria. Aggiungo tre postille

La prima. Prima ancora di condurre le mie indagini sul caso dei PM americani segnalato da Tinti io ero assolutamente sicuro che l’Attoreney General (ministro della giustizia e responsabile della pubblica accusa) aveva già provveduto a rimuovere i PM che avevano nascosto le prove. Proprio perché nominato dal Presidente e confermato dal Senato, se non lo avesse fatto si sarebbe dovuto assumere lui, anche di fronte a loro, la responsabilità politica di quanto accaduto. Da noi, come abbiamo visto, responsabilità (e garanzie) di questo tipo non esistono.



La seconda. E’ veramente singolare che tra i difetti del PM americano Tinti annoveri anche quello di essere l’avvocato della polizia. Concordo con Tinti sui pericoli che possono derivare alle libertà del cittadino dal fatto che il pm sposi acriticamente le tesi incriminatorie di chi ha condotto le indagini. Chi conduce le indagini seguendo una tesi accusatoria può infatti essere indotto, anche in buona fede, a scambiare semplici indizi per prove (i riformatori del PM inglese l’hanno definita “la sindrome del cacciatore”). Purtroppo questo pericolo è più presente in Italia che in altri paesi, perché da noi il è il PM che dirige le indagini e può anche iniziarle di sua iniziativa, senza l’intervento della polizia. Sostanzialmente, nella fase delle indagini è lui stesso un poliziotto, ed il fatto di chiamarsi PM non lo rende meno poliziotto. Per giunta a differenza della polizia non risponde ad alcuno delle scelte che compie e dei convincimenti che matura in sede di indagine.



Terza postilla. Conoscendo Tinti da anni. Ha condotto seminari presso il mio istituto ed ha anche collaborato a nostre attività di ricerca con grande competenza. Non dubito che lui abbia esercitato le funzioni di PM uniformandosi al modello ideale da lui coltivato. Concentrato sul suo lavoro non deve avere prestato molta attenzione al il comportamento di altri PM. Neppure nei casi in cui la loro discrezionalità ha avuto effetti che personalmente ritengo positivi per la protezione dei diritti dei cittadini. Ricordo che negli anni di tangentopoli un suo collega mi disse che se la Procura di Torino avesse adottato gli stessi criteri utilizzati dalla Procura di Milano in materia di carcerazione preventiva molti dei dirigenti della Fiat sarebbero ingiustamente finiti in galera (non dico il nome del PM perché sarebbe professionalmente scorretto identificare i miei intervistati).



www.difederico.giustizia.it

NOTE

*da “L’Opinione”

zulux
30-04-09, 01:20
Ritanna Armeni, Orlando, l’indifferenza e il silenzio di progressisti e femministe

di Valter Vecellio

Due articoli, di Ritanna Armeni su “Dnews”, e di Federico Orlando, su “Europa”. La Armeni scrive del “colpevole silenzio femminista sulle donne islamiche”: “Perché le femministe non si occupano delle donne islamiche che nei loro paesi sono soggette alla Svaria, cioè a quell’interpretazione del Corano che le costringe alla schiavitù e per la quale sono considerate meno di animali domestici?...”.



La riflessione parte da una elementare osservazione: in Occidente sappiamo tutto tutti, e molto bene; sappiamo che il velo è obbligatorio, che alle bambine è vietato andare a scuola, che le donne possono uscire solo se accompagnate, che devono accettare matrimoni forzosi, che sono condannate a morte o al carcere in caso di stupro; che vengono lapidate se “colpevoli” di una relazione extramatrimoniale. “E allora perché questo silenzio che assomiglia all’indifferenza?”, è la domanda. Un silenzio non più accettabile, dice Armeni, che offre una sua risposta: “Le femministe in Occidente sono prevalentemente di sinistra, sono contro la guerra, giudicano negativamente l’aggressione da parte degli Occidentali dell’Afghanistan e dell’Irak, sanno che la condizione della donna è stata utilizzata in modo strumentale dalla destra nazionale e planetaria per giustificare quelle aggressioni e un inaccettabile scontro di civiltà e allora – quasi inconsciamente, ma non per questo incolpevolmente – trascurano la questione. Ma sono credibili delle donne che combattono per i loro diritti in Occidente e poi abbandonano al loro destino donne che non hanno diritto neppure ad una condizione umana?”.



Risposta scontata, evidentemente. Però se così fosse – e cioè che non ci si mobilita e non si fiata – perché la causa da difendere viene strumentalmente utilizzata dalla “destra nazionale e planetaria” – si assisterebbe a una bischerata sesquipedale: guarda che straordinario potere che si attribuisce alla destra, quella nazionale e quella planetaria: di poter trasformare una causa giusta in una di cui ci si può disinteressare!



E s’arriva a Federico Orlando su “Europa”. Risponde al quesito posto da una lettrice (“Perché teniamo soldati in Afghanistan a veder fucilare giovani e meno giovani coppie di amanti che tentano di sottrarsi al medioevo…?”). Nella sua lunga risposta, Orlando cita l’amara riflessione di Ayan Hirsi Alì, affidata al “Corriere della Sera”: “Il movimento femminista è andato in bancarotta”.



Ragiona Orlando: “…Oggi le femministe hanno smesso di lottare perché, entrate nel potere, ne sono diventate funzionarie: al più si preoccupano di ulteriori assetti interni al potere e di conciliare maternità e carriera. Ma quanto a riempire le piazze per la libertà delle donne che vengono schiavizzate e uccise in metà del mondo e nei nostri stessi paesi fra gli immigrati, proprio non se ne parla. E sa perché? Perché l’ideologia che allora mosse le femministe era, come quello di tutto il Movimento, antioccidentale, anticapitalista,, antiborghese e terzomondista. Ora che contemplano proprio nel terzo mondo il baluardo dell’antifemminismo e della disuguaglianza sessuale e sociale non solo non sono più stimolate alla lotta: una cosa è combattere contro il SIM (Stato imperialista delle multinazionali), una cosa contro le tribù dell’Asia o dell’Africa, la svaria, la moschea, il totem. Forza dunque a infibulare, vetrioleggiare, lapidare, impiccare, fucilare; e magari a spiegare che il ‘vero Islam’ non è per la violenza alle donne…”.



Franco e diretto fino alla brutalità, Orlando, ma – a ben vedere – non troppo dissimile da quello di Ritanna Armeni. Non è operazione inutile spenderci una riflessione. Qualcosa di vero in quello che sostengono Armeni e Orlando deve esserci. Non da ora si sostiene che i combattenti di qualsivoglia causa, se vogliono assicurarsi la solidarietà e la simpatia di tutto il mondo, devono per prima cosa garantirsi come “nemico” o gli Stati Uniti o Israele. Solidarietà e attenzione per la propria causa garantite. La “colpa” delle donne, in Afghanistan come in Irak come nei paesi arabi fondamentalisti, pensavamo fosse questa: non essere avversati da USA e Israele; una “legge” che non viene contraddetta, anzi è integrata dalla “risposta” venuta da Ritanna Armeni e dalla riflessione di Orlando.



Pochi giorni fa Sitara Achakzai, consigliere della provincia di Kandahar, notissima attivista impegnata nella difesa dei diritti umani, è stata uccisa a colpi di arma da fuoco mentre stava rientrando nella sua abitazione, dopo l’ennesima giornata di lavoro. Uccisa da sconosciuti, ma non c’è da dubitare su chi ha “firmato” e voluto questo e altri simili delitti: la provincia di Kandahar, 450 chilometri a sud-ovest da Kabul, è una delle più turbolente per la forte presenza dei talebani. Negli ultimi giorni di vita Sitara aveva denunciato con forza la legge approvata dal Parlamento nazionale afgano e fortemente voluta dagli ambienti religiosi oltranzisti, in cui si stabilisce la totale subordinazione della donna all’uomo, fino ad autorizzare lo stupro.



Non un fiore, non un manifesto, una veglia, una qualsiasi cosa, per Sitara. Un silenzio e un’indifferenza che danno ragione a Ritanna Armeni e a Federico Orlando. Anche per rompere questo silenzio e vincere questa indifferenza, è utile, preziosa, necessaria, una presenza radicale nel prossimo Parlamento Europeo. Se non Emma Bonino, Marco Pannella, Marco Cappato, chi?

zulux
30-04-09, 01:20
Satyagraha 2009. Aderisco

di Tino Vittorio

Il Professor Tino Vittorio, associato presso la facoltà di Scienze Politiche di Catania, autore, tra l’altro de “la mafia di carta” (Guaraldi, 1998), ha inviato alla segretaria di Radicali Italiani Antonella Casu e al Comitato Nazionale di Radicali Italiani la seguente lettera.



Da “Radio Radicale” apprendo della presentazione del documento “la peste italiana”, risultato dell’originale forma politica di proposta radicale quale è diventato in questi anni il Satyagraha insegnatoci da Marco Pannella come lotta per la verità che si incarna nei corpi di quanti vi partecipano.



Già ad una prima rapida scorsa dell’indice vi ritrovo tutto il significato e la portata dell’analisi politica radicale, qui raccolta con un inedito (almeno a me pare) grado di sistematicità. Sono sempre stato vicino ai temi radicali, ma vederseli riuniti insieme, trovarli tutti contemporaneamente presenti mi da la vertigine di chi pur già sapendo di trovarsi sull’orlo di un precipizio, si trovi a scoprirlo molto più profondo di quanto non volesse credere proprio perché si accorge che già da tempo si è scivolati e già da tempo si sta precipitando.



Da storico che ha attraversato la storia dell’ultimo mezzo secolo italiano avverto particolarmente vicina l’affermazione che strage di legalità porta strage di vite e sofferenza dei corpi. Per sovrappiù in Italia spesso anche chi si erge a difensore della legalità e del diritto cade in quegli “errori”, che oramai non mi sento più di considerare in buona fede, che hanno portato la sinistra ad abbracciare un’ideologia giustizialista ed a difendere principi quali l’obbligatorietà dell’azione penale e l’unitarietà delle carriere che sono la causa dello sfascio in cui è stata consapevolmente mantenuta l’amministrazione della giustizia.



Altro aspetto tragico della situazione italiana è la frammentarietà e la confusione in cui versano le forze che dovrebbero opporsi al dominio del regime. L’aggregarsi disordinato di forze che mirano prevalentemente a coltivare identità già defunte a beneficio di sparuti gruppi di dirigenti “storici”. Mai come oggi mi è evidente la distanza che passa tra il rigoroso e pragmatico metodo radicale e le vecchie liturgie partitocratiche vizio di cui neanche la sinistra ‘alternativa’, pur nello storico minoritarismo, è esente.



Per questo ritengo oggi fondamentale che quanti ancora aspirino ad un progresso morale e sociale si stringano attorno alla sola forza che negli anni ha dimostrato di perseguire con coerenza le idee liberali, liberiste, libertarie e socialiste. L’unica forza che oggi appare capace di contrastare credibilmente la deriva clericale della società italiana. Considero dunque l’adesione al progetto radicale una pre-condizione essenziale per guarire dalla storica, endemica Peste italiana.



Dichiaro il mio sostegno alle liste Bonino – Pannella ed invito al voto tutti coloro che ritengano come me che la cancellazione dei radicali dal parlamento europeo rappresenterebbe una iattura per l’Italia e per l’Europa.



Colgo l’occasione per comunicare la mia iscrizione a Radicali Italiani.

Burton Morris
30-04-09, 12:01
Le aporie dell’individuo*

di Angiolo Bandinelli

L’individuo? E’ tutta una contraddizione, o almeno un rebus. Amato e odiato, vezzeggiato e calunniato, esaltato e depresso, sale e scende, dagli altari alla graticola e ritorno. Con la globalizzazione il suo egoismo creativo trionfava, oggi ci viene imposta una solidarietà sociale che mette in forse la sua “privacy” (in inglese, in quanto privilegio da anglomani benestanti) insofferente di controlli. Demoniaco portato della tecnica del XX secolo ma anche figlio di dio, ormai l’individuo si ritrova tra le macerie della tecnica ma anche, contraddittoriamente, senza dio. Il “buon selvaggio” non corrotto dalla società sopravvive, in condizioni sordide, in Africa, dove si abbandona a orge di sesso non difeso dal condom e, allo stato brado e selvatico, tra le foreste di qualche repubblica sudamericana, sotto la specie del guerrigliero nell’ebbrezza dei fumi della coca. In Cina non è mai arrivato, in quelle terre si agitano formichine confucianamente obbedienti e sembra che siano definiti come individui - cioè antisociali - quanti vengono ammazzati da una giustizia di stato che adotta i metodi dei mattatoi di Chicago.



Nell’Occidente rinsavito dalla cupidigia individualistica tornano, con il compiacimento del mondo cristiano e in prima linea del Vaticano, i valori tradizionalisti, Dio, patria e famiglia. Eppure l’individuo era nato qui, in Occidente, e anzi l’Occidente si identificava con la terra dell’individuo - ricordate? “homo quisque faber ipse fortunae suae” - che aveva come suo moderno interprete Robinson Crusoe. Ora il capolavoro di Daniel Defoe sarà forse iscritto nell’Indice dei libri proibiti o ne verrà stampata una edizione ad usum delphini, con tutti i riferimenti a Venerdì eliminati, per non dar adito agli eterni sospetti - non ingiustificati - di omosessualità e comunque per non eccitare le associazioni per i diritti civili, favorevoli a principi di multiculturalità e parità interetnica e interreligiosa. Questi principi adesso fanno trend grazie al presidente Obama, che da una parte caldeggia l’abbandono del consumismo globalizzatore ma dall’altra, con prosopopea da intellettuale oxfordiano e kennediano, nega il tradizionalismo identitario stringendo la mano a talebani, cubani, afgani e sudamericani, fino a ieri “vitandi”. Ha anche mandato le sue figliole a scuola dai quaccheri, pacifisti integrali credenti nello Spirito che “soffia dove vuole” e in una “luce spirituale” - che dovrebbe guidare la vita interiore dell’uomo - assolutamente libera e dunque esposta ad ogni insana deriva.



E’ incredibile: nelle loro scuole i quaccheri, fiduciosi nella bontà originaria di un uomo non infettato dal peccato originale, la disciplina la regolano per via di persuasione, senza ascoltare la Gelmini e senza sette in condotta: anche in quella, peraltro elitaria, dove vanno le fortunate (con quella mamma!) figlie di Obama, all’inizio delle lezioni l’insegnante conta, a bassa voce, fino a cinque: il brusio cala, cessa, la classe si ricompone e la lezione può cominciare. I quaccheri - detti altrimenti “tremolanti” perché, invasati dallo spirito divino, cadono in pallide imitazioni delle estasi di Santa Teresa o delle levitazioni di San Giuseppe da Copertino - si fanno vanto di indiscutibili tradizioni di civiltà: William Penn, che li guidò nella fondazione dello stato di Pennsylvania, stabilì un accordo con gli indiani Delaware su un piede di perfetta parità. Bisogna ammetterlo: segnava almeno un punto di vantaggio sulle coeve “reducciones” del Paraguay, fondate dai gesuiti con intenti umanitari ma sempre da loro governate con mano ferrea. Quei seguaci del Loyola ebbero altri meriti: regolarono la sfrenata vita sessuale degli indios imponendo alla loro libidine la posizione copulativa detta appunto “del missionario” - più rispettosa della donna - e ritmi rigorosamente scanditi dall’uno-due delle campane del villaggio.



Sulla pelle dell’individuo si fanno comunque confusi intrecci, anche dalle nostre parti. Sta per essere approvata in Parlamento una legge circa la normativa che riguarda l’ultimo fiato del morente, minuziosamente controllato perché il poveretto possa ottenere il certificato di morte naturale senza il quale non gli sarebbe concesso di aspirare alla salvezza ultima. In cambio, l’individuo ottiene qualche risarcimento non male: un’altra legge, presentata nello stesso parlamento, vuole introdurre il principio della massima sregolatezza nell’esercizio della caccia: si potrà sparare a tutto e tutti, in qualunque momento del giorno e della notte, e catturare selvatici con ogni mezzo possibile. Si capisce perché ciò accada, la caccia è una delle attività simbolo dell’individualismo, legata com’è ad istinti primari, ancestrali, belluini dell’uomo. Il cacciatore incarna, ahimè, una delle forme del superuomo nietzschiano.

NOTE

* da “Il Foglio”

Burton Morris
30-04-09, 12:01
Carceri: ancora un suicidio. Una silenziosa “evasione” che non fa notizia

di Valter Vecellio

Non ha, ufficialmente, un nome. Chissà se il ministero della Giustizia, quando e se risponderà all’interrogazione dei parlamentari radicali, ne fornirà le generalità. Si sa però che si è tolto la vita infilando la testa dentro una busta di plastica, e respirando del gas da una bomboletta da campeggio. Era italiano, di mezza età; detenuto nel carcere “mammagialla” di Viterbo. Sarebbe interessante sapere da quanto tempo si trovava in cella, se era in attesa di giudizio definitivo o era stato condannato, e a quale pena; per quale reato. Comunque sia: quale pena, quale condanna, quale detenzione possono risultare così insopportabili da preferire di farla finita, e uccidersi?



Non è il primo caso. Un mese fa un altro detenuto, con problemi psichici, si era suicidato nel carcere di Velletri; e altri a Viterbo. Anche per questi casi i parlamentari radicali hanno presentato specifiche interrogazioni, tutte ancora in attesa di risposta.



E’ una silenziosa “evasione” che non fa “notizia”, al massimo qualche microscopico trafiletto nelle pagine di cronaca. Due ricercatori, Baccaro e Morelli, hanno realizzato uno studio interessante sulla realtà carceraria, “Il carcere: del suicidio e di altre fughe”. Documentano come il 28 per cento dei suicidi in carcere si verificano entro i primi dieci giorni, e il 34 per cento entro il primo mese.



Un’altra lettura interessante e utile è “Camosci e girachiavi” di Christian G. De Vito, a lungo volontario negli istituti di Firenze e di Prato. La scelta originale di De Vito è di raccontare la storia dei penitenziari dell’Italia democratica, dal 1943 in poi, dalla parte dei detenuti. E’ la prima volta che si tenta uno studio accurato di una mole di materiali su questo tema: “Una ricostruzione storica molto complessa per la diversità e la frammentarietà delle fonti”, spiega l’autore: dalle lettere scritte dai detenuti e mai arrivate a destinazione perché sequestrate dalle direzioni carcerarie, alle cartelle personali e i registri disciplinari. Ne emerge un affresco delle condizioni di vita in cella, nei diversi passaggi storici.



“Le celle si svuotano di italiani, e si riempiono, negli anni Duemila, di extracomunitari e di tossicodipendenti a getto continuo”, osserva De Vito. “Per questo urgono nuovi modelli e strumenti di assistenza adeguati”. Dalla lettura si ricava soprattutto come sia clamorosamente fallito il modello rieducativo che il carcere dovrebbe essere, “luogo di rielaborazione del peggio”. Il tutto dentro quelle condizioni di invivibilità che si mantengono, e anzi, si concorre ad aggravare, come dimostra l’accelerazione delle dinamiche di sovraffollamento. Il ministro della Giustizia Alfano anche l’altro giorno ha annunciato un piano per la costruzione di nuove carceri. Forse bisognerebbe pensare a pene alternative, e occuparsi anche, se non soprattutto, di quello che avviene “dentro” il carcere. Per i detenuti, e per quegli altri detenuti di fatto di cui poco e male ci si occupa, che sono gli agenti della polizia penitenziaria e il personale, spesso costretti a operare in condizioni che definire indecenti è poco.

zulux
05-05-09, 00:47
Malati, non malati? Per tutti il voto per corrispondenza, come in gran parte d'Europa

di Paolo Pietrosanti

Vorrei sottolineare una necessità di metodo, a proposito della annosa lotta per assicurare il diritto di voto ai malati non trasportabili. E mi permetto di rivolgere, proprio ai malati non trasportabili, un appello, teso a far sì che da una giusta rivendicazione di categoria possa nascere una lotta con esiti positivi per tutti.

Le battaglie per interessi e per affermare diritti di categorie specifiche sono estremamente importanti; tuttavia il vero salto di qualità si ha quando scatta altro, wuando un interesse diretto ad una rivendicazione sorge in chi non c'entra almeno apparentemente nulla.

Soprattutto, le grandi battaglie son quelle che da esigenze particolari, non importa quanto estese, sanno far sorgere grandi e profondi mutamenti per tutti. Possiamo facilmente scomodare King. ma forse nemmeno serve. Nella maggior parte dei paesi europei gli elettori votano per posta, e in percentuali alte.

A me, cieco, farebbe comodo, anche se per me non è troppo complicato raggiungere il seggio accompagnato da persona fidata. Votare per posta fa molto comodo ad una parte assai ampia degli Europei, in massima parte persone in ottime condizioni fisiche e di salute.

Votare per posta anche in Italia farebbe assai comodo a chi non è trasportabile, che potrebbe votare anche qui come i sani, e senza procedure speciali, specifiche per malati e disabili. Non è un caso che in quasi tutta Europa esista il voto per corrispondenza, che è molto utilizzato, e non costituisce misura per sani o per malati.

Sarebbe bello, direi bellissimo, se i più sfortunati sapessero coniugare ad una giusta rivendicazione per loro una battaglia per l'intera società: anche i malati intrasportabili sono cittadini.

Faccio appello agli amici malati intrasportabili perché siano loro, a partire da uno specifico palpitante, a condurre una campagna per tutti: la campagna per la introduzione anche in Italia del voto per corrispondenza. Anche per essere, di fronte alla scheda elettorale, tutti uguali fino in fondo.

zulux
05-05-09, 00:47
Quei fantastici settantanove anni

di Francesco Pullia

Settantanove anni non sono pochi ma lui non li dimostra affatto. Li ha sempre trascorsi intensamente e controcorrente e, anzi, nonostante l’età avanzata, continua a sfidare il vento contrario. Lo cerca, lo vuole, lo pretende. E se, per caso, Eolo non gli si para innanzi, lui va a scovarlo nella sua dimora segreta per continuare, da impagabile alfiere di libertà, una lotta impari. E’ cambiato solo il colore della sua chioma. Adesso è incanutita anche se sorprendentemente è rimasta sempre fluente. Stiamo parlando di Marco Pannella, un uomo cui tutti, senza distinzione di appartenenza, piaccia o no, devono molto, moltissimo, più di quando si possa credere.



Marco festeggia il suo settantanovesimo compleanno. A rischio di apparire retorici vorremmo che giungesse ad averne almeno il doppio. Si sa, è impossibile che accada, nonostante i passi da gigante della scienza, ma risulta davvero difficile immaginare uno scenario politico senza la sua presenza, senza la sua forza propositiva.



Sì, perché lui, a differenza di quanto si ritenga, ha continuamente, testardamente, proposto, dando forma (e corpo e voce) ad un progetto di riforma. Sembra un gioco di parole, ma è così. Non ha mai contestato un solo attimo della sua vita.



Pochi nel nostro paese sono riusciti, come lui, a mostrare la banalità dei luoghi comuni indicando la via per oltrepassarli, a testimoniare nei fatti, nella prassi, una religiosità scandalosa e dirompente, risultante talvolta eccessiva perché appassionata, vera.

Cosa risulta, in fondo, di più scandaloso in un paese farisaico come il nostro, in cui i mercanti fanno scempio del tempio e nel tempio avvilendo la preghiera in infima bestemmia, dell’ostinato ricorso al potere rigenerativo del verbo, dell’ostentazione della verità nuda e cruda, della sottrazione della sofferenza, dell’atrocità del dolore, all’ipocrisia della vergogna?

Marco non ha mai cessato di squadernare pagine di vita che altrimenti sarebbero rimaste occultate per essere, poi, consegnate ad un desolante oblio. Ed ha portato alla luce i piccoli drammi quotidiani, quelli che si consumano nel segreto delle nostre case, che, se non resi pubblici, se non esternati, logorano, distruggono internamente, rendono impotenti, prede di rancore e odio. Dall’alveo familiare ai letti di ospedale, dalle carceri ai sobborghi del pianeta in cui le ore sono scandite dall’inaccettabile ritmo della fame e della sete sino ai patiboli, ai bracci della morte in cui l’esistenza si trascina in attesa di un’iniezione letale, Marco si è spinto ovunque occorresse restituire dignità e riscattare l’umanità dall’obbrobrio.



Non ha mai occupato posti di governo, non ha mai ricoperto incarichi che avrebbe sicuramente onorato con intelligenza, onestà e fantasia. E’ stato, invece, estromesso dal parlamento italiano. Si è persino violata la giurisprudenza, come nel caso del legittimo scranno negatogli in Senato, pur di non rendergli il dovuto e meritato. Si è trattato e scacciato come un appestato proprio lui che, a rischio di urlare nel deserto, ci ha messo in guardia dal diffondersi di quella pandemia che altro non è che la negazione del diritto, della carta costituzionale, l’abissale degenerazione della democrazia in partitocrazia, il sopruso fattosi regola. In un paese in cui la cosa pubblica pare non potersi gestire senza sprofondare nel malaffare, Marco, il vecchio Marco, garantisce ancora un accesso alla speranza. Auguri.
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zulux
05-05-09, 00:47
Un breve ricordo di Leonardo Sciascia

di Pier Paolo Segneri

Leonardo Sciascia era un pannelliano. Sicuramente una tale affermazione apparirà a qualcuno come una forzatura, come un’espressione un po’ troppo forte o politicamente scorretta. Invece, è proprio così: Sciascia era un pannelliano convinto. “Marco Pannella è il solo uomo politico italiano che costantemente dimostri di avere il senso del diritto, della legge, della giustizia. Ce ne saranno altri, ma senza volto e senza voce”. E poi diceva di sé: “Sono, dunque, un vecchio radicale; non so fino a che punto anche nuovo, ma il radicalismo, tutto sommato, non invecchia”. Chi nega o rifiuta questo accostamento tra Sciascia e Pannella, perdonate la presunzione, o non conosce il pensiero e la vita di Sciascia o non conosce Pannella.



l maestro di Racalmuto era radicale nel profondo, anzi: era pannelliano. Come lui stesso lasciò intendere a Marco, quando Pannella si recò di corsa in Sicilia per convincerlo ad accettare la candidatura come capolista del Partito Radicale per le elezioni politiche ed europee del 1979: “Sei venuto perché sapevi che la porta era aperta”. E per uno come Sciascia, che aborriva le “porte aperte”, quella frase acquistava un significato privato. Lì dove privato è politico. Insomma, lo scrittore di Todo modo riconobbe se stesso e la forza delle sue idee nelle parole e nelle lotte di Pannella. Perché Sciascia le aveva già fatte proprie prima dell’arrivo del leader radicale nella sua casa siciliana. Altrimenti non sarebbe spiegabile un’intesa così immediata. “Ero già lì quando vi entrai. Ero già lì, e poi vi sono entrato”, scrisse. E Marco, in quel momento, a propria volta, aveva fatto suo il pensiero di Sciascia. Una sorta di identificazione reciproca. Un ri-conoscersi. Un ri-conoscimento.

Burton Morris
05-05-09, 11:36
FIAT/OPEL: perché interessa persino l’Associazione Coscioni

di Angiolo Bandinelli

La possibile fusione tra Fiat ed Opel che segue l’intesa Fiat/Chrisler appena conclusasi può segnare un momento di crescita del capitalismo e dell’imprenditoria italiana di importanza eccezionale. La fusione, se dimostrerà di avere le caratteristiche adeguate, darà vita ad un complesso industriale di peso e portata europea, capace di operare da grande player sui mercati mondiali. Ma non solo: l’iniziativa dell’ad Fiat Sergio Marchionne potrà mettere in movimento, sul continente europeo, fattori centripeti e unificanti - con conseguenze anche politico-istituzionali - proprio in un momento in cui l’Europa, a livello istituzionale e politico, ristagna o dà addirittura segni di scollamento centrifugo: come radicali, europeisti e federalisti, dovremo dunque seguire attentamente e favorire il tentativo di Marchionne. Non secondariamente, esso consentirà probabilmente alla FIAT di accantonare gli elementi negativi di una politica provinciale, troppo legata alle influenze politiche, ad un uso improprio della CIG e alla distorsione parassitaria degli ammortizzatori sociali che come radicali abbiamo sempre combattuto: l’azienda torinese dovrà porsi a diretto confronto con una realtà sopra-e infranazionale che la costringerà ad affidarsi alle sue capacità tecniche e manageriali, nell’ambito di una autentica cultura d’impresa e con una interpretazione del capitalismo che diremmo validamente schumpeteriana.



Ma l’iniziativa contribuirà fortemente a legare più strettamente l’Italia all’Europa e al mondo anche sul piano culturale e dei valori etici e sociali, riducendo il peso dell’”identitarismo” nazionale ed evitando - o fortemente riducendo - i rischi di chiusura cui il paese poteva essere condannato su impulso delle forze retrive per le quali l’Italia deve restare quanto possibile isolata rispetto ad altri paesi ed altre realtà. Per dire: chi, come l’Associazione Coscioni, si batte perché l’Italia, sui temi dei diritti civili, non resti chiusa nelle maglie del clericalismo vaticano, dovrà considerare l’iniziativa transnazionale posta in essere da Marchionne come un momento positivo, concomitante con le proprie battaglie.



C’è da augurarsi che il governo italiano sappia e voglia favorire, per la sua parte, il buon successo del tentativo della FIAT e di Marchionne, avviando una cooperazione con la Germania e attraverso di essa con i paesi centrali dell’UE, evitando di proseguire nella politica di boicottaggio del “volano” europeo a favore di ambigue intese bilaterali con paesi sostanzialmente estranei all’Europa o in qualche modo euroscettici.

Burton Morris
05-05-09, 11:36
Giallo radicale

di Guido Biancardi

“Yellow is the colour...when we rise....that's the time...I love the best”. Chi non ha mai sentito l'inizio del testo di “Colours” di Donovan? Indimenticabile canzone che termina con “Freedom is a world I rarely use whitout thinking...of the time when I've been loved”.



Giallo è il colore della stella di Davide che spiccava a Bruxelles, nel palazzo intitolato ad Altiero Spinelli, inizialmente sul petto di Pannella e sin dall'antivigilia del suo ”primo giorno da ottantenne” e, infine, nel modo più commuovente, nel giorno del 79°compleanno di Marco, anche su quello della signora Dolma Gyari, vicepresidente del parlamento tibetano in esilio intervenuta a celebrare l'avvenimento in occasione del convegno organizzato dai Radicali e dal gruppo ALDE sulle prospettive dell'idea politica di Europa e delle istituzioni che intendono rappresentarla degnamente.



Giallo è il colore del frontespizio del primo documento fascicolato presentato il 25 Aprile in via di Torre Argentina su “La peste italiana”, con citazioni di Sciascia, Tocqueville, Montesquieu, sudato frutto del Gruppo di Iniziativa di Satyagraha 2009 per lo Stato di diritto e la Democrazia cancellati in Italia. Ma, soprattutto “giallo” è il suo contenuto, del colore delle bandiere che segnalavano la pestilenza.



Oltre ad essere il colore dello sfondo di R.I. e del nostro ultimo simbolo elettorale alle europee.

Così come è un giallo il genere letterario costituito da un testo poliziesco dove si presenta un delitto e si guida il lettore alla scoperta del misterioso colpevole, il nostro “libro giallo” non è un testo di buona panphlettistica politichese ma la denunzia di un delitto politico/ecologico e l'individuazione di una pericolosa nuova forma di agente patogeno creato in laboratorio per essere strumento subdolo di una guerra d'aggressione mai proclamata, dello stesso morbo mortale che da un Paese semirurale primitivo e superstizioso e quindi socialmente ed economicamente arretrato come il nostro dei primi decenni del XX° secolo, ha già potuto contagiare molta parte del mondo intero con il Fascismo, e che ora si ripresenta, dopo il suo debellamento sotto la forma del Partito/ Stato di destra come di sinistra da parte delle democrazie occidentali (a che prezzo!) con una mutazione ancora in atto che lo rende difficilmente individuabile in regimi democratici celandosi nelle degenerazioni degli Stati partitocratici; ancora una volta partendo proprio dall'Italia ed essendosi già in parte esteso, pur se ancora insensibilmente all'apparenza, all'Unione Europea.



Il Regime, con la metamorfosi subita è oggi rappresentabile, con un'immagine tolta dalla genetica e dall'oncologia, come forma di “democrazia mutagena”, trasformazione cancerogena di cui patiscono le istituzioni/cellule di un regime di Democrazia liberale in uno Stato di diritto quando esse sono sottoposte ad una continua pressione di procurata intenzionale usura ed ad un conseguente stress degenerativo.



I Radicali compiono, nel momento del massimo livello di pericolo cui siano mai stati esposti nella loro storia peraltro marcata da continue “documentate” forme di vera e propria discriminazione e vessazione politiche, il loro massimo sforzo di denunzia storica come sotto forma di verità conquistata in Satyagraha perché essa possa essere utilizzabile come antidoto universale e come possibile vaccino per le democrazie ancora indenni dal morbo. Lo pongono in essere in condizioni di grande difficoltà, in una temperie politica in cui la Costituzione italiana si potrebbe definire, letteralmente in termini medici, “defedata”, ovvero (secondo il Devoto Oli) deteriorata nella forma e nella sostanza, deturpata.



Offrono a tutti coloro che versano nelle condizioni di non tutelati secondo legalità, nazionale od internazionale che sia, un simbolo recuperato da un recente orrendo passato, perché non debba e possa ripetersi, quello della Shoa; la stella gialla simbolo di un annunciato genocidio di ogni soggetto arbitrariamente individuato come “razzialmente” incompatibile con la stessa sua sopravvivenza, perché intrinsecamente insostenibile in quanto garante di una verità non alterabile, quella della continuità del male in forme sempre diverse, per la stessa sopravvivenza del regime che ne decreti l'adozione (l'on. Storace in veste di Presidente della Commissione di Vigilanza ha già usato esplicitamente, riferendosi al trattamento in atto in Italia nei confronti dei Radicali, i termini di ”genocidio politico e culturale”).



Crediamo di poter riuscire con la sua apposizione “evidente” sul petto a rendere esplicita l'implicita violenta aggressione posta in essere attraverso il disprezzo sistematico della legalità e dei principi che la ispirano, quelli rappresentati dai diritti inalienabili dell'uomo, da quelli civili. Ed in forma rigorosamente nonviolenta. Quella nonviolenza che fa da fondamento indefettibile alle posizioni del Dalai Lama nei confronti del popolo cinese, al cospetto del mondo intero, in modo che possa essere manifestazione ed assieme viatico di compassione universale e disinnesco di ogni tragica violenza. E che è adottata da noi, trasnazionali e traspartitici; tibetani italiani, “quindi”, anche ebrei in Cina.



E la cifra della rivendicazione storica dell'autonomia culturale nonviolenta dei popoli in luogo dell'indipendenza delle nazioni sempre foriera di conflitti insanabili sta ad indicare senza equivoci nella conquista politica oltre che ideologica dell'interdipendenza (e, più misticamente, dell”interindipendenza”), plurale nella difesa della diversità di ciascuno, l'unica possibile “via di fuga” dalle guerre che riproducono instancabilmente la prova della banalità del comunissimo male.



Mostriamo la stella gialla convinti di non commettere, così come già con il ricorso per radio al commento solenne del Requiem per le vittime innocenti della fame, alcun atto di banalizzazione o di strumentalizzazione di un simbolo così prezioso per l'umanità e così potente per la memoria non solo di un intero popolo ma di tutto il mondo che non voglia solo proclamarsi ma essere civile.



Al prezzo che essa non venga trasformata in un'altra reliquia identitaria esclusiva, santificata nell'illusione, in fondo, di nuove e sempre frustrate, indulgenze. Può essere un bel colore anche “quel” giallo, se generoso, solare, non pessimista. Da non fruire mai come in “magiche” sedute di cromoterapia. E', anche se impervia, speranza operosa da perseguire con integrità e coraggio, credibilmente, senza rispetto umano ma comunque in modo assolutamente altro che esibizionistico; oppure, altrimenti, non sarebbe, oltre che certo per i molti ignavi, anche per “tutti” quelli che sarebbero in grado di “re-agire “, ed addirittura con sollievo dalle loro innegabili responsabilità, che l'etichetta di un'altra forma mascherata dell'invidia che, sempre più inguaribilmente malata, si ripara dietro all'impotenza.



Cosa offriamo come prospettiva di salvezza per un mondo esposto ad un rischio così imminente?



Due progetti politici, rispettivamente per l'Italia e per l'Europa; entrambi di tipo inclusivo, aperti a tutti coloro che non se ne distolgono per inimicizia fondamentalista antidemocratica ed antiliberale: all'Italia prospettiamo la necessità di una nuova fase costituente dopo la cacciata degli occupanti abusivi della nostra democrazia di un sessantennio partitocratico di sostanziale continuità con il precedente regime di assolutismi uniti. La formula è quella del modello americano, l'unica che permetta di realizzare una vera riforma senza Ville Tristi, o Risiere di san Saba, ma anche senza sterminati cimiteri di guerra sotto ogni sua possibile manifestazione o Marzabotto e senza piazzali Loreto. Sarebbe, ad esempio, l'unica “pratica” soluzione del rientro nella legalità democratica di un sistema della Giustizia che senza nomina democratica, diretta o meno, dei giudici dovrebbe far ricorso ad una qualche problematica forma di novazione totale di tutto il sistema che potrebbe acquisire le fattezze di un giustizialismo antigiudiziario.



Per l'Europa chiediamo che essa non si richiuda identitariamente quanto fallacemente all'interno del recinto angusto disegnato dal circolo di stelle (tutte uguali, gialle a cinque punte) ma che si apra a rappresentare una Patria (la Motherland) Europea in luogo di una regredita associazione di Stati Nazionali, inserendo idealmente fra i propri (come graficamente proposto sullo sfondo a Bruxelles) anche simboli diversi come le stella di Davide o la mezzaluna con la stella dell'altra sponda di ciò che fu chiamato imperialmente “mare nostrum” e che può diventare una regione degli Stati Uniti d'America e d'Europa ricchissima di prospettive di reale pace nel progresso per tutti, anticipando e correggendo l'evoluzione tettonica della deriva delle ”placche politiche terrestri” così come l'aveva pre-vista con l'orrore civile del resistente umanista realizzarsi in uno stato di guerra mondiale permanente, sin dal 1948 un grande del nostro tempo, George Orwell.

Burton Morris
05-05-09, 11:37
Quando il precedente assume un connotato destabilizzante

di Sabrina Gasparrini*

Se pensiamo all’ambito del diritto privato, più in particolare agli ordinamenti che rientrano nella grande famiglia della common law, quelli in cui la norma giuridica presenta un connotato di astrattezza meno marcato perché diretta alla soluzione di un processo, la centralità del precedente emerge in tutta la sua pienezza. Una rilevanza molto forte del precedente si può però riscontrare anche nel diritto pubblico, rispetto al funzionamento delle istituzioni e alla corretta applicazione della legge fondamentale nell’ambito di ordinamenti che, come il nostro, appartengono ad un’altra famiglia. In questo contesto il precedente assume un rilievo per certi versi maggiore, poiché rischia di divenire in futuro l’alibi che consente al regime di ammantare di presunta legalità scelte profondamente eversive ed erosive dello Stato di diritto e della democrazia. In diritto costituzionale e in diritto parlamentare, dunque, un precedente, sebbene apparentemente innocuo, rischia invece di valere molto e di produrre effetti deleteri. La certezza del diritto e delle procedure non è un’invenzione o un puntiglio dei Radicali, ma un principio immanente dell'ordinamento, che si ricava dall'interpretazione sistematica di tutta la disciplina costituzionale, sebbene, da questo punto di vista, rilevi in particolare il secondo comma dell'art. 25, in base al quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Questo vuol dire, in sostanza, che ciascun cittadino deve essere posto in condizione di conoscere in modo certo quali sono le leggi in vigore sul territorio dello Stato in un dato momento. Rispetto a questa esigenza di “certezza”, solo uno Stato che si pone nella condizione di assicurare a sé stesso, ai suoi stessi organi, un funzionamento corretto e trasparente può ben sperare di riuscire a dare effettiva realizzazione a questa necessità. In Italia le cose funzionano diversamente e numerose sono le storture che si possono evocare in questo senso. Volendo proporre uno dei tanti esempi possibili, in Italia uno studente che supera brillantemente l'esame di diritto parlamentare, potrà in parte conoscere il reale funzionamento dell'organo legislativo solo se avrà avuto la fortuna di studiare su un manuale adeguato e di seguire un docente particolarmente sensibile e attento, e questo per via della preponderanza che spesso assumono i precedenti, la prassi.

Normalmente il ricorso alla prassi dovrebbe avvenire laddove esiste un vuoto normativo, o nel caso in cui sia la norma stessa a lasciare spazio al precedente. Da noi succede invece che il precedente, se reiterato, può addirittura farsi norma, magari a svantaggio della norma scritta ma disapplicata. Nel nostro Paese, inoltre, quando si parla di precedenti ci si avvia su un terreno pericoloso perché mentre in altre realtà, in Inghilterra e negli Stati Uniti per esempio, le stesse istituzioni o il mondo accademico provvedono alla codificazione dei precedenti così da consentirne la conoscenza da parte delle forze politiche e della collettività, in Italia, quando un presidente di Assemblea o di commissione invoca un precedente, gli unici in grado di valutarne la correttezza e l'opportunità (e direi anche l'esistenza) sono i consiglieri parlamentari, che detengono una sorta di monopolio da questo punto di vista. Questo è solo un ulteriore esempio di quella Peste Italiana che la politica dei partiti e la partitocrazia della politica sono state capaci di produrre nel nostro Paese, seminando così i germi per la nascita di nuovi totalitarismi, di nuovi autoritarismi che necessariamente avranno connotati ideologici diversi da quelli che hanno contraddistinto il fascismo e il nazismo, ma saranno identici nella sostanza. Questo pericolo come cittadini ci troviamo a correre nel nostro Paese; e chissà cosa direbbero col senno di poi quanti oggi preferiscono ignorare, o addirittura non possono conoscere queste cose e fino a che punto le loro vite e quelle dei loro figli rischiano di veder vanificarsi dinanzi ai loro occhi le speranze di democrazia e prosperità che erano dei loro genitori e dei loro nonni all’indomani della seconda guerra mondiale.

Per altro verso, e sempre volendo considerare l’importanza che può rivestire un precedente nella vita e nella Storia di uno o più popoli, viene da chiedersi cosa penserebbe oggi Sayyid Qutb se a quarant’anni di distanza potesse assistere agli effetti destabilizzanti che ha prodotto la sua “predicazione”, non solo in Egitto ma in diverse parti del mondo islamico sunnita, con riverberi, come quello dell’11 settembre, tragicamente avvertiti dal mondo intero. In questo caso, un precedente che ha avuto luogo nel micro di una realtà storica e statuale di un momento, si trova oggi, assieme ad altri, a produrre conseguenze devastanti nel macro del vivere globale. Sayyid Qutb, egiziano, prima insegnante (laureatosi al Dar al-‘ulum, la scuola pubblica, non religiosa) poi ideologo dei Fratelli musulmani nella fase della riorganizzazione del 1965, autore di Pietre miliari, assieme ad altri pensatori come il pakistano Mawdudi ha profondamente segnato lo sviluppo dei movimenti fondamentalisti islamici degli anni Settanta ed esercita una grande influenza ancora oggi. Qutb è stato colui che, senza averne i titoli, si è preso la responsabilità di un precedente che gli ulama non si erano mai voluti assumere. Facendo rientrare il regime di Nasser, colpevole di perseguitare i Fratelli musulmani, e la stessa società egiziana, inerte a fronte di tali abusi e adorante il “principe perverso” (Nasser medesimo), nella categoria della jahiliyya, opera una scelta che comporterà conseguenze di non poco conto. La parola jahiliyya, infatti, deriva dalla radice araba “ignorare”, ma possiede un connotato diverso rispetto al termine juhl, che si usa semplicemente per indicare una persona ignorante. L’elemento distintivo sta nell’origine coranica della parola, usata per indicare la società preesistente a Maometto, alla rivelazione. Per Qutb poteva dirsi jahilita qualsiasi società che adorasse qualcosa di diverso da Dio; potenzialmente, l’umanità intera poteva farsi rientrare in quella categoria.

I parametri in base ai quali è possibile qualificare come musulmana una società consistono per Qutb nella ‘ubudiyya (l’adorazione, di cui Dio deve essere l’unico oggetto) e nella hakimiyya (la sovranità, che non può appartenere ad altri che a Dio, poiché solo il principio della sovranità divina costituisce un’utile garanzia contro il potere discrezionale del principe). Da notare che questi due termini, che Qutb mutua da Mawdudi, non sono menzionati nel Corano, ma si prestano perfettamente alla scopo. Posto che lo Stato indipendente e i suoi consociati appartengono alla jahiliyya, Qutb si preoccupa immediatamente di dare una risposta rispetto al da farsi, e lo fa affiancando all’“arma” del discorso, della predicazione, quella del “movimento”, riferendosi implicitamente alla propagazione dell’islam attraverso la “sciabola” e “il Libro”[1]. Nella sua visione, l’affermazione dello Stato musulmano sarebbe dovuta avvenire grazie alla nascita di un’avanguardia, che innanzitutto avrebbe preso le distanze dal contesto jahilita per operare la fase dell’ “approfondimento” attraverso l’ispirazione coranica, il distacco dalla società (una sorta di egira), per poi attuare (grazie al “movimento”) la battaglia alla società jahilita. In un capitolo del suo libro più importante, Pietre miliari, Qutb afferma chiaramente di intendere il concetto di jihad in tutte le sue accezioni[2].

Pietre miliari è un testo ad oggi ancora controverso, difficile da reperire nella sua versione integrale, ma soprattutto è uno scritto che lascia spazio a dubbi e liberalità di carattere interpretativo. L’autore non ebbe il tempo di precisare meglio la definizione di jahiliyya, in quanto morì impiccato dal regime nasseriano nel 1966. Qui entra in gioco il precedente. Le diverse componenti del movimento fondamentalista hanno elaborato negli anni la rispettiva strategia in funzione della risposta che ciascuna ha dato all’interrogativo circa il carattere jahilita del solo "principe perverso" e della sua burocrazia o anche della società egiziana tutta. Gli ulama hanno sempre maneggiato con cautela lo strumento del takfir, della scomunica del potere costituito, proprio perché rischia di cadere nelle mani di settari fondamentalisti incontrollabili. Non è forse quello che è successo nell’ambito dei movimenti islamisti? Un precedente ha costituito la base perché avvenisse la strage di popoli che le centinaia di attentati terroristici hanno provocato. I concetti elaborati da Qutb, infatti, non solo hanno conservato attualità dopo la morte di Nasser, ma sono stati traslati e applicati anche a realtà altre da quella egiziana, con i risvolti che conosciamo.

[1] La sciabola serviva a sottomettere quei territori governati da non musulmani e a costringere i pagani a convertirsi (pena la morte), mentre il Libro, la predicazione, era preposto a condurre alla conversione i cristiani e gli ebrei.

[2] Dopo la morte di Qutb, il clero ufficiale, per bocca dello shaykh di al-Azhar incaricato di pronunciarsi sul contenuto di Pietre miliari sostenne che qualsiasi tentativo di indicare col nome di jahiliyya un periodo storico diverso da quello terminato con l'arrivo di Maometto è da considerarsi blasfemo.

NOTE

*militante radicale e direttore del "Radicalfax"

Burton Morris
05-05-09, 11:37
Affissioni abusive: la prova di un crimine. Fermali con una foto!

di Mario Staderini

Alcune settimane fa, su segnalazione di Rocco Berardo, scopro che un’importante agenzia pubblicitaria di Milano offre tra i suoi servizi le “Affissioni Killer”.



All’interno del depliant si legge “Nel periodo più caldo di una campagna elettorale può essere utile una strategia molto aggressiva, che punta sulla quantità delle affissioni utilizzando anche spazi non disponibili. Sebbene questa pratica sia soggetta a contravvenzione, l’efficacia della comunicazione così ottenuta supera di gran lunga il valore dell’ammenda”.



Da tempo assistiamo alla sistematica violazioni delle leggi elettorali da parte di quasi tutti i partiti, con manifesti appiccicati ovunque al di fuori degli spazi consentiti e a danno di chi, come noi Radicali, non accetta questo gioco sporco.



Ammetto però che scoprire che una impresa affermata, addirittura sul proprio sito internet, offre un servizio dichiaratamente fuorilegge, mi ha sorpreso.



Per vederci più chiaro mi accordo con la Iena Paolo Calabresi: travestito da mio factotum, si recherà a Milano per commissionargli una campagna di affissioni.

Ne esce fuori un’inchiesta televisiva esemplare, grazie alla quale per la prima volta alcuni milioni di italiani hanno potuto vedere con i loro occhi quanto noi Radicali da anni denunciamo in tutte le sedi: l’esistenza di un patto scellerato tra partiti, agenzie di affissione e enti locali, volto a fare strage di legalità ed a sovvertire le regole minime del gioco democratico.

Di fronte ad una telecamera nascosta, i due titolari dell’agenzia involontariamente “confessano”.



L’affissione selvaggia di manifesti è preparata a tavolino; c’è un tariffario specifico: 0,6 euro per manifesti regolari, 1 euro per quelli abusivi. Gli stessi pubblicitari consigliano una campagna di manifesto selvaggio, è più efficace. Dicono che il Comune lo sa, chiude un occhio, tratta con loro per spartirsi il territorio. Quando un agente comunale fa troppe multe, viene richiamato dai pezzi grossi, addirittura un Ministro, uno di quelli che va sempre a Porta a Porta.

Suggeriscono i trucchi per evitare rogne: innanzitutto denunciare il furto di 5.000 manifesti, così uno può sempre sostenere che non è stato lui; oppure falsificare il nome del committente responsabile, come quel partito lombardo che alle scorse elezioni utilizzò il nome “Walter Veltrun”.



E se va male niente paura, tanto arriva il condono: con l’ultimo decreto Milleproroghe, il Parlamento ha condonato ai partiti tutte le multe fatte dal 2005.



Sono certi dell’impunità.

I Prefetti, la Magistratura, sono soliti girarsi dall’altra parte. Assistono inermi alla violazione delle leggi elettorali, oggettivamente complici, negando anche in questo modo agli elettori la possibilità di conoscere per poi scegliere e deliberare. La reiterazione degli illeciti avviene in pieno giorno, in prossimità delle caserme dei carabinieri, dei commissariati di polizia, persino a 100 metri dal Quirinale, senza che si abbia mai notizia di interventi delle forze dell’ordine per l’identificazione dei responsabili materiali e dei loro mandanti



L’affissione abusiva di milioni di manifesti elettorali non è solo uno scempio incivile che deturpa le nostre città, le inquina, fa spendere decine di milioni di euro di denaro pubblico per ripulirle.
È un vero e proprio Crimine, volto a sovvertire le regole minime del gioco democratico.
Da Radicale, sono convinto che non ci si possa rassegnare al fatto che le istituzioni della Repubblica consentano il sistematico attentato ai diritti civili e politici dei cittadini.

È questa la peste italiana che rischiamo di esportare in Europa.



Da oggi grazie alla squadra radicale di “Fai Notizia” abbiamo uno strumento in più.

Su www.fainotizia.it, infatti, è nata una inchiesta partecipativa che consente di realizzare un dossier video e fotografico. È alla portata di tutti, basta fotografare un caso di affissione abusiva, caricare la foto sul sito indicando luogo, data, ed usare il modello di denuncia online.

Sindaci e Prefetti si troveranno davanti ad atti dovuti: il Comune dovrà oscurare il manifesto, rimuoverlo a spese del responsabile ed irrogare la sanzione; il Prefetto individuare i responsabili ed eventuali reati associativi. In caso di inerzia, concederemo un‘altra occasione alle Procure per fare il loro dovere. La nostra documentazione renderà, più che nel passato, molto difficile fare finta di niente.



Missione impossibile? Probabile, ma con le tecnologie digitali, con internet, possiamo davvero creare in tempo reale un dossier senza precedenti.

L’armamentario nonviolento è pronto.



Per i compagni sul territorio che lo vorranno, abbiamo modelli di denuncia, diffide alle istituzioni, esposti. Per tutti, c’è la possibilità di fermarli con una foto. Subire è un po’ morire.



Per informazioni mario@staderini.it

Burton Morris
05-05-09, 11:37
Regime: Berlusconi è il prodotto ultimo di un processo che viene da lontano
In margine a un’intervista di Dario Franceschini

di Valter Vecellio

Si prenda l’incipit della lunga intervista che il segretario del PD Dario Franceschini ha rilasciato ad Aldo Cazzullo del “Corriere della Sera”: “Vorrei fare una domanda alla borghesia produttiva, agli imprenditori, agli intellettuali, ai moderati, anche a una parte delle gerarchie ecclesiastiche italiane: possibile che non vediate dove ci sta conducendo Berlusconi? Possibile che non vediate che ormai si considera al di sopra della legge e di ogni morale, che pensa di avere così tanto potere da permettersi tutto? Vorrei suonare un campanello d’allarme…”.

Ora si provi a sostituire Berlusconi con “il regime”. La “domanda” ora suona senz’altro meglio, è più appropriata, l’analisi più esatta. Per il leader del PD il modello perseguito da Berlusconi non è Peron, piuttosto “alcune delle repubbliche ex sovietiche dell`Asia centrale, dal Turkmenistan all`Uzbekistan. Paesi in cui il potere personale del capo è intrecciato con il potere dello Stato e i poteri economici”. Esempio calzante, solo che Berlusconi non è l’uomo nero improvvisamente apparso nel nostro orizzonte; è piuttosto il prodotto ultimo di un processo che viene da lontano.

Val la pena di segnalare altre due risposte di Franceschini. A Cazzullo che gli chiede dei risultati del sondaggio Ipsos-“Sole 24 Ore”, dove emerge che anche quell’elettorato fino a ieri tradizionalmente schierati a sinistra ora danno credito, fiducia e voto a Berlusconi, risponde ammettendo che si tratta di un problema serio: “Ma non è un alibi ricordare che, dal `94 a oggi, ogni partita elettorale è truccata, perché si svolge in condizioni totalmente anomale. Se McCain avesse affrontato Obama avendo il controllo delle tv e di una parte crescente dell’apparato finanziario e produttivo o cento volte in più di fondi perle campagne elettorali, avrebbe forse perso? Il problema non è solo la tv. In Italia si stanno assuefacendo anche i mondi che contano. Noi siamo ancora qui a contare i secondi che ci dedicano i vari tg, peraltro con un disequilibrio vergognoso, ma intanto la tv in questi vent’anni ha costruito un modello sociale: non ha solo informato, ha formato gli italiani a gerarchie di valore e di comportamento. Eppure a Berlusconi non basta: attacca Sky, blocca la concorrenza. Il degrado populistico si intreccia con il degrado morale, e comporta un forte rischio neoautoritario”.

Ma non si può dimenticare che la televisione pubblica è stata (ed è ancora) considerata terreno di scorribanda e di conquista tanto dal centro-destra che dal centro-sinistra; e certamente il problema non è tanto (o solo) contare i minuti dei vari TG; ma per sapere: abbiamo già dimenticato la bella (si fa per dire) pagina scritta per quel che riguarda la Commissione Parlamentare di Vigilanza? Programmi di approfondimento politico come quelli di Michele Santoro o di Giovanni Floris, nelle loro scelte editoriali (e nelle loro discriminazioni, per le quali sono stati condannati), in cosa differiscono da altre, che vengono messe sul banco dell’accusa e indicate come esempi di faziosità e partigianeria? E se Antonio Di Pietro e l’Italia dei Valori hanno acquistato visibilità e popolarità al punto da preoccupare seriamente lo stesso PD che si vede erosi consensi fino a ieri “sicuri”, chi è responsabile? Ma Franceschini la legge “l’Unità”, che ogni giorno, da settimane e mesi tira la volata a Di Pietro?

Franceschini sostiene che il rischio, fra un mese, è di risvegliarci “davvero in una repubblica ex sovietica dell’Asia centrale. E se succedesse gran parte della colpa sarà di chi, da qui ad allora, sarà rimasto inerte o zitto. Per scelta o per paura”. Non c’è bisogno di aspettare un mese. Come abbiamo documentato ne “La peste italiana”, le regole democratiche che i Padri Costituenti intesero porre alla base della Carta fondamentale dello Stato sono state, da subito ed in maniera ampia, disattese dai partiti, che si sono impadroniti del sistema politico-istituzionale del nostro Paese. Nei decenni successivi il processo degenerativo ha investito tutti gli organi e le istituzioni repubblicane, via via erodendo lo Stato di diritto per finire ai giorni nostri, dove il processo di svuotamento e di svilimento della Costituzione viene a compimento in maniera così eclatante, oltre che condivisa.

Il discorso, la denuncia, l’analisi, è da questo dato che deve partire. Il resto è fuffa.

Burton Morris
06-05-09, 19:37
Memorandum. Avevamo ragione a contrastare l’OPA addomesticata

di Piero Capone

L’inserimento tra le misure anti-crisi di una modifica sostanziale della normativa in merito all’Offerta Pubblica di Acquisto (OPA) sarebbe passata quasi inosservata (a parte qualche riflessione critica di alcuni addetti ai lavori) se non ci fosse stato il segnale d’allarme lanciato dai Radicali. Sfociato, in sede di dibattito parlamentare, in un nostro ordine del giorno, ovviamente contrastato dalla maggioranza.



La nostra dura critica nasceva dalla constatazione che con quella controriforma si veniva a colpire uno dei punti più delicati degli assetti di potere nelle grandi imprese: la loro contendibilità.



In parole povere che si veniva a ledere ulteriormente la nostra già precaria concorrenza.

Lo snaturamento della precedente regolamentazione (Testo Unico della Finanza del 1998) portava al duplice nefasto risultato: ingessare gli assetti proprietari impedendo l’afflusso di nuovi capitali e sottrarre potere agli azionisti per affidarlo nelle mani delle tecnostrutture oligarchiche che controllano l’impresa.



In precedenza, in caso di OPA “ostile”, cioè non gradita al management, questo era obbligato, prima di alzare le difese contro i nuovi pretendenti, a chiedere la delibera dell’ Assemblea di Soci. Cosa che sembrerebbe scontata in un sistema di normalità capitalistica.

Invece no: questo Governo “liberale” trasforma l’obbligatorietà in facoltà, ovviamente a discrezione di quei vertici tecnocratici in palese, forte conflitto di interessi.

Con un’ OPA “ostile”, infatti, essi sarebbero, ovviamente, i primi ad essere licenziati.

E, se non bastasse, sempre il Governo impone l’innalzamento dal 10% al 20% della quota di capitale proprio, detenibile dalle aziende.



Sistema anche questo atto a bloccare ulteriormente la libera circolazione dei capitali.

Quindi, tutti i tradizionali blocchi a favore delle oligarchie al potere, che rendono poco concorrenziale il mercato italiano, invece di ridursi (come accadrebbe se i liberali fossero al governo), con questo semplice provvedimento, diventano ulteriormente più forti.

Allora avevamo denunciato giustamente una grave deriva protezionista.



E ora, a poche settimane da quella vicenda, registriamo con piacere la completa assonanza con le nostre tesi da parte della Commissione Antitrust.



Che non si ferma solo a questo ma polemizza – fatto insolito – con un’altra Autorità (la Consob) che in maniera improvvida a suo tempo aveva elargito il suo “avallo” e la sua totale “copertura” alla deprecata manovra governativa.

Burton Morris
06-05-09, 19:37
Svegliati Europa!*

di Emma Bonino

Il messaggio centrale dell'Audit politico sulle relazione Unione europea e Cina, vale a dire l'analisi dettagliata di come ciascun Stato membro affronta le questioni più sostanziali nelle proprie relazioni con la Cina e dei loro rapporti di forza, condotto dall'European Council on Foreign Relations (ECFR), è che la politica europea nei confronti della Cina non è coordinata né condivisa e, di conseguenza, presentandoci in ordine sparso e con agende diverse - anzi, spesso facendoci del male da soli in concorrenza l'uno contro l'altro - l'influenza Europea (leverage) sulla Cina è quasi inesistente. Risultato: la Cina, che pure per via della sua storia e tradizione, conosce l'Europa attraverso i suoi secolari rapporti con singoli paesi europei, ha difficoltà a percepire l'Ue come entità unica o comunque come attore rilevante sulla scena mondiale. E, spesso, queste divisioni le accentua ad ulteriore danno dei paesi europei, non avendo incentivi a comportarsi diversamente.



Il rapporto identifica la posizione dei 27 stati membri riunendole, approssimativamente, in 4 gruppi: liberisti ideologici (Danimarca, Olanda, Svezia, capeggiati dalla Gran Bretagna) contrari a qualsiasi iniziativa protezionista anche di fronte all'attuale crisi mondiale, pronti a criticare la Cina sui diritti umani e disponibili ad incontrare il Dalai Lama seppur non ufficialmente; mercantilisti apolitici (Bulgaria, Cipro, Finlandia, Grecia, Ungheria, Malta, Portogallo, Romania, Slovenia, Slovacchia, Italia, e la Francia chiracchiana perché con l'arrivo di Sakozy la posizione francese è cambiata, con meno realpolitik per esempio su Olimpiadi e Tibet) che ritengono che una politica acritica sia la più adatta per far maturare benefici economici e quindi stanno storicamente alla larga da qualsiasi rilievo sui diritti umani (paradossalmente sono i paesi che più soffrono dalla crescita della Cina); industrialisti intransigenti (Repubblica Ceca, Polonia e Germania) pronti a minacciare la Cina di reciprocità in caso di protezionismi (la Germania se lo può permettere essendo il primo partner commerciale in Europa); i discepoli (Austria, Belgio,Irlanda, Paesi baltici, Lussemburgo), quelli che, passivamente, seguono la posizione europea, quando questa si manifesti.



Una fotografia non proprio lusinghiera per l'Europa: la cacofonia delle posizioni fa sì che la Cina non ci sente; la frammentarietà delle politiche fa si che non ci vede. E' fondamentale che l'Europa trovi la volontà politica e i meccanismi per superare questo stato di cose se non vuole condannarsi alla irrilevanza.



In fondo l'Europa e la Cina non hanno contrasti strategici o interessi conflittuali a livello regionale (basti pensare all'Afghanistan: ha la Cina interesse ad avere ai suoi confini uno stato musulmano integralista di matrice al qaedista? No, ma c'è da domandarsi quanto sia stata finora coinvolta, o si sia lasciata coinvolgere, in un approccio regionale alla questione) ma la strategia realista della Cina, che la rende indifferente per non dire "glaciale" su molte delle questioni internazionali, fa sì che alla fine gli obiettivi di ciascuno rimangano distanti. Ma quando l'Europa si presenta unita - è il caso dell'approccio E3 in Iran - la Cina non rimane insensibile; dove si presenta sparpagliata - è il caso della Birmania - la Cina la ignora.



Per questo, il rapporto propone un nuovo approccio che ha chiamato "reciprocal engagement", accantonando la "unconditional engagement" portata avanti finora. Per i paesi Ue ciò significa "europeizzare" le proprie politiche (perciò l'adozione del Trattato di Lisbona è importante) e il rapporto vede in Gran Bretagna, Francia e Germania gli unici paesi capaci di prendere la leadership in questa direzione. I quattro gruppi identificati dovrebbe fare più compromessi, i primi cominciando ad essere meno dogmatici e meno critici di qualsiasi posizione europea che finisce per indebolirla, i secondi a mollare le mire di un rapporto esclusivo e a sostenere posizioni comuni su Tibet e Taiwan, i terzi ad essere più selettivi nella loro critica e mettere in comune alcuni dei mercati che hanno monopolizzato (in particolare la Germania), i quarti ad essere più proattivi nel sostenere posizioni comuni. Questo darebbe all'Europa più peso sul rispetto dei diritti umani e assicurerebbe un miglior accesso ai mercati cinesi; si troverebbe in una posizione rafforzata per negoziare contenziosi su pratiche sleali e sul rispetto della proprietà intellettuale, e per incitare maggiori riforme economiche. La moneta di scambio potrebbe essere la Market Economy Status per la Cina ed un miglior accesso per gli investimenti cinesi in società europee. L'Europa deve muoversi rapidamente, in maniera coesa, concentrandosi su di un dialogo costruttivo anziché vagheggiare di volta in volta di G8, G14, G20 o G quant'altro. Il rischio è che per semplificarsi la vita si finirà per avere un G2 secco, come già qualcuno propugna, con la Cina unicamente concentrata sugli Usa e viceversa, visti i rapporti così interconnessi: mercati Usa in cambio di liquidità cinese. E' un dossier difficile e complesso, certo. Ma di fondamentale rilevanza: la Cina è oggi un attore imprescindibile sullo scacchiere mondiale dal punto di vista politico, economico, finanziario, ambientale/energetico ed altri ancora. Un' Europa coesa, magari in sintonia con l'Amministrazione Usa, avrebbe più possibilità di ottenere dalla Cina comportamenti coerenti a quello status di "responsible stakeholder" di cui parlava Robert Zoellick.

NOTE

*da Formiche - aprile 2009

Burton Morris
06-05-09, 19:38
L'ultimo di loro vuol diventare come il "Primo"?

di Michele Lembo

Silvio Berlusconi è il prodotto ultimo di un processo che viene da lontano. Con il passare del tempo, con lo sperimentare il brivido e la solitudine del potere, comincia però a prefigurare qualcosa con tratti caratteristici e singolari, un qualcosa che interesserà di sicuro gli storici del domani, i quali dovranno litigare a lungo per trovare un nome adatto a quanto sta accadendo. E il delineare per il meglio possibile quanto sta accadendo serve molto anche alla nostra lotta di r/esistenza contro quello che chiamiamo regime.



Marcello Dell'Utri non è nuovo al ruolo di apripista, al ruolo di colui che percorre le strade impervie per aprire la strada ai suoi. La pista che percorre in questi giorni l'ha descritta dicendo che lui non ha paura delle polemiche che verranno, ma vuole solo la verità. E vediamo la sua verità: «Mussolini – dice Dell'Utri - ha perso la guerra perché era troppo buono. Non era affatto un dittatore spietato e sanguinario come poteva essere Stalin. Leggendo i diari, giorno per giorno, per 5 anni dal ’35 al ’39, cioè alla vigilia della decisione di entrare in un conflitto mondiale già iniziato, posso assicurare che trovo Mussolini un uomo straordinario e di grande cultura. Un grande scrittore, alla Indro Montanelli, i suoi diari sembrano cronache di un inviato speciale, con frasi brevi e aggettivazioni efficaci come raramente ho letto». «Non è colpa di Mussolini se il fascismo diventò un orrendo regime. Ci sono testimonianze autografe del duce in cui critica i suoi uomini che hanno falsato il fascismo, costruendosene uno a proprio modo, basato sul ricatto e sulla violenza. Il suo fascismo era di natura socialista». Di quale natura socialista parla Dell'Utri? Forse di quella che dal 1917 faceva da sfondo al regime sovietico? Forse. Ma andiamo avanti.



Secondo Dell’Utri «sono state le sanzioni (certo. La perfida Albione, la Società delle Nazioni e il complotto demo-giudaico-massonico...) a costringere Mussolini a trovare un accordo con la Germania di Adolf Hitler. Se non ci fossero state le sanzioni, probabilmente non si sarebbe mai alleato con Hitler che non stimava per niente, anzi temeva. Ci sono pagine inedite, scritte da Mussolini su questi anni, che faranno discutere molto e che dimostrano la disaffezione del duce nei confronti del Furher, tanto che definisce il suo “Mein Kampf” un rigurgitevole testo». Quanto alle leggi razziali, «nei suoi diari - afferma ancora il parlamentare del centrodestra - Mussolini scrive che le leggi razziali devono essere blande. Tra gli Ebrei, il duce, spiega di avere i suoi più cari amici e si chiede perché seguire Hitler con le sue idee sulle razze ariane, razze pure che non esistono».



Dell'Utri parla dello stesso Mussolini che nulla fece per impedire le deportazioni di Roma del 16 ottobre 1943, che fonda la RSI proprio su quelle tragedie, che rivendica senza mezze parole il delitto Matteotti? Che si stupisce del fatto che il delitto di Carlo e Nello Rosselli passi quasi inosservato tra gli italiani del 1937? Italiani divenuti sordi alle mosse sordide del suo regime, sordi un po' come oggi lo sono alle cose radicali? «Ho scoperto nei diari di Mussolini - dice ancora Dell’Utri - la figura di un grande uomo. Ha commesso errori ed è già stato condannato dalla storia. Ma da questi scritti viene fuori una figura diversa da quella che ci è stata propinata dagli storici dei vincitori, non era un buffone, non era un ignorante e tantomeno un sanguinario. Era un uomo buono. Mussolini era solo una brava persona che ha fatto degli errori». E tanto per far capire che non si sta parlando di storia Dell'Utri precisa: «A palazzo Venezia, con le donne il duce usava la tecnica 'musica e magia'. Negli anni, dal ’35 al ’39 Mussolini non aveva amanti, ma solo fugaci incontri e faceva quello che oggi si riassume in: musica (tromba) e magia (sparisci). L’unica donna che lo colpì profondamente fu Claretta che viene descritta, in una pagina del 16 Ottobre del ’36, in maniera straordinaria e si capisce quanto Mussolini ne fosse innamorato».



Non gridiamo al lupo. Le cose che dice Dell'utri le ripetono in molti da anni, tra gli storici definiti “revisionisti”, in verità con ben altro grado di profondità. Il fatto che questi temi tornino in questi giorni fa però pensare ad altro: a quello cioè che più volte è stato definito come il “fascismo antropologico”, di lunga durata, che ha interessato il nostro paese, quel tratto insomma che rischia di ripresentarsi in forme diverse, ma con caratteristiche simili, ancora una volta, nel nostro paese.

Burton Morris
06-05-09, 19:38
La verità non è un “affare di famiglia”

di Valter Vecellio

Ha poco di che dolersi il presidente del Consiglio; “papi” controlla direttamente o indirettamente tre quarti dei mezzi di comunicazione, e gli effetti di questo controllo si vedono ogni giorno. Gli sta anzi andando anche troppo bene: in altri paesi la stampa e le televisioni – giusto o sbagliato che sia – lo avrebbero già fatto a pezzi da tempo. Sostenere che la moglie è caduta in una trappola tesa dalla sinistra, e che tutto sarebbe frutto di una montatura di alcuni giornali, è una corbelleria che può essere accreditata solamente dai corifei di “papi”. “Papi” attende le scuse della moglie, e forse la perdona. Lui?! Intanto non è il massimo dell’eleganza sostenere che la propria moglie si è fatta turlupinare dal primo che passa, ma l’eleganza è come il coraggio; non basta un vestito di Caraceni per averla. Poi, perché questa sinistra non è capace di imbastire alcun tipo di trappola, se non quelle contro se stessa; infine, perché se una trappola c’è stata, chi l’ha costruita è lo stesso intrappolato: con i suoi atteggiamenti spavaldi e i suoi quotidiani comportamenti. Degli “affari di famiglia” di “papi” importerebbe ben poco se non fosse che l’intero paese viene considerato un generale “affare di famiglia”. E’ patetico, comunque, sostenere che se la stampa avesse riportato le cose correttamente, queste cose non sarebbero accadute.



Allora: se una ragazza diciottenne chiama “papi” il presidente del Consiglio, non è un’invenzione o un complotto della stampa. Se la stessa ragazza dichiara in più interviste di aver frequentato a Milano e a Roma “papi”, non è un’invenzione o un complotto della stampa. Se le liste dei candidati per il Parlamento Europeo sono state frettolosamente sbianchettate, dopo che la moglie di “papi” si è pubblicamente risentita, questa non è un’invenzione o un complotto della stampa. Se si sostiene che il padre della ragazza, vecchio amico di “papi”, lo si è conosciuto perché era l’autista di Bettino Craxi, e si viene smentiti, questa non è un’invenzione o un complotto della stampa. Non sono invenzioni o complotto della stampa gli innumerevoli precedenti a questa storia, quando nessuno sapeva che “papi” veniva chiamato “papi”. Ha ragione chi sostiene che tra “moglie e ‘papi’ non si deve mettere il dito”. Ma se “papi” è un personaggio pubblico, e non dice la verità, allora la questione assume una diversa connotazione.



La verità, dunque. Può essere d’aiuto Leonardo Sciascia, che spesso diceva di sentirsi impegnato soprattutto con se stesso, e per se stesso. E aggiungeva: con altri me stesso che sono i lettori. I lettori considerati come il Vangelo raccomanda di considerare il prossimo. Questo “era il nocciolo dell’impegno, del mio impegno. Non è possibile mentire a se stessi. Io posso sbagliarmi, posso non capire. Ma mentire mai. Che senso avrebbe mentire per ingannare me stesso?”. Fedele a se stesso, insomma, una verità contro chierici e impostori.



Impegno, dunque, a dire la verità. “Mi duole l’Italia”, aggiungeva Sciascia. “L’Italia è un paese senza verità”. Quando accettò la candidatura alla Camera nelle liste radicali, Sciascia rilasciò una dichiarazione che costituisce un vero e proprio manifesto e programma politico:

“Parlando di politica Borges diceva che se ne era occupato il meno possibile, tranne che nel periodo della dittatura. Ma quella, aggiungeva, non era politica, era etica. Al contrario, io mi sono sempre occupato di politica, e nel senso sempre etico. Qualcuno dirà che questa è la mia confusione o il mio errore: il voler scambiare la politica con l’etica. Ma sarebbe una ben salutare confusione e un ben felice errore,m se gli italiani e specialmente in questo momento, vi cadessero, Io mi sono deciso, improvvisamente questa confusione e questo errore nel modo più esplicito e diretto del far politica”.



Sciascia amava citare due scrittori: il cattolico Georges Bernanos, autore di un grande libro contro il franchismo, “I grandi cimiteri sotto la luna” (e per questo nel mondo cattolico di allora divenne una pecora nera); e André Gide, che pur comunista, prima di diventare uno dei sei “rinnegati”, come li bollò Palmiro Togliatti, non esitò a denunciare negli anni Trenta, con “Ritorno dall’URSS”, gli orrori staliniani e del comunismo sovietico. Due scrittori, due libri, due “solitudini”. Per Sciascia erano il modello più alto di impegno. Una volta confidò di sentirsi, e di essersi sentito per tutta la vita, come il pesce volante citato da Voltaire: “Se si innalza un poco, gli uccelli lo divorano. Se si immerge sott’acqua se lo mangiano i pesci”. Una condizione, aggiunse, “bellissima, anche se tremenda”. Poi, con una punta di malinconia, si domandava: “Quanti sono oggi, in Italia, gli uomini di lettere disposti ad accettare questa condizione e a viverla?”.



E’ utile a questo punto ricordare una delle ultime dichiarazioni rilasciate da Sciascia, è un po’ il paradigma di quello che è stato, ha fatto, scritto; la summa del suo impegno e del suo insegnamento: “Bisogna rompere i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà; rompere questa specie di patto fra la stupidità e la violenza che si viene manifestando nelle cose italiane; rompere l’equivalenza tra il potere, la scienza e la morte che sembra stia per stabilirsi nel mondo; rompere le uova nel paniere, se si vuol dirla con linguaggio e immagine più quotidiana, prima che ci preparino la letale frittata…”.



Rivolto ai radicali di cui sentiva di fare parte, Sciascia disse che era giunto il momento di “contarsi, come diceva Seneca per gli schiavi”; e aggiungeva: si scoprirebbe, una volta fatta questa conta, che magari siamo isolati, ma non soli. Non numerosi, ma sufficienti per contrapporre quell’opinione che De Sanctis opponeva alle “opinioni”.



Dunque: contarsi, opinione; opposizione alle opinioni dominanti. Compito e impegno tutt’altro che facile in questi tempi, ma ineludibile. E’ arbitrario credere che tutto ciò rientri nel discorso relativo alla “stella gialla”?

Burton Morris
13-05-09, 23:54
Il leggero pettegolezzo di Stendhal*

di Angiolo Bandinelli

Riprendo in mano, dopo alcuni giorni di distrazioni e impegni vari, i “Ricordi d’egotismo” di Stendhal. Il secondo impatto è ancor più positivo del primo, la lettura mi dà lo stesso piacere di quando, da ragazzino, mi rigiravo tra le mani il caleidoscopio. Il periodare stendhaliano ha su di me uno straordinario effetto esilarante così come, allora, il guizzare labile dei colori, la volatilità dei prismi iridescenti che rendono quel gioco così suadente , per i grandi come per i piccoli: mi rende perfettamente il simbolico trionfo, leggero e imprevedibile, della grazia, della futilità della vita, del relativismo sentito non come un male o una condanna ma come l’ humus, il terreno propizio di ogni più vitale e costruttiva esperienza dell’uomo. Anche per Sciascia, “la gioia che dà Stendhal è imprevedibile quanto la vita...”. Penso che sarebbe bello smontare queste sensazioni così come, una volta, provai a smontare un caleidoscopio: mi trattengo solo ricordandomi della delusione avuta quando mi restarono tra le mani, al termine della inconsulta dissacrazione, quattro insignificanti pezzetti di vetro mal colorato.



Il trionfo vitalistico di queste pagine trova i suoi accordi migliori nel pettegolezzo. Stendhal è qui un maestro del pettegolezzo, per lui le cronache sociali, ma soprattutto quelle sentimentali, gli intrecci degli amori tra i frequentatori del salotti - specie quelli di Milano, “il posto più bello del mondo” - hanno più o meno lo stesso valore delle turbinose peripezie di una battaglia napoleonica, magari la Waterloo nei cui ariosteschi intrichi (“ariostesco” è stato definito Stendhal) si perde ingenuamente e stupidamente il Fabrizio Del Dongo de “La Chartreuse de Parme”. Cosa sono il pettegolezzo o una battaglia napoleonica, per Stendhal? Sono semplicemente due analoghe, privilegiate occasioni per conoscere, o meglio per tentar di conoscere, il cuore umano. Ascoltate questo passo: “Il male è che quei due individui non capivano assolutamente nulla né della teoria del cuore umano né della rappresentazione di questo cuore medesimo attraverso la letteratura e la musica. Il ragionare all’infinito su questa materia, le conseguenze da trarre da ogni aneddoto nuovo e ben provato formano di gran lunga la conversazione per me più interessante…”. E il cuore, cos’è? Sì, il cuore, o meglio il mistero profondo celato, più o meno simbolicamente, in quel muscolo che batte incessantemente e non sappiamo perché . Questa conoscenza - questo sforzo di conoscenza - è quanto più contrario al presuntuoso sapere, alla presunta conoscenza della verità assoluta, quella che si suole scrivere con la maiuscola. Più la verità assoluta erige i suoi dogmatismi, tenta di imporre il suo diktat, ribadisce il suo esclusivismo, più si allontana la possibilità di conoscere il cuore umano, nel palpitare delle sue mille contorsioni, nella vanità illusoria ma indisponibile dei sentimenti che lo agitano. Per Stendhal, un laico miscredente di fondo materialista, questa è la conoscenza più importante, che può assorbire tutta la curiosità essenziale del vivere.



Nella forma più austera e accademica della “chiacchiera” il pettegolezzo è un tema sul quale si è esercitato, come è noto, Heidegger. Per il filosofo l'uomo può vivere o immerso nella condizione, che lui definisce “inautentica”, della chiacchiera, della mera curiosità e dell'equivoco, tutti modi del lasciarsi coinvolgere nella banalità del quotidiano; oppure nella condizione, che lui contrappone all'altra e indica come “autentica”, caratterizzata dalla “cura”, il progetto totalizzante dell'esserci, proiettato sulla “decisione anticipatrice per la propria morte”. Heidegger considerava normale e, diciamo così, consueta, la condizione “inautentica” ma ovviamente - da buon filosofo - privilegiava la seconda. Mi piacerebbe che un esperto mi chiarisse quanto in Stendhal sia sentita, o almeno presente, la necessità di un vivere “autentico” così definito, da contrapporre all'”inautentico” del pettegolezzo, della curiosità mondana che lo incanta e lo assorbe totalmente.



Olivier Clément, il pensatore ortodosso amato da Giovanni Paolo II e recentemente scomparso, osserva: “Dobbiamo scoprire l'uomo interiore nelle caverne dell'uomo”. Ma non è quel che fa Stendhal, addentrandosi nei ventricoli del cuore, caverne dell'uomo? E' da questa fragilità e volatilità del relativo che può fiorire, per autoriflessione, la pianta dell'assoluto, che a me pare non possa nascere dal nulla e sul nulla, sul vuoto esistenziale: magari - è ciò che accade in Stendhal - sotto la forma del bello. E si avrebbe l'ideale se il bello fosse identificabile e sovrapponibile al buono e al vero, come nella sua forma neoclassica.

NOTE

* Da “Il Foglio”

Nagano
20-05-09, 20:07
Stati Uniti d’Europa subito!
Per una patria europea, contro l’Europa delle patrie!

di N.R.
Per la liberazione da sessant’anni di partitocrazia.

Chiamiamo a raccolta gli italiani per Grande Riforma “americana”, liberale e federalista, laica e nonviolenta; per una nuova classe dirigente, alternativa all’attuale; per una società aperta come quella proposta dai nostri referendum, spesso approvati dalla stragrande maggioranza del popolo italiano, ma poi traditi dalla partitocrazia.



Queste non sono elezioni democratiche. In Italia, un regime fondato sulla disinformazione e sulla sistematica violazione della legalità ha tradito la volontà popolare e stravolto la Costituzione. Lo abbiamo documentato nel dossier inedito “La peste italiana” (:: Radicali.it :: (http://www.radicali.it)) che ti chiediamo di leggere e di diffondere.



Temiamo il peggio, ma lottiamo per scongiurarlo.

Per questo, molti di noi portano al petto una Stella Gialla, simbolo di altre tragedie e di altri tempi, quando la democrazia dovette soccombere davanti ai totalitarismi nazifascista e comunista. Questo è il nostro monito: dove vi è strage di legalità, vi è sempre strage di persone!



Ora la decisione spetta a te.

Puoi scegliere che il prossimo Parlamento Europeo sia il primo senza i Radicali, oppure farci fiducia e il 6 e 7 giugno dare più forza alla Liberazione, dopo sessant’anni, dal regime partitocratico.



I nomi scritti nel nostro simbolo sono il nostro programma e la nostra storia, Se appena ci conosci sai che, da quando esiste il Parlamento Europeo noi Radicali ci battiamo per gli Stati Uniti d’Europa, per la democrazia e i diritti umani ovunque nel mondo – dal Medio Oriente al Tibet, all’Africa, alla Cina – per le libertà civili in Italia come nella Russia di Putin, contro lo sterminio per fame e per guerra. Abbiamo ottenuto risultati importanti, come la moratoria sulla pena di morte o il Tribunale penale internazionale.



Il 6 e 7 giugno puoi scegliere.

Puoi dare un voto in più – il TUO voto – a chi continua a sprecarne il valore. Puoi disperdere il tuo voto nei “grossi” partiti, che fingono di litigare solo per spartirsi il potere, o anche affidarlo a liste formate solo con il “grande” obiettivo di raggiungere…il 4 per cento!
Oppure puoi darlo ai Radicali, per impedire che dopo trent’anni la nostra voce in Europa sia messa a tacere.



Questi sono i candidati della lista Emma Bonino-Marco Pannella:



Circoscrizione Nord Occidentale:



Bonino Emma

Pannella Giacinto detto Marco

Cappato Marco

Rossi Aldo Loris

Schett Wilhelmine detta Mina Welby

Viale Silvio

Farina Coscioni Maria Antonietta

Mellano Bruno

Biancardi Guido

Casigliani Iolanda

Cianfanelli Deborah

Corbellini Gilberto

De Lucia Michele

Litta Modignani Alessandro Giulio Edoardo Luigi

Parachini Mirella

Pisano Nathalie

Rana Michele

Ravelli Sergio Pasquale

Bandinelli Angiolo



Circoscrizione Nord Orientale



Bonino Emma

Pannella Giacinto detto Marco

Cappato Marco

Rossi Aldo Loris

Schett Wilhelmine detta Mina Welby

Beltramini Valter

Bortoluzzi Michele

Capone Piero

Ferraro Raffaele

Gazzea Vesce Gabriella

Moschiatti Monica

Trevisan Donatella

Stanzani Ghedini Sergio Augusto



Circoscrizione Italia Centrale



Pannella Giacinto detto Marco

Bonino Emma

Cappato Marco

Rossi Aldo Loris

Vecellio Valter

Schett Wilhelmine detta Mina Welby

Pagano Giorgio

Parachini Mirella

Pullia Francesco Maria

Rovasio Sergio

Simi Giulia

Staderini Mario

Bernardini Rita

Spadaccia Gianfranco



Circoscrizione Italia Meridionale



Rossi Aldo Loris

Pannella Giacinto detto Marco

Bonino Emma

Cappato Marco

D’Elia Sergio

Bolognetti Maurizio

Schett Wilhelmine detta Mina Welby

Autorino Anna Alba

Capano Michele

Mancuso Roberto

Manieri Valeria

Marchese Marco

Mingroni Severino

Mosca Antonio

Passannanti Immacolata

Taranta Rendi Maria Leonia

Trisciuoglio Antonio

Rippa Giuseppe



Circoscrizione Italia insulare



Pannella Giacinto detto Marco

Bonino Emma

Casu Antonella

Rossi Aldo Loris

Puggioni Maria Isabella

Ciccarelli Gianmarco

Corleo Donatella

Cicciomessere Roberto

Nagano
20-05-09, 20:07
Mai sminuire la Shoah! Ma il Papa parla degli Ebrei o degli embrioni?
L'invito del Papa andrebbe raccolto. Dal Vaticano!!

di Marco Cappato

I nomi delle vittime della Shoah non devono mai «perire» e «le loro sofferenze» non devono «essere mai negate, sminuite o dimenticate». Queste le parole di Benedetto XVI ieri allo Yad Vashem, il memoriale dell'Olocausto. Molto bene. Era necessario un chiarimento, quantomeno dopo la riammissione dei negazionisti nella Chiesa Cattolica. Peccato non ci siano parole sul ruolo di Pio XII di fronte alla persecuzione nazifascista degli ebrei, ma non si può avere tutto.

Rimane però un problema. A parte i negazionisti alla Williamson, e a parte qualche neonazista, chi è che "sminuisce" l'Olocausto?

Giovanni Paolo II nel suo libro aveva definito l'aborto il "Nuovo Olocausto", "sterminio legale degli essere concepiti e non ancora nati", uno "sterminio deciso addirittura da parlamenti eletti democraticamente" (aggiungendo poi un passaggio sulle "gravi forme di violazione della legge di Dio", tra cui le "forti pressioni del Parlamento europeo" sulle "unioni omosessuali" riconosciute "come una forma alternativa di famiglia": "è lecito e anzi doveroso - scriveva il papa - porsi la domanda se qui non operi ancora una nuova ideologia del male, forse la più subdola e celata, che tenta di sfruttare, contro l'uomo e contro la famiglia, perfino i diritti dell'uomo". Dall'Olocausto alle coppie di fatto il passo sembrerebbe breve. Anche perché dichiarazioni del genere si sono susseguite, ad esempio nel paragonare l'eugenetica nazista all'analisi preimpianto, oppure all'eutanasia legale e volontaria di adulti consenzienti e afflitti da malattie incurabili e da dolori lancinanti.

Non si vede la differenza tra un criminale nazista che porta gli ebrei nelle camere a gas e una donna che decide di abortire? O tra lo sterminio di milioni di persone e l'utilizzo di embrioni sovrannumerari (cioè comunque destinati a marcire nei congelatori) per la ricerca contro malattie mortali, definito da Benedetto XVI "un attentato alla pace"?

Mai sminuire la Shoah. Che il Papa ascolti il Papa.

Nagano
20-05-09, 20:08
La stella gialla, simbolo della nostra resistenza

di Ermanno De Rosa*

Le ragioni della politica radicale in questo momento elettorale sia nazionale per le europee che locale per le comunali e provinciali sono nel documento di denuncia della non democrazia italiana. È nello stesso tempo un appello perché l’Europa attuale delle patrie prevenga il pericolo del ritorno al nazionalismo e si costruisca Patria Federata Europea. Per affermare con l’esempio la democrazia fra i suoi popoli e fra quelli del mondo. Vi invito a leggerlo.



È una denuncia che i radicali hanno sempre fatto a carico della partitocrazia come ostacolo alla instaurazione di uno Stato Democratico di Diritto in Italia.

Una denuncia che ha avuto momenti di attenzione per novità possibili.

È accaduto ai tempi della discesa in campo di Berlusconi dopo tangentopoli, si è ripetuta, questa attenzione ad un possibile cambiamento, con la nascita del PD. Qualche apertura del suo statuto ad un arretramento del potere dell’apparato, per esempio e soprattutto rispetto alla scelta dei candidati attraverso le primarie, autorizzava a sperarlo.



Ora è evidente che la partitocrazia domina la scena come un regime arroccato ed apparentemente immodificabile, basti considerare la scelta che ci offre fra due leggi elettorali una più porcata dell’altra, entrambe fatte nel rispetto solo formale della sovranità degli elettori.



Cambiano nome cercando di nascondere la parola partito; sostituiscono i gruppi di comando tradizionali con capi carismatici sostenuti dal potere mediatico, ma non si aprono al controllo democratico dei cittadini come vuole la costituzione. Né per quanto riguarda la scelta dei candidati né per quanto riguarda l’opacità dei bilanci. Gli inestinguibili gattopardi fingono di cambiare tutto per non cambiare nulla.

Non ci resta che la denuncia, pena un coinvolgimento che noi stessi non sapremmo più distinguere dalla complicità.



Gli spazi di una campagna elettorale che già sin d’ora può definirsi del tutto illegale saranno utilizzati per informare su quella “peste italiana” dell’antidemocrazia che rischia di estendersi all’Europa.



Questa è una resistenza anticonformista per non rinunciare a chiedere le riforme necessarie al paese, dell’informazione, della giustizia, della scuola, dell’economia, delle istituzioni.



Il costo di questa resistenza è alto, noi radicali lo abbiamo pagato con anni di lotta politica quasi sempre misconosciuta quando non mistificata.



Ora che il declino del Parlamento apre la strada a leggi sempre più liberticide avvertiamo un forte disagio, quasi un pericolo che minaccia pesantemente tutti e che noi radicali per tutti esponiamo nel simbolo della stella gialla che ci appuntiamo al petto.

NOTE

* segretario dell’Associazione radicale Piero Welby di Cremona

Nagano
20-05-09, 20:09
Quella stretta di mano

di Francesco Pullia

Non ritengo di essere un bastian contrario. Sono certo, al contrario, di interpretare dubbi e sentimenti di molti di noi. Mi riferisco alla stretta di mano tra Licia Pinelli e Gemma Calabresi, vedove di due uomini assurdamente scomparsi. Il primo cadde in circostanze non ancora chiarite nella notte del 15 dicembre 1969 dal quarto piano della Questura di Milano dove, anarchico, era stato convocato per essere sottoposto ad un interrogatorio. Il secondo fu vigliaccamente ucciso tre anni dopo per immotivata ritorsione. Il problema non è la stretta di mano che, anzi, costituisce di per sé un gesto carico di grande intensità e di forte valenza simbolica.



Ha fatto bene il Presidente della Repubblica, visibilmente commosso, a rimarcare che Pino Pinelli è stato due volte vittima dell’ingiustizia. Non si può non riconoscere profonda sensibilità a Giorgio Napolitano.



La questione è, però, un’altra. La stretta di mano è stata, infatti, quasi unanimemente interpretata non come il ritrovarsi di due donne e di due famiglie segnate da un tragico destino comune ma come segno di riconciliazione politica, come se il povero ferroviere anarchico e nonviolento fosse stato fautore di chissà quale delirante teoria inneggiante alla lotta armata.

Pinelli con gli anni di piombo non c’entra assolutamente niente o meglio c’entra soltanto perché la sua morte, dal punto di vista temporale, s’incastra all’interno di un periodo terribile per la storia del nostro paese, fatto di stragismo e duplice eversione, interna ed esterna allo Stato: quella di chi ha negato e umiliato il dettato della carta costituzione e quella di chi, non senza la complicità di apparati più o meno deviati, ha mirato a smantellare quanto di democratico, malgrado tutto, ( r )esisteva nella nostra società. Due facce della stessa medaglia, due aspetti di un medesimo obiettivo: allontanare il nostro paese dal processo di costruzione democratica per dirigerlo verso derive autoritarie.



Pinelli, tanto per essere espliciti, non fu certamente un terrorista come Cesare Battisti o gli assassini di Aldo Moro. Fu, al contrario, un sincero idealista, animatore del Circolo Ponte della Ghisolfa, promotore della Croce nera anarchica e della sezione Bovisa dell'Unione sindacale italiana – USI, ed un onesto lavoratore.



Non è difficile immaginare le notevoli difficoltà, in primo luogo di carattere economico, che la signora Licia ha dovuto affrontare, trovatasi improvvisamente sola con due figlie, Silvia e Claudia, a carico in seguito alla sciagurata fine del marito.



Non se ne è mai parlato e questo perché in un paese come il nostro un anarchico, innocente o no che sia, è sempre un anarchico e, pertanto, va prima additato e poi, alla prima occasione, occultato insieme ai suoi familiari. A ciò bisogna aggiungere la dignità e il riserbo con cui la signora Licia ha vissuto per quarant’anni dietro le quinte.



E adesso la stretta di mano. Esemplare, memorabile gesto ma, ripetiamo, umano, straordinariamente umano, non politico.

Nagano
20-05-09, 20:09
Le stravaganti esternazioni di Berlusconi, e l’infame trattato di “amicizia” con la Libia di Gheddafi

di Valter Vecellio

Ha preso carta e penna, e ha espresso le sue preoccupazioni per le “politiche di rimpatrio adottate dal governo italiano”. Se perfino il cauto, felpato, segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon leva la sua voce, significa che davvero che questa storia degli emigranti clandestini respinti, e “restituiti” alla Libia, è qualcosa di scandaloso; ed è, in effetti, una vergogna che per un miserabile, meschino, calcolo politico il presidente del Consiglio, affiancato dai sempre servizievoli corifei, si affanni a giustificare un qualcosa che non ha, e non può avere, giustificazione. In poche ore il governo di Berlusconi ha collezionato le critiche del Vaticano e del rabbino di Roma; dell’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e ora del segretario generale dell’ONU. Complimenti davvero: la nostra politica estera è costellata di “cucù”, di imbarazzati rimbrotti da parte della regina d’Inghilterra, vanterie galanti aspramente rampognate, foto di gruppo come se invece di incontrare leader e capi di Stato si tratti della gita fuori porta di impiegati; e poi inviti ad andare in vacanza da paesi governati da satrapi amici, da pacche sulle spalle e affari.



Sono imbarazzanti, stupefacenti, le dichiarazioni che Silvio Berlusconi ha rilasciato a Sharm el Sheik: gli extracomunitari “…hanno pagato un biglietto…Su questi barconi, come dicono le statistiche, persone che hanno diritto di asilo non ce n’è praticamente nessuno. Solo casi eccezionalissimi…”. L’altro giorno la sparata sull’Italia che si vorrebbe: non multietnica. Adesso questa storia del “biglietto” pagato dagli extracomunitari…



L’opposizione è divisa tra “giustificazionisti” come Piero Fassino e Luciano Violante; e chi denuncia la violazione dei diritti umani contro gli extracomunitari clandestini; sono come i ladri di Pisa, che di giorno litigano, per meglio depredarci appena cala il buio. Dov’erano quando si è trattato di votare il cosiddetto trattato di amicizia con la Libia del colonnello Muhammar Gheddafi? La vergogna di oggi è figlia di quel trattato.

Nagano
20-05-09, 20:10
Identificar e disumanizzar

di Guido Biancardi

Pier Paolo Pasolini scriveva “Transumanar ed organizzar”. Forse una vocazione ad un superamento delle diversità e dei limiti umani ed un canto alla conquista per tutti di tutto il potenziale umano, individualmente e socialmente. La complessità, criptata nel plurale come opzione di volontà, come nuova traccia antropologica. Un Gospel laico di un melting soul.



Oggi la complessità ci soffoca e la serialità di esperienze spersonalizza. Se organizzare la società richiede qualche freno, qualche resistenza alla potenziale voracità del consumatore medio globale peregrinante fra tutte le nuove cattedrali del lusso a buon mercato alla ricerca “turistica” delle basiliche delle nuove apparizioni di Prodotto e di luoghi ove si celebrino i ricorrenti riti della testimonianza della propria consistenza a mezzo dell'esperienza delle febbri tifoidea da “tifo calcistico”, solo per sentirsi esistere, dove porre un limite, dove alzare un muro od abbassare almeno temporaneamente una sbarra di confine per selezionare , per vagliare e poi per ammettere o respingere? Perchè tutta l'esperienza dei luoghi, oltre che di sè, non si risolva in una mera esperienza di comunità omologata ma inconsapevole, più adatta allo studio di un entomologo?

Oggi si tratta, sembra, per porsi in salvo, di mettere in atto strategie di “respingimento” piuttosto che di accoglienza ed integrazione.



Ma come operare tali scelte senza identificare? Senza controllare la differenza “originaria” ad esempio del migrante, che permette di non confondere il rifugiato politico portatore di diritto d'asilo dal generico migrante residuo della spannatura degli eccessi di natalità degli inferni riproduttivi le cui caldere funzionano a tutto regime per il potere del tiranno dissimulato di turno? Da cosa riconoscere il Paese d'origine dei disperati che si affacciano dopo mille traversie alle nostre coste?

Il chip, non ci resta che l'opzione del numero di matricola indelebile come quello che è imposto sul telaio delle vetture di serie ed in specie sulle armi,” matricola” di cui la stessa solo abrasione è testimonianza ed evidenza di un delitto perpetrato, come quello di “clandestino”. Un chip “sotto pelle”, magari con” prefisso nazionale”; o “sopra pelle”, già ferocemente collaudato come denunziano, ricordandolo, le nostre stelle gialle.



L'uomo, nella cristianità dal 1200 dopo il Concilio Laterano IV, introduceva il marchio indelebile della fedeltà nell'appartenenza (e nell'accesso alla proprietà conseguentemente controllata) del matrimonio religioso come sacramento ed, assieme, la revisione annuale dell'obbligo della confessione dei propri peccati. Lo Stato, così, attraverso la “sua religione”, imponeva un controllo individuale sui comportamenti e sugli stessi pensieri dei suoi sudditi con la funzione sociale del vizio e del peccato come di entità e manifestazioni da condannare e sradicare dalla società. L'”individuazione” sociale era realizzata , in questa vita nel controllo, con l'ausilio dell'”inquisizione”. Ed “il vizio” una volta preso, il lupo/ Stato non lo perde. Oggi è il portatile in attesa che si trasformi in protesi fissa, (telefono, o lap top o...) “è il chip personale delle coscienze espresse in parole e scritti” tenuto in costante inquadratura da satelliti ed antenne e conservabile in memorie infinite. Fornito con servizi accessori di privacy (!?) o di personalizzazione. Ma perchè allora limitarsi ad un unico chip seriale, simbolo di eguaglianza, ed, addirittura, oltre che di identità anche di “identicità”? Perchè sancire in tal modo l'assunto democratico dell'eguaglianza delle persone umane e dei cittadini? Perchè non “specializzare”, invece, distinguendole e tenendole separate, le identità in modo da contenere la complessità? Tanti precedenti tentativi non hanno conseguito tale risultato, dimostratamente, per effetto dell'incremento a volte esponenziale (per eterogenesi dei fini...?) dei problemi da gestire che essi avevano suscitato o non risolto. Le categorie di Arti e Mestieri, nell'Europa feudale e delle Corporazioni del Rinascimento avevano fatto da parziale baluardo al travaso sociale della fine della divisione fra liberi e schiavi ed alla conseguente confusione “ gestionale”). Poi , più recentemente è stato il caso della rinascita delle Corporazioni come sindacati nel regime Fascista. Fuor d'Occidente(?), immutato anche se sempre più sollecitato all'autoriforma, regge ancora l'indoeuropeo sistema castale del subcontinente indiano (all'origine, sacerdoti ,guerrieri, produttori, cui si aggiungevano gli inferiori, i servi; ed in seguito con la ripartizione ulteriore in categorie gerarchicamente ordinate a seconda del grado di purezza rituale che introdusse portandolo alla perfezione gestionale, oltre alle caste professionali quella dei “fuori casta”, i paria, gli “intoccabili” ) . Di “casta “, oggi , in Italia si parla come scandalo, come deformazione intollerabile di una società che si pretende mobile , “liquida” addirittura, ma essa è la vera cifra di una società che non fa che allargare le sue superfetazioni dinastiche come “diritto ereditario” così, per incontenibilità deformando i propri territori di elezione di rapina e lascito perpetui. Ma la “mobilità”, fisica come sociale, è ad un punto di crisi anche come valore. E' ancora “ecocompatibile” per i costi che l'ambiente, fisico e sociale (da consumo da sovraffollamento e da sempre più esose pretese di welfare più che da rivolte sociali) deve subirne? E con essa non è forse la Democrazia che viene presentata sempre più spesso non come soluzione ma come problema; o come pura utopia? In un sistema di caste, da aggiornare, la pianificazione è meno impossibile che in un mondo in cui il mercato non sia regolato da leggi e regolamenti ma lasciato all'arbitrio delle forze di volta in volta dominanti tutte naturalmente coalizzate contro ogni antiprotezionismo e proibizionismo. Dreaming of New Delhi, allora? O, addirittura, of Pechino?



E' la modernità, come innovazione distruttrice che incalza con l'evidenza delle sue aporie di niente guerra e conquiste sociali per tutti , “ma anche “ di ordine e governance. Transumanar o specializzar, allora? E come, poi, “organizzar”, in libertà?



Gheddafi è il paladino della semplificazione illiberale , autoritaria, antilaica, integralista di una conquistata mistificata ,ed imposta come“neo-modernità”, rappresentanza di un regime oligarchico e violento, fobico degli stranieri e disinteressato ai diritti umani. Ed a lui si rivolgono sia i presunti “moderni” come Amato che i “postmoderni” come Maroni. E' il segno del rischio di un nostro sogno di futuro infranto, o piuttosto l'incipit di un incubo annunziato?

Nagano
20-05-09, 20:10
Punto economia. Siamo nella U della crisi, ma il nostro debito s’impenna

di Piero Capone

La diminuzione del pessimismo sull’andamento della crisi globale deriva dall’esame di molti indicatori che segnalano il forte rallentamento della caduta. Da qui la valutazione, abbastanza condivisa, che saremmo in una fase ad U della crisi. La U esprime plasticamente questa situazione. Dopo la fortissima caduta di tutti questi mesi (rappresentata dalla prima verticale della lettera) ora l’economia mondiale si troverebbe nella orizzontale di basso. In una situazione di “normalità”, la curva sarebbe (sempre tendenzialmente) a V: toccato il punto minimo si riprende la salita.



Con la U ci troveremmo invece nello stadio sì del raggiungimento del punto più basso, (il che, se fosse confermato, sarebbe comunque positivo) ma la durata della fase “depressa” non sarebbe certamente breve. Di qui un asse orizzontale la cui lunghezza dovrebbe misurare la distanza dal momento di avvio della “ripresa”. In questo stadio di “stagnazione depressa” cosa si dovrebbe fare?



Attendere passivamente l’arrivo del “Messia” oppure cogliere l’occasione per avviare un ciclo di riforme di struttura, atte a farci entrare nella fase espansiva con tutte le “carte in regola” per cogliere appieno tutti gli spunti positivi della ripresa?



Secondo il nostro Ministro dell’Economia e il Ministro Sacconi, non si dovrebbe far niente per non “creare tensioni sociali” in un momento così delicato. “Durante le crisi, non si possono fare riforme” è lo slogan governativo. Peraltro non contraddetto minimamente dalla cosiddetta opposizione, se si esclude ovviamente quella “non virtuale” dei Radicali.



La cosiddetta opposizione si ferma soltanto a proporre una serie di provvedimenti tampone, tanto inutili quanto velleitari e demagogici. Della serie: “spariamola sempre più grossa, tanto le risorse non le dobbiamo reperire noi!”. D’altronde con i tamponi non si va da nessuna parte.

E più la cosiddetta opposizione alza i toni, a livello di rissa da bar sport, non attaccando il governo sulle sue vere magagne, e più trasforma i suoi proclami in un boomerang a tutto vantaggio del sistema berlusconiano.



Altra cosa sarebbe se sapesse (o meglio, volesse) incalzare il Governo su alcuni punti assolutamente prioritari, come quello della soluzione – una buona volta – del grave problema sociale di un sistema di welfare tanto insufficiente quanto ingiusto. “pposizione” che non si occupa (e non si preoccupa) dei milioni di lavoratori non garantiti. E poi si meraviglia del suo scarsissimo “appeal” nei confronti della grande maggioranza dei lavoratori (soprattutto della mitica classe operaia) e dei disoccupati!



L’ineffabile Ministro Tremonti, con questi pseudo avversari, ha in effetti gioco facile. E può permettersi, non solo di praticare, ma addirittura di teorizzare la bontà della politica del rinvio.

Certo, andare ad un sistema compiuto e moderno (europeo direi) di ammortizzatori sociali, dovrebbe comportare alcune riforme “impopolari” (ma per questo “non anti popolari”) come quella delle pensioni.



L’assurdo della posizione del Governo (ma anche dell’altra faccia del nostro monopartitismo) lo dimostra il fatto che riforme di questo tipo non andrebbero ad incidere, ovviamente, sui milioni di pensionati attuali, né su tutti quei milioni di lavoratori che dovrebbero maturare la pensione non subito.



Dunque, tutta questa paura deriverebbe esclusivamente dalla possibile contrarietà di alcune decine di migliaia di lavoratori interessati solo a brevissima scadenza.



Le riforme ora non si fanno perché c’è la crisi; ma ieri non si sono fatte anche se eravamo in piena espansione. Allora si rinviò la “riforma Maroni” per non avere il coraggio di applicare subito gli “scalini” pensionistici, salvo poi trasformarli in “scaloni” indigesti per il successivo Governo Prodi. Che, a sua volta, sotto la spinta della sinistra “archeologica”, commise il tragico errore di rimettere in discussione tutto e far pagare alle casse dello Stato la cifra di 10 miliardi, solo per mandare in pensione di “giovinezza” poco più di centomila lavoratori.

E oggi le due facce del regime partitocratico continuano a ripetere i soliti vecchi errori.



Intanto la crisi sta dando i sui frutti negativi: al 30 marzo si verifica un’ulteriore forte diminuzione delle entrate tributarie erariali. Nel primo trimestre – secondo il Dipartimento delle Finanze del Ministero – le imposte dirette calano del 3.2% (-1.5 miliardi circa) e le indirette del 6.3% (-2.5 miliardi circa). E sul lato delle uscite? Ovviamente senza riforme non si possono ottenere effetti positivi sul fronte della spesa corrente.



Di qui il risultato drammatico dell’ ulteriore aggravamento dei nostri conti pubblici.

Il Debito Pubblico raggiunge un altro record (poco ambito): a marzo 2009 arriviamo ad un nuovo picco storico: 1.741 miliardi di euro. Solo nell’ultimo mese il debito aumenta di 33 miliardi (+1.9%). Nel primo trimestre 2009 i nostri conti peggiorano di 77 miliardi!

Se confrontiamo questo dato con quello dell’analogo periodo del 2008, riscontriamo un peggioramento di 28 miliardi. Nel 2008 abbiamo avuto un appesantimento del nostro Debito Pubblico di 65 miliardi di euro. Confrontando i diversi trend dello stesso trimestre del 2008 e 2009, si potrebbe fare una proiezione di un aumento del debito nel corso del 2009 di oltre 102 miliardi di euro. S così fosse, cominceremmo ad avvicinarsi ad un Debito Pubblico di 1.800 miliardi di euro a fine 2009. E diciamo ancora che non è tempo di riforme?

Nagano
20-05-09, 20:10
Non c’è pace senza giustizia in Iraq alla ricerca della democrazia

di Carla Caraccio

Non c’è Pace senza Giustizia è stata nel Kurdistan Iracheno per la conferenza internzionale dal titolo “Dal totalitarismo alla democrazia” che è iniziata giovedì 6 maggio e si chiusa il sabato 9 maggio. La conferenza si è aperta sotto i migliori auspici, ricevendo il saluto e il benvenuto del Presidente della Regione del Kurdistan Iracheno S.E. Massoud Barzani.



In questa importante riunione si sono riuniti più di 200 esponenti politici, tra cui i principali gruppi politici, i rappresentanti della magistratura, gli opinion maker e la società civile provenienti da tutta la società irachena, i rappresentanti delle ambasciate, consolati e organizzazioni internazionali e rappresentanti dei governi italiano e greco, nonché alti esperti internazionali tra cui S.E. Sadiq Al Mahdim, ex Primo Ministro del Sudan.



I partecipanti erano provenienti da quattro diversi continenti, tutti con un’esperienza in prima linea per cercare di rendere possibile il passaggio dal totalitarismo alla democrazia.



La conferenza internazionale che costituisce il frutto di un lungo programma di sostegno e ricerca sul tema della riconciliazione e dell’attribuzione delle responsabilità, portato avanti da Non c’è Pace senza Giustizia sia in Iraq che all'estero è stato un grande evento internazionale e rappresenta un passo importante sulla strada verso la democrazia in Iraq.



La conferenza ha fornito una sede di discussione di alto livello politico tra i maggiori attori politici fine di valutare gli attuali sforzi verso l’attribuzione delle responsabilità e la riconciliazione nazionale in Iraq, nonché rafforzare la loro conoscenza delle molteplici possibilità (tra cui quella economica, politica e sociale) che tale processo comporta.



L'obiettivo era quello di offrire ai principali protagonisti della scena politica irachena la prima opportunità di lavorare insieme nell’identificazione delle strategie e istituzioni nazionali e regionali più adatte ad accertare le responsabilità e assicurare giustizia alle innumerevoli vittime delle passate atrocità al fine di rafforzare il ruolo delle istituzioni democratiche nella fase di transizione verso una società stabile, governata dallo Stato di diritto.



Le tre giornate di lavoro si sono concluse con l'adozione di un documento finale a favore dello sviluppo di una strategia coordinata, a livello nazionale, e con il bisogno di ottenere un completo processo di responsabilità per la riconciliazione in Iraq per rispondere alle aspirazioni e le aspettative del popolo iracheno.



Il documento è il risultato di un lungo dialogo e della consultazione articolata di nove sessioni parallele attraverso le quali i partecipanti hanno discusso in dettaglio le diverse componenti specifiche di un processo di riconciliazione e della responsabilità. Tra le sue principali raccomandazioni, il documento chiede un impegno per la giustizia per le vittime di reati commessi dal vecchio regime e di conseguenza l'istituzione di una democrazia stabile e pacifica fondata sul principio di legalità; inoltre richiede che non vi può essere alcuna amnistia per i responsabili di crimini contro la popolazione civile.



Tali conclusioni serviranno come base fondamentale per ulteriori discussioni e vengono ad aggiungersi al duro lavoro che Non c’è Pace senza Giustizia e l’International Alliance for Justice fin dal 2006 svolgono per garantire iniziative concrete nel per l’attuazione efficace di un sano quadro costituzionale come base per l’Iraq di progressi verso un futuro più democratico.

Nagano
20-05-09, 20:11
L’Italia è sempre più multietnica: dalle culle, passando per le scuole elementari, medie e superiori, per arrivare fino al lavoro…*

di Daniela De Robert

L’Italia ha superato la soglia dei 60 milioni di residenti. Ce lo ha detto l’Istat poche settimane fa, presentando il bilancio demografico relativo ai primi undici mesi del 2008, aggiungendo che a far crescere l’Italia è stata la componente migratoria, con una “intensità” crescente e in misura pressoché “esclusiva”. Senza di loro, secondo l’Istat, la popolazione residente non supererebbe i 55.500.000. In altre parole, degli attuali 60 milioni di italiani quasi 4 milioni e mezzo sono stranieri, e tra questi oltre 500 mila hanno acquisito la cittadinanza italiana.
Non basta. Un bambino su dieci nato in Italia - il 10,3 per cento - ha entrambi i genitori stranieri, mentre ha almeno un genitore straniero il 14.3 per cento dei nuovi nati. E le classi si colorano sempre più. Oltre mezzo milione di studenti non italiani che siedono nei banchi accanto ai nostri figli. Dieci anni fa erano appena 70 mila e la loro crescita è in costante aumento.


Insomma, stando ai fatti, l’Italia è sempre più multietnica: dalle culle, passando per le scuole elementari, medie e superiori, per arrivare fino al lavoro. Aumenta infatti anche il “Pil degli stranieri”. Lo dice l’Unioncamere, secondo cui il contributo degli immigrati alla ricchezza nazionale è pari al 9,2 per cento.

Insomma, in poche parole, possiamo dire che l’Italia è multietnica.
Eppure il presidente del consiglio lo ha detto chiaro: “No all’Italia multietnica”. Per questo respingiamo a rischio della loro vita i migranti che intercettiamo in mare aperto, in condizioni di salute spesso drammatiche. Vogliamo che l’Italia sia degli italiani.
Peccato che non sia più così da anni.

NOTE

*da “Articolo 21”

Nagano
20-05-09, 20:11
Speciale Libia: cosa accadrà ai 227 emigranti respinti a Tripoli?

di Fortresseurope*

Né a Malta, né a Lampedusa. Sono stati riportati in Libia i 227 emigranti e rifugiati (cittadini di Nigeria, Ghana, Gambia, Costa d'Avorio, Somalia e Mali) – tra cui 40 donne, tre delle quali incinte - soccorsi ieri a circa 35 miglia a sud est di Lampedusa dalle autorità italiane. Dopo una giornata di infruttuose trattative con il governo maltese sulla responsabilità dei soccorsi, l"Italia è riuscita a strappare a Tripoli il consenso per la riammissione in Libia dei naufraghi. Nessuno dei passeggeri è stato identificato, nessuno degli eventuali minori non accompagnati è stato tutelato, nessun rifugiato è stato messo nelle condizioni di chiedere asilo politico, e nessun medico ha verificato le condizioni di salute dei naufraghi. Prassi che sulla terra ferma sono obblighi previsti dalla legge. Ma non in mare aperto, fuori dalle frontiere e dallo stato di diritto. Maroni ha rivendicato quanto accaduto come “un risultato storico” e annunciato che sarà la prassi della prossima stagione di sbarchi. Maroni e l'Italia hanno la memoria corta.

“Le espulsioni collettive di migranti dall’Italia alla Libia costituiscono una violazione del principio di non refoulement. Le autorità italiane non hanno rispettato i loro obblighi internazionali”. Era il 14 aprile del 2005 e il Parlamento Europeo adottava una risoluzione di condanna contro le deportazioni collettive con cui il Governo italiano aveva espulso in Libia 1.500 persone intercettate al largo di Lampedusa tra l’ottobre 2004 e il marzo 2005. “Il parlamento europeo - continuava la risoluzione su Lampedusa P6_TA(2005)0138 - è profondamente preoccupato sul destino di centinaia di richiedenti asilo respinti in Libia, dal momento che questo paese non ha firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, non ha un sistema d’asilo, non offre garanzie effettive per i diritti di rifugiati, e pratica arresti arbitrari detenzioni e espulsioni”.

Un mese dopo, il 10 maggio del 2005, la Corte europea dei diritti umani sospese l’espulsione da Lampedusa di 11 cittadini stranieri sbarcati a marzo e che avevano presentato ricorso. Quattro anni dopo, ciò che ieri era illegale è divenuto regola d’ingaggio dei pattugliamenti di Frontex partiti la settimana scorsa nel Canale di Sicilia.

Adesso però le questioni sono due. La prima: che ne sarà del soccorso in mare, quando la priorità non è più la vita dei naufraghi, ma le trattative sul dove portarli? Maroni presenta i 600 salvataggi fatti dalle nostre unità in acque maltesi come un peccato originale. In realtà fanno onore alla nostra Guardia costiera e alla nostra Marina militare. Perchè questa gente non viaggia su navi di crociera. Ma su vecchi legni malmessi. Tutti ricordino che sono quasi 4.000 le vite umane che il mare di Sicilia si è ingoiato negli ultimi dieci anni! Bene, rischiano di morirne altrettanti ora che la nostra Guardia costiera ha ricevuto l'ordine di non intervenire in alto mare, senza autorizzazione del ministero dell'Interno, previa consultazione-scontro con Malta. Ieri è andata bene perché il mare era calmo. Ma col mare in tempesta e onde altre quattro metri, bastano pochi minuti di ritardo a decidere la morte di centinaia di persone.
La seconda questione è: che cosa succederà ai migranti respinti in Libia? Sappiamo già che sono stati arrestati e detenuti nel carcere di Tuaisha, a Tripoli, fatta eccezione per una donna ricoverata in ospedale dopo sei giorni trascorsi in mare. Adesso, a seconda delle nazionalità, alcuni saranno rimpatriati in pochi giorni (ad esempio verso Tunisia e Egitto), altri saranno tenuti a marcire nelle carceri libiche per mesi, o per anni. In che condizioni? Lo scriviamo da tre anni. Per l'ennesima volta vi riproponiamo i nostri esclusivi reportage. Nella speranza che la stampa ne faccia buon uso, anziché continuare a leccare le scarpe ai ministri.

NOTE

Fortress Europe (http://fortresseurope.blogspot.com)

Nagano
20-05-09, 20:11
A partire da un interessante articolo di Federico Orlando. P2, P38, e poi caso Moro, caso D’Urso, caso Sindona, caso Calvi…

di Valter Vecellio

Su “Europa” di cui è condirettore, Federico Orlando pubblica un interessante articolo, “Lo Stato parallelo c’era”; è una riflessione che merita di essere sviluppata e proseguita. Per riassumere a colpi d’accetta, Orlando osserva come sia “un po’ patetico leggere sproloqui sul ‘doppio Stato’ che fu una favola dei comunisti” (una polemica con un articolo di Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”), e aggiunge che la P2, Gladio, il rapimento e il delitto di Aldo Moro, il delitto di Giorgiana Masi, la morte del comandante dei carabinieri Enrico Mino – per fare qualche nome – non si spiegano se non si ammette che la storia ufficiale e quella non scritta si sono quantomeno intersecate…”.



Articolo, si diceva, lungo, complesso e pieno di spunti di riflessione. Proviamo a svilupparne qualcuno. Indubbiamente c’è un filo rosso che lega episodi apparentemente tra loro slegati, e che hanno segnato l’intero arco degli anni ’70-‘80. Vicende che prendono il nome dei loro protagonisti: caso Moro, caso D’Urso, caso Sindona, caso Calvi…



Il “contesto”: siamo negli anni dell’ “unità nazionale”, e del “compromesso storico”: quella politica dell’ “ammucchiata” che vede, all’opposizione, i radicali e i pochi altri. In quell’arco di tempo (1975-1980) si cementa e si costruisce anche visivamente un’alleanza fatta di spartizione e di occupazione di potere che vede uniti DC, PCI, e solo episodicamente il PSI e i partiti laici “fuori”. Sono gli anni in cui sono varati provvedimenti in materia di giustizia e di ordine pubblico che imprimono allo Stato e alle istituzioni un ulteriore imbarbarimento, svolte autoritarie che si accompagnano a provvedimenti in campo sociale il cui fine è consolidare le strutture di un regime sempre più corporativo e illiberale.



Oggi appare chiaro quello che allora osavano sostenere in pochi: che accanto a una esibita e muscolare politica di intransigente repressione, si accompagnava una sostanziale connivenza (quando non proprio complicità) con il terrorismo di apparati dei servizi segreti, di apparati più o meno deviati dello Stato, e – soprattutto – di buona parte della classe politica del paese di allora. Il nucleo “duro” di questo “partito” era costituito dal PCI: cui era utile alimentare e accreditare un clima di destabilizzazione permanente, per così meglio consolidare l’intreccio di compromesso e di potere con la DC e le forze moderate. Il terrorismo e gli attentati, in quegli anni non hanno tanto uno scopo destabilizzante, come tanta pubblicistica sostiene, quanto una funzione opposta, “stabilizzante”: sono il cemento su cui poggia l’ “unità nazionale”, che altrimenti non avrebbe trovato e avuto giustificazione.



I radicali in quegli anni, per esempio, denunciano solitari le trame della gelliana P2 e altre simili consorterie: che sono utilizzate e manovrate non tanto per impadronirsi dello Stato (alla P2, per esempio, aderiscono i vertici di tutte le istituzioni, non hanno bisogno di conquistare il potere, già lo detengono), quanto per proseguire e consolidare la gestione di affari più marcatamente illegali e clandestini.



In questa ottica si può leggere lo scontro nella primavera del 1978 sul caso Moro, tra le esigue forze che non tralasciarono nulla per salvare il presidente della DC attraverso pubbliche iniziative di “dialogo” e il richiamo del rispetto delle competenze istituzionali (dibattito parlamentare, ecc.); e il più numeroso schieramento che invece fin dal primo momento accetta la situazione, e invece di operare per la salvezza di Moro lavora soprattutto per contrastare l’azione politica di quanti invece cercavano di salvarlo. In questo senso è ancor oggi preziosa e illuminante la lettura dell’ “Affaire Moro” di Leonardo Sciascia, e la sua relazione di minoranza alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla vicenda.



Della stessa natura, anni dopo, il conflitto sul caso del giudice Giovanni D’Urso, rapito dalle Brigate Rosse nel dicembre del 1980, e che si riesce a salvare nel gennaio dell’anno successivo. In quei giorni i radicali riescono a dare corpo a una straordinaria iniziativa di dialogo con le BR, che non comporta alcuna trattativa, e che si realizza grazie a “Radio Radicale”. Se i radicali, con la collaborazione del PSI, non avessero determinato il vero e proprio “miracolo” della salvezza di D’Urso, probabilmente il cadavere del magistrato sarebbe stato utilizzato come grimaldello per una effettiva, e anche “visiva” svolta di regime; svolta per la quale erano già pronte e disponibili le componenti più marcatamente autoritarie dei vari partiti, assieme a cosiddette “forze esterne” al Parlamento, mascherate dietro la proposta del “governo dei tecnici” (sostenuta dal gruppo editoriale “Repubblica”-“Espresso” di Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari, ma non solo) e la P2, in quei mesi nel momento di massimo splendore, potere e dominio sugli affari, i servizi segreti e sulla stessa politica. Per questo i radicali coniano lo slogan: “P2, P-Scalfari, P38”. Molto probabilmente a queste vicende non è estranea neanche la vicenda della morte del generale dei carabinieri Enrico Mino, che si schianta misteriosamente con il suo elicottero sull’Aspromonte. “Un delitto”, ha più volte denunciato Pannella senza mai essere smentito; una lettura dei fatti originale, ma non per questo fantasiosa, che Pannella ha avuto modo di esporre compiutamente solo in un’occasione: quando la commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi presieduta da Giovanni Pellegrino, ormai avviata a conclusione, decide di ascoltarlo.



Un viluppo di potere e malaffare, intrecci e vicende che emergono chiaramente solo a darsi la pena di leggere, per esempio, le relazioni radicali di minoranza sull’ “affare Sindona” (i radicali furono i primi ad avanzare la richiesta di una commissione d’inchiesta; attraverso la quale viene tra l’altro messo in luce il bubbone costituito dalla P2 di Gelli); o sui fondi neri dell’IRI o sul caso del rapimento dell’assessore napoletano Ciro Cirillo da parte delle BR di Giovanni Senzani: vicende paradigmatiche: quella dei fondi neri dell’IRI è una delle più grosse rapine di tutta la storia repubblicana compiuta dalle forze del regime ai danni dello Stato e della collettività; il caso Cirillo “racconta” un vergognoso intreccio tra camorra, servizi segreti, BR e DC. Sullo sfondo, il terremoto che ha devastato l’Irpinia, la colossale rapina che all’ombra del terremoto si è consumata, e si può arrivare fino ai giorni del maxi-blitz contro la camorra che porta in carcere, tra gli altri, Enzo Tortora.

Nagano
20-05-09, 20:12
Riflessioni di un laico (che vuole morire laico) di fronte a una forzata conversione di fine vita*

di Angiolo Bandinelli

Col suo bianco gessoso la chiesa domina la piazza, irregolarmente ovale e lievemente in discesa. E’ una chiesa del primo Novecento ma di forme tradizionali, a croce latina con cupola, due campanili e il pronao, con tanto di colonne a timpano, affacciato su un’ampia scalea. Entro, non c’è ancora nessuno, un prete sta addobbando l’altare con paramenti viola. Non ci sono fiori. Si deve celebrare il funerale di un più che ottantenne. Io lo incontravo, un po’ casualmente, nella casa di campagna della figlia e del genero, in Umbria. La sua conversazione, su temi politico-culturali comuni, era non sciocca, da uomo di esperienza. Esco dalla chiesa, rientro, gironzolo. Alla spicciolata, cominciano ad arrivare altri, col passo un po’ incerto, forse riluttante, di chi si muove controvoglia, solo per obbligo. Sono per lo più persone anziane, naturalmente. Finalmente la chiesa si riempie. Arriva il feretro, spoglio, con pochi fiori e corone, e la cerimonia può avere inizio. Io ricordavo il defunto come non precisamente un credente, un uomo di veterosinistra con venature di anticlericalismo, anche se non di forti tensioni ideali. Ma, inaspettatamente, il sacerdote inizia l’omelia con l’elogio compiaciuto della sua figura. La figlia, ardente beghina della parrocchia, gli aveva chiesto di venire a impartire l’olio santo al padre vicino al trapasso. Il sacerdote le aveva risposto sollecitando un chiarimento: “Verrò solo se tuo padre me lo chiederà lui stesso, espressamente”. Alla fine si reca a casa del vecchio. Lo conosce da tempo, sa quali siano le sue convinzioni, ma racconta anche come quel miscredente si fosse dato da fare, tempo prima, per racimolare qualche fondo necessario ai restauri della chiesa. “Era un uomo intelligente e aperto”, commenta, “si capisce che alla fine si sia comunicato serenamente, e serenamente sia morto, da cristiano”. E’ la cronaca di una conversione, o almeno di un ritorno all’ovile in punto di morte. Detesto l’esaltazione che ce ne viene fatta. La morte, il suo approssimarsi ambiguo, restano per me momenti soprattutto di silenzio, di vicinanza rispettosa della fragilità, persino dell’angoscia che l’uomo o la donna non può non provare, se minimamente cosciente. Non mi piace l’idea di sollecitare, a chi è definitivamente indebolito, non più padrone delle sue forze, la ritrattazione di un’intera vita. La modesta, anonima conversione del vecchio amico rientra nella storia ben altrimenti grandiosa delle conversioni che sono un cardine dell’insegnamento di Cristo. Chiunque abbia scritto quelle parole, “Andate e predicate alle genti…”, esse risuonano nel manifesto della sua fede. La storia delle conversioni al cristianesimo è la storia dell’occidente nel suo nascere e nel suo plasmarsi: conversioni anche di massa – oggi inconcepibili – all’insegna del “cuius regio eius religio”, con i popoli, le tribù, che seguivano i loro re, decisi al passo magari per potersi giovare dell’appoggio del potente vescovo di Roma. Tra le conversioni celebri – tutte aspirano ad esserlo – mi affascina quella di Manzoni, che non rinnegò il suo passato e tentò di conciliare l’illuminismo coltivato da giovane con la fede ritrovata in un attimo di nevrotici terrori. Manzoni cercava di capire e di giustificare dialetticamente la tensione tra ragione e fede: se l’uomo non si governa secondo le leggi dell’illuminismo (per dire, se rifiuta il libero commercio dei grani) ecco che Dio, un Dio giansenista, si abbatte sul mondo, sulla storia, e colpisce attraverso i veli di una grazia imperscrutabile, densa di mistero: perché padre Cristoforo muore e don Abbondio si salva? Nella conversione c’è l’essenza di una fede che ha l’ambizione di plasmare sui suoi valori l’intera storia dell’uomo



Piaccia o no, è la sfida che ancora oggi la chiesa lancia alla modernità laica. Questa ha buone ragioni dalla sua parte, la conquista del relativismo non è affatto un regresso, l’individualismo occidentale è il vero trionfo, estremo e necessario, del cristianesimo. La sfida, di valenza storica, è comunque a questi livelli. Certe petulanti polemiche giornalistiche, il catch-as-catch-can falsamente dialettico di certi dibattiti, sono quisquilie caduche. Ma chissà come andrà a finire. Non vedrò l’esito del confronto, morirò molto prima: naturalmente in convertito. Intanto la cerimonia è finita, esco in fretta. Mi dirigo verso il ponte che chiude la piazza, laggiù in fondo. E’ il Ponte Milvio, quello traversato da Costantino alla testa delle sue legioni, che inalberavano i vessilli con su scritto “In hoc signo vinces”. Una conversione dagli effetti incalcolabili. Il ponte è angusto e ormai inagibile, vi gironzolano solo gli innamorati per fissare alle apposite sbarre il loro lucchettino alla Moccia. Ma non conosco un altro ponte, al mondo, che sia in attesa di veder passare il nuovo imperatore cristiano.

NOTE

* da “Il Foglio”

Nagano
20-05-09, 20:12
Casoria-gate e tensioni con la Lega. E’ finita la luna di miele del governo*

di Massimo Bordin

Gli scricchiolii si cominciano a sentire, il tracciato di qualche crepa si intravede. Nessun crollo incombe, di questo si può stare sicuri, ma qualche lavoro di manutenzione è necessario, forse urgente. E un’altra cosa è sicura: la luna di miele con l’elettorato è finita. Questo governo può vantare un primo anno di vita da fare invidia. Dopo avere vinto largamente le elezioni ha saputo perfino estendere il suo consenso, vincere sfide come quella di Napoli, tenere saldamente in mano l’iniziativa. Molto hanno aiutato anche gli sconfitti. L’opposizione di fatto non è praticamente esistita, impegnata com’era in una inconcludente discussione su se stessa.



Si è sentito solo qualche urlaccio di Di Pietro e qualche acuto dei radicali. Eppure da qualche giorno il governo si sente meno forte. Difficile dire quanto c’entrino Veronica e la giovane Noemi, forse nulla. Sta di fatto che i sondaggi, cui il Cavaliere tiene molto, mostrano un dato che fa riflettere. L’indice di popolarità di Berlusconi perde tre punti e torna alla cifra, comunque alta, in cui era al momento dell’ingresso a palazzo Chigi. Quanto alla maggioranza, il dato è stabile, dunque è la fiducia nella leadership ad essere appannata presso l’opinione pubblica. Certo, il “Casoria-gate” non ha aiutato. E nemmeno le prese di distanza delle pur tanto blandite gerarchie ecclesiastiche, che non si sono limitate a criticare la esuberante galanteria del premier ma lo stanno anche incalzando sul tema dell’immigrazione. C’è però un aspetto più “politico” di cui tener conto. A causa della debolezza dell’opposizione, per un anno dentro la maggioranza si sono espresse posizioni diverse, talvolta antitetiche. Per esempio sui temi cosiddetti eticamente sensibili, mentre l’opposizione appariva paralizzata, è toccato a Fini differenziarsi dalla linea clericale. E anche sui temi economici le differenze fra Brunetta e Tremonti hanno trovato spazio nel vuoto di opposizione. Per non parlare dei rapporti con la Lega, da sempre complicati.



Ieri (per chi legge: mercoledì 13 maggio; ndr) è stata una di quelle giornate in cui questi nodi sono sembrati arrivare al pettine. Una giornata indicativa, quasi simbolica. Mentre il decreto sicurezza veniva approvato solo grazie alla fiducia, il presidente Fini era impegnato a rice4vere col massimo risalto una delegazione del movimento gay. A ora di pranzo Berlusconi riceveva Tremonti a palazzo Chigi, confermando implicitamente l’esistenza di qualche difficoltà nel reperire i fondi per la ricostruzione in Abruzzo. E il pranzo non è evidentemente bastato ad appianare le cose se nel pomeriggio si è dovuta tenere una nuova riunione, preceduta da numerosi conciliaboli nell’aula di Montecitorio, in cui si sono confrontati il premier, Tremonti, Bossi, e i capigruppo di PdL e Lega. Alla fine dichiarazioni rassicuranti: “Tutto a posto”, ha assicurato Bossi. “Assoluta sintonia con Tremonti”, ha scandito il Cavaliere. Non c’è motivo di non credergli. Resta però la sensazione che il clima sia cambiato. “Ma che si pretende di più dal governo?”, è scappato detto a Berlusconi. E non sembrava avercela con l’opposizione.

NOTE

* da dnews

Nagano
20-05-09, 20:12
Sono “Radio Radicale Dipendente”: non vivo senza la tosse di Bordin*

di Renato Brunetta

La amo da vent’anni, e non l’ho mai tradita. La amo così tanto che non posso farne a meno: quando sono in casa, in macchina, di notte, appena alzato. Amo Radio Radicale perché è uno strumento fondamentale di conoscenza politica e di informazione. Perché è una radio di libertà, anche se spesso insopportabile per gli eccessi di quella straordinaria personalità che è Marco Pannella. Amo Radio Radicale perché ha tempi lunghi, perché fornisce approfondimenti che non trovi in nessun’altra emittente. Perché so, da buon professore, che grazie a lei s’imparano sempre un sacco di cose. Perché da oltre trent’anni mette in pratica il motto einaudiano del “conoscere per deliberare”. I miei appuntamenti irrinunciabili con lei sono a mezzanotte, con l’anticipazione dei giornali in edicola, e la mattina presto con la mitica rassegna “Stampa e regime” del direttore Massimo Bordin. Quando giro per l’Italia e non riesco a sintonizzarmi sulle sue frequenze ci resto male: mi sento privato di uno strumento di lavoro, di una voce amica. Mi manca qualcosa e giro nervoso per la stanza con la radiolina in mano, cercando di captare il segnale. Come un rabdomante con il suo bastone alla ricerca dell’acqua, quasi come un drogato alla ricerca della sua dose giornaliera. I suoi giornalisti sono tra i migliori sulla piazza e negli anni sono diventati i miei compagni di strada. David Carretta, che ogni mattina da Bruxelles propone la lettura della stampa internazionale. E prima di lui Lorenzo Rendi, con la sua trasmissione di geopolitica sui think tank americani. Fiamma Nirenstein che ci parla di Israele o Giovanna Pajetta che ogni giovedì sera da New York ci racconta gli Stati Uniti. Emilio Targia ed Edoardo Fleischner, che la domenica mattina ci iniziano alle nuove tecnologie e all’evoluzione del linguaggio multimediale. Non mi perdo neppure la rassegna stampa vaticana curata da Giuseppe Di Leo. Ma sono tutti bravi, a partire ovviamente dal caporedattore Paolo Martini. E persino Claudio Landi, che con la sua rubrica “Cindia” ci informa sulla politica e sull’economia del continente asiatico. Amo Radio Radicale e il duo bronchenolo Bordin-Pannella, soprattutto quando baruffano. L’ultima loro litigata è stata esilarante e mi ha fatto temere il peggio. Peggio che poi, menomale, non si è verificato. Il suo archivio sonoro accompagna le mie notti insonni ed è un giacimento culturale unico in Italia e probabilmente senza eguali al mondo: a oggi contiene oltre 400.000 media (cassette, nastri, mini-dv, mp3, real audio/video, flash), in parte analogici in via di digitalizzazione e in parte digitali. Una straordinaria cassaforte della nostra storia che custodisce le registrazioni di 65.780 interviste, 14.726 udienze dei più importanti processi, 20.841 dibattiti o presentazioni di libri, 7.450 assemblee, 6.605 comizi o manifestazioni ufficiali, 15.721 conferenze stampa e la voce di ben 158.225 oratori. Giù le mani da Radio Radicale! Toglietemi tutto, ma non lei. Perché fin dalla mattina del 26 febbraio 1976, quando iniziò a trasmettere da due stanzette a Roma in viale Villa Pamphili, non ha mai smesso di tener fede al suo slogan: “Radio Radicale. La radio che parla e che ascolta. Dentro, ma fuori dal Palazzo”. E dopo questo atto d’amore, cosa aspettate a consegnarmi la tessera ad honorem del suo fan club?

NOTE

*da Renato Brunetta - Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione (http://www.renatobrunetta.it)

Nagano
20-05-09, 20:13
Assenteisti al Parlamento europeo: sono pubblici (finalmente) i primi dati ufficiali. Ma solo quelli meno imbarazzanti. Per tutto il resto, c’è Parlorama

di Marco Cappato

La Telenovela dei dati sulle assenze dei Deputati europei è arrivata oggi a una nuova puntata. Grazie all’iniziativa Radicale, da oggi è finalmente online sul sito del Parlamento europeo European Parliament (http://www.europarl.europa.eu/) , nella pagina personale di ciascun deputato, l’elenco delle presenze alle sedute Plenarie, con relativa percentuale finale. Come temevo, però, si tratta di un lavoro fatto a metà, che rende molto difficile agli elettori una valutazione rapida dell’assiduità degli eletti.

Ricordiamo gli antefatti: quasi un anno fa, rispondendo a una mia richiesta di “accesso ai documenti”, il Segretario Generale aveva rifiutato di rendere pubblici i dati, richiamandosi alla privacy e sostenendo che il Parlamento non avesse l'obbligo di pubblicarli. A gennaio, la grande maggioranza dei deputati (con l'opposizione della destra italiana) aveva votato il mio Rapporto parlamentare che chiedeva la pubblicazione su internet, prima delle elezioni europee, dei dati di presenza dei deputati, non solo delle plenarie, ma anche di tutte le Commissioni e delle altre attività. Ci sono voluti oltre 4 mesi per eseguire questa decisione, arrivando a un risultato parziale e del tutto insufficiente: sono infatti esclusi i dati delle presenze in Commissione, cioè il luogo dove si svolge la gran parte del lavoro parlamentare non legato all’incasso di diarie e rimborsi. Inoltre, le informazioni del Parlamento hanno finalmente carattere di ufficialità, ma non consentono confronti immediati tra Parlamentari, rendendo così i dati meno leggibili.

In questo modo, il Presidente e i vicepresidenti hanno voluto coprire i bassissimi tassi di presenza in Commissione di alcuni dei Parlamentari più potenti e “in vista”. E’ soltanto grazie a iniziative gestite da privati - come quella del sito Parlorama.eu | a sharp look on the European democracy (http://www.parlorama.eu) creato dall’ex-collaboratore di Pannella e mio, Flavien Deltort - che gli elettori hanno ottenuto dati molto più completi, e anche più aggiornati! I Parlamentari che hanno osteggiato tali iniziative in ragione della non-ufficialità delle informazioni prodotte, avrebbero dovuto adoperarsi affinché il Parlamento mettesse a disposizione tutti i dati, e non solo quelli meno imbarazzanti.

Nagano
20-05-09, 20:13
Un decalogo per l’Europa
La prospettiva euro-mediterranea: l’Italia come cerniera tra la megalopoli europea e la megalopoli mediterranea

di Aldo Loris Rossi

Questo decalogo tende ad individuare una “prospettiva euro-meditterranea” che consenta: - all’Italia di svolgere un ruolo geo-economico-politico di cerniera tra la megalopoli europea e quella mediterranea; - al Mezzogiorno, baricentro del Mediterraneo quale “zona di libero scambio” (Conferenza di Barcellona, 1998), quello di Piattaforma Logistica Intermodale.

Questa prospettiva di riequilibrio economico-territoriale, a medio e lungo termine, scaturisce dall’esame dei problemi tutt’ora aperti esemplificati nei seguenti temi.



1. L’era post-industriale e gli squilibri euro-mediterranei.



2. L’esplosione demografica, urbana e economica dal dopoguerra.



3. La crisi ambientale incombente: l’insostenibilità del modello tardo-industriale e

del “mito dello sviluppo illimitato”.



4. La dinamica demografica e urbana europea.



5. La rifondazione post-industriale della megalopoli europea.



6. Le due Italie e la “faglia tra le diverse civiltà”.



7. L’Italia come cerniera tra la megalopoli europea e quella mediterranea.



8. Le previsioni ISTAT al 2051 del declino demografico del Mezzogiorno.



9. La prospettiva di sviluppo euro- mediterranea.



10. Il Mezzogiorno baricentro del Mediterraneo quale “zona di libero scambio” e

Piattaforma Logistica Intermodale protesa nel mare.



Nel 1995 la conferenza euro-mediterranea di Barcellona ha indicato la possibilità di creare entro il 2010 una “zona di libero scambio”. Come è noto, questa prospettiva di cooperazione ha dato risultati più soddisfacenti sul piano culturale che su quello economico. Ma certamente una tale prospettiva è da considerare strategica per realizzare un dialogo continuo quanto indispensabile tra le civiltà che si affacciano sul Mediterraneo. Intanto se l’Italia svolgerà sempre più una funzione di cerniera tra la megalopoli europea e la megalopoli mediterranea, quale può essere il ruolo del Mezzogiorno in tale contesto?



In realtà questo ruolo emergerà spontaneamente nella misura in cui si realizzerà la suddetta “zona di libero scambio” soprattutto attraverso la creazione di un sistema intermodale dei trasporti a scala euro mediterranea, che può divenire la forza motrice dello sviluppo del Mezzogiorno.



Infatti, mentre le altre politiche europee sono meno centralizzate, il sistema intermodale dei trasporti transnazionali, in quanto scheletro portante dell’armatura urbana della nuova Europa, deve obbedire ad una strategia unitaria e sovraordinata dello sviluppo, definita soprattutto in sede UE.



D’altra parte, per misurare la potenza auto-propulsiva delle infrastrutture hard e delle reti soft nel rivitalizzare anche aree difficili, basti considerare che esse si sviluppano in modo esponenziale perché l’era post-industriale spinge incessantemente: da un lato, verso specializzazioni sempre più diversificate; dall’altro, verso una reintegrazione interdisciplinare sempre più inclusiva.



Questo doppio movimento determina una moltiplicazione continua delle reti per lo scambio e la distribuzione dei flussi di informazioni, merci e persone, garantendo una connessione sempre più estesa e articolata della città planetaria.



Questo processo di globalizzazione è irreversibile e tende a creare un cyberspace aperto, sempre più dinamico, complesso, interattivo.



Pertanto la sua pervasività travolgente può essere la forza trainante del suddetto processo di rigenerazione e riequilibrio economico-territoriale dell’armatura urbana nazionale, il quale non può che coinvolgere anche le aree difficili del Mezzogiorno.



Ma come si configurerà un tale sistema intermodale dei trasporti a scala euro-mediterranea? E tale realizzazione sarà capace di vertebrare e rigenerare l’armatura urbana del Mezzogiorno rimettendo in moto l’economia delle città?



In generale questo sistema intermodale tende a integrare i quattro Corridoi Trans-Europei che attraversano l’Italia, le “autostrade del mare” e le rotte trans-oceaniche che solcano il Mediterraneo facendo scalo nei grandi porti della riva sud (Tangeri, Orano, Algeri, Tunisi, Sfax, Alessandria, Damietta, Porto Said), quelli della riva orientale (Haifa, Beirut, Latakia, Smirne) e della riva nord (Pireo, Trieste, Venezia, Gioia Tauro, Napoli, Genova, Marsiglia-Fos).

Tale sistema intermodale sarà incardinato sul Corridoio Trans-Europeo I, Berlino-Monaco-Verona-Napoli-Palermo, che svolgerà uno straordinario ruolo.



A scala euro-mediterranea collegherà la megalopoli europea a quella mediterranea incrociando: - anzitutto, il grande porto di Gioia Tauro specializzato nel transhipment dei container che “ha avuto in breve tempo un formidabile decollo raggiungendo la quota di 3 milioni di container/annuo” classificato “di rilevanza internazionale” (Legge 30/98); - inoltre, i due Corridoi est-ovest, VIII, Napoli-Bari-Sofia-Varna sul Mar Nero, aperto ai mercati di Balcani, Grecia, Ucraina, e V Lisbona-Madrid-Milano-Kiev che collega la costa atlantica alla Russia; - infine il Corridoio ferroviario, in corso di attuazione, Parigi-Varsavia-Mosca-Pechino percorso dal Trans-Eurasia Express che collega il Canale della Manica al Mar Giallo cinese.

Dunque, il Corridoio I formerà la spina dorsale di un grande sistema intermodale euro-mediterraneo che investirà l’intero Mezzogiorno.



Infatti non solo attraverserà la Campania, la Calabria e la Sicilia, ma anche la Puglia; mentre la sua diramazione autostradale per Potenza può essere prolungata fino alla costa ionica, una straordinaria riserva paesaggistica e archeologica da valorizzare anche ai fini del turismo balneare di qualità, attraversando così l’intera Basilicata.



In particolare, il tratto laziale-campano del Corridoio I potrà svolgere la funzione di “asse di riequilibrio economico-territoriale” (F. Compagna, ’67) tra le due più grandi metropoli del centro-sud, Roma e Napoli, reintegrate in un super-organismo eco-metropolitano pari, per peso demografico, alla “Grande Parigi” (11 milioni di abitanti), ma senza la congestione di quest’ultima.



Tale sistema bipolare comprende: - i terreni agricoli più fertili delle due regioni (agro romano, piane di Fondi e Garigliano, Terra di Lavoro, agro nocerino-sarnese, piana del Sele); - le aree industriali più vitali; - i “superluoghi” della grande distribuzione, dei macroservizi e della logistica; - le attrezzature di livello superiore (Università, centri di ricerca, servizi di eccellenza). Insomma questo asse di riequilibrio economico-territoriale potenzierà la sinergia tra attività primarie, secondarie, terziarie e quaternarie, moltiplicandone la vitalità.

Intanto tale asse forma un distretto turistico di interesse mondiale perché dotato di uno straordinario patrimonio archeologico-storico-paesaggistico, compreso tra il Tevere e il Sele corrispondente all’arcaico corridoio villanoviano, poi etrusco e al territorio della “regio prima” augustea. A tale proposito il presidente della Camera di Commercio di Roma e Provincia ha dichiarato: “nel campo turistico vedo le due città alleate per catturare i primi flussi turistici della Cina. Che colpo sarebbe un pacchetto Colosseo-San Pietro- Pompei-Capri. Parigi tremerebbe”.



Inoltre è dotato di circa 600 Km di costa balneare e altrettanti di parchi naturali montani. Queste due fasce di grande valore paesaggistico, destinate al tempo libero, possono essere raccordate all’asse di riequilibrio economico-territoriale RO-SA attraverso: - le sette direttrici montane irpino-sannite da potenziare con aree produttive e servizi per rivitalizzare le due province interne collegate a monte da un “corridoio ecologico” coincidente con la via Minucia, Sulmona-Benevento; - le sette direttrici marine opposte capaci di decongestionare le tre province costiere da attrezzare con attività ricettive, balneari e porti turistici collegati alle “autostrade del mare”, beninteso, nel rispetto dei valori paesaggistici.



In merito alla mobilità, l’asse di riequilibrio RO-SA è oggi disimpegnato: - dall’Alta Velocità in circa un’ora; - dal quarto aeroporto europeo, l’hub di Fiumicino (25 ml di utenti l’anno) da coordinare a quello internazionale programmato per Grazzanise; - dal più grande porto passeggeri, Napoli (9 ml); mentre tra Roma e Salerno connette sette interporti (Orte, Civitavecchia, Colleferro, Frosinone, Marcianise, Nola, Battipaglia).



Ma un tale sistema intermodale dei trasporti assumerà una scala territoriale euro-mediterranea nella misura in cui sarà realizzato un interscambio diretto tra: - la nuova Stazione dell’alta velocità di Afragola; gli interporti di Nola, Marcianise-Maddaloni, Battipaglia; - il porto crocieristico di Napoli; - l’Aeroporto Internazionale di Grazzanise; - i due Corridoi Trans-Europei I e VIII.



Questo ruolo eccezionale sarà svolto dal Grande Raccordo Anulare di Napoli, analogo a quello di Roma (23 Km di diametro) che integrato al Corridoio transeuropeo I Berlino-Palermo si proietterà a scala euro-mediterranea.



In altri termini significa che il Mezzogiorno, baricentro del Mediterraneo, assume il ruolo di una Piattaforma Logistica Intermodale protesa nel mare.



La realizzazione di tale riassetto infrastrutturale attiverà: - un inquadramento terziario del territorio (maxiservizi, grande distribuzione, logistica, “superluoghi” polifunzionali); - la riqualificazione quaternaria delle grandi città (centres de conceptione, de decisions, services rares).



Questo processo potrà innescare una rigenerazione dell’intero patrimonio edilizio, attraverso due politiche complementari di incentivi: - alla conservazione dei centri storici (mediante defiscalizzazione), alla salvaguardia del paesaggio e delle aree agricole da considerare “beni unici e irriproducibili”; - alla rottamazione dell’edilizia post-bellica priva di qualità e non antisismica (mediante incentivi volumetrici), mettendo in moto l’economia delle città.

Nagano
20-05-09, 20:14
Un decalogo per l’Europa
La prospettiva euro-mediterranea: l’Italia come cerniera tra la megalopoli europea e la megalopoli mediterranea

di Aldo Loris Rossi

Questo decalogo tende ad individuare una “prospettiva euro-meditterranea” che consenta: - all’Italia di svolgere un ruolo geo-economico-politico di cerniera tra la megalopoli europea e quella mediterranea; - al Mezzogiorno, baricentro del Mediterraneo quale “zona di libero scambio” (Conferenza di Barcellona, 1998), quello di Piattaforma Logistica Intermodale.

Questa prospettiva di riequilibrio economico-territoriale, a medio e lungo termine, scaturisce dall’esame dei problemi tutt’ora aperti esemplificati nei seguenti temi.

Birmania: San Suu Kyi incriminata

• freeburmaitaly (http://www.freeburmaitaly.com)

Le autorità birmane hanno incriminato Aung San Suu Kyi per violazione degli obblighi legati agli arresti domiciliari. La leader dell’opposizione, ex premio Nobel per la Pace, e nemica giurata dei militari che governano Myanmar, stata già trasportata nel penitenziario di Insein a Rangoon dove dovrà affrontare il processo che si aprirà lunedì a Rangoon. Lo ha riferito il suo avvocato, Hla Myo Myint. Già in pessime condizioni di salute, dopo aver trascorso agli arresti 13 degli ultimi 19 anni, San Suu Kyi è stata incriminata insieme alle sue due aiutanti, con le quali è stata trasferita nel penitenziario. La sua “colpa”, secondo i generali, è quella di aver ospitato e tenuto nascosto un cittadino americano che la settimana scorsa era riuscito a raggiungere segretamente la sua abitazione dopo aver attraversato a nuoto il lago che la circonda.

L’uomo, John Yettaw, era stato arrestato il 6 maggio dalla polizia mentre lasciava la casa di Suu Kyi, dove era rimasto per due giorni. Secondo il suo avvocato, la leader della Lega nazionale per la democrazia (Nld) aveva implorato Yettaw di andarsene ma lui le aveva chiesto di restare per riposarsi. Lo scorso anno aveva già tentato di incontrare Suu Kyi ma lei lo aveva respinto e l’incidente era stato riferito alle autorità. Anche i servizi segreti americani non erano stati informati della visita dell’uomo.

La nuova accusa, che comporta da tre a cinque anni di carcere, arriva a pochi giorni dalla scadenza degli arresti domiciliari, il 27 maggio. Secondo gli osservatori la giunta militare del Myanmar punta a una condanna per togliere visibilità a San Suu Kyi in vista delle elezioni del 2010. John Yeattaw, 53 anni, è comparso anche lui davanti ai giudici nel carcere di Insein, a nord di Rangoon, ma non è stata stabilita ancora una data per il suo processo, ha detto l’avvocato Hla Myo Myint, lo stesso di San Suu Kyi. L’arresto di Yeattaw è stato annunciato dalle autorità birmane una settimana fa dopo essere rimasto nascosto due giorni nella residenza di San Suu Kyi.

Nagano
20-05-09, 20:15
Parliamo di noi, cioè di loro: quattro compagni cui dobbiamo tanto, e tanto continuano a dare

di Valter Vecellio

C’è un signore con l’età che si avvicina a quella di Matusalemme, tessera radicale da sempre: è tra i fondatori del Partito, conosce Marco Pannella da prima ancora; potrebbe vivere tranquillo, pago e sazio di quello che ha dato, che è tanto, ed essenziale. No, invece: ogni giorno si tormenta: se fa dieci, vorrebbe far cento; se fa cento, vuol fare mille… Non manca una manifestazione, non perde un convegno, un appuntamento, una riunione. Dice sempre che non ha nulla da dire; poi accade che quando parla lui, non vola una mosca, tutti lo stanno a sentire. E anche lui ti ascolta, vuole capire, ed è sempre pronto a mettersi in discussione…Che gli dici ad uno così? Questo signore, che si chiama Sergio Stanzani, non si dà ancora pace, ogni giorno viene al Partito a via di Torre Argentina, brontola, sacramenta, s’incazza, il suo problema in buona sintesi è che vuole ancora dare, ed è convinto di non fare quello che dovrebbe; ostinato come un mulo, non c’è verso di convincerlo che il suo solo “essere” è un “fare” importantissimo, unico.



C’è un altro signore, anche lui si sta avvicinando al secolo; l’altro giorno era in treno, diretto a Milano, andava a confortare come si può – con la sua presenza – un amico e un compagno colpito da un grave e irreparabile dolore. Questo signore si chiama Angiolo Bandinelli, scrive cose raffinate e al tempo stesso stilisticamente “semplici”: di quella “semplicità” di cui erano capaci i Voltaire, e a volte beffardo come uno Swift; tre giovedì al mese pubblica una colonna sulla pagina due del “Foglio”(un appuntamento fisso, che dura da anni, non è difficile da ricordare; eppure accade di dimenticarlo, ed è un peccato); sono riflessioni laiche preziose, che lui cesella pazientemente, e con una punta di maniacalità; così s’incavola perché gli amputano una virgola, non rispettano un capoverso; meriterebbero di essere raccolte, quelle riflessioni, e bisognerà decidersi a farlo prima o poi, perché non si vede un editore col gusto e l’intelligenza di farlo. Questo signore ieri ci ha telefonato scusandosi, perché tutto preso dalla triste incombenza che lo vedeva impegnato, si era dimenticato di mandarci la copia dell’articolo (è quello che trovate oggi tra gli editoriali). Questa delicatezza dice tutto della persona, del suo essere, di come si rapporta con il suo prossimo.



C’è un terzo signore. I radicali – ma il paese nel suo complesso – gli deve qualcosa. Era il 1975, quando venne arrestato per ordine di un magistrato di Firenze poi leader del Movimento per la Vita, istigato da una campagna lanciata dal settimanale “Candido” di Giorgio Pisanò. Era segretario del Partito Radicale, con lui fu arrestato un medico fiorentino, si chiamava Giorgio Conciani; poi vennero arrestate Adele Faccio e infine Emma Bonino: tutti colpevoli di dare copertura o di essere animatori e responsabili del CISA, il Centro Informazioni Sterilizzazione Aborto. Se oggi abbiamo una legge che consente l’aborto senza essere criminalizzate, e soprattutto se sono state cancellate le norme fasciste che lo punivano, lo si deve a molte persone: da Marco Pannella a Loris Fortuna, a circa cinquecento radicali e femministe che si autodenunciarono per aborto e procurato aborto; a quanti raccolsero le firme per il referendum abrogativo, e animarono mille e mille iniziative; ma se si è arrivati dove si è arrivati, lo si deve anche a queste quattro persone, e si tende a dimenticarlo. Anche questo signore potrebbe vivere di rendita; c’è stato un periodo in cui non si riconosceva in certe posizioni assunte dai radicali, e senza farne un dramma se n’è rimasto appartato a osservare; fino a quando, qualche anno fa, è tornato, ed eccolo anche lui aggirarsi nelle stanze di via di Torre Argentina, a stilar comunicati, documenti, testi per volantini e manifesti. Un lavorio “anonimo”, da “retrovia”; e tuttavia importante, essenziale, prezioso; e, non ultima, una grande qualità: saper tradurre in forma scritta un testo orale di Marco Pannella.



Infine il quarto signore: vive e lavora a Milano; anche lui è radicale da sempre, tra i primi ad esser stato denunciato e arrestato per antimilitarismo; è uno sciagurato: perché tanto potrebbe dare; e molto di quel dare è un dire; scrive con il contagocce: negli archivi radicali ci saranno non più di dieci suoi interventi scritti. Ha il gusto di posizioni controcorrente, che argomenta con sapienza e capacità di convinzione. Ma le cose più preziose, più piacevoli e interessanti arrivano quando hai la fortuna di parlargli a quattr’occhi, magari in pizzeria o sorseggiando un caffé. Una persona schiva e piacevole, colpita in questi giorni da un grave, doloroso lutto: Lorenzo Strik-Lievers è parte dell’arredamento radicale. Lo incontri sempre sorridente, saranno trent’anni che lo conosco: non l’ho mai visto una volta inalberato; e anche nel Ferragosto più torrido, quanto tutti si stanno liquefacendo, lui si presenta inappuntabile, con la cravatta.



Ci sono una quantità di motivi di fierezza dell’esser radicale; ma se è vero, com’è vero, che le idee camminano sulle gambe delle persone, molte idee che sono il patrimonio e il DNA di questo partito, hanno camminato, e continuano a camminare, sulle “gambe” di questi quattro amici e compagni; sono dunque parte della nostra fierezza. Sono candidati nella parte “bassa” delle liste Bonino-Pannella per il Parlamento Europeo. Abbiamo tre preferenze, a disposizione. Una diamola a loro, il nostro modo per dire: grazie, davvero.

Nagano
20-05-09, 20:15
Pannella: dalla sera del 15 maggio in sciopero assoluto della fame e della sete. Lettera al Presidente della Repubblica
L’82 per cento degli elettori ignora l’esistenza della lista Bonino-Pannella per le elezioni europee…

di Marco Pannella

Signor Presidente,

l’82% degli italiani ignora, esclude, l’avvenuta presentazione e la presenza - quindi - della Lista “Emma Bonino - Marco Pannella” alle elezioni per il Parlamento Europeo dei 72 deputati di quota italiana. La macchina schiaccia-democrazia di un ormai sessantennale Regime partitocratico opera, more solito, con l’obiettivo di impedire al Partito Radicale di essere presente, dopo trent’anni ininterrotti dalle prime elezioni dirette, anche in quella istituzione.

Nulla di veramente nuovo: nella scorsa legislatura, per ottenere un risultato del genere nel Senato della Repubblica, e così meglio assassinare la legislatura, otto Senatori regolarmente eletti furono sostituiti con altri proclamati Senatori, nominati ancorché bocciati dagli elettori.

Nella presente legislatura, come Lei ben sa, la partitocrazia ha operato in modo tale da impedire all’attuale Parlamento dei nominati l’esercizio delle sue proprie funzioni costituzionalmente rilevanti di Indirizzo e di Controllo; e poter così del tutto sopprimere perfino il diritto tradizionale alle Tribune politiche e agli “accessi” dei soggetti politici e sociali. Finora questo era diritto democratico di tutti i cittadini italiani e non mero privilegio corporativo di settori e organismi di Regime, volto al compimento di quanto previsto, tra l’altro, dall’art. 49 della Costituzione.

Allo stesso scopo va iscritto anche il risultato ormai acquisito di assicurarsi l’ignoranza, da parte dell’opinione pubblica e delle Autorità “Garanti”, dell’intera produzione e dell’informazione audiovisiva, con il soffocamento e l’eliminazione del Centro di Ascolto radicale, unico vero “servizio pubblico” del settore.

Inoltre, da ora al momento del voto, il programma che dovrebbe garantire in condizioni di “par condicio” le Tribune e i servizi elettorali, è invece architettato in modo tale da assicurare il predominio assoluto di talk-show e telegiornali: vero e proprio monopolio politico incontrollabile e incontrollato di Raiset e del regime partitocratico dominante.

È questa, e non altra, la realtà politica italiana quale ci appare: antidemocratica e opposta a un qualsiasi Stato di Diritto. Non meno, anche se diversamente, che a Tripoli, a Mosca, a Pechino, sempre più capitali di riferimento di questo nostro Paese.

A male estremo, Signor Presidente, rimedio estremo (se esiste).

Da questa sera inizierò lo sciopero assoluto della fame e della sete, nel quadro del Satyagraha radicale per la Libertà, la Giustizia, la Pace, con la forza e l’amore della verità.

Nagano
20-05-09, 20:15
Casu e Cappato: un appello ad accademici contro la laurea Honoris Causa a Gheddafi

di Antonella Casu e Marco Cappato

Antonella Casu, Segretaria di Radicali italiani e Marco Cappato, Segretario dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, entrambi candidati per la Lista Bonino-Pannella per le elezioni europee, hanno oggi lanciato un appello urgente a tutti i Professori universitari affinché invitino il Senato Accademico dell’Università di Sassari a non conferire al Colonnello Gheddafi la Laurea Honoris Causa in giurisprudenza.

“Non solo si tratta di un ‘Capo di Stato’ non eletto dal suo popolo e al governo da 40 anni” affermano i due Radicali “ma il suo Regime si caratterizza per la sistematica violazione di tutti i diritti umani fondamentali e la negazione della nozione di Stato di Diritto; conferirgli un titolo onorifico da parte di un Ateneo italiano sarebbe un’onta per la Patria storica del diritto nonché per la reputazione dell’Università italiana.”

Segue il testo dell’appello

__________

Ci permettiamo di sottoporre alla Sua attenzione un urgente appello che rivolgiamo a tutti i Professori universitari affinché si inviti il Senato Accademico dell’Università di Sassari a non conferire al Colonnello Gheddafi la Laurea Honoris Causa in giurisprudenza.

Qualora lo condividesse La invitiamo a comunicarcelo rispondendo a questo messaggio.

Cordialmente,

Antonella Casu Marco Cappato

Appello urgente ai docenti universitari per il non conferimento della Laurea Honoris Causa in Giurisprudenza da parte dell’Università di Sassari

Noi sottoscritti,

Ci appelliamo pubblicamente e urgentemente ai colleghi membri del Senato Accademico dell’Università di Sassari affinché si soprassieda alla richiesta di conferire la Laurea Honoris Causa in giurisprudenza a Mu‘ammar Abu- Minyar al-Qadhdha-fi-.

Secondo il dettato dell'art. 169 del testo unico approvato con regio decreto 1592/1933, la laurea “honoris causa” può essere conferita soltanto a persone viventi che, per opere compiute o pubblicazioni fatte, siano venute in meritata fama di singolare perizia nelle discipline della Facoltà per cui è concessa.

Nel caso di Gheddafi, invece, si tratta innanzitutto di un “Capo di Stato” al governo da 40 anni, seppure mai eletto democraticamente dal suo popolo. Inoltre il suo Regime si caratterizza per la sistematica violazione di tutti i diritti umani fondamentali e la negazione della nozione di Stato di Diritto, come documentato da tutte le maggiori organizzazioni non-governative dei diritti umani.

Conferirgli un titolo onorifico da parte di un Ateneo italiano sarebbe un’onta per la Patria storica del diritto, nonché per la reputazione dell’Università italiana tutta.

Nagano
20-05-09, 20:15
Il prossimo giorno della memoria*

di Furio Colombo

Si conclude oggi una settimana in Parlamento di dibattiti, scontri verbali, accuse, polemiche, incroci di dichiarazioni sarcastiche e ostili. È la settimana in cui un impenetrabile, misterioso,
opaco voto di fiducia ha coperto un impenetrabile, misterioso, opaco "pacchetto sicurezza", che significa soprattutto persecuzione dei più poveri, dei più deboli, degli scampati al terrore politico e al rischio di morire nel deserto o nel mare.


Alcuni di noi, in Parlamento, hanno definito il cosiddetto "pacchetto sicurezza" un delitto. Ha come mandante la lugubre coppia Bossi-Maroni, come esecutore il ricattato presidente del Consiglio. Braccio armato della legge-sentenza contro gli immigrati sarà la polizia libica di un governo dispotico che - allo scopo – è stato dichiarato alleato militare di questa Italia. In questo modo ci siamo abbassati al livello del vendicativo dittatore nord africano Gheddafi.
Invano si è mobilitato contro questo delitto il Pd, insieme con le altre opposizioni (Italia dei Valori e Udc). Invano, nonostante il discorso di sdegno e condanna di Franceschini, invano
nonostante la denuncia della xenofobia italiana da parte del Presidente della Repubblica. Invano non solo perla sproporzione di forze alle Camere. Invano non solo perché il vagone piombato del voto di fiducia impedisce possibili spaccature a destra.


Invano, purtroppo, a causa di inspiegabili errori commessi dal Pd proprio in Parlamento, proprio nei confronti della Lega: votare a favore del trattato militare con la Libia, un accordo che costa all’Italia miliardi di dollari. E che costerà la vita di molti migranti, a mano a mano che i disgraziati verranno riconsegnati (si dice "respingimento in mare") alla Libia. È un trattato firmato e sottoscritto da Berlusconi (come lui stesso rivendica) e approvato da tutto il
Parlamento, con l’inspiegabile approvazione del Pd, che ha offerto un grande aiuto alla Lega. È stato il primo pezzo di un brutto gioco. Il secondo errore è stato partecipare al "miglioramento" della legge sul federalismo fiscale.


Perché dare una mano alla cucitura di quel bandierone leghista? Purtroppo il Pd ha collaborato alla legge. E con il voto finale di mite astensione il Pd si è messo in un limbo di ridotto peso politico. Ma i due errori non si faranno dimenticare. La Libia ritorna nelle notizie con la sua faccia inumana. Il federalismo leghista si rivelerà inattuabile e iniquo.

Si potrebbe fare ancora una volta un elenco della deliberata e barbara crudeltà che segna questo maledetto "pacchetto sicurezza" che infierisce con puntigliosità razzista contro donne e uomini, mandati allo stupro sistematico e alla schiavitù senza via di riscatto in Libia. Lo stupro
sistematico, ci ha detto il giornalista Viviano (Linea Notte, Tg3, 11 maggio) in Libia è una orrenda pratica di potere assoluto. Coinvolge senza pietà e senza controlli bambine e
bambini.


Il "respingimento in mare" è un gesto identico, nel suo orrore, al respingimento delle navi di ebrei europei in fuga che nessun porto del mondo voleva accettare. Ci sarà un "giorno della memoria" fra dieci o vent’anni, il giorno in cui si ricorderà la spietata caccia ai migranti. Gli
studenti delle scuole sapranno tutto di Bossi, Maroni, Cota, dei loro complici zitti di tutta la maggioranza, dell’incredibile tolleranza dei partiti di opposizione, che pur votando contro,
hanno voluto confermare la loro disciplinata accettazione dei fatti, come se le ronde non fossero un colpo di Stato, come se il "reato di clandestinità" non fosse un’invenzione feroce per perseguitare donne e bambini, come se il "respingimento in mare" non fosse un atto contro la
civiltà che ha invano provocato l’indignazione della Chiesa e la protesta del Segretario generale dell’Onu.


Ma in Italia adesso il compito è perseguitare gli immigrati negando loro ogni diritto, usando persino la marina da guerra italiana per il delitto di "respingimento" che vuol dire riconsegnare al torturatore libico coloro che erano appena fuggiti. Purtroppo un Paese spaventato privo di
una forte opposizione, sta al gioco. E tutto ciò nonostante la Chiesa, la Caritas, la comunità di Sant’Eigidio, il Cardinale Tettamanzi, apertamente deriso, l’opposizione accanita dei Radicali
di Pannella-Borino. Un giorno si dovrà dire nelle scuole, che, molti italiani hanno accettato di diventare i volonterosi carnefici di Bossi e Maroni. Nelle scuole si leggerà la testimonianza di un ex ministro dell’Interno italiano, Beppe Pisanu: «Esistono presso la Commissione Europea
e la Nato immagini che documentano la carneficina nel mare. Quelle immagini raccontano di migliaia di cadaveri che galleggiano nelle acque del Mediterraneo. E, ancora di più, di cadaveri lungo il deserto». Nessuno potrà dire, in quel "giorno della memoria": io non sapevo.

NOTE

*da “l’Unità”

Nagano
20-05-09, 20:16
Per “L’Espresso” candidati nei guai con la giustizia nelle liste di tutti i partiti

di Valter Vecellio

Si offenderanno, dalle parti de “L’Espresso” se si parla di cialtronata, a proposito della “presentazione” di un articolo di Peter Gomez sulle ormai imminenti elezioni per il Parlamento Europeo? “Questi non li votiamo”, è il titolo dell’articolo in questione. Segue un sommario, corpo visibile anche da chi ha deciso di non vedere: “Condannati come Monsignore e Sgarbi. Inquisiti come Mastella e Storace. I candidati nei guai con la giustizia spuntano nelle liste per le europee di tutti i partiti”.



Nessuno dei citati “corre” nelle liste Bonino-Pannella; dunque chi saranno mai gli “invotabili” che compaiono nelle liste per le europee di “tutti i partiti”, dunque anche nelle liste radicali per le europee? Perché “l’Espresso” è perentorio: “tutti i partiti”, scrive a caratteri cubitali. Forse ci si riferisce a Marco Pannella, ad Emma Bonino, ad Angiolo Bandinelli, a Rita Bernardini, a sergio D’Elia, a Gianfranco Spadaccia, a Sergio Stanzani, a qualcun altro di noi, che hanno avuto “guai” con la giustizia per le azioni di disobbedienza civile pubblicamente rivendicate (e con la perentoria richiesta di subirne le conseguenze) di tutti questi anni? Qualcuno (Pannella, Bernardini, Stanzani, per limitarsi a tre nomi) ora si trovano in una bizzarra situazione: sono elettori, sono eleggibili (e infatti sono stati eletti), ma sono stati privati del diritto di poter far parte di un consiglio comunale, di un consiglio provinciale, di un consiglio regionale. Forse – anche in via incidentale – nell’articolo di Gomez si fa cenno a questa situazione: che Pannella può essere parlamentare europeo, ma non consigliere comunale di Roma, che Rita Bernardini può essere deputata, ma non consigliere regionale…



L’articolo di Gomez è piuttosto lungo. Sotto i nostri occhi sfilano gli “invotabili”, candidati nelle liste del Popolo della Libertà; quelli che si presentano nelle liste del partito Democratico; e poi i candidati “invotabili” della Lega Nord, dell’Unione di Centro, di “altre liste”: un elenco di nomi che non finisce più; solo che non c’è, tra i tanti, un candidato radicale che sia uno. Letto e riletto quell’articolo, niente da fare, il nome di un radicale non si riesce a trovarlo…Allora, perché qualcuno ha ritenuto giusto scrivere: “Nelle liste per le europee di tutti i partiti”?



Si può azzardare qualche ipotesi. Anche il titolista dell’ Espresso”, al pari della stragrande maggioranza degli italiani, privata com’è di autentica comunicazione politica, non sa che ci sono anche le liste radicali. La cosa si commenta da sola, ma francamente riesce difficile credere che i giornalisti di un settimanale come “l’Espresso” lo ignorino. Forse all’ “Espresso” non considerano i radicali un partito? Può essere, ma con tutto il rispetto per le convinzioni dell’ “Espresso”, una lista radicale è presente; e dunque se ne facciano una ragione. C’è poi una terza possibilità: non si ritiene necessario fare dei distinguo.



Ci sono precedenti. Anche di recente sono state pubblicate dettagliate inchieste sullo spregiudicato utilizzo di immobili di enti ottenuti a prezzo di favore, sia d’acquisto che di affitto. Uno sterminato elenco di politici, sindacalisti, alti funzionari dello Stato…tutti ne approfittano, ne hanno approfittato si poteva leggere. Tutti, ma a leggere quell’interminabile e sconcertante elenco, colpivano – avrebbero dovuto colpire – le “assenze”: tra i beneficiari di quei trattamenti di favore non ci sono i radicali. Non uno. Come non un dirigente, iscritto, militante, è mai stato arrestato, condannato, processato, semplicemente indagato per reati contro la pubblica amministrazione, tangenti, concussione, ecc.; sfogliateli tutti i mille libri sulle “caste” d’Italia, e guardate i nomi citati: mai un radicale.



Per tornare agli “invotabili”, presenti in tutte le liste di cui parla “l’Espresso”, e alla domanda iniziale: si offenderà qualcuno, all’“Espresso”, se si definisce cialtronata questa indiscriminato affermare che “tutti”…? Perché non è vero che “tutti” i partiti hanno presentato liste con candidati condannati o inquisiti; come non è vero che “tutti” hanno acquistato abitazioni di enti a prezzi stracciati, o siano in affitto a canone irrisorio. I radicali non fanno parte di “tutti”, con buona pace dell’“Espresso”. Quando finalmente questa non piccola peculiarità verrà riconosciuta?

Nagano
20-05-09, 20:16
LISTA BONINO-PANNELLA: solo il 3% sa che ci sarà alle elezioni europee

Roma, 15 maggio 2009

Solo il 3% degli elettori sa di poter votare la Lista Bonino-Pannella alle prossime elezioni europee.

E’ questo quanto emerge da un sondaggio che rendiamo pubblico e che conferma quanto il Regime abbia anche in questa occasione cancellato completamente l’esistenza del movimento radicale e la presentazione del simbolo Lista Bonino-Pannella.

Tra gli interpellati, alla domanda “sa quali partiti troverà indicati nella scheda elettorale delle prossime elezioni europee” rispondono spontaneamente, solo 3 su cento, Lista Bonino-Pannella.

E’ evidente che si tratta di una partita truccata dove è materialmente impedito “scendere in campo”.

La conoscenza dell’offerta politica è negata. Quel che è sicuro è che i Radicali non accetteranno inermi questa esecuzione di Regime.

Nagano
20-05-09, 20:16
Non solo dove stiamo andando, ma soprattutto, perché? E come è stato possibile?

di Guido Biancardi

Potremmo anche cominciare col chiederci assieme ad un ex sindaco di Lodi da molti stimato, non solamente “dove stiamo andando”, ma soprattutto dove siamo stati sinora mentre stavano assumendo evidenze sempre più vivide gli atteggiamenti da lui denunziati, e da cui ora saremmo trascinati in direzioni non condivisibili da ogni cultura politica e sociale che possa definirsi civile, in particolare se pretendesse di proclamarsi cristiana.



Lo cito in una parte della sua lettera che condivido: ”Non sono sorpreso dall'atteggiamento di qualche “capo” dell'attuale maggioranza; nella trasparente logica di costoro, il proprio vantaggio immediato e personale è l'obiettivo che oscura ed annulla il bene comune. Sono sorpreso dalla quiescente accettazione da parte delle persone comuni, ragionevoli, oneste”.

Dove erano, quindi, coloro che “più potevano” sia agire che orientare ed ammonire, e controllare, o raccontare e commentare..., mentre si produceva tutta questa materia viscosa che oggi ci impania come in un roccolo dove non si distinguono più i subdoli richiami dalle vittime tratte in inganno ed ormai già invischiate ed irretite e dai predatori che ne vogliono subito approfittare.



Dove erano tutti quelli della parte che sembra l'esclusiva di coloro che intendono agire certo per il bene quasi esclusivamente dei meno fortunati, dei più disperati e privi di sicurezze sia fra “i nostri “ che fra quelli che cercavano di diventare come noi, ma spesso rifiutavano in tutti i modi possibili un'integrazione offerta o da essi percepita come intollerabile omologazione totale?



Fra essi tutti ”i responsabili”, naturalmente : politici, amministratori e pubblici ufficiali, magistrati ed agenti dell'ordine e sacerdoti ed operatori della solidarietà in mille forme. Mentre sempre più avveniva che qualcuno dei “nostri ultimi”(e quanti ce ne sono) si trovava a subire quasi di colpo (ed il recente film “Gran Torino“ non tratta solo di un unicum esotico) la scoperta che il suo quartiere era, ad esempio al di là di muri frettolosamente tirati su, occupato da stranieri o circondato da misere parvenze di baraccopoli costruite abusivamente ma sotto gli occhi di tutti da gente con altra lingua, tradizioni, colore, come anche il suo posto di lavoro. E veniva rinforzato, da interessati mediatori sociali, nella convinzione che alcune scelte pur se “ inevitabili”, erano state prese sopra la sua testa ed a suo danno e lui non poteva che prenderne atto “a giochi fatti” magari con pretese di una sua ammissione di colpa per pensieri ingenerosi. Così, sempre più, egli si rivolgeva a chi, ma solo ”verosimilmente”, gli prospettava un falso riscatto sociale nell'antistorica chiusura localistica, autarchica ed antieuropea, e sicurezza e protezione della sua identità privilegiata. Anche e per prima cosa contro la legge, se essa non era in grado di tutelarlo ma solo di perseguitarlo e rendergli impossibile ogni cosa tale da doversi ritenere “Giusta e Doverosa” in nome di un'Etica superiore o di una, altrettanto assoluta, Struttura occultata da una tale “sovrastruttura”.

Si rivolgevano, allora, sia i responsabili che i tutelati, quasi inconsapevolmente, verso coloro che promettevano non solo come possibile ma addirittura auspicabile, rivoluzionariamente, il disprezzo o il travisamento del diritto nazionale ed internazionale espressione di una legalità nemica; sia che ciò fosse promesso “per fare più giustizia” che per “garantire più sicurezza”. Ed offrendo loro spazi crescenti di presenza nei media e posizioni di sempre maggior rilievo. Ma non erano altro che analoghe intenzioni che animavano anche i singoli “cittadini semplici”, anche di coloro fra i più generosi e persino a volte generalmente fra i più avvertiti, che, di fronte alla scandalo di certe inaccettabili situazioni personali degradate e per porvi un qualche rimedio, erano disposti attivamente, disapplicandole ed aggirandole (od omettendo previsti doverosi comportamenti di controllo) a far perdere di dignità alle leggi per la loro intrinseca insufficienza ed inaffidabilità, ed a compiere, magari anche solo un piccolo passo, ma di massa, nell'ingiustizia. Complici più o meno consapevoli di una strategia di “multietnicità indotta“, provvidenzialmente annunziata per alcuni e tacitamente perseguita come forma di resa giustizia divina e proletaria per chi aveva subito ad esempio, gli effetti delle spoliazioni coloniali e dello sfruttamento. E che ancora attualmente persistono giustificando, almeno verso la Libia, vergognose ed insincere pantomime! Quanto ai “fornitori ufficiali ed soprattutto ufficiosi” delle cifre sugli immigrati clandestini, ora scopriamo di essere 60 milioni: chi ci crede più?



Molti anche in possibile perfetta buona fede, così, hanno versato la loro parte di benzina su questo divampante disastro delle emigrazioni di massa dalle aree povere e meno libere del mondo verso la meta della sopravvivenza rappresentata dalle democrazie occidentali sviluppate. Oggi dei disperati si combattono violentemente fra loro per il puro spazio vitale e, se a volte tracimano in violenze nei nostri confronti, vengono immediatamente bollati, non come singoli responsabili ma, generalizzando in modo discriminatorio, come ed in quanto appartenenti a “generi, etnie, razze“, come” criminali” e solo allora vengono, come tali o come vittime poco importa, rappresentati dalle forze politiche ma secondo le loro convenienze, spesso come mero strumento di potere.



Tutto ciò al prezzo di un'unica vittima disconosciuta da tutti, lasciata, dopo le tante violenze subite, irriconoscibile per strada come ogni povera creatura violentata: la legalità garantita dalle istituzioni democratiche del Paese che è l'unica reale difesa del debole che non voglia dipendere dalle intenzioni volubili di un protettore.



Talmente irriconoscibile dopo tutte le lacerazioni subite per gli insulti di tanta frettolosa ed incompetente legislazione “propagandistico/emergenziale” affastellatasi attorno a singoli casi emblematici, da dover essere “ristabilita (!?)” dalla nuova legalità del delitto di clandestinità e delle ronde.



Con “le mille badanti “escluse dal novero dei residenti per ragioni di pubblico (e privato) interesse, con le quali labile e sfuggente è l'obbligo previdenziale e sotterranea la forma di “avviamento”, cui hanno alacremente ed imprudentemente lavorato a volte come veri e propri “importatori grigi” quasi tutte le reti di solidarietà soprattutto religiose sia in Italia ed all'estero, nessuna di queste ultime è riuscita a rendersi conto di essere forse in procinto di creare la schedatura delle future delinquenti e dei loro complici o conniventi per aver dato loro ospitalità; unitamente a preparare un contraccolpo depressivo collettivo per i nostri anziani quando saranno deprivati dalla miracolosa reincarnazione della soluzione alla solitaria assistenza familiare di una non lontana tradizione. E ciò a ragione dell'accertabile insostenibilità economica e sociale di un tale generalizzato livello di servizio garantito come individuale ed a domicilio, in regime di ordinaria legalità fiscale e previdenziale.



Ma è indubbio che ”la funzione ha creato l'organo“, (anche se “non ancora“ si pensava) omologato e condonato; e la buona fede a buon mercato ha cementato fra loro le troppe lapidi su cui erano scolpite le forme dell'illegalità accettata come prassi popolare. Certo da alcune parti auspicabile. Ma contro ogni principio liberale di certezza del diritto e, spesso, con un distorto fraintendimento culturale circa l'essenza dell'azione nonviolenta dell'obbiezione di coscienza a cui ricorrere in estrema istanza, che presuppone la denunzia dell'ingiustizia della legge e la conseguente decisione di disapplicarla. Con la contemporanea autodenunzia per il suo futuro mancato rispetto per ottenere la certezza della sanzione “al fine di rendere l'ingiustizia palese anche a chi la sostiene attraverso l' ulteriore verità resa disponibile perché testimoniata dal gesto nonviolento”. E sostituita invece e troppo spesso mistificata con una disobbedienza intrisa di violenza per cui viene pretenziosamente invocata l' impunibilità.

Quanti “piccoli“ strappi o eccessi di zelo hanno segnato le vicissitudini dei lavoratori irregolari spesso non solo con le attenzioni di persone generose ma anche con le connivenze di caporali e di sfruttatori senza scrupoli? Quante case sono state predisposte per accogliere i migranti in un Paese in cui l'offerta d'alloggio nei pressi del luogo di lavoro era stata assicurata per legge per intere categorie (l'”imponibile di mano d'opera“ in agricoltura nel secondo dopoguerra lo prevedeva)? Quante costruzioni sono state segnate da una morte bianca straniera al primo giorno di lavoro?



E quanta invidia mortale è stata messo in sommovimento da troppo facili confronti interetnici spesso enfatizzati dai media, comunque impietosi quando non puramente opportunistici?

Il mancato dissenso dei molti immancabili Pastori delle coscienze morali e civili dei loro fedeli, religiosi o laici, ha accompagnato queste derive come in una sorta d' impacciata espressione dell'applicazione del criterio del male minore (dove il male minore, di fronte alla necessità umana conclamata era costituito dall'infrangere proprio la legge da cui si generava la sua tutela) ; con una manifestazione di gracilità o immaturità civica che si è rivelata troppo debole in seguito a rivendicare ed imporre il primato delle leggi e dei principi del diritto internazionale di fronte a nuovi fondamentalismi xenofobi e nazionalistici. Ma non sino al punto di non aver potuto contribuire, con le evidenti complicità documentate dai Radicali ne “La peste italiana”, alla degenerazione in Italia della Democrazia in Regime.



Dove eravamo, quindi? Dove siamo, dunque? Da R-esistenti politici schierati da oltre 50 anni a difesa della Democrazia e dello Stato di diritto contro il Regime partitocratico che si è instaurato sotto forma di un monopartitismo imperfetto in veste sia di maggioranza che di opposizione, i Radicali sentono urgente la responsabilità di un monito: in democrazia liberale, fuori dal rispetto della legge, (sempre da combattere apertamente e da cambiare, battendosi anche a proprio rischio per questo, se ingiusta), nessuna libertà è davvero garantita.

La banalità del Male e le sue continue metamorfosi circa le quali Hannah Arendt ci metteva in guardia, devono essere pertanto sempre denunziate. I Radicali lo fanno, presentandosi in una tornata elettorale in assenza di garanzie democratiche, battendosi “per la Patria Europea degli Stati Uniti d'Europa (e , secondo il sogno di Churchill, anche d'America)“, e contro la tragica “Europa delle patrie“ di cui abbiamo già conosciuto gli orrori possibili. Consapevoli e da sempre convinti che, ad una strage di diritto seguirà purtroppo quasi inevitabilmente strage di popoli , espongono, a monito, sul petto la “stella gialla” della Shoa per non lasciare intentato l'obbligo morale e politico di denunzia di tutto ciò perché non venga ulteriormente diffuso soprattutto, ma non solo, in Europa.



Nell'estremo tentativo della difesa della trentennale, e non per loro strategica, postazione “di lavoro” europea , facendo sino in fondo il miglior uso possibile del residuo di visibilità che un “sistema truccato” ha loro concesso.

Nagano
20-05-09, 20:17
Come antidoto per i monatti…

di Ermanno De Rosa

Caro direttore,

mi sono imbattuto in un sito( www. donlappanio.com) che raccoglie commenti alla recente commemorazione televisiva di Enrico Mattei invitando a considerare la troppo trascurata opposizione che Don Luigi Sturzo gli fece con diverse pagine polemiche contro lo statalismo economico e la corruzione politica che induce.



Nel filone della denuncia della involuzione ademocratica detta da noi Radicali “La peste italiana” ho inserito un mio commento.



Don Sturzo si opponeva ad Enrico Mattei “non solo in difesa della libertà economica, ma anche di quella politica che vi è strettamente connessa” mostrando in queste semplice frese tutta la lungimiranza che lo contraddistingueva proprio nella sconfitta politica che stava subendo con lui l’autonomia del nostro Parlamento. Ripartirei dalle sue parole per analizzare un’altra ascesa economica avvenuta in un clima di monopolio e per privilegi improvvisamente concessi dal sistema delle oligarchie di partito : quello di Fininvest-Berlusconi di cui viviamogli sviluppi con apprensione crescente per le libertà individuali tanto care a Luigi Sturzo. Considererei anche il legame che si rinnova tra Governo-Parlamento ed ENI nelle recenti onerose aperture al dittatore libico Colonnello Gheddafi eletto a protettore delle nostre frontiere meridionali nel Mare Nostrum.

Nagano
20-05-09, 20:18
Aung San Suu Kyi. Tra Fassino, auspici, indifferenze e silenzi, i processi grotteschi e le sostanziali complicità

di Valter Vecellio

E’ necessaria “…una effettiva determinazione nei paesi asiatici, con i quali, non a caso, come Unione Europea abbiamo sviluppato e intendiamo continuare a sviluppare una crescente cooperazione proprio nella direzione di un più incisivo impegno comune per aprire una fase nuova in Birmania…”. Così Piero Fassino, inviato speciale dell’Unione Europea per Birmania/Myanmar, a proposito della vicenda che vede il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi imputata in queste ore in un processo grottesco e assurdo.



Alzi la mano chi ha capito che cosa Fassino intende proporre, intende fare, ha fatto e farà. Fassino racconta che “fin dall’ottobre 2007 l’ONU ha assunto il Myanmar come una priorità – il segretario generale Ban Ki-moon se ne occupa in prima persona; e il suo rappresentante speciale Gambari ha compiuto quattro visite in un anno e mezzo; una cabina di regia, il Group of Friends, è stato costituito con la partecipazione di Stati Uniti, Russia, Unione Europea, Cina e i principali paesi asiatici; il Consiglio di sicurezza è costantemente investito della crisi…”. Bene, benissimo. Peccato che, come lo stesso Fassino è costretto ad ammettere, “tutto ciò non è ancora riuscito a sbloccare quella crisi…”. Forse perché le persone sbagliate si stanno occupando in modo pessimo di questioni importanti?



Ciclicamente, è vero, si denuncia l’odioso trattamento riservato ad Aung San Suu Kyi e leader ideale del partito che ha tentato per lungo tempo di riportare la democrazia e i diritti civili nel paese: una donna tenace e coraggiosa che patisce, a causa delle sue idee, profonde umiliazioni e che tuttavia non si arrende e non si rassegna.



Occorre, sostiene Fassino, “che vi sia una effettiva determinazione nei paesi asiatici, con i quali, non a caso, come Unione Europea abbiamo sviluppato e intendiamo continuare a sviluppare una crescente cooperazione…”. E la determinazione, effettiva, dell’Unione Europea? E la determinazione, effettiva, di Fassino? Di questo si vorrebbe sapere, conoscere.



Con una quantità di parole fumose si cerca di coprire il nulla: il sostanziale vuoto di iniziativa, l’incapacità di elaborare una concreta azione per la difesa dei diritti umani, così brutalmente calpestati in Birmania, e di cui Aung San Suu Kyi è emblema. La “prudenza” dell’India, della Cina e di altri paesi asiatici, sostiene Fassino, si spiega con i rilevanti interessi di quei paesi con il Myanmar. Ma il problema non è la “prudenza” dei paesi asiatici; è piuttosto l’indifferenza e la sostanziale complicità dell’Occidente, dell’Unione Europea. E per quanto riguarda Fassino: al di là degli auspici e delle dichiarate buone intenzioni, è troppo chiedergli che spieghi in che cosa – concretamente – consiste il suo lavoro di inviato speciale?



Con Aung San Suu Kyi c’è tutto un popolo che subisce la stessa violenza e la stessa cieca arroganza del potere; e questo tra la colpevole indifferenza della classe politica, dei grandi mezzi di comunicazione e di conseguenza dell’opinione pubblica. Ieri a manifestare davanti all’ambasciata birmana a Roma solo un pugno di radicali. Significa qualcosa?

Nagano
20-05-09, 20:18
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Roma, 18 maggio 2009

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15 maggio 2009 - lettera di Marco Pannella al Presidente della Repubblica

Signor Presidente,

l’82% degli italiani ignora, esclude, l’avvenuta presentazione e la presenza - quindi - della Lista “Emma Bonino - Marco Pannella” alle elezioni per il Parlamento Europeo dei 72 deputati di quota italiana. La macchina schiaccia-democrazia di un ormai sessantennale Regime partitocratico opera, more solito, con l’obiettivo di impedire al Partito Radicale di essere presente, dopo trent’anni ininterrotti dalle prime elezioni dirette, anche in quella istituzione.

Nulla di veramente nuovo: nella scorsa legislatura, per ottenere un risultato del genere nel Senato della Repubblica, e così meglio assassinare la legislatura, otto Senatori regolarmente eletti furono sostituiti con altri proclamati Senatori, nominati ancorché bocciati dagli elettori.

Nella presente legislatura, come Lei ben sa, la partitocrazia ha operato in modo tale da impedire all’attuale Parlamento dei nominati l’esercizio delle sue proprie funzioni costituzionalmente rilevanti di Indirizzo e di Controllo; e poter così del tutto sopprimere perfino il diritto tradizionale alle Tribune politiche e agli “accessi” dei soggetti politici e sociali. Finora questo era diritto democratico di tutti i cittadini italiani e non mero privilegio corporativo di settori e organismi di Regime, volto al compimento di quanto previsto, tra l’altro, dall’art. 49 della Costituzione.

Allo stesso scopo va iscritto anche il risultato ormai acquisito di assicurarsi l’ignoranza, da parte dell’opinione pubblica e delle Autorità “Garanti”, dell’intera produzione e dell’informazione audiovisiva, con il soffocamento e l’eliminazione del Centro di Ascolto radicale, unico vero “servizio pubblico” del settore.

Inoltre, da ora al momento del voto, il programma che dovrebbe garantire in condizioni di “par condicio” le Tribune e i servizi elettorali, è invece architettato in modo tale da assicurare il predominio assoluto di talk-show e telegiornali: vero e proprio monopolio politico incontrollabile e incontrollato di Raiset e del regime partitocratico dominante.

È questa, e non altra, la realtà politica italiana quale ci appare: antidemocratica e opposta a un qualsiasi Stato di Diritto. Non meno, anche se diversamente, che a Tripoli, a Mosca, a Pechino, sempre più capitali di riferimento di questo nostro Paese.

A male estremo, Signor Presidente, rimedio estremo (se esiste).

Da questa sera inizierò lo sciopero assoluto della fame e della sete, nel quadro del Satyagraha radicale per la Libertà, la Giustizia, la Pace, con la forza e l’amore della verità.

Marco Pannella

Radicali Italiani (http://www.radicali.it/appello_2009/form.php)

Nagano
20-05-09, 20:19
Leggo. Mi stropiccio gli occhi, sorpreso. Ci edito, rileggo: e”dubito”

di Guido Biancardi

Mi sto riferendo al mio contatto con un importante intervento di Aldo Loris Rossi apparso su “Notizie Radicali”. del 15 maggio con il titolo: “Un decalogo per l’Europa”. Il termine “dubito” mi è venuto spontaneo, come unica risposta possibile, richiamata alla memoria da un gioco dei tarocchi in voga nell'alto Piemonte delle mia adolescenza estiva: il gioco dei tarocchi de “Il Diavolo” (dalla carta dal valore proprio di 15 se ben rammento, della data di pubblicazione dell'articolo). Era un gioco in cui le carte distribuite, parte rese visibili anche all'avversario, girate, e parte “coperte” dovevano riuscire a raggiungere un punteggio vincente “senza sballare” ma il cui ammontare complessivo veniva solo “affermato“ dal giocatore. L'altro poteva accettare il punto dichiarato o contestarlo con appunto, un “dubito”. Non era il brutale “falso” o il provocatorio “non ti (ci) credo”; era solo la messa in mostra di un'evidenza: quella di non essere convinti della dichiarazione dell'altro giocatore.

Ora, nel caso di Loris Rossi e mio, non siamo certo dei giocatori contrapposti che si fronteggiano per la supremazia, sia pure in un gioco, ma siamo non solo “compagni” ma addirittura “candidati comuni“ alle europee. Stimo l'architetto di cui mi onoro di condividere la posizione in lista nella circoscrizione del nord ovest. Pur tuttavia quel “dubito” mi sembra la risposta giusta alle sue affermazioni.

Il “punto” di cui si dichiara in possesso, in termini di valore di proposta strategica per l'Europa, cruciale al punto da essere proposto come un decalogo, tratta una serie di 10 temi ciascuno riferito ad un problema aperto ed esemplificati in apertura del testo. Li condivido come premesse, in blocco quasi dovrei dire, ma la “cifra” della lista delle soluzioni ai problemi che ne segue mi sembra quasi appartenere ad un'altra bottega o, se della medesima, mi sembra opera di una “mano” diversa, quale quella di un Ghirlandaio rispetto al Michelangelo delle dieci titolature.

Esse trattano infatti di una serie di rimandi di posizioni ed dichiarazioni strategiche già in parte assunte da Congressi ed istituzioni d' eccellenza (si apre con l'accenno alla conferenza euro-mediterranea del 1995 di Barcellona autrice della prospettiva a valenza profetica di una auspicata “zona di libero scambio” entro il 2010, come fulcro sul quale articolare e far evolvere un sempre più stretto progetto di “dialogo continuo ed indispensabile tra le civiltà che si affacciano sul mediterraneo”. Tale assolutamente auspicabile e condivisibile intenzione strategica che muta radicalmente la prospettiva dello scontro Hungtintoniano per il predominio fra le civiltà per sostituirvi un incontro/ scambio di e fra esse da rivendicare, anche storicamente, come tanto fecondo da poter costituire il legato culturale per un mondo in pace dello stesso progetto politico dell'Europa degli Spinelli e Rossi passerebbe per la cruna d'ago di tale zona di libero scambio da cui “spontaneamente” emergerebbe il ruolo di “cerniera fra la megalopoli europea e la megalopoli mediterranea”. Essa necessita, come “forza motrice dello sviluppo del Mezzogiorno” di “un“ sistema intermodale dei trasporti ( trasnazionali) a scala euromediterranea” con la creazione di una strategia unitaria finalmente centralizzata; vero scheletro portante dell'armatura urbana della nuova Europa”. Ergo, in pratica, anche soprattutto interporti ed altri “superluoghi” che rischiano di diventare altri non-luoghi. E soprattutto logistica, logistica,logistica.

Qui scatta il mio “dubito”. Sarà che molti termini mi sono risultati affascinanti come richiami alla nostra intrinseca trasnazionalità in prospettiva di unione degli Stati federali d'Europa ed America, la mia attesa era che il problema euromediterraneo potesse andare ben al di là di un'opportunità da sfruttare (quasi in un'ubriacatura rituale ottenibile dall'attingere ad elixir dai mille marchi e dalle mille concentrazioni di spiriti) di infrastrutture e servizi al trasporto , anche e soprattutto in fase di transito. E non certo limitato ai paesi dell'unione ,ma trasunionale e transcontinentali. Del range New York-Pechino in direzione controsolare. Di un destino di modernità di servizio allo sviluppo urbano non gioisco nel prefigurarlo di per sé, così come ne contesto le prime realizzazioni sperimentate. Gli “assi” o i “corridoi” che per una persona digiuna non solo di urbanistica avanzata ma anche di semplice progettazione di architettura civile si apparentano automaticamente allo specificativo “di disimpegno” oltre che a quello comunque “di servizio” mi richiamano alla mente il progetto pomposamente ed immaginificamente sbandierato della portaerei Italia protesa nel mediterraneo a far da ponte fra ovest ed est; che preludeva alla cattedrale purtroppo non più nel deserto, ma ormai da quartiere periferico affollato, del porto e degli angiporti di Gioia Tauro, vanto sia di Prodi che di Fassino, ma anche dei Colaninno padre e figlio e di tutta la compagnia confindustriale di giro. Leggo Loris Rossi e vedo Scajola!

A Lodi, terra agricola da concorso, ho avuto qualche esperienza assimilabile di sviluppo pianificato dal momento in cui si è scoperta, ad opera di una vera esorcista del territorio, “a vocazione infrastrutturale ed in particolare di logistica industriale” per il solo fatto di essere relativamente meno attrezzato del nord industriale, e confessato alfine di essere stato in perpetuo errore a fronte dei neppur troppo atroci tormenti subìti dai cosiddetti paladini (quelli “dalle braghe bianche” per intenderci e non quelli in braghe di tela) dell'agricoltura d'élite vogliosi d'abiura in cambio di un più che lucroso cambio di destinazione delle loro proprietà immobiliari. Il lodigiano si è consegnato, così al più devastante lifting/piercing/tattoo/ burning che l'ha ridotto, in un amen, a “corridoio”, asse attrezzato “total body” di transito intermodale merci e passeggeri, suturato dalla trincea continua di un'alta velocità improbabile donatrice di chissà quante metropolitane di superficie interconnesse alla precedente rete ferroviaria, e da cui, senza risparmi di cemento e di barriere sintetiche antirumore (!?), un lato della visuale di viaggio è stato cancellato per centinaia di chilometri, compensato dalla gaia e variopinta presenza di ogni sorta di contenitori industriali di stoccaggio e movimentazione, di casualizzazione e di disassemblaggio merci, oltre che di trasporto capillare di fornitura. Come aver assistito all'uscire dal grosso ventre di un insetto ormai morente, all'improvviso, di miriadi di sue piccole riproduzioni avide di spazio e cibo. Ovvero, nel nostro caso, in situazione di crisi epocale ed in assenza di altre opzioni utili, di ogni resto d'ambiente da divorare, in un paese che ne risulta sommerso corroso e soffocato in modo irreversibile quanto inaspettato.

Ecco, “dubito” che, seppur certo su una scale di ben altra dignità progettuale e respiro strategico il decalogo per l'Europa si trasformi passando dalle menti dei progettisti (“i concepitori”) direbbe Marco) a quella dei tanti procacciatori o procreatori nella cascata del subappalto infinito anch'esso a scala euromediterranea, ed oltre. Pronti ad impadronirsi di tutte “le doti“ e dotazioni senza ritegno.

E' Rigurgito di intolleranza antimodernista? Manifestazione inconsulta di un sorprendente a me stesso riflesso di ecologismo integralista? Può anche darsi che alcune di tali componenti influenzino anche la mia percezione. Ma Loris Rossi è davvero così certo del punto che dichiara e di cui può solo intravedere la probabilità? E, quel suo punto, con il Rientro dolce è compatibile?

Glielo chiedo da ammiratore della prima ora della sua “rottamazione “dell'edilizia di qualità indegna ed insicura. Così come resto affascinato dal respiro del recupero dei grandi fondali storico/ culturali che riesce a ripescare ed a ricomporre quasi con naturalezza. La soluzione geniale, artistica, è, per il mito, sempre la figlia di Poros e Penìa, dell'espediente, quindi e della scarsità di mezzi: le grandi opere, comunque le si chiamino, sono figlie di ben altro, di un potere assoluto. O forse solo di improvvisazione concitata dall'assenza di strategie credibili e condivisibili,ed entusiasmanti; o della semplice inflessibile e misteriosa “Necessità “(l'”irreversibile globalizzazione”), ma sarebbero, in tal caso anche tanto fiele da trangugiare. Quanto, poi? E per chi? L'ossimoro dello sviluppo a conservazione del territorio “unico e non riproducibile”,o del parco eolico e archeologico che si valorizzano reciprocamente aspetta forse, come un tempo a Gordio, la dimostrazione di una soluzione rapida e netta. Ma che, certo, non potrà non essere violenta, o indolore.

Temo il trompe l'oeil frutto legittimo delle passioni se davvero smodate ma non mi contento del canto, anche se allettante, delle” sirene specializzate” come principale guida nella nebbia in acque infide. La nostra è guida fidata. Ma ,“rottamare unicum et necesse est”. Il resto è contributo generoso ma non esclusivo del massimo possibile di ordinaria professionalità.

Nagano
20-05-09, 20:19
Il contributo leghista a rendere ingovernabile l'immigrazione: si rafforzano i fondamentalisti e si attaccano le donne

di Marco Cappato
E' più pericoloso chi mangia il kebab o chi amputa la vagina della figlia? Minaccia di più la sicurezza chi prega rivolto verso la Mecca o chi obbliga la figlia a sposare un compagno di clan, o ad abortire in clandestinità?
Siccome la risposta è (speriamo) semplice, dovrebbe essere semplice anche decidere in quale direzione andare per governare l'immigrazione. La priorità è fare sì che la legge italiana sia rispettata da tutti, cioè che non si creino comunità chiuse dove, per motivi religiosi, culturali o tribali, il diritto sia sospeso e la legge sostituita, per quieto vivere e per incapacità dello Stato, da "usi e costumi" semplicemente intollerabili.
Le parole chiave per ottenere il rispetto della legge sono due: "fondamentalismo", come nemico da battere; "donne", da difendere contro chi ne fa il bersaglio preferito. Se lo Stato non si organizza per combattere il fondamentalismo e far rispettare i diritti delle donne, dà il proprio contributo determinante a far esplodere l'immigrazione come un problema ingovernabile. Ma per essere credibile, lo Stato i fondamentalismi li deve combattere tutti. E le donne, le deve aiutare sempre.
Prendiamo la Lega. Mentre ingaggia epiche battaglie contro i cibi etnici o le moschee, ne prosegue altre che non fanno distinzione di razza o provenienza: no all'aborto, no al divorzio breve, no alla fecondazione assistita, all'analisi genetica pre-impianto, no alla pillola del giorno dopo. Perché? Perché il Vaticano vuole così, e noi siamo cattolici, dobbiamo preservare la nostra identità. Preti contro Imam, Ratzinger contro il Mullah, Bibbia contro Corano, Chiese contro Moschee. Ma le vittime sono le stesse: le donne, la libertà e responsabilità delle loro scelte. Poi ci sono anche gli omosessuali e ogni altra persona che pretenda di decidere sul proprio corpo, all'inizio, durante o alla fine della vita: e quindi, no al testamento biologico, all'eutanasia, alle coppie di fatto.
E più le battaglie leghiste (con tanti alleati a destra, ma anche a sinistra) hanno successo, più i fondamentalisti ringraziano. Talebani e vaticani assieme non possono che riconoscere con gratitudine ai proibizionisti clericali di dare un contributo fondamentale alla realizzazione del loro programma. Così, mentre le rispettive fila di impauriti e di invasati ingrossano, rimane solo da litigare tra kebab e polenta, mentre si regalano motonavi a Gheddafi.

Nagano
20-05-09, 20:19
Il Satyagraha, risposta di chi non si rassegna, e non accetta lo status quo, e reagisce

di Valter Vecellio

Le temps des monts enragés

Et de l’amitié fantastique.

(René Char)





E’ giunto il momento di contarsi,

come diceva Seneca

per gli schiavi. Si scoprirebbe,

una volta fatta questa conta,

che magari siamo isolati, ma non soli.

Non numerosi, ma sufficienti per contrapporre

quell’opinione che De Sasnctis

opponeva alle opinioni…

(Leonardo Sciascia)





Michele Rana, Francesco Pullia, Tommaso Ciacca, Antonella Casu, Rita Bernardini, Sergio Stanzani… E poi Piero Capone, Michele De Lucia, Donatella Corleo, Marco Marchese, Maurizio Bolognetti, Giancarlo Manco, Giulia Simi, Sabrina Iacobelli, Aldo Brancacci, Simone Lappano, Giulio D’Angelo, Donatella Trevisan, Alessandro Rosasco, Salvatore Fezziga, Furio Ferri, Monica Bianconi, Carlo Del Nero, Elia Lunardelli, Valter Vecellio, Domenico Foscolo, Diego Cogliando, Natascia Esposito, Claudio Landi, Volfango Bimbi, Demetrio Bacaro; e ancora: Rodolfo Viviani, Angelo Fornari, Roberto Mancuso, Libera Tizzi, Lucio Berté, Paolo Villani, Luigi Livio Casale, Rosanna Tasselli, Marco Filippa, Emiliano Silvestri, Nieri Brogi, Luisa Simeone, Gualtiero Santini, Gianluca D’Ostuni, Rosa Quasibene, Enrico Pietrangeli, Andrea Triscuoglio, Antonella Santini Bensi, Giancarlo Scheggi, Mina Welby, Filippo Pucci, Andrea Amati, Antonio Arrigoni, Mario Guidetti, Ariberto Grifoni, Edoardo Quaquini, Ilja Jurkovic, Christian Acerbi, Marco Pizzini, Alessandro Gerardi, Alessandro Massari, Stefano Bartoli, Luca Placidi, Tommaso Tonelli, Diego Sabatinelli, Francesco Mauro, Paola Scaramuzza, Rosa a Marca…



Cos’hanno in comune queste compagne e compagni? Radicali, o comunque associati e iscritti a una delle associazioni che compongono la “galassia” radicale. E ora, da uno, due, tre giorni, associati e “iscritti” a un Satyagraha che vede massimamente impegnato Marco Pannella, da giorni, ormai, in sciopero della fame e della sete. Una lotta che è l’ennesimo capitolo di un libro che sembra interminabile, per il diritto e la legalità. “Conoscere per deliberare”, dice Luigi Einaudi nelle sue “Prediche inutili”. Un principio clamorosamente disatteso, violato. I sondaggi demoscopici accreditano ai radicali una percentuale che si attesta intorno all’1 per cento; e un sondaggio commissionato all’istituto Crespi documenta come solo il 3 per cento circa degli aventi diritto di voto è a conoscenza che concorre anche la “Lista Bonino-Pannella”; dunque, quell’1 per cento di consenso ha del miracoloso, unico. E’ la dimostrazione di come – se venisse assicurata adeguata informazione – vi sia sintonia tra le proposte politiche e le iniziative radicali e il “comune sentire” del paese.



Il Satyagraha è la risposta di chi non si rassegna, di chi non accetta lo status quo, e reagisce. La risposta di chi non si rassegna a che sia “normale” che non vi sia dibattito, confronto, “notizia” su tutti i maggiori temi che riguardano la nostra vita di tutti i giorni, si tratti degli extracomunitari e di come accoglierli, o del fine vita; della resistenza laica alle quotidiane ingerenze clericali, o di come rendere vivibili le nostre città, della giustizia, di come viene amministrata e non viene assicurata…



Apparentemente quella in corso può sembrare un’iniziativa debole, che poco o nulla ha a che fare con gli urgenti problemi del paese. E’ il contrario, invece. Il Satyagraha in corso è fiducia nella forza mite della nonviolenza: migliora chi la pratica, e “parla” un linguaggio efficace e pulito a chi quest’azione è rivolta, disponendo tutti nella condizione più favorevole per perseguire e applicare le giuste scelte.

motorino radicale
11-07-09, 19:49
Le contestazioni a Berlusconi e gli i rischi ulteriori d’involuzione autoritaria e clericale

di Valter Vecellio

In qualche modo quello che visivamente è riscontrabile oggi lo si poteva cogliere all’indomani della consultazione elettorale per il Parlamento Europeo e a quella successiva per i ballottaggi di comuni e province; ed era riassumibile nella battuta: Silvio Berlusconi pur vincendo, ha perso perché non ha stravinto. Il Partito Democratico, che pure ha perso, in qualche modo ha vinto perché non ha straperso.



Poi, certo, la situazione merita e meriterà un’analisi un po’ più raffinata di quelle che pure sono state offerte: se il PD non è in grado di dire nulla di significativo nelle regioni del Nord, qualcosa significherà; se la Lega ha trionfato e dilaga anche in Emilia, anche questo significherà qualcosa; se si perde a Sassuolo e a Prato, è qualcosa di più di un campanello d’allarme; se il sindaco di Torino Sergio Chiamparino lealmente prende atto che occorre fare i conti con quel 5 per cento di elettorato che nella sua città ha votato radicale, qualche conseguenza bisognerà pur trarne; e lo stesso discorso lo si può fare in tutte le grandi città, siano Roma, Trieste, Milano, Cagliari…Non sembra di cogliere, nei due candidati per la guida del PD, Dario Franceschini e Pierluigi Bersani, segni di questa consapevolezza, ma diamo tempo al tempo, anche se di tempo ce n’è ben poco.



Intanto nella PdL devono fare i conti con una situazione che è molto più fragile e friabile di quanto non appaia, e che neppure le quantità industriali di fondotinta utilizzate dal suo leader servono più ad occultare. Le contestazioni a Napoli e a Viareggio sono indicative; e ancor più emblematica l’arrogante, volgare replica, che vede nel solito “complotto” ordito dalla sinistra la fonte, la causa e il compiersi di ogni male. Un giorno ci si divertirà – amarissimo divertimento, beninteso – a ricostruire questa complotto-fobia, che unisce gli Stati Uniti e la Spagna di Zapatero, l’”Economist” e “Repubblica”-“L’Espresso”, la Banca d’Italia e un altro imprecisato numero di potentati, uniti e compatti nel voler abbattere Berlusconi.



Per ora limitiamoci a descrivere con preoccupazione e inquietudine i possibili scenari.



Berlusconi, proprio per le difficoltà che sta incontrando, consapevole che il “momento magico” è finito, che la fiducia nei suoi confronti è incrinata, che le soluzioni agli enormi problemi del paese non si possono liquidare con spot televisivi, cercherà di rinsaldare la sua alleanza con i veri poteri forti di questo paese, e con un potere forte per eccellenza, il Vaticano.



Segnali in questo senso già ce ne sono; basta leggere i trasparentissimi messaggi che in queste ore, per esempio, vengono lanciati dal ministro del Lavoro Maurizio Sacconi e dalla sottosegretaria Eugenia Roccella.



Quest’ultima ha lanciato gli ennesimi suoi strali contro la Ru 486 sostenendo che quella pillola non è sicura e che attorno a quella pillola ci sarebbero troppe morti sospette; in perfetta malafede, perché quelle morti che ci sono state negli Stati Uniti non sono state causate dalla pillola, ma da un qualcosa che in Italia e in Europa non è previsto si accompagni alla pillola stessa; e sempre la sottosegretaria Roccella ha spiegato che non è il caso di installare distributori di preservativi nelle scuole o nei dintorni, perché tanto si trovano dappertutto, e comunque il preservativo non è “il modo giusto di affrontare l’emergenza educativa tra i giovani”. E comunque niente corsi di informazione sessuale nelle scuole, perché la cosa puzza troppo di socialismo: “E’ una visione statalista. Non si può sostituire un rapporto di relazione e fiducia tra figli e genitori con un corso in cui si spiegano cose che i ragazzi magari già sanno. Il problema è più sottile, è l’educazione alla responsabilità, anche in campo sessuale, che va svolta all’interno della famiglia”.



Non solo. Il 24 giugno, il ministro Sacconi, intervistato da “Avvenire”, ha annunciato che riprenderà, a tappe forzate, l’esame della legge sul fine vita. Ha avuto cura di far sapere che “per il Governo si tratta di una materia che è urgente portare a compimento, e quindi ci aspettiamo che nel più breve tempo possibile quel disegno di legge, già licenziato dal Senato, venga approvato definitivamente”. Perché non insorgano equivoci, Sacconi ha sillabato che “alimentazione e idratazione” vanno considerati sostegni vitali, indisponibili; e che questo costituisce un caposaldo della legge che deve restare inalterato. Al giornalista che gli chiede perché l’approvazione di questa norma torna a essere urgente, Sacconi risponde: “Perché non si ripetano casi come quello di Eluana Englaro e per evitare che il vuoto normativo venga colmato da provvedimenti della magistratura”; e poi specifica: “L’indisponibilità di idratazione e alimentazione sono sostegni vitali e non terapie, e afferma che questa è la posizione di tutto il Governo e della maggioranza…Un qualcosa che non è negoziabile”.



Il Governo insomma, dice “Obbedisco” a quanto non molto tempo fa, ha ordinato il presidente della CEI monsignor Angelo Bagnasco: che ha letteralmente dettato quello che il Parlamento deve fare in materia di testamento biologico e fine vita, tracciando una vera e propria agenda di lavoro: “Spetta alla politica agire nell’approntare e varare, senza lungaggini o strumentali tentennamenti un in equivoco dispositivo di legge che preservi da altre analoghe avventure”. Bagnasco ha poi aggiunto che “è raccapricciante il diritto a morire”.



Questo Governo è dunque disposto a concedere tutto e di più al Vaticano e alla gerarchia; e occorrerà essere più vigili che mai, più che mai capaci di mobilitare e contrastare quello che si annuncia e prepara. Perché, per esempio, tutto quello che sappiamo in questi giorni a proposito delle abitudini private di Berlusconi può determinare una pericolosa accelerazione. Nonostante il Vaticano non abbia per nulla apprezzato l’editoriale di “Famiglia Cristiana” che ha chiesto le dimissioni di Berlusconi, da oltretevere arrivano segnali di maldipancia. Non è un caso se il 19 giugno scorso Ratzinger intervenuto alla Fondazione De Gasperi abbia magnificato la riconosciuta dirittura morale dello statista trentino, “basata su un’indiscussa fedeltà ai valori umani e cristiani, come pure la serena coscienza morale che lo guidò nelle scelte della politica”. Dichiarazioni cui poi hanno fatto seguito analoghe prese di posizione di altre “eminenze”. Parole che certamente sono state un campanello d’allarme per Berlusconi. Il Vaticano dice: grazie per essere venuto di persona a San Giovanni in Laterano per il “Family Day”; grazie per il decreto di gennaio su Eluana. Ma se vuoi che cardinali e vescovi continuino ad appoggiarti, come hanno fatto alle ultime elezioni in Lazio, Sardegna, e ovunque, allora devi fare di più. Perché noi non abbiamo dimenticato che non hai voluto accogliere il nostro suggerimento di affidare la presidenza del Senato a Beppe Pisanu; e tu non devi dimenticare che c’è un cattolico a noi gradito che si chiama Pierferdinando Casini, che potremmo decidere di appoggiare più di quanto già non si faccia.



In questo contesto e in questo scenario sarà interessante vedere cosa intenderà fare il Partito Democratico. Vedremo se, finalmente, saprà dire una parola chiara, e assumere una posizione coerente. Dallo stallo di oggi dovrà pur uscire.

motorino radicale
11-07-09, 19:50
Chianciano: un nuovo soggetto politico? Prima è questione di chiarezza e consapevolezza

di Michele Rana

Pur non essendo fisicamente presente ho potuto recuperare molti degli interventi dell'assemblea degli autoconvocati di Chianciano.



Provo a partire da quello che ho sentito e ad intervenire a “bocce ferme” e a mente più lucida.

L’opportunità della costruzione di una lotta di liberazione dal regime partitocratico non è solo una questione di contenuti e di obiettivi. Ma è questione soprattutto di sovvertimento dei paradigmi tradizionali che riguardano gli strumenti e i mezzi che, oggi e da oggi per chi ha detto di sostenere i Radicali, dovrebbero cominciare necessariamente a prefigurare i fini.



Contro il partito unico della partitocrazia che da un sessantennio è stato capace di cospirare contro il fatto di una la libertà costituzionale di associazione politica (e pure sindacale) statuita ma di cui non è mai stata consentita la pratica è oggi necessario, ineludibile direi, assicurarne al cittadino il pieno esercizio.



La piena applicazione dell’art. 49 della Costituzione e cioè la possibilità che l’individuo sia effettivamente libero di vivere la democrazia interna di un partito ovvero arricchirla dalla contestuale partecipazione ad altre realtà organizzate che concorrono alla vita politica di un determinato territorio diviene quindi premessa per vivere la realtà politica non come scelta etnica, sterilmente di gruppo, ma come piena consapevolezza laica.



Questa è la partita sinceramente più interessante che, in questi giorni, è necessario giocare.

Che i gruppi dirigenti del PD o la corte del PDL e i loro satelliti, più o meno interessati o contro-interessati, siano decisamente ossessionati da qualsiasi barlume di democrazia interna o appena circostante alle gabbie oligarchiche dentro le quali sembrano vivere asserragliati lo dimostrano la pochezza degli argomenti di dibattito di cui hanno rifornito e continuano a rifornire Raiset (dalle veline alle escort e da, qualche ora in pieno stile prima repubblica, la tenuta/durata del Governo in carica).



Altre conferme sono venute, nei giorni scorsi, dalla reprimenda contro il disfattismo da parte del Presidente del Consiglio e da una Direzione del PD che è apparsa blindatissima in ordine a candidature e realizzazione congressuali.

A costoro, a questo reality di scontro politico democratico – oggi più di venti anni fa - va tolto subito l’incasso non del botteghino (che non hanno o non avrebbero) ma quello garantito dalla pioggia di denaro pubblico di cui è letteralmente inondato con il meccanismo (automatico) del rimborso elettorale. Così come va riformata la disciplina, anch’essa sovrabbondante in privilegi ed esenzioni, delle fondazioni che oggi costituiscono i nuovi sinonimi delle correnti (di spartizione) di pentapartitica memoria.



Questa è la prima lotta che va incardinata nel paese al fine di non continuare a coltivare velleità di partecipazione a competizioni prossime venture letteralmente impari poiché fondate sull’antidemocraticità riservata ad alcuni dei soggetti partecipanti al pari dell’illegalità, messa a sistema, del conoscere per deliberare, dei meccanismi di informazione.



E proprio sotto quest’ultimo aspetto appare sempre più ineludibile continuare ed aggravare – radicalizzare - la storica iniziativa radicale.



Da punto di vista semantico, culturale ma anche concretamente operativo e, quindi, giuridico-politico si deve proporre con forza la distinzione che è stata la garanzia di durata per Radio Radicale (e quindi il miglior presupposto/alleato per la sua difesa): la distinzione tra soggetto pubblico produttore di contenuti e contenuto ritenuto di servizio pubblico.



Mentre del primo potremmo, prima o poi, non sentire più la necessità del secondo sarebbe proprio utile definirne utilità, caratteristiche e tempi; magari anche modalità di assegnazione se non vera e propria concessione.



Lo stesso discorso vale per i sindacati e per il sindacato. Torna d’attualità, proprio quando la crisi sembra produrre gli effetti più nefasti, la considerazione che questo status quo di sistema e sociale – che fa pagare le conseguenze maggiori proprio ai più deboli e ai più esclusi – non può non essere stato raggiunto se non con la complicità anche di questo blocco sindacale.



Oggi tutti i sindacati sono realtà a-democratiche se non proprio antidemocratiche, in primis, poiché i loro statuti, nella grande maggioranza dei casi, escludono – per gli iscritti - ogni forma effettiva di piena libertà sindacale ed associativa in genere imponendo divieti di cumulo di cariche anche in altre organizzazioni ovvero, addirittura, nella forma assurda della presunta apoliticità dell’organizzazione sindacale, dispongono – come se fossero pubbliche amministrazioni – un divieto di iscrizione ovvero di candidatura per i partiti politici e meccanismi impossibili di incompatibilità.



Naturalmente tutto ciò – come dimostrano i casi Cofferati ed affini - fatto valere, in sostanza, solo per la base o nei confronti di coloro ai quali vengono ottriate fittizie cariche delle diverse articolazioni periferiche.



Anche a queste organizzazioni parassitarie di sostanze pubbliche va tolta ogni forma di finanziamento e di esenzione che oggi detengono, con la scusa o meno di partecipazione allo svolgimento di funzioni statali, nonché ogni forma di possibilità di trattenuta automatica in busta paga da parte del padrone (anche quando questo è lo Stato o un ente pubblico), che li rende oggi più simili ad enti parastato, caratterizzati da bilanci sicuri e certi che li mettono al riparo da ogni rischio, da ogni calo di consenso tra i lavoratori.



Di queste riflessioni sugli arnesi democratici, sui partiti e dei partiti, sui sindacati e dei sindacati, sulla loro piena legalità costituzionale e sulle prospettive di riforma deve arricchirsi il dialogo post Chianciano con Salvi, con Nencini, con De Bendedetti e gli altri che ci vorranno stare; con gli altri che vorranno stare non con i Radicali e le loro cause storiche ma parteggiare, per una volta, per loro stessi, per la loro speranza di vivere democraticamente, di vivere in pienezza della Costituzione liberandosi da ogni obbedienza partitocratica.



Quel libro giallo – la peste italiana - deve essere rivisto, aggiornato, migliorato ed approfondito proprio con loro: il Satyagraha è partecipazione ad un processo di ricerca di verità e non semplicemente un subire passivamente un lavoro fatto da altri.

motorino radicale
11-07-09, 19:50
Dare vita, corpo e voce ad un soggetto politico obbediente non ad un’idea di partito ma ad un progetto

di Francesco Pullia

L’intervento che segue ci è stato inviato da Francesco Pullia, accompagnato da due righe “introduttive”: “Ho voluto scrivere, come contributo al Comitato, queste righe. Se le troverete interessanti, e se c'è tempo, potete comunicarle agli altri. Grazie. Un abbraccio. Francesco

Care compagne, cari compagni,

pur essendo distante, dal punto di vista fisico, da questo Comitato, e per motivi non dipesi dalla mia volontà, mi sento, tuttavia, partecipe e presente ai Vostri lavori. Ho usato il termine presente perché ritengo che la presenza, ogni presenza, non debba ricondursi solamente ad una questione spazio-temporale ma sia in relazione con quel margine di assenza da cui poi, se ci riflettiamo un attimo, dipendono i nostri atti migliori, quelli che riflettono un dialogo profondo tra dimensioni distanti.

Questo preambolo potrà sembrare strampalato o farneticante solo a chi, non conoscendomi bene, non sa come e quanto quell’essere parte che mi giunge dall’appartenenza al partito sia da me esperito come una comunione, con tutto ciò che di intensamente religioso racchiuda
l’essere in comunione con qualcosa e/o qualcuno. Non a caso, comunione evoca comunicazione, cioè il relazionarsi, l’oltrepassare la singolarità verso una pluralità, l’assumersi
responsabilità-per-l’altro. Non posso, dunque, sottrarmi alla mia responsabilità nei confronti Vostri, di quell’altro, che Voi rappresentate e che collettivamente agisce in me.

Sostengo che la politica debba sottrarsi alla mercè della contingenza nel segno della duplice e non soggiogabile, né diluibile, irruzione da noi espressa da mezzo secolo. A quale duplice irruzione mi sto riferendo? 1) A quella della nonviolenza e 2) alla straordinaria intuizione del legame stringente, del nesso, tra geopolitica e biopolitica. La nonviolenza (e ha fatto molto bene Guido Biancardi, nel suo lucidissimo intervento di stamani, a sottolineare come l’unitarietà della grafia esprima di fatto una visione alta e altra) non è e non può essere un comodo rifugio per deboli o inetti o, peggio ancora, un vezzo intellettualistico ma, al contrario, implica la sofferenza e la gioia della tenacia, della costanza, della durata e, quindi, della
politicità del sé. Dunque è il preludio migliore alla biopolitica, ad una politica per il bios, per l’esistente.


Che voglio dire con questo? Semplicemente che è a partire dalla consapevolezza della differenza da noi introdotta nello scenario politico che dobbiamo riuscire a dare vita, corpo e voce ad un soggetto politico obbediente non ad un’idea di partito ma ad un progetto.

Ecco, credo che, per scendere ad un livello pragmatico (ma la prassi non può mai eludere l’apporto teoretico), sia giunto il momento di passare dalla resistenza all’affermazione liberale. E questo può avvenire incardinando tutte le forze che intendono proporsi, ripeto pro-porsi, come riformatrici in un articolato progetto (che, a mio avviso, è qualcosa in più di un partito) alternativo di governo, vale a dire nel governo dell’alternativa. Dall’attento ascolto degli
interventi di esponenti non radicali succedutisi nei tre giorni assembleari mi è parso ravvisare l’attestarsi della maggioranza di loro in una posizione di retroguardia, antagonistica. Il punto è
trasformare (e noi lo dicevamo oltre trent’anni fa) l’antagonismo in protagonismo. E’ questo che noi vogliamo.


Cosa cela in sé l’antagonismo se non il dramma di Antigone, se non il problema cruciale della legittimità della legge positiva? Si tratta di imporre legalità, una legalità che per affermarsi non può prescindere dalle coscienze, dalle esistenze, dalla biopolitica. Perché ciò accada bisogna, allora, insistere, come fa il dossier La peste italiana, sulle regole. Ritengo che, in questa direzione, la prima mossa debba essere l’avvio di una sorta di lega per il sistema uninominale sul modello anglosassone. Può essere la prima mossa scardinante da cui inevitabilmente seguiranno non alleanze ma unioni (unioni, non amalgama). Non solo. L’attuazione del sistema uninominale renderà davvero il politico espressione ecosofica di un territorio, di un ambiente, di ogni forma d’esistenza. E’ qui, su questo terreno, che lo stesso pensiero verde può riacquistare dignità, riformularsi. Il sistema uninominale è il grimaldello per il governo dell’alternativa. Colgo l’occasione per ribadire la necessità di organizzare un seminario sulla prassi della nonviolenza, sulla nonviolenza come scelta metodologica, come strumento di lotta e di governo. Un abbraccio a Voi tutti

motorino radicale
11-07-09, 19:51
Il Gay Pride del 13 giugno non risolve le ambiguità politiche interne al centrosinistra

di Massimiliano Iervolino

Quella di sabato 13 giugno è stata una manifestazione bella e colorata e su questo non credo si possa eccepire, ma non possiamo fermarci al successo organizzativo che, nonostante le tante difficoltà ormai note, c'è comunque stato. La politica del fare dov’era? Guardando attentamente il corteo si poteva facilmente notare che, oltre alle tante bandiere delle associazioni Glbt, erano presenti anche quelle di diversi partiti, quali il Partito Democratico, Sinistra e Libertà, e non ultime sventolavano anche i vessilli dei vari gruppi comunisti. Partiti che nei giorni precedenti al Pride hanno infiammato la polemica sul mancato patrocinio da parte del Comune di Roma, patrocinio che invece è stato conferito dalla Regione Lazio, governata dal centro sinistra. L'appoggio da parte di un ente locale ad una manifestazione come quella del Gay Pride è cosa importante, ma è altrettanto doveroso segnalare che la concessione della giunta regionale non è stata altro che un'operazione di facciata per almeno due motivi che vorrei qui argomentare.



Iniziamo dal primo. Il 17 dicembre 2007, dopo 14 anni di promesse non mantenute da parte del centro sinistra, finalmente con una delibera di iniziativa popolare, ideata da noi radicali, siamo riusciti a portare in Aula Giulio Cesare la proposta sul Registro delle Unioni Civili. Ebbene quella delibera fu bocciata dal voto contrario del Partito Democratico capeggiato dall’allora Sindaco di Roma Walter Veltroni!



Veniamo ora alla seconda motivazione. Dal 2005 la Regione Lazio è governata dal centro sinistra con il Presidente Marrazzo, eppure sono quattro anni che costoro dirigono la nostra Regione e nulla hanno fatto per la regolamentazione delle coppie di fatto che, ricordiamolo, sono formate per la stragrande maggioranza da eterosessuali.



I partiti che sabato hanno manifestando con i loro vessilli sono gli stessi che, pur stando al Governo del Comune di Roma e della Regione Lazio, per le unioni civili non hanno fatto nulla di concreto. Nel 2007 noi radicali ci prendemmo la responsabilità politica di portare in aula, tramite uno strumento popolare, una proposta sul Registro delle Unioni Civili, dando la possibilità ai cittadini romani di conoscere finalmente, dopo anni di chiacchiere, chi realmente era attento ai diritti e chi invece faceva finta di esserlo solo per fini elettorali. Quella battaglia la perdemmo, il Palazzo disse no alla nostra delibera. Ma oggi quella lotta continua, anche se attraverso un altro strumento. Siamo stati sempre convinti che quando esistono temi molto sentiti nel Paese, spesso per questo osteggiati dalla partitocrazia, allora è proprio in questi casi che bisogna dare la parola ai cittadini. Per queste ragioni noi Radicali Roma da ormai due mesi stiamo raccogliendo le firme su otto referendum per la Regione Lazio, un pacchetto di proposte tra cui annoveriamo il quesito propositivo sulle coppie di fatto e quello abrogativo della odiosa e discriminatoria legge sulla Famiglia voluta fortemente dall'ex Governatore Storace. Otto quesiti che rappresentano un vero e proprio programma di Governo alternativo a questo centro destra e a questo centro sinistra. Ci chiediamo, però, come sia possibile che nessuna forza ambientalista, laica, riformatrice, socialista e liberale colga questa importante iniziativa come qualcosa di alternativo ed aggregante allo stucchevole dibattito che attualmente c'è nella nostra Regione riguardante rimpasti di governo, correnti e future alleanze?

NOTE

Massimiliano Iervolino è Presidente del Comitato referendario di liberazione “Ernesto Nathan” e membro della Direzione di Radicali Italiani.

motorino radicale
12-07-09, 12:32
Giustizia-carcere. Notizie di cui non si ha notizia. Il minimo di efficienza garantito dalla cronica inefficienza del sistema

di Valter Vecellio

Notizie di cui non si deve avere “notizia”, di cui non si occupano i telegiornali e che raramente compaiono sui giornali:

Alessandria: i medici penitenziari protestano per il rinnovo del contratto.

Venezia: quattro detenuti nelle celle “singole”, fino a otto, i detenuti stipati in quelle che ne dovrebbero ospitare tre.

Sanremo: carcere super-affollato: 320 detenuti in 209 posti.

Verbania: mancano gli agenti; pregiudicati i “lavori sociali” dei detenuti.

Siena: nelle carceri organici ridotti all’osso, sicurezza a rischio.

Padova: nel carcere “Due Palazzi” c’è l’allarme scarafaggi.

Sicilia: il Garante dei detenuti della regione Sicilia denuncia: nelle carceri dell’isola la situazione è drammatica.

Campania: l’Osservatorio sulle condizioni di detenzione denuncia che in un solo giorno sono morti due detenuti.

Aversa: un detenuto di 43 anni si impicca all’OpG di Aversa.

Palermo: al carcere dell’Ucciardone per i colloqui, i parenti fanno anche dieci ore di attesa.

Crotone: un detenuto di 32 anni si toglie la vita, era in carcere da una settimana.

Venezia: emergenza sanità, c’è un solo medico e per tre ore al giorno.

Brindisi: agenti penitenziari protestano, l’organico è insufficiente.

Roma: il segretario della UIL PA Penitenziari Eugenio Sarno denuncia: carceri verso il disastro. Il DAP silente e immobile.

San Gimignano (SI): sit in di protesta della polizia penitenziaria.

Sulmona: psicologi carcerari in piazza: situazione insostenibile.

Busto Arsizio: i rappresentanti della Polizia Penitenziaria denuncia: dietro le sbarre, l’emergenza è una quotidianità.

Roma: il sindacato OSAPP (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) annuncia: gli agenti protestano in tutta Italia.

Milano: anche all’istituto per minorenni “Cesare Beccarla” è emergenza: 540 i ragazzi stipati in celle che ne dovrebbero ospitare 400.

Roma: il garante dei detenuti della regione Lazio denuncia: pochi agenti, quindi il nuovo carcere di Rieti non apre.

Palermo: il garante dei detenuti della regione Sicilia denuncia: il carcere della Favignana è disumano.

Ravenna: il sovraffollamento è del 300 per cento: 60 i posti disponibili, 180 i detenuti.

Viterbo: contro il sovraffollamento, sit in della polizia penitenziaria.

Roma: comunicato della UIL: 63.741 detenuti, record nella storia delle carceri italiane.

Trentino: nelle carceri il 30 per cento di detenuti in più della capienza.

Tolmezzo: i detenuti sono 293, un centinaio più della capienza del carcere.

Viterbo: un detenuto tenta il suicidio tagliandosi la gola.

Napoli: nel carcere di Poggioreale, il più affollato d’Europa, 2700 detenuti sono stipati in celle che ne dovrebbero ospitare non più di 1300.

Sassari: ai detenuti fanno compagnia i topi, che escono dai cessi alla turca. “Noi e i topi”, raccontano i detenuti, “restiamo chiusi in quella cella per 22 ore al giorno”.

Bolzano: i detenuti occupano praticamente tutto lo spazio disponibile del carcere. In un’unica cella stipati fino a dodici detenuti.

Roma: nel carcere di Regina Coeli si dorme per terra su materassi di fortuna.

Palermo: carcere dell’Ucciardone: i posti letto sono 378, ma i detenuti nel 2008 sono arrivati a essere anche 718 detenuti. In alcune celle da quattro, dormono in dodici, in grappoli di quattro letti a castello. Per dormire si fanno i turni tra il giorno e la notte. I bagni alla turca sono spesso tappati con bottiglioni di vetri, per evitare che i topi che escono dalle fognature fatiscenti invadano le celle.



Sono solo alcune delle “cronache” dal carcere di cui siamo venuti a conoscenza: fatti e vicende che si sono consumate negli ultimi dieci giorni. Ognuno di questi episodi corrisponde una dettagliata interrogazione presentata dai parlamentari radicali al ministro della Giustizia Angiolino Alfano, e al ministro della Salute Maurizio Sacconi. Non che ci si illuda circa le “risposte”, che infatti non sono state date, e quando arrivano, giungono dopo mesi. Tuttavia occorre insistere, bisogna non demordere. Devono sentire il fiato sul collo.



Non si è saputo mettere a frutto il tempo che si era guadagnato con l’indulto. Non si sono neppure gettate le basi per quelle riforme che da tempo si attendono; ora la situazione nelle carceri italiane si è ulteriormente aggravata, incancrenita. Ci vorrebbe un nuovo indulto, accompagnato questa volta da quell’amnistia che sciaguratamente non si è voluta fare. E poi quel programma riformatore di respiro fatto di pene alternative al carcere e depenalizzazione.



Non è questione di essere tolleranti e condiscendenti verso chi delinque; il problema è che nel momento in cui lo Stato priva della libertà uno dei suoi cittadini, più che mai si fa garante della sua incolumità, della sua salute. Nelle carceri italiane si sconta un supplemento di pena, oltre alla detenzione in quanto tale; nelle carceri italiane ci si uccide per disperazione dopo pochi giorni di detenzione, ci si ammala, si vive in condizioni vergognose; detenuti e agenti di polizia penitenziaria. Non solo: c’è un amarissimo paradosso: quel minimo (davvero minimo) dato di efficienza nei tribunali e nelle carceri, deriva dalla sostanziale inefficienza del sistema. Immaginiamo per un momento che quel 90 per cento di reati rimasti impuniti sia invece punito e si trovi un colpevole; supponiamo che i magistrati riescano a istruire e a celebrare i processi, invece di lasciarli accatastati cibo per topi “amnistiati” per prescrizione; supponiamo che finalmente in carcere ci vada chi deve andarci…Bel sogno, vero? Che dopo appena qualche minuto si trasformerebbe in un incubo, perché tempo qualche ora, l’intero sistema salterebbe: troppi detenuti, molti di più degli oltre sessantamila detenuti. Oppure immaginiamo che cosa sarebbero oggi le carceri se non si fosse varato l’indulto.



A queste domande il ministro della Giustizia Angiolino Alfano non risponde, per la semplice ragione che non ha una risposta, non ha una politica. E intanto i Gasparri e i Quagliariello continuano a ciancicare di sicurezza, ordine pubblico, certezza della pena, necessità di caccia all’immigrato da punire se clandestino in quanto tale, e non per quello che fa o ha fatto. Ma facciano il piacere!

motorino radicale
12-07-09, 12:32
In margine alla morte di un cinghiale

di Francesco Pullia

Tra gli animali cui sin dall’antichità sono state attribuite significative valenze simboliche, il cinghiale è stato sempre messo in correlazione con le forze primordiali e, soprattutto in India, con i cicli cosmici. Si sa, ad esempio, che Adone, dio dei cereali e delle piante, venisse adorato proprio sotto l’aspetto di cinghiale e rapportato ai riti della rinascita primaverile. Analogamente, nelle saghe nordiche Saerhrimnir era continuamente cacciato e mangiato dagli eroi immortali del Valhalla mentre i druidi gli conferivano speciali poteri apotropaici.



Nella cosmogonia vedica, Vishnu assume questa forma per riconquistare e strappare al demone Hiranyaksha la Terra che era stata rapita e gettata negli abissi oceanici. Vishnu-Varâha si tuffa nelle acque cosmiche e con le sue possenti zanne riesce a riportare alla luce il nostro pianeta.



René Guenon, dal canto suo, dedicò memorabili pagine alla Shwêta-varâha-kalpa ovvero all’era del cinghiale bianco, età mitologica in cui predominava la conoscenza assoluta in senso spirituale. Sono stati, tra l’altro, proprio questi studi ad ispirare il celebre motivo di Franco Battiato.



Nel corso della storia, il cinghiale è stato, quindi, sempre considerato come espressione della segretezza e dell’energia incontaminata della natura. Non può, pertanto, che turbare ed essere sottoposto, oltre che a svariate interpretazioni, a giudizi non di certo benevoli, quanto capitato qualche giorno fa a Milano ad un povero cinghiale. Spintosi, infatti, nel cuore nei Navigli, è scivolato rovinosamente in acqua dimenandosi affannosamente in cerca di salvezza. Soccorso dai vigili del fuoco, chiamati da passanti increduli, è purtroppo morto subito dopo essere stato estratto.



Gli elementi per una lettura in chiave mitologica e psicanalitica e per trarne i dovuti insegnamenti ci sono tutti: la natura violentata nei suoi lati più nascosti e magici dal minaccioso estendersi dell’antropizzazione, l’agonia di un ecosistema squadernato, stravolto dall’umana dissennatezza, gli elementi istintuali costretti a soccombere dinanzi al cinismo del pensiero calcolante, di una razionalità totalitaria, insaziabilmente onnivora, che ricorre al cemento e all’urbanizzazione come strumenti privilegiati per imporre un modello di sviluppo unidimensionale sempre più violento e insostenibile.



Un’attenta riconsiderazione del buon Marcuse (chi ne parla più?) forse potrebbe, se non salvarci, almeno indurci a rimettere un po’ tra parentesi un sistema che si vorrebbe spacciare e accreditare come destino ineluttabile e che, invece, con il passare del tempo, rivela le proprie falle, la propria debolezza! Siamo proprio sicuri che quella caduta e quel tragico epilogo abbiano riguardato esclusivamente una bestiola e non, invece, noi, il nostro declinare al limite di una voragine da noi stessi scavata?

motorino radicale
12-07-09, 12:33
Intelligenza creatrice o “deus ex machina”?

• da Il Foglio

di Angiolo Bandinelli

Nonostante le guerre culturali scagliategli contro, Darwin vive un momento di successi e riconoscimenti: anche Milano accoglie la mostra “Darwin 1809-2009”, memore degli ottimi rapporti tra il grande naturalista e i suoi colleghi meneghini. Gli rendo omaggio anch’io, riportando qui la notiziola letta su un giornale inglese che mia moglie riceve in abbonamento, convinta com’è che la stampa del suo paese sia più affidabile di quella italiana. Stavolta ha ragione, sui nostri giornali della cosa non si è parlato. Eppure fa sensazione: viene annunciata la scoperta di uno straordinario “anello mancante” dell’evoluzione: mica tra l’uomo e la scimmia - una parentela che nessuno mette più in discussione - ma tra l’uomo e “ gli altri mammiferi, vacche e pecore, elefanti e formichieri…”, come ha annunciato il naturalista Sir David Attenborough. Il fossile era stato scoperto una ventina di anni fa vicino a Darmstadt, in Germania, da un paleontologo dilettante che solo adesso si è deciso a tirarlo fuori e a metterlo in vendita: c'è infatti un lucroso mercato di questi reperti. Quando il fossile capitò nelle sua mani, il dr. Jørn Hurum, del Museo di storia naturale dell’Università di Oslo, sentì il cuore battergli furiosamente e non dormì per due notti: si trattava infatti di uno scheletro completo per il 95%, che avrebbe consentito studi e rilievi altrimenti impossibili. Il dr. Hurum non ha rivelato il prezzo pagato del museo per acquistarlo, ma la prima richiesta era stata di un milione di dollari: un prezzo - noto io, cinicamente - che nessuno scheletro umano toccherà mai. Il reperto ora è custodito nelle teche del Museo di Oslo. “Sarà il reperto più fotografato nei testi scientifici, per i prossimi cento anni”, ha detto il dr. Hurum. Basti pensare che lo scheletro è vecchio di 47 milioni di anni ed appartiene al piccolo di una specie di mammiferi vissuta nel momento in cui questi si dividevano in tronconi destinati a non più ricongiungersi: da una parte i lemuri, dall’altra i primati veri e propri, tra i quali si nascondeva l’uomo. Insomma, una assoluta rarità. Non a caso, al reperto è stato dato il nome di “Darwinius masillae”, in onore del padre dell’evoluzionismo.



Un brutto colpo, pensiamo, per gli antievoluzionisti e gli antidarwiniani, un po’ meno per creazionisti e fautori del disegno intelligente. Su questi e le loro teorie, le scoperte più audaci e impensate della paleontologia non fanno mai presa: troveranno sempre un escamotage logico-linguistico per inserire il nuovo elemento, la scoperta, in un impeccabile ragionamento che ribadisca la verità della tesi dell’intervento di dio e del disegno intelligente. Per chi fosse di gusti pascaliani, la scoperta non potrà che far accentuare il suo sentimento di umiltà nella considerazione del posto dell’uomo nel creato. Il fossile di Darmstadt è vecchio di 45 milioni di anni, la storia dell’uomo inizia poche migliaia di anni fa; un’inezia, che la dice lunga su quanto siano eccessive le pretese umane alla signoria sul mondo. Noi uomini siamo, tutt’al più, la farfalla che, uscita dalla crisalide, è destinata a vivere meno che un giorno. Forse aveva ragione Teilhard de Chardin, per il quale il figlio di Adamo ed Eva è un breve momento di passaggio tra l’animale e l’angelo incorporeo che siede a fianco di dio.



La scoperta del piccolo mammifero è solo l’ultima delle notizie che decretano inconfutabilmente il successo del pensiero darwiniano. E tuttavia, anche per noi laici attaccati alla logica dell’evoluzionismo, un qualche dubbio, una qualche perplessità resta sempre: per dire, come accettare che il tema “libertà” sia dipendente, senza soluzioni di continuità, da quella logica, che non può non essere deterministica? Come può, la libertà kantianamente intesa, essere filiazione di un meccanismo materialista? Può la libertà essere condizionata dai geni, dal dna, ecc.? Voi direte che a questo punto il creazionista ha partita facile. Lui mette in campo l’intervento di Dio, attribuendogli la scintilla che segna la nascita della libertà dell’uomo. Beato lui. Peccato che la tragedia greca avesse già dato una analoga, vuota risposta a questioni analoghe. Quando l’intreccio del dramma si faceva complicato e appariva impossibile arrivare ad un suo scioglimento, l’autore ricorreva al “deus ex machina”: una maschera con fattezze divine che calava sulla scena grazie a un sistema di funi e carrucole. Dall’alto della “machina” quel dio posticcio diceva la sua, e la tragedia poteva trovare la sua conclusione: bella metafora, se non spiegazione, della “intelligenza creatrice”. Il laico non ha di queste risorse: depresso come un povero asino di Buridano, non gli resta che affidarsi a Kant, sperando di poter superare, aggrappato a questa zattera, il Capo di Buona Speranza delle sue angosce.

motorino radicale
12-07-09, 12:34
Per continuare a fare quello che è giusto

di Demetrio Bacaro

COMITATO NAZIONALE 29 GIUGNO 2009 - CHIANCIANO



Vorrei partire non da un'analisi, ma da una suggestione, che fra le tante di questi 3 giorni appena trascorsi, è servita a chiarirmi il filo di un discorso, che, ho capito solo ieri sera ascoltando sia Emma che Marco, ha tutto sommato un senso in questo nostro ragionare insieme e potrebbe forse essere di un qualche contributo al dibattito.



Mi riferisco al richiamo che è stato fatto, da Marco Boato e minimamente anche da Monica Frassoni, alla figura di Alex Langer, questo personaggio mai sufficientemente studiato e valorizzato soprattutto in un periodo come l'attuale, in cui a livello europeo sembrano prevalere le logiche nazionalistiche a discapito di una visione unitaria e federalista, intesa nel senso che piace a noi. Nel suo libro-testimonianza, e forse testamento, “il viaggiatore leggero” emerge con chiarezza come sia stata la sua esperienza personale di pacifista ante litteram, in una terra come l'Alto Adige di allora, dilaniata dalla segregazione e dal razzismo etnico, con l'etnos che diveniva ethos, a sviluppare in lui un'alta propensione all'ascolto, alla contaminazione culturale, alla difesa del diritto, dell'ambiente e della persona. A sviluppare soprattutto in lui una capacità particolare nel saper leggere le necessità attuali e nel saperle trasformare in quella visione profetica degli sviluppi e del dover fare che molti gli hanno riconosciuto.



Ecco allora che mutuando da Alex Langer (che conosco bene per essere stato per alcuni anni presidente di un'Associazione Culturale a lui intitolata ai tempi della mia militanza ambientalista) la necessità dell'analisi corretta ed ampia per arrivare alla preconizzazione delle soluzioni ai problemi ed alle situazioni, volevo parlarvi delle cose sulle quali da alcuni mesi andiamo ragionando nella nostra Associazione Radicali Roma e degli strumenti che abbiamo individuato per provare a combattere la nostra battaglia di testimonianza radicale e di legalità nella difficile e per certi versi soffocante realtà laziale, spinti anche, per lo meno personalmente, da quel metodo in parte anche Langeriano del pensare globalmente ed agire localmente.



Siamo partiti riflettendo sul fatto che nella regione Lazio non si vedevano differenze o discontinuità fra la giunta Storace e la giunta Marrazzo; nove anni trascorsi nella più patente continuità partitocratica, con diritti civili, ambiente e rifiuti, legalità, costi della non democrazia e sperperi che si incancrenivano nelle pieghe del potere e sottopotere dei “ladri di Pisa”.

E partendo da una riflessione cominciata in una commissione del congresso di Radicali Italiani di novembre, in cui si enucleavano bene alcuni concetti circa la diminuzione di rappresentanza democratica e sulla necessità di riscoprire la potenzialità di strumenti come la proposta di delibera ed il referendum, ma coniugati nel locale, abbiamo cominciato a studiare gli statuti regionali, alla luce delle modificazioni costituzionali del capitolo quinto della Costituzione del 2001, che abbozzava un tentativo di riforma federale, benché grossolana ed incompiuta. In quest'analisi non solo sulla attualità, ma anche retrospettiva, abbiamo inoltre colto, anche forse in anticipo rispetto alla “Peste Italiana”, la corposità e costanza dell'illegalità a Roma e nel Lazio. Volendo solo enunciare abbiamo preso coscienza del mancato rispetto statutario da parte del Comune di Roma, che con Veltroni prima ed Alemanno poi, si ostina a non discutere le proposte di delibera popolare, di come un ufficio fondamentale come il difensore civico fosse vacante da molto tempo ed in precedenza nominato dal Presidente del Consiglio Comunale in spregio a regole ben precise ed affatto diverse, di come l'abusivismo delle affissioni in concomitanza delle diverse consultazioni elettorali rimanesse di fatto non solo impunito, ma neanche sanzionato; di come la pratica dei pianisti al Consiglio Comunale, dopo la fortunata parentesi della presenza di Rita Bernardini in Aula fosse ormai consuetudine sfacciata, di come sia stato di fatto smantellato l'ufficio del Garante dei detenuti e molto molto altro sul quale abbiamo già cominciato a stilare un piccolo documento per così dire locale sulla situazione agonizzante dello stato del diritto dalle nostre parti.



Soprattutto abbiamo verificato che lo Statuto della Regione Lazio, fortunata eccezione nel panorama delle regioni a statuto ordinario, prevede la possibilità di raccogliere firme per dei referendum non solo abrogativi, ma anche propositivi.



Siamo partiti da tutto ciò, dicevo, per arrivare ad individuare, proprio nei referendum regionali, quello strumento che ci consentisse di fare politica, attraverso la nostra specializzazione migliore: la raccolta delle firme, il contatto quotidiano con le persone, la costanza di essere in strada. Individuare i temi propositivi non è stato difficile, proprio perché forti dell'analisi a cui accennavo; potenziare raccolta, smaltimento, riciclo e riutilizzo della differenziata sui rifiuti con premialità fiscali per i virtuosi, privati o imprese; estensione dei diritti familiari a tutti, con la titolarità del diritto a beneficio del singolo e non della coppia; tutela anche sanitaria della salute infantile con il rimborso prima e l'abolizione poi dei ticket sanitari per tutti fino a 14 anni; riconoscimento di facilitazioni abitative e di assistenza legale ai coniugi separati in difficoltà economica. A questi 4 temi abbiamo poi affiancato un pari numero di abrogativi in tema di vincoli paesistici, spese elettorali rimborsabili ai partiti, agevolazioni alle famiglie solo canoniche, contributi economici pubblici agli enti religiosi che si occupano di turismo.



Ad aprile quindi, fra mille difficoltà e moltissima fatica militante (condizioni che perdurano ma che non riescono a convincerci della non idoneità della scelta) abbiamo lanciato la nostra campagna referendaria sugli 8 quesiti Siamo stati velleitari, presuntuosi, poco accorti, temerari; o piuttosto, come cercherò brevemente di spiegare, capaci di interpretare quelle necessità civili e di porci come strumento, se volete anche come laboratorio per il partito tutto, per esplorare questa metodologia di rilancio?



Bene io credo che innanzitutto questa campagna con i tavolini ci abbia permesso, come Marco Pannella sa per alcune verifiche intercorse in quei giorni fra lui e me, di essere centralina di monitoraggio eccellente per seguire il montare esponenziale dell'efficacia della lotta non violenta intrapresa da Marco stesso e da tutto il gruppo dirigente nazionale; è stato bello notare come vi sia stato un vero e proprio progredire giornaliero della conoscibilità della lista, dei temi e come un “ri-conoscere” i radicali, che sembravano riemersi da un letargo; le bandiere gialle con il simbolo dei nostri tavolini in quei giorni sono diventati elementi di richiamo e non più semplice arredo metropolitano. Soprattutto, però, mi importa sottolineare come la nostra battaglia, di metodo e di merito (non ho detto di come stiamo seguendo con tenacia e costanza l'evolversi dell'iter regionale sulla legge attuativa dei referendum propositivi) ci ha consentito e secondo me ci consentirà in questa fase di fornire una risposta possibile all'interrogativo di come rilanciare l'iniziativa politica di un partito dalle casse vuote, permettendoci inoltre di poter essere indagatori statistici delle possibilità di ascolto e collateralità dalla comunità regionale nella duplice componente della “gente” e dei partiti.



In queste settimane infatti, dopo il 4 per cento ottenuto a Roma alle recenti europee ed il 3 per cento regionale (attenzione sono consapevole e con me tutti i compagni dell'Associazione che si tratta di un voto non acquisito, ma lambito dalle nostre tematiche), tuttavia dicevo con quel risultato, legato all'efficacia della campagna nazionale delle ultime 2 settimane e forse minimamente al nostro stare per strada, cominciamo ad avere telefonate, contatti e riunioni con altre forze locali del centrosinistra, che negli ultimi mesi sembravano averci cancellato dalle loro agende. Non tralasciamo il piccolo particolare, inoltre, che questa campagna, dispendiosissima da un punto di vista energetico ma anche economico, ci sta dimostrando che parlare con la gente de visu è il modo migliore per chiedere contributi in soldi e più che 10 telefonate, valgono 3 minuti di contatto per la spiegazione dei temi e la raccolta delle firme.



L'impresa è titanica e francamente credo che, sebbene per abitudine cerco di non considerare nel mio agire la possibilità del fallimento degli obiettivi, servirà uno sforzo da parte di tutti noi dell'Associazione, cercando contributi e nuova militanza per riuscire. Ma dopo, ribadisco dopo, il 30 settembre, quando avremo depositato le firme, a me non interesserà ragionare di coalizioni, liste, listini, accordi per le regionali: avremo una piattaforma di governo per la regione che costringerà le altre forze ad esprimersi su temi così cruciali, da non poter essere elusi. E se riusciremo in parte lo dovremo anche alla splendida opportunità che ci ha fornito radio radicale, con la trasmissione del sabato pomeriggio sulla nostra campagna. Radio Radicale che occupa la cima delle mie preoccupazioni per i prossimi mesi e che vorrei davvero preservare dalla tempesta che sento avvicinarsi; siccome aiutarla non posso, mi piacerebbe che si difendesse e la difendessimo tutti insieme, magari producendo un piccolo dossier sulla sua attività di servizio pubblico, che potremmo pensare di divulgare anche ai tavoli; così almeno solo per riconoscenza.



Chiudo rapidamente con una richiesta che mi sento di rivolgere alla Segretaria Antonella ed al Tesoriere Michele:sono convinto che questa baracca si salverà solo, o per lo meno meglio, se riuscirà a conquistarsi una costanza di rapporti territoriali con le persone, bypassando l'ostracismo radio televisivo nei nostri confronti, che, ci piaccia o no, esiste. Allora da segretario dell'Associazione locale più fortunata perché a stretto contatto con il Nazionale, chiedo che si riprenda in esame il progetto dell'anno scorso di individuare 1-2 persone che in modo costante monitorizzino, aiutino e promuovano l'associazionismo locale radicale, nelle forme attuali o che penseremo di darci: ma un referente “centrale” mi pare indispensabile.



E siccome i discorsi o sono lineari cioè chiari o sono circolari cioè terminano da dove sono partiti e credendo di non essere riuscito ad essere lineare, chiudo con la citazione del messaggio che Alex Langer volle lasciare a tutti quelli che lo stimavano ed amavano prima di togliersi la vita, affinché ci serva da sprone: “CONTINUATE IN QUELLO CHE ERA GIUSTO”

motorino radicale
12-07-09, 12:35
Punto economia. Il profondo rosso dei conti pubblici

di Piero Capone

Continua il “bollettino di guerra” dei nostri disastrati conti pubblici. Con dati sempre più preoccupanti che stridono con l’ottimismo di facciata manifestato dal nostro governo. Dal conto economico trimestrale delle Amministrazioni pubbliche dell’ ISTAT relativo al primo trimestre 2009, emerge che il nostro indebitamento netto rispetto al Prodotto Interno Lordo ha raggiunto la quota record del 9.3% contro il 5.7% del corrispondente periodo dell’anno scorso. E’ il risultato più negativo da almeno un decennio: infatti è solo dal 1999 che è stata realizzata questa serie statistica dall’ISTAT. In termini quantitativi si verifica un deficit di ben 34 miliardi di euro contro i meno di 22 del primo trimestre del 2008. Il saldo primario (indebitamento al netto degli interessi passivi) è risultato negativo per 16,865 miliardi (4.6% del PIL).



Nel trimestre c’è una forte caduta delle entrate fiscali sia per le imposte dirette (-4.6%), sia per le imposte indirette (-4.9%). Il contrario sul fronte delle uscite: quelle correnti al netto degli interessi aumentano del 5.6%; con una punta del +7.0% alla voce “redditi da lavoro dipendente”. Ricordiamo che per restare all’interno dei parametri europei dovremmo raggiungere – al massimo – un rapporto Deficit/PIL del 3%. Siamo invece al 9.3% con un pesante scarto di oltre 6 punti. Non sembra proprio giustificata la sottovalutazione che fa il governo di questa grave situazione.



Il trimestre sta peggiorando un quadro già assai deteriorato nel 2008, dopo peraltro un lungo periodo di risultati sempre meno soddisfacenti. Ma il dato fondamentale è certamente rappresentato dal rapporto Debito/Pil. Ebbene. a fine 2008 c’è un ulteriore appesantimento: siamo al 105.7%; il dato di gran lunga peggiore di tutta l’Unione Europea. La media dell’Unione a 27 è infatti del 61.5%, e quella dell’Europa a 16 del 69.3%.



In molti paesi si verifica certamente un peggioramento del rapporto a causa del combinato disposto: contrazione del PIL – aumento della spesa anti crisi. Malgrado ciò la media non si discosta molto dal parametro europeo del 60%, e tutti i paesi si collocano al di sotto del rapporto 100%. Cioè a dire che il loro stock di debito pubblico è comunque inferiore al loro Prodotto Lordo.



Interessante il confronto con il Belgio, paese sempre caratterizzato da un alto Debito Pubblico.

Nel 1995 il rapporto Debito/PIL del Belgio era del 6.3% superiore di quello italiano. Dopo cinque anni, nel 2000, però era già migliore: -1.3%. E nel 2005, grazie alle politiche di rientro dal debito (privatizzazioni, ma soprattutto forti riduzioni di spesa), lo scarto a favore del Belgio sull’Italia era del 14.7%. E nel 2008? Con tutti gli interventi anti crisi? Nessuna variazione: continua a crescere il distacco: il rapporto belga rappresenta infatti un ulteriore miglioramento sull’ Italia, con uno scarto del 18%. Il Belgio che aveva un rapporto Debito/PIL del 129.8% nel 1995 è ora all’ 89.6%, scendendo in 13 anni di ben 40 punti.



L’Italia – con il 121.5% nel 1995 – è ora al 105.7%, cioè meno 15.8 punti. Se avessimo seguito il modello belga oggi avremmo uno stock di debito di circa 1.300 miliardi. E avremmo pagato 63 miliardi di euro di interessi passivi invece degli 81 effettivamente erogati. Si sarebbe verificata una minore uscita di ben 18 miliardi di euro (solo nel 2008): quante possibilità per affrontare i nodi strutturali che – soprattutto sul versante sociale – colpiscono duramente le famiglie più deboli e milioni di lavoratori. Invece abbiamo bruciato per onorare il “debito di regime” negli ultimi quattro anno la cifra impressionante di quasi 293 miliardi di euro!

Nel triennio che va dal 2005 al 2008 l’onere degli interessi passivi a carico del nostro bilancio aumenta di ben il 22.4%. Ma tutto questo non è, e non è mai stata una priorità nell’agenda delle due anime del regime italiano.



Cosa più grave per quella che teoricamente si richiama a valori di solidarietà e socialità, e che , invece, per mantenere il sistema clientelare e partitocratico della spesa pubblica, sacrifica su questo altare le condizioni di vita di milioni di lavoratori e di cittadini meno abbienti.

motorino radicale
12-07-09, 12:36
Decreto immigrazione: un passo indietro che ci riporta alle leggi del 1938
Il sito “Articolo 21, quotidiano ondine per la libertà di espressione”, pubblica un intervento di Daniela De Robert, sul decreto immigrazione che ci sembra utile proporvi.

di Daniela De Robert

Dunque il decreto legge sulla sicurezza da qualche ora è legge. Con 157 voti favorevoli, 124 contrari e tre astenuti il Senato ha approvato in via definitiva il cosiddetto pacchetto sicurezza del governo. Da oggi essere clandestini è un reato. Vale per tutti. Per chi entra nel territorio via mare o via terra a rischio della propria vita, per chi ha perso il lavoro e quindi il permesso di soggiorno, per chi vive e lavora senza alcun riconoscimento e senza alcun diritto perché straniero irregolare, per chi è nato in Italia qui è sempre vissuto ma non ha presentato la richiesta di cittadinanza nell’anno successivo al compimento dei diciotto anni di età e in questo modo ha perso il diritto a essere riconosciuto per quello che è, cioè cittadina o cittadino italiano.


La criminalizzazione della clandestinità è una novità per l’Italia del dopoguerra che introduce un reato legato all’identità violando così - come sostiene il giurista Luigi Ferraioli - il principio della legalità penale secondo cui il reato è legato a ciò che si fa e non ha ciò che si è. Un passo indietro che ci riporta indietro alle leggi del 1938.



E se la clandestinità è un reato – dice la nuova legge - chi esercita funzioni di pubblico ufficiale ha l’obbligo di denunciarli. Chiunque si presenta a uno sportello di un ufficio pubblico, dunque, lo fa a proprio rischio e pericolo. Ospedali compresi. Non lo sa ancora Abou, nato meno di un mese fa all’ospedale Fatebenefratelli di Napoli, ma sua madre Kante sì. La sua colpa è stata di partorire senza avere i documenti in regola. Per questo l’ospedale l’ha denunciata e per questo ha rischiato di perdere il piccolo Abou. Non lo ha potuto allattare, ma oggi – proprio mentre il Senato votava il pacchetto sicurezza – ha ricevuto il permesso di soggiorno, quello che aspettava in quanto richiedente asilo politico da circa un anno. Così mentre i suoi compagni di sventura in virtù della nuova legge si sono trasformati in criminali, lei all’improvviso è tornata a essere una persona onesta.



Il giro di vite contro gli immigrati colpisce anche i matrimoni misti, al punto che un gruppo di intellettuali (da Andrea Camilleri a Dacia Maraini, da Moni Ovadia a Gianni Amelio) hanno lanciato un appello “contro il ritorno delle leggi razziali in Europa”: Con tale divieto si impedisce, in ragione della nazionalità, l’esercizio di un diritto fondamentale quale è quello di contrarre matrimonio senza vincoli di etnia o di religione; diritto fondamentale che in tal modo viene sottratto non solo agli stranieri ma agli stessi italiani.



Ma non commette reato solo lo straniero che soggiorna o entra nel nostro territorio senza il permesso di soggiorno. Commette reato chi affitta loro una casa. D’altra parte si sa, ai fantasmi non serve. Basta un ponte, un vagone in disuso, una panchina sfuggita ai rigori dei sindaci sceriffi, una baracca ai margini dei campi dove raccolgono i pomodori o dei cantieri dove lavorano e qualche volta muoiono, proprio come gli italiani in carne e ossa.
Con il pacchetto sicurezza arriva quella che qualcuno ha chiamato senza tanti giri di parole la “tassa sul negro”. Fino a duecento euro per pagare il permesso di soggiorno (ogni volta che viene rinnovato) e l’acquisizione della cittadinanza. Non è una tassa, dicono i sostenitori del provvedimento, ma un contributo. Sarà, ma i contributi obbligatori in Italia si chiamano tasse. Saranno devoluti alle politiche per l’immigrazione. In altre parole, saranno gli stessi immigrati a pagare gli interventi statali a loro favore. Compresi forse i costi dei CIE, i Centri di identificazione ed espulsione che prendono il posto dei CPT, centri di permanenza temporanea, dove gli immigrati clandestini potranno essere rinchiusi anche per sei mesi senza processo in attesa di essere rispediti a casa. Dei luoghi di privazione della libertà, come le carceri, con mura di cinta e filo spinato.



Per garantire la sicurezza ai cittadini, oltre ai carabinieri, alla polizia, all’esercito (che il ministro Maroni aveva mandato nelle città) e alla Guardia di Finanza arrivano anche i “volontari per la sicurezza”, cioè le ronde. Senza divise e senza simboli di partiti politici, senza possibilità di intervenire direttamente, ma solo con il compito di segnalare le illegalità alle forze dell’ordine.
Il decreto sicurezza non riguarda solo gli stranieri irregolari. Nel mirino del governo anche il danneggiamento, deturpamento, e imbrattamento delle cose altrui, il decoro delle pubbliche vie e l’occupazione di suolo pubblico. In altre parole, i graffitari. Poi ci sono le aggravanti per i reati commessi su anziani e disabili e norme più severe per l’uso di minori per l’accattonaggio.
Tra tante novità c’è anche un ritorno: il reato di oltraggio a pubblico ufficiale. Evidentemente considerato più grave del reato di falso in bilancio depenalizzato recentemente dal governo Berlusconi.

Infine la lotta alla mafia prevede l’inasprimento del carcere duro. Il cosiddetto 41bis, maggiori controlli sugli appalti e lo scioglimento anche degli organi amministrativi e tecnici dei comuni in caso di infiltrazione mafiosa.



Con la nuova legge l’Italia è più sicura secondo il Governo e il Parlamento che l’ha votata. “Non è un provvedimento razzista” ha detto il ministro dell’interno Roberto Maroni.
Ma dalla Chiesa arrivano giudizi diversi. "I migranti hanno il diritto di bussare alle nostre porte – scrive il presidente del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti, monsignor Antonio Maria Veglio. Basta demonizzare e criminalizzare il forestiero. L'arrivo dei migranti non è certo un pericolo". Mentre per il segretario del pontificio Consiglio, monsignor Agostino Marchetto la nuova legge porterà "molti dolori e difficoltà agli immigrati".

motorino radicale
12-07-09, 12:37
Morire di carcere: primo semestre 2009 da “bollettino di guerra”
Francesco Morelli, ha curato per “Ristretti Orizzonti” un dossier su “Morire in carcere”, che costituisce un vero e proprio “bollettino di guerra”.

di Francesco Morelli

Dossier "Morire di carcere" - I primi sei mesi dell'anno si chiudono con un bilancio da "bollettino di guerra" per le carceri italiane: in 181 giorni sono morti 89 detenuti (1 ogni 2 giorni, in media) e 34 di loro si sono suicidati.

In 10 anni (2000-2009) i "morti di carcere" sono stati 1.449 e le premesse perché a fine anno la "quota" di 1.500 sia raggiunta e superata sembrano esserci tutte. Nello stesso periodo i detenuti suicidi sono stati 514, con un massimo storico nel 2001 (69 casi), che quest'anno "rischia" anch'esso di essere oltrepassato.

Precisiamo che i dati relativi al 2009 rappresentano una "anticipazione", rispetto a quelli del Ministero della Giustizia (diffusi solitamente con notevole ritardo), mentre quelli riferiti agli anni precedenti sono "ufficiali", ma il nostro Dossier ha appunto l'obiettivo di tenere desta l'attenzione delle istituzioni e dell'opinione pubblica sulle "morti di carcere".



Non si tratta soltanto di "numeri"



La portata del dramma che quotidianamente si consuma nelle nostre prigioni si comprende meglio guardando oltre le statistiche, per capire chi sono questi detenuti e come muoiono.

Vincenzo Nappo, si è ucciso il 9 giugno: era internato nell'Opg di Aversa e affetto da un grave tumore che lo aveva molto debilitato. Perché rimaneva chiuso in carcere, nelle sue condizioni di salute? La stessa domanda viene spontanea per Anna Nuvoloni, seminferma di mente, rinchiusa nel reparto "Casa di Cura e Custodia" del carcere di Sollicciano, dove è morta (sembra) soffocata da una mozzarella (!?). Aveva 40 anni e doveva essere scarcerata a fine luglio.

L'immigrato 30enne che si è impiccato in una Caserma dei Carabinieri nel brindisino non è nemmeno arrivato al carcere: era in "cella di sicurezza" perché accusato del furto di una bicicletta… chissà se il giudice (che non ha fatto in tempo a vedere) avrebbe convalidato l'arresto.

Altre vicende "al limite" nelle carceri di Poggioreale e di Benevento, dove sono morti per "cause naturali" due detenuti coetanei: entrambi avevano 79 anni e, gravemente ammalati, da tempo chiedevano una misura alternativa alla detenzione, per potersi curare... o anche solo per "morire liberi".

Vicende quasi incredibili ed anzi credibilissime, in un sistema penitenziario nel quale più della metà dei detenuti è in custodia cautelare (quindi "presunto innocente") e, tra i condannati, 9.000 hanno pene inferiori a 1 anno. Un sistema nel quale la metà dei carcerati è affetto da forme di epatite, il 30% è tossicodipendente, il 10% malato di mente, il 5% ha l'hiv.

E, per completare il quadro, c'è il sovraffollamento: in celle da 10 mq vivono anche 6-8 detenuti, in molti istituti costretti a dormire su "materassi a terra" perché non c'è posto per le brande (e neanche ci sono brande…).

Ed i suicidi diventano più numerosi se l'affollamento aumenta e le condizioni di vita nelle celle peggiorano: nel primo semestre del 2007, quando a seguito dell'indulto la capienza delle carceri era ancora rispettata, i suicidi furono 19, nel primo semestre del 2008 diventano 20, quest'anno sono stati 34.

Tra i 34 detenuti suicidi 20 erano italiani e 14 stranieri. 10 avevano un'età compresa tra i 20 e i 29 anni; 14 tra i 30 e i 39 anni; 6 tra i 40 e i 49 anni; 2 tra i 50 e i 59 anni; 2 avevano più di 60 anni.

Di seguito potete leggere le loro "storie", ricavate dalle notizie di giornali ed agenzie, ma anche dalle segnalazioni dei Garanti dei detenuti, degli operatori penitenziari e del volontariato.





Elenco del casi raccolti nel 2009 (in ordine cronologico)



Nome e cognome


Età


Data morte


Causa morte


Istituto

Aziz, marocchino


34 anni


03 gennaio 2009


Suicidio


Spoleto

Salvatore Mignone


37 anni


04 gennaio 2009


Omicidio


Secondigliano (Na)

Rocco Lo Presti


72 anni


24 gennaio 2009


Da accertare


Torino

Detenuto croato


37 anni


26 gennaio 2009


Suicidio


Poggioreale (Na)

Francesco Lo Bianco


28 anni


27 gennaio 2009


Da accertare


Ucciardone (Pa)

M.B., detenuto italiano


60 anni


30 gennaio 2009


Suicidio


Sollicciano (Fi)

Gaetano Sorice


38 anni


31 gennaio 2009


Overdose


Teramo (scarcerato)

Vincenzo Sepe


54 anni


01 marzo 2009


Suicidio


Bellizzi Irpino (AV)

Mohamed, marocchino


26 anni


06 marzo 2009


Suicidio


S.M. Maggiore (VE)

Leonardo Di Modugno


25 anni


08 marzo 2009


Suicidio


Foggia

Giuliano D., italiano


24 anni


08 marzo 2009


Suicidio


Velletri (RM)

Giancarlo Monni


35 anni


09 marzo 2009


Malattia


Cagliari

Detenuto italiano


37 anni


16 marzo 2009


Suicidio


Poggioreale (NA)

Jed Zarog


30 anni


17 marzo 2009


Suicidio


C.C. di Padova

Detenuto algerino


42 anni


19 marzo 2009


Da accertare


C.I.E. di Roma

Marcello Russo


38 anni


22 marzo 2009


Suicidio


Voghera (PV)

Francesco Esposito


27 anni


27 marzo 2009


Suicidio


Poggioreale (NA)

Carmelo Castro


20 anni


27 marzo 2009


Suicidio


Piazza Lanza (CT)

Gianclaudio Arbola


43 anni


31 marzo 2009


Suicidio


Marsala (TP)

Detenuto tunisino


28 anni


13 aprile 2009


Suicidio


Pisa

Andrei Zgonnikov


47 anni


16 aprile 2009


Suicidio


Salerno

Antonino Saladino


57 anni


20 aprile 2009


Suicidio


Viterbo

Daniele Topi


37 anni


21 aprile 2009


Suicidio


Rimini

Ihssane Fakhreddine


30 anni


24 aprile 2009


Da accertare


Firenze

Franco Fuschi


63 anni


26 aprile 2009


Suicidio


Alessandria

Graziano Iorio


41 anni


1 maggio 2009


Suicidio


Poggioreale (Na)

Ion Vassiliu


21 anni


1 maggio 2009


Suicidio


Pisa

Nabruka Mimuni


44 anni


7 maggio 2009


Suicidio


Roma (C.I.E.)

L.P., detenuto italiano


27 anni


15 maggio 2009


Da accertare


Campobasso

Detenuto marocchino


30 anni


15 maggio 2009


Da accertare


C.C. Padova

Detenuto marocchino


25 anni


19 maggio 2009


Suicidio


Bergamo

Samir Mesbah


36 anni


27 maggio 2009


Suicidio


Firenze

Detenuto italiano


40 anni


30 maggio 2009


Malattia


Terni

Vincenzo Nappo


43 anni


09 giugno 2009


Suicidio


Opg Aversa (Ce)

Detenuto italiano


79 anni


09 giugno 2009


Malattia


Secondigliano (Na)

Antonio Chiaranza


32 anni


10 giugno 2009


Suicidio


Crotone

Anna Nuvoloni


40 anni


11 giugno 2009


Da accertare


Sollicciano (Fi)

Charles Omofowan


32 anni


14 giugno 2009


Malattia


Lanciano (Ch)

Rino Gerardi


38 anni


16 giugno 2009


Da accertare


Venezia S.M.M.

Detenuto marocchino


30 anni


18 giugno 2009


Suicidio


Brindisi (Caserma)

Detenuta italiana


35 anni


21 giugno 2009


Suicidio


Civitavecchia (Rm)

Detenuto indiano


30 anni


21 giugno 2009


Suicidio


Vercelli

G.Z. (Assistente P.P.)


43 anni


21 giugno 2009


Suicidio


S.M. Capua V. (Ce)

Khalid Husayn


79 anni


21 giugno 2009


Malattia


Benevento

motorino radicale
12-07-09, 12:37
Giustizieri per conto di chi e per che cosa?

di Francesco Pullia

Ci sono pagine di storia, soprattutto di quella più recente, nei cui confronti la sinistra ha sempre opposto un muro di ostinata reticenza, non solo rifiutando un’analisi approfondita ma opponendo alla verità nuda e cruda l’invenzione di miti fondati sulla verosimiglianza, appartenenti ad un immaginario totalmente disancorato dalla realtà utile, però, per far presa sulle masse.



A partire da questi miti è stata alimentata una retorica cui si è fatto strumentalmente ricorso come necessario paravento di quella aberrazione antidemocratica chiamata partitocrazia.



In un agile libretto del 1992, intitolato non a caso Il mito della Resistenza (Rizzoli), Romolo Gobbi denunciava la costruzione di una sorta di epopea per meglio mascherare la “spartizione del potere tra i partiti dell’arco costituzionale” ed auspicava la formazione di “una nuova schiera di intellettuali, che non abbiano giurato fedeltà alla prima Repubblica, che siano uniti da un’esperienza comune di opposizione radicale al sistema politico e che siano disposti a correre il rischio di “passare al bosco”, di pensare a una nuova azione fondante, a una nuova Resistenza, che prefiguri una nuova Costituzione”.



Quanto contenuto nel dossier, redatto dai radicali, La peste italiana attesta in modo inconfutabile la veridicità di questa analisi.



Il vizio di fondo occultato e rimosso dalla sinistra sta nella sottovalutazione e nella mancata volontà di comprensione del rapporto che intercorre tra metodi e fini. La sinistra, in altri termini, ha sempre preferito eludere una seria analisi dello strumento della violenza nelle lotte di liberazione per evitare di ammetterne il fallimento e l’insostenibilità. Prova ne è il disagio manifestato ogniqualvolta si accenni, come ha giustamente insistito Marco Pannella, ad episodi emblematici come via Rasella.



Il bel libro I giustizieri, sottotitolo 1944: la brigata “Gramsci” tra Umbria e Lazio, edito in questi giorni da Mursia, conferma nettamente quanto da noi sostenuto.

Lo ha scritto, con una forma narrativa accattivante, Marcello Marcellini, avvocato ternano che non può di certo essere accusato di avere simpatie destrorse se non altro perché negli anni Settanta si prese la briga di difendere a proprie spese, in diversi dibattimenti processuali, Oreste Scalzone e altri militanti di Potere operaio.



Le vicende descritte sono estremamente gravi e sono riferite al ruolo svolto, in un tratto appenninico all’incrocio i due territori di Terni e di Rieti, dalla brigata di partigiani comunisti “A. Gramsci” . Vengono rievocati quattro fatti di efferatezza avvenuti tra l’11 marzo e il 18 maggio 1944. Roba da fare accapponare la pelle e lasciarti con il magone addosso. Violenze gratuite, sevizie, omicidi brutali, feroci, ipocritamente ammantati di connotati politici e, cosa assai più disgustosa, rimasti impuniti.



Si legga, in particolare, il terzo capitolo, intitolato Un fascista qualunque, Montefranco, 4 maggio 1944, relativo al rabbrividente assassinio di Angelo Centofanti, prelevato a tarda notte da una quindicina di partigiani dopo che l’abitazione era stata razziata e sotto lo sguardo atterrito della moglie e del figlio. Scomparvero nel bosco inghiottiti dal buio. Tania, l’affezionatissima cagnolina chiazzata di bianco e marrone, vedendo che il padrone veniva portato via lo volle seguire: “Il cadavere di Augusto Centofanti venne scoperto casualmente la mattina dell’8 maggio da Erasmo Fiocco, un contadino della zona, a circa un chilometro di distanza dalla sua casa, in un boschetto (…) Era in uno stato di avanzata putrefazione, supino, a braccia aperte, con il cranio fracassato e il ventre squarciato dalle pugnalate. I suoi assassini si erano accaniti su di lui cavandogli gli occhi e recandogli gli organi genitali. Accanto, sopra il suo braccio sinistro, giaceva Tania, la fedele cagnetta, anch’essa uccisa a pugnalate e poi gettata sopra il corpo del suo padrone”.



Marcellini ha trovato gli atti processuali di questi crimini ripugnanti depositati all’Archivio di Stato e si è messo alla ricerca degli ultimi testimoni.



“Delle numerose uccisioni – scrive – commesse non in battaglia dai partigiani della brigata “Gramsci” tra il gennaio e il maggio 1944 soltanto per sei, a quanto risulta, furono presentate denunce e attivate indagini da parte dell’autorità giudiziaria di Terni e di Rieti”.



Come annota nella sua prefazione Vincenzo Pirro, “la cronaca giudiziaria è la rappresentazione dei processi che si celebrano dinanzi ai Tribunali e alle Corti d’Assise, tutti con le identiche modalità: deposizione degli imputati che riferiscono di avere agito su ordine dei comandanti della brigata “Gramsci”, interrogatorio di questi ultimi che confermano la versione degli imputati, sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere. La scena si ripete sempre uguale in questi come in altri casi, perché unica è la strategia adottata dal PCI e interpretata fedelmente dai legali nominati a difesa degli ex partigiani incriminati: far passare la tesi che si è trattato di episodi della guerra di liberazione e quindi non punibili”.



Si presti la dovuta attenzione queste duecento pagine. Se ne tragga profitto. E soprattutto abbatta, una buona volta, la sinistra i muri insanguinati che attorniano e oscurano la propria coscienza.

motorino radicale
12-07-09, 12:38
L’interrogazione: 34mila enti che non dovrebbero esistere. Il fallimento quotidiano della legge 40
Ben il 35 per cento degli immigrati, per paura, rinuncia alle cure

di Valter Vecellio

L’Interrogazione parlamentare:



I sei deputati radicali hanno presentato un’interrogazione al ministro per la semplificazione normativa Roberto Calderoli che sarebbe bello avesse una risposta, anche se difficilmente l’avrà. Si fa riferimento a un’affermazione dello stesso Calderoli, contenuta in un articolo di qualche settimana fa pubblicato da “L’Espresso” e “scivoltata” tra la generale indifferenza. Il ministro sostiene di aver trovato ben “34 mila enti intermediari che per la Costituzione neanche dovrebbero esistere…ognuno con il suo Presidente, consiglio di amministrazione, gettoni, sedi: comunità montane anche al mare, consorzi di bonifica, commissari alle acque, enti parco regionali, circoscrizioni…”.

I parlamentari radicali hanno, letteralmente, preso in parola il ministro; e gli chiedono di fornire l’elenco dei 34mila enti che a suo dire secondo Costituzione neppure dovrebbero esistere; quante persone, tra presidenti e consiglieri di amministrazione, risultano impiegati in questi enti; a quanto ammonta il costo, tra gettoni e rimborsi, di questi enti; e cosa si sia fatto o si faccia, dal momento che li si ritiene perfino in contraddizione con quanto sancito dalla Costituzione, per abolirli.

Come si è detto, difficilmente il ministro risponderà. Si può comunque azzardare qualche conto. 34mila enti “governati” da altrettanti CdA, significa – mille più, mille meno – un qualcosa tra le 150-170mila persone impiegate. Quanto ai “gettoni” e ai rimborsi, ognuno si sarà regolato, ma è comunque, sicuramente, una cifra rispettabile. Sarebbe davvero interessante disporre dell’elenco di questi enti; poter valutare le loro competenze e utilità; sapere con quali criteri sono stati scelti presidenti e consiglieri di amministrazione; il patrimonio di cui dispongono, i fondi che sono loro attribuiti, l’uso che ne fanno…

Tutto ciò ha un nome: Anagrafe Patrimoniale degli Eletti; già, la “vecchia” proposta radicale da tanti ritenuta “minimale” e poco incidente. Le parole del ministro, “scivolate” tra la generale indifferenza e non sfuggite agli occhiuti parlamentari radicali, dimostrano al contrario di quanto la proposta e l’iniziativa radicale sia necessaria, opportuna, urgente.



Legge 40: il fallimento quotidiano della legge voluta, dettata, imposta dal Vaticano.



Su tre coppie che cercano aiuto in un paese straniero per avere un figlio, una è italiana; e ogni anno sono circa diecimila, le coppie italiane che vanno all’estero per tentare una fecondazione assistita. Lo rivela uno studio condotto dall’ESHRE, European Society of Human Reproduction and Embryology, e dal SISMER, la Società Italiana di Studi di Medicina della Riproduzione.

Dalla ricerca, condotta nell’arco di un mese con questionari anonimi, emerge che su 1.230 coppie che sono andate all’estero, quelle italiane sono le più numerose: 392, pari al 32 per cento. “Del resto la legge italiana fino allo scorso aprile era la più restrittiva”, commenta Anna Pia Ferraretti, direttrice scientifico del SISMER e componente di ESHRE, che studia su scala europea il fenomeno della “migrazione” legato ai problemi riproduttivi. Dietro l’Italia si colloca la Germania, con il 14 per cento, poi altri paesi con percentuali inferiori al 12 per cento. La ricerca si è basata su questionari anonimi alle coppie straniere presenti in 44 centri nei sei paesi europei in cui maggiormente emigrano le coppie (Spagna, Svizzera, Belgio, Slovenia, repubblica Ceca e Danimarca). I centri coinvolti rappresentano circa il 50 per cento di quelli che ricevono coppie straniere; si può quindi stimare che a livello europeo il fenomeno coinvolga tra le 20mila e le 25mila coppie l’anno in questi sei paesi; ma anche in Grecia, Russia e Ucraina si recano coppie straniere, l’entità del fenomeno quindi è superiore. Le coppie interpellate sono tutte eterosessuali, sposate nell’82 per cento dei casi, o stabilmente conviventi (18 per cento). L’età media delle donne è di 37 anni e mezzo.



Immigrati: ben il 35 per cento rinuncia alle cure per paura delle norme anti-clandestini.



Primi, concreti effetti delle norme anticlandestini volute e approvate dal governo di centro-destra. E’ in costante crescita la preoccupazione tra gli immigrati di essere segnalati come clandestini, un timore che li tiene alla larga, anche se ammalati,da Pronto soccorso e ambulatori pubblici. E’ già stato registrato un calo di quasi il 35 per cento dei migranti che ricorrono alle cure mediche in ospedale, con picchi del 75 per cento, come nel caso del San Paolo di Milano. I dati sono ricavabili da un’indagine condotta nelle ultime tre settimane dal gruppo Everyone nei principali ospedali di Roma (San Gallicano, Policlinico Umberto I, San Camillo Forlanini, Policlinico Tor Vergata, ospedale Grassi di Ostia); e Milano (Niguarda, Policlinico, San Paolo, San Carlo).



“Ci giungono notizie drammatiche – sostengono Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, co-presidenti di Everyone – relativamente al numero di immigrati che nelle ultime settimane non sono ricorsi alle cure mediche in ospedale, nonostante le gravi condizioni di salute. I nostri attivisti hanno ricevuto segnalazioni di vere e proprie tragedie umanitarie, proprio in virtù della fobia di reato di clandestinità”.



Everyone cita qualche caso emblematico: “Il 10 giugno una badante ucraina di 39 anni, priva di visto d’ingresso, è stata ritrovata morta dissanguata in seguito a un aborto spontaneo all’interno dell’appartamento in cui lavorava a Torre a Mare, in provincia di Bari. Dopo tante ricerche, aveva da poco trovato un’occupazione. Improvvisamente si è sentita male e ha cominciato a sanguinare, ma non ha chiamato nessuno. La paura di perdere il lavoro, o di essere denunciata per la sua condizione irregolare, l’ha bloccata. Casi simili sembrano purtroppo ripetersi quotidianamente…come quello del cinese di 33 anni, fuggito il 14 giugno dall’ospedale Sacco di Milano, portandosi via il figlioletto neonato appena operato per una gravissima malformazione al cuore, per paura della denuncia per clandestinità”.



Pochi giorni fa, raccontano ancora gli attivisti di Everyone, “un nostro militante a Milano ha incontrato una famiglia africana che nasconde un minore che presenta i sintomi tipici della lebbra, terrorizzata di essere denunciata e smembrata proprio per la condizione di clandestinità dei suoi membri. La sorellina e il bimbo presentavano già macchie viola, chiazze senza pigmento e noduli: potrebbe trattarsi dell’inizio di un’epidemia che si svilupperebbe al di fuori delle strutture sanitarie, come avveniva nel medioevo”.



In Italia, come negli altri paesi dell’Unione Europea, sono presenti migranti provenienti dal Congo, dal Rwanda, Sudan e altri paesi che sono colpiti da malattie gravi e contagiose. Grazie alle norme del decreto anti-clandestini appena approvate, vivranno nascosti e, prevedibilmente, in condizioni igieniche tragiche. La paura di essere espulsi e perseguitati li indurrà a non collaborare con le autorità sanitarie e con le istituzioni pubbliche italiane. Davvero un risultato eccellente, frutto della miopia di un governo guidato da un presidente del Consiglio sempre più “ricattato” e preda delle pulsioni demagogiche e razziste della Lega.

motorino radicale
12-07-09, 12:38
Una questione non secondaria

di Demetrio Bacaro

Al termine della 3 giorni di Chianciano dello scorso fine settimana mi pare siano emersi diversi spunti di riflessione fra le forze, soprattutto di sinistra anche se non solo, che hanno accettato l'invito di Marco Pannella e dei Radicali per un incontro e l'inizio di un possibile cammino condiviso, basato su temi e proposte, indipendente da scadenze elettorali, sebbene l'obiettivo di future alleanze possibili non sia stato negato da nessuno dei partecipanti.



Il nodo che però mi pare si ponga come ostacolo ineludibile e comunque primario, almeno in termini temporali, è rappresentato dal tema della identità dei diversi soggetti “autoconvocatisi”. Questo tono declamatorio e perentorio, usato un po' da tutti, circa l'esigenza di un superamento da parte di ognuno delle specifiche peculiarità organizzative e di merito, mi è apparso come una liturgia, una litania stanca recitata per necessità, ma che ognuno dichiarava come indispensabile per l'altro, ma che non poteva, ovviamente riguardare la propria formazione politica.



Allora direi che un dibattito serio, anche fra di noi, debba partire proprio da qui: siamo consapevoli o comunque disponibili a sapere che la ricerca di collateralità politiche, su battaglie certo “nostre” e frutto di disamine lunghe a volte decenni, comporta la necessità di una mediazione, vera linfa del dialogo? Siamo pronti a valorizzare proposte, di merito ma foss'anche di metodo, che consentano aggregazione non solo numerica, ma esponenziale sulle tematiche-fulcro del nostro agire? Siamo disposti a rendere la denuncia della non democrazia, la battaglia di trasparenza e legalità, la ricerca di un welfare giusto, argomenti e battaglie un po' meno “Radicali” e più condivise?



Ecco credo che su questo punto ci si debba, noi Radicali tutti, i dirigenti con più sincerità, interrogare approfonditamente, per fornire risposte coerenti e promotrici di azioni energiche. Ritengo infatti che nel momento stesso in cui si ponga la ricerca e si attesti la necessità di una convergenza, essa rappresenti un punto avanzato di percorso e non una semplice attesa sulle posizioni soggettive originali.



Cercando di porre la domanda in modo più esplicito, sarem(m)o disposti ad accettare una condizione che possa rappresentare una “moratoria” anziché un'abolizione, sulla falsa riga di quanto per esempio avvenuto per la pena di morte? Si potrà ritenere ricevibile, per esempio, una mozione in cui l'applicazione integrale della legge Biagi sul lavoro, avvenga attraverso una fase di sospensione di un metodo, che, così com'è, sta minando il futuro di un'intera generazione di giovani, in termini programmatici, di sicurezza e consapevolezza del proprio ruolo sociale?



Sostituirsi all'attuale infame regime partitocratico e proporsi come classe dirigente, potrà avvenire attraverso la ricerca di una maggior rappresentanza territoriale ed istituzionale, o dovrà limitarsi alla denuncia ed alla lotta non violenta? Le stesse riforme istituzionali con il cammino verso l'uninominale secca a turno unico a tutti i livelli dovrà confrontarsi con delle contrarietà di fondo di molti dei nostri interlocutori (penso ai fan del proporzionale o di quelli del maggioritario corretto): se le pregiudiziali di scopo rimanessero inalienabili per ognuno, credo che il dopo Chianciano rischi di diventare ancora un think thank autoesaurentisi.



Infine, ed è forse la domanda più scabrosa, potrà Radio Radicale, divenire lo strumento “condiviso” dalle forze, dai soggetti e dai movimenti che parteciperanno alla lotta partigiana? Essa è già uno strumento plurale, ma si potrà ripensarlo come organo “collegiale”, per aiutarne inoltre la difesa nei prossimi mesi?



Ecco queste sono secondo me alcune delle esemplificazioni, che possono rendere meglio il senso della disponibilità alla collaborazione. Credo che per noi Radicali la contaminazione non sia mai stato un limite ma una ricchezza, si tratta di capire quanta parte dei nostri capisaldi di lotta saremo disposti a coniugare nell'azione per lo scopo finale e quanto invece riterremo più utile l'arroccamento in attesa di tempi migliori.

motorino radicale
12-07-09, 12:41
ll tifo sorvegliato del PR: «Bene, è credente vero. Ma stia attento ai laici»

• intervista a Marco Pannella da Il Manifesto del 05/07/09

di Daniela Preziosi

Della candidatura di Ignazio dico quel che si dice universalmente della Rosa nel Pugno: è l’unico fatto nuovo della politica italiana. Punto esclamativo». Praticamente detta al telefono, e chiede l’esclamativo Marco Pannella. Perché poi vuole emendarsi. «Allora, attenuo appena, tolgo l’esclamativo. E comunque spero che l’iniziativa di Marino cresca, per quanto anche di implicito c’è nella sua decisione di impegnarsi sul fronte della politica italiana e sul modo rigoroso ed esemplare di essere credente».


Parentesi. In generale ieri i radicali, nel senso di quelli che non sono Pannella, preferivano non intervenire sulla corsa alla segreteria del chirurgo cattolico, ma paladino della laicità Marino. Per amicizia, si capisce: per non metterlo nei guai con le varie Binetti e i teodem del suo partito. Per esempio Emma Bonino evita di parlare, temendo che i suoi auguri finiscano per risultare un abbraccio mortale, visto che nel Pd non aspettano altro che di impallinare il terzo uomo bollandolo di laicismo ma anche, peggio, di filoradicalismo. L’ex segretaria Rita Bernardini rimanda alle istanze di partito, cioè alla segretaria Antonella Casu. La segretaria Antonella Casu , nelle stanze di partito nonostante il sabato pomeriggio, a sua volta parla con misura, dice che il fatto della candidatura «lascia ben sperare sul tema della laicità», quanto al resto «vedremo le iniziative specifiche, certo nel Pd bisognerebbe iniziare dall’abolizione del divieto di doppia tessera». All’assemblea dei mille di Chianciano, a questo giro Marino non c’era. Ma non ci crede nessuno che non ne abbia ascoltato le proposte, almeno con un orecchio, dalla “Radio Radicale”. Pannella invece parla. Presumibilmente per la stessa ragione delle sue compagne, attenua gli esclamativi e gli entusiasmi, ma non teme di parlare. Chiusa parentesi.


Significa, Pannella, che per lei i veri credenti sono quelli come Marino?
“Significa che siccome in quanto credente lui è un laico, saranno tutti cazzi suoi. I laici italiani sono pure peggio dei credenti italiani. Gliela faranno vedere loro”.


Ma voi, da radicali, proverete a dargli una mano?
“Mi viene da dire: credo quia absurdum. Potrebbe essere, ma non lo è per due ragioni. Primo, perché il Pd comunque è quello che è.



Secondo, perché il Pd non ammette la doppia tessera, quindi, anche volendo, non potreste rispondere all’appello di Marino a iscriversi in massa entro l’11 per fare la battaglia interna.

“Appunto. La doppia tessera è un tabù per tutti, anche per socialisti, per Sinistra e libertà. ll Pd non si è concesso la libertà di fondare il partito sulla libertà di associazione. E non ammette per i propri iscritti la possibilità di concedersi feconde contraddizioni”.


Quindi, in sostanza, Marino se la vedrà con I suoi democratici. Non viene dalla politica, sembra distante dalle logiche congressuali. Le sembra attrezzato per scalare il Pd fino alla segreteria?
“Sì, credo di conoscerlo bene. È un vero cattolico liberale risorgimentale. Uno che nutre una profonda religiosità e quindi per questo è laico. Uno che sa che dialogo significa mettersi in causa. C’è in lui un elemento di ingenuità. Ma non sono sicuro che questo significhi innocenza. Certo è una persona rigorosa e vigorosa”.

motorino radicale
12-07-09, 12:42
Iran, la stampa imbavagliata deve anche “pentirsi” e “confessare” in TV

di Ahmad Rafat

A Mahmoud Ahmadinejad, non basta più imbavagliare la stampa e rinchiudere in cella i giornalisti. Ora i giornalisti detenuti devono anche "pentirsi" e "confessare" davanti alle telecamere della televisione di Stato. Il primo ad apparire "pentito" e a raccontare tutto quello che gli era stato suggerito da Saiid Mortazavi, è stato Masiar Bahari. Saiid Mortasavi è il giudice che da anni si occupa della stampa e dei giornalisti ed è sospettato di aver ucciso Zahra Kazemi, la fotogiornalista canadese di origine iraniana, sbattendola contro una parete della cella di Evin con tale violenza da procurarle una emorragia cerebrale. Saiid Mortasavi, un Lavrentij Beria in salsa islamica, è stato incaricato da Mahmoud Ahmadinejad di occuparsi in prima persona di tutti gli arrestati delle ultime tre settimane. Mortazavi ha iniziato con i giornalisti.

Il primo filmato, trasmesso dalla televisione di Stato, mostra Maziar Bahari, corrispondente in Iran del settimanale statunitense “Newsweek”, recitare il vecchio copione del "pentito" che riporta alla mente le confessioni staliniane. Con gli occhi che cercano di sfuggire alla telecamera, Bahari racconta di essere caduto "nella trappola" dei riformisti, che gli avrebbero "suggerito" cosa scrivere sulle manifestazioni in piazza. Bahari nella sua "confessione - pentimento" accusa anche gli altri corrispondenti stranieri che si trovavano in Iran a coprire le elezioni dello scorso 12 giugno, di "essere venuti a fomentare disordini per poi trasmettere all'opinione pubblica internazionale un'immagine falsata della Repubblica Islamica".

Bahari, iraniano di origine ma cittadino canadese, non è l'unico ad essere stato costretto a "pentirsi". Sono pronti per la messa in onda video di "pentimenti" di altri illustri giornalisti iraniani, come Mohammad Ghouchani e Mohammad Ali Abtahi. Quest'ultimo, ex giornalista della radio e televisione di Stato, è stato vice presidente della Repubblica, ai tempi di Mohammad Khatami, e durante l'ultima campagna elettorale, lavorava con il candidato Mehdi Karroubi, quale suo consigliere. Anche Mohammad Ghouchani, che dirigeva Etemad Melli, il quotidiano del partito di Mehdi Karroubi, ha dovuto fare "atto di pentimento" davanti alle telecamere della televisione di Stato. Ghouchani è un giovane ed emergente giornalista dell'area riformista, che a soli 23 anni ha assunto per la prima volta la direzione di un quotidiano importante. La stessa sorte spetta a tutti i giornalisti arrestati nei giorni successivi alle elezioni truffa del 12 giugno.


Attualmente, sono in carcere l'intera redazione del quotidiano “Kalameh Sabz” (“la Parola Verde”) l'organo elettorale di Mir Hussein Moussawi. Ai 25 giornalisti e impiegati di “Kalameh Sabza”, bisogna aggiungere altri 22 giornalisti arrestati nelle ultime tre settimane a Teheran e in altre tre città iraniane, Tra di loro firme illustri e conosciute anche all'estero, come Saiid Leylaz, intervistato più volte dalla stampa italiana, Jila Bani Yaghoub, la giornalista più nota del paese, Mohammad Ali Abtahi, Saiid Hajjarian, e Mohammad Atrianfar. Anche un cittadino americano, Lason Athanasiadis inviato, del quotidiano “Washington Times” in Iran, si trova rinchiuso in una cella di Evin. Quest’ultimo è accusato di essersi recato nella Repubblica Islamica allo scopo di “scatenare una rivoluzione di velluto”.

NOTE

motorino radicale
12-07-09, 12:43
Ricordo di Leo Solari

di Valter Vecellio

Non si sono davvero sprecati, sui giornali, a ricordare la figura di Leo Solari, scomparso la settimana scorsa. Forse perché Solari era un esponente e incarnava quell’Italia “civile” di minoranza che spesso ha perso e perde, ma non per questo ha torto; anzi, spesso ha ragione, e riconoscerlo diventa qualcosa di irritante, inaccettabile.



Una biografia ricca, quella di Solari. Durante gli anni della dittatura fascista fa parte del Movimento di Unità Proletaria, organizzazione nata nel 1939, che si fonderà con il Partito Socialista. Membro del primo esecutivo nazionale dei Giovani Socialisti, dirige “Rivoluzione socialista”, la rivista della FGS. Amico e stretto collaboratore di Eugenio Colorni è prima segretario dei Giovani Socialisti, e successivamente membro della direzione nazionale del Psiup.



Scrittore elegante caratterizzato da uno stile fluido, nei suoi testi si indovina la persona che si è formata ed ha assimilato i “classici” del pensiero politico che sa rileggere con originalità, attualizzandoli. Tra le molte sue pubblicazioni, piace ricordarne due, che ancor oggi si possono sfogliare con profitto: “La rivoluzione obbligata”, pubblicata da SugarCo, nel 1975; e “Eugenio Colorni”, pubblicato da Marsilio, nel 1980.



“L’alternativa al tracollo confusionale ed alle terapie di brutali costrizioni è una rivoluzione completa del corso storico”, annotava in “La rivoluzione obbligata”. “La lotta contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo deve integrarsi con una volontà di riconciliazione con la natura. E’, questa, una condizione essenziale perché l’uomo, restituito alla ragione della fantasia e dei sensi, emancipato dai veleni del suo ‘razzismo’ verso altre forme della vita, teso a realizzare se stesso anche con un rapporto con la natura diverso da quello di un arrogante ‘dominio’, possa efficacemente operare per la propria liberazione e per la sua stessa sopravvivenza. Si tratta di non temere di sfidare i problemi del mondo con l’utopia di una società a misura di un “uomo diverso”.



Colorni, a cui è dedicato l’altro libro che il tempo non ha usurato, è stato uno dei protagonisti della lotta antifascista e della Resistenza; e fu tra i fondatori del Movimento Federalista Europeo. Nel maggio del 1944, a un passo dalla liberazione venne ucciso a Roma, da una pattuglia della polizia fascista. Assieme ad Ernesto Rossi e ad Altiero Spinelli, partecipò alla formulazione dell’oggi celeberrimo “Manifesto di Ventotene”.



Socialista di quel socialismo di cui sembra essersi perso lo stampo, Solari è stato anche radicale: una doppia tessera, come Loris Fortuna: aveva ben compreso e apprezzava il modulo organizzativo del Partito Radicale, il saper essere organizzazione politica non burocratica senza per questo trasformarsi in mero comitato elettorale. Interventi puntuali e meditati, i suoi, più spesso ascoltava.

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Il primo testo che offriamo è ricavato da “La rivoluzione obbligata”: antologia di scritti che hanno come filo conduttore la tematica dell’ambiente, “nell’ambito di una visione intesa a raccogliere in un arco unitario di istanze e valutazioni generali le varie implicazioni di detta tematica sul piano politico, economico, sociale e civile”. L’altro testo, è di due anni fa, pubblicato da “Il Riformista”, e parla della Rosa nel Pugno, un progetto politico in cui Solari ha creduto e che ha sostenuto. Così come ha creduto e ha sostenuto finché ha potuto tutte le successive iniziative dei radicali. Se un giorno quella “rivoluzione obbligata” riusciremo a farla, sarà anche per merito suo, di persone come Leo Solari.



Un tema di importanza prioritaria per l’azione della Comunità Europea.



L’esigenza di un’azione internazionale per la difesa dell’ambiente appare imposta dalla natura stessa dei problemi che debbono essere affrontati, problemi che, per i fenomeni ai quali si riferiscono e per le loro implicazioni sul piano economico, debordano per lo più dal quadro nazionale.



Non occorre qui ricordare che gli effetti di squilibri generati dalle interferenze delle attività umane nella biosfera tendono a diffondersi attraverso una catena di reazioni su vastissime aree, e anche a livello planetario, come è testimoniato, ad esempio, dalla documentazione sulla estrema mobilità delle sostanze inquinanti e sulle conseguenze che opere di macroingegneria hanno nelle condizioni ambientali di intere regioni del globo terrestre. Alle ragioni di ordine tecnico per cui determinati fenomeni di degenerazione delle condizioni ambientali possono essere neutralizzati o contrastati efficacemente solo in base ad un’azione internazionale si aggiungono considerazioni, che possono ritenersi ovvie, di natura economica e politica.



Quanto meno è necessario che al riguardo possa avviarsi al più presto un’organica collaborazione delle maggiori nazioni industriali. Un particolare rilievo per presentare l’azione della Comunità Europea, che deve porsi in grado di elaborare ed attuare una politica di tutela dell’ambiente, accordando a tale tema un’importanza prioritaria. La Comunità Europea dovrebbe trovare infatti uno degli aspetti più qualificanti delle prossime fasi del processo di integrazione in un programma di azione che comprendesse una disciplina comunitaria in campo ecologico. Un coordinamento della ricerca degli agenti inquinanti e del modo per neutralizzarli, iniziative per la difesa di patrimoni comuni, accordi con Paesi terzi, ecc.



Occorrerà fra l’altro, definire indirizzi e meccanismi che consentano di compensare gli oneri addizionali che determinati settori debbano sostenere per l’adozione di tecnologie non inquinanti e di evitare d’altra parte che la disparità delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative adottate dai singoli Stati per la tutela dell’ambiente provochi distorsioni nelle condizioni della concorrenza ed influisca negativamente sugli scambi.



Ciò porrà di fronte a problemi di ordine giuridico che potranno essere risolti solo con decisioni politiche. Le norme attuali dei Trattati non consentono alla Comunità i poteri necessari per realizzare un’incisiva politica in campo ecologico. Si richiede che le autorità comunitarie abbiano la possibilità di emanare per quanto concerne tale materia disposizioni direttamente applicabili in ciascuno Stato membro che, una volta adottate, si sostituiscano alle eventuali normative nazionali già esistenti. Ciò equivale a dire che si rendono indispensabili opportune modificazioni dei trattati istitutivi della Comunità.



In tal modo l’azione della Comunità anche se inevitabilmente destinata a risultare di per sé inadeguata rispetto ai problemi da affrontare, potrà essere una delle più importanti leve per realizzare la condizione pregiudiziale per interventi in profondità, cioè l’attivazione di un processo di coordinamento a livello mondiale degli sforzi per la difesa dell’ambiente.



Bisogna pur convincersi peraltro che di fronte alle dimensioni dei problemi che emergono dalla tematica ambientale i livelli attuali di cooperazione internazionale risultano inadeguati e che, perché possano essere sviluppate azioni idonee, si richiede l’adozione di un nuovo ordine, nelle relazioni tra i paesi, che in qualche modo consenta l’esplicar di forme di direzione mondiale della società umana.



Anche in considerazione del complesso sistema di correlazioni e condizionamenti reciproci dei fenomeni ecologici, la lotta per la salvaguardia delle possibilità di progresso della civiltà umana deve considerarsi indivisibile. Ciascuna delle grandi direttrici lungo le quali essa deve svilupparsi – continenza produttiva in base a modelli di espansione deliberatamente rallentata, disarmo demografico, nuovi indirizzi della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico, attività di riabilitazione delle condizioni della biosfera – richiede inderogabilmente, quali condizioni di successo, una sintonizzazione dei comportamenti di tutti i paesi con gli obiettivi di riequilibrio e piani di cooperazione che debbono impegnare le nazioni economicamente più progredite ad accollarsi i maggiori oneri e ad assumere ruoli di punta.



Ci si dovrebbe infatti proporre di gettare progressivamente le basi di una pianificazione mondiale che permettesse di preordinare, razionalizzare e contingentare, nel quadro di una visione sistematica di necessità e problemi a lungo termine, sfruttamento delle risorse naturali in modo da limitare il più possibile le conseguenze negative che l’espansione delle attività umane può avere sullo stato delle risorse fisiche e sui sistemi ecologici.



Un’istanza di questo tipo, posta a raffronto con le persistenti lacerazioni della vita internazionale, può apparire utopistica. In effetti presuppone in conseguimento di traguardi che siamo stati finora abituati a considerare raggiungibili solo ben al di là della presente era. E’ necessario tuttavia rendersi conto che è certamente ancor più utopistico pensare che la società umana possa evitare nel prossimo futuro tensioni fatali e porre le basi di una vera civiltà conservando un sistema in cui circa 200 miliardi di dollari l’anno (pari al 10 per cento del reddito mondiale) sono dedicati, dal complesso degli Stati oggi esistenti, agli armamenti ed alle altre spese militari, la marea demografica cresce al ritmo di quasi un centinaio di milioni di unità all’anno e la devastazione dell’ambiente procede in un rapporto multiplo rispetto all’espansione numerica della popolazione mondiale.



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La rivoluzione liberale che s'annuncia non può fare a meno della Rosa.



Era nell'ordine naturale delle cose che nella Rosa nel Pugno non potesse rimanere costante il clima di caloroso idillio che di quel soggetto politico accompagnò la gestazione, la nascita e, fino a qualche tempo fa, il cammino. Il disegno di realizzare fusione e sintesi di due realtà politiche tra loro così diverse come quella movimentista dei radicali e quella tradizionale di partito dello Sdi non poteva non rappresentare una difficile scommessa. Solo nel genuino entusiasmo che caratterizzò nello scorso anno l'incontro tra socialisti e radicali si poteva immaginare che l'operazione non avrebbe conosciuto momenti critici. La discrasia che è venuta maturando sull'onda dei deludenti risultati elettorali della scorsa primavera sarebbe pertanto da interpretare quale naturale riflesso di difficoltà, del tutto prevedibile, la cui manifestazione non dovrebbe, di per sè, essere motivo di decadimento del progetto.



Le tensioni tra radicali e socialisti hanno raggiunto in questo frangente – è vero - momenti di particolare intensità. Non ci si è risparmiati di scambiarsi reciproche sferzanti critiche e rimostranze. Sono insomma volate, per così dire, le stoviglie come in certe liti di famiglia. Non per questo però si potrebbe concludere che il progetto radicalsocialista è profondamente incrinato e che, anche se esso non verrà abbandonato, socialisti e radicali vivranno nella Rosa nel pugno come separati in casa. Nel dibattito all'interno dello Sdi che delle due parti politiche della Rosa nel pugno è quella in cui si sono addensati atteggiamenti di insofferenza le contestazioni appaiono infatti attenere in prevalenza non alla sostanza del progetto, ma allo stato dei rapporti tra radicali e socialisti nella Rosa nel pugno. Un aspetto, questo, di indubbia importanza, ma non tale da rappresentare necessariamente una ragione di deperimento del progetto radicalsocialista.



Se questa interpretazione è fondata la Rosa nel Pugno non può afflosciarsi per difficoltà che possono considerarsi fisiologiche in un'operazione come quella dell'unificazione tra radicali e Sdi. Sarebbe assurdo che essa si illanguidisse proprio mentre appare finalmente svilupparsi, con l'approvazione del decreto di Bersani sulle liberalizzazioni, una linea di riforme in cui si rispecchia una delle ispirazioni fondamentali del progetto radicalsocialista e alla cui maturazione ha certamente contribuito l'attiva presenza, nella maggioranza che ha espresso l'attuale governo, di una forza politica - la Rosa nel pugno - risolutamente impegnata nella promozione di una rivoluzione liberale nel paese. La complessa partita per l'emancipazione dell'Italia dalla fitta rete di corporazioni in cui il paese si trova avviluppato è solo iniziata. Dovrà investire molti altri campi. L'azione riformatrice sarà così destinata ad incontrare crescenti resistenze. L'esistenza e il vigoroso impegno della Rosa nel pugno sarebbero di importanza vitale per i futuri sviluppi di questa grande impresa.



Sarebbe pertanto auspicabile che la presente crisi costituisse l'occasione per predisporre un prossimo grande rilancio del progetto radicalsocialista: un rilancio che, naturalmente, non potrebbe prescindere dalla preventiva definizione di soluzioni, per quanto riguarda la forma istituzionale della Rosa nel pugno e per quanto concerne i rapporti tra Sdi e radicali, atte non solo a consentire il superamento delle recenti tensioni, ma altresì a limitare il più possibile l'eventualità del replicarsi, nel percorso della Rosa nel pugno, di nuovi gravi turbamenti.

motorino radicale
12-07-09, 12:43
Tanti auguri Dalai Lama

di Francesco Pullia

Ieri Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, ha compiuto settantaquattro, cinquanta dei quali trascorsi nell’esilio indiano di Dharamsala dove, insieme ad altri profughi fuggiti al genocidio perpetrato in Tibet dagli invasori cinesi, ha cercato di preservare dall’estinzione un mondo millenario.

Con il trascorrere del tempo, e alla luce delle legittime rivendicazioni autonomistiche dei tibetani costantemente represse nel sangue dagli occupanti cinesi, la sua figura è cresciuta sempre di più di prestigio per via della sua ostinata scelta nonviolenta.

Da lungo tempo va sostenendo che l’altopiano tibetano debba diventare una terra di nonviolenza, autonoma rispetto alle ingerenze cinesi, con un ruolo, quindi, importante anche a livello internazionale, con la riacquisizione di quella condizione precedente all’aggressione, alla fine del 1949, da parte della Cina comunista.

Eppure quest’uomo di grande saggezza e moderazione, che, a differenza di altre guide religiose, rifiuta recisamente qualsiasi potere assoluto e soprattutto non confonde l’ambito politico con quello spirituale (“i Dalai Lama – ha recentemente affermato con estrema chiarezza- hanno svolto la funzione di capo religioso e capo politico negli ultimi quattrocento o cinquecento anni, ma quel periodo è terminato. Oggi è chiaro a tutto il mondo che, nonostante qualche aspetto negativo, il sistema democratico è il migliore ed è importante che anche i tibetani facciano proprie le linee della comunità internazionale”), e nonostante diverse risoluzioni dell’Onu e dell’Ue, non è degnamente ascoltato e sostenuto da alcun governo.

Nei suoi confronti è stato dimostrato un atteggiamento di doppiezza, di ipocrisia, quando non di aperta accondiscendenza alle dispotiche volontà della satrapia che, sprezzante degli inalienabili diritti umani, governa a Pechino.

E’ di questi giorni la notizia che il governo cinese, attraverso il proprio ambasciatore a Kathmandu, abbia ufficialmente addirittura chiesto a quello nepalese di fermare le proteste contro la Cina da parte dei tibetani in esilio. Così non si può continuare.

Ci auguriamo che la visita in Italia del presidente Hu Jintao, giunto per partecipare al G8, possa costituire un’occasione per porre con fermezza alla Repubblica popolare cinese la questione, fondamentale, del rispetto dei diritti civili.

Ricordiamo che la Cina è il paese al mondo con il più alto numero di esecuzioni capitali, con un’economia che si regge anche sullo sfruttamento dei bambini, delle donne, dei detenuti negli affollati e vastissimi campi di concentramento detti laogai. E non è finita.

La Cina comunista è il paese del commercio (internazionale) di organi espiantati non solo ai condannati a morte, spesso prima della sentenza, ma ai prigionieri nei laogai, di donne costrette ad abortire, di feti estratti vivi, uccisi, gettati nella spazzatura.

Eppure nel nostro paese, dove si assiste ad un fuggi fuggi generale ogniqualvolta arriva il Dalai Lama, premio Nobel per la pace 1989, mentre si accoglie trionfalmente il signor Hu Jintao, esiste persino un intergruppo parlamentare che convoca conferenze per tessere le lodi del grande Drago e ci sono docenti universitari che, mossi ancora da furore ideologico passatista, ne difendono a spada tratta i crimini.

Dove sono i pacifisti che continuano tanto a sbraitare contro le basi Nato e se ne stanno, invece, con le mani in mano quando si tratta di perorare le ragioni della libertà e della democrazia nel mondo? Il nome di Hu Jintao non evoca proprio niente?

Si guardi, quindi, alla data di oggi come ad un evento simbolico per quanti, come noi, fermamente persuasi della forza della nonviolenza, si riconoscono nel cammino perseguito da chi, avvolto nel saio giallo e amaranto e a piedi scalzi, ama definirsi semplicemente un umile monaco seguace dell’insegnamento di Gandhi. Di Lui, della Sua presenza abbiamo tutti tremendamente bisogno. Tibet libero! Cina libera!

motorino radicale
12-07-09, 12:44
Vaticano: la politica del bastone e della carota. Si critica Berlusconi, e il Governo risponde: “Signor Sì!”

di Valter Vecellio

Nuovo, pesante ed esplicito attacco, questa volta del segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, monsignor Mariano Crociata. Nel corso di un’omelia pronunciata a Le Ferriere di Latina che celebrava santa Maria Goretti, monsignor Crociata ha voluto precisare che lo sfoggio di un “libertinaggio gaio e irresponsabile” a cui si assiste, non deve far pensare che “non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati, soprattutto quando sono implicati minori”.

Più esplicito monsignor Crociata non poteva essere: è “papi” nell’occhio del mirino; ma per fugare ogni possibile dubbio, ha voluto aggiungere che “assistiamo ad un disprezzo nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo…siamo di fronte ad un paradosso, essendo oggi arrivati ad agire e a parlare con sfrontatezza senza limiti di cui si dovrebbe veramente arrossire e vergognare…”.

Ha cominciato papa Ratzinger, il 19 giugno scorso, intervenendo alla Fondazione De Gasperi: ha magnificato la riconosciuta dirittura morale dello statista trentino, “basata su un’indiscussa fedeltà ai valori umani e cristiani, come pure la serena coscienza morale che lo guidò nelle scelte della politica”. Sono poi seguite analoghe prese di posizione di altre “eminenze” e monsignori. Poi c’è stata la dura presa di posizione dopo l’approvazione della legge anti-immigrazione. Dichiarazioni di condanna senza appello, seguite da altre più blande, un gioco di bastone e carota il cui messaggio è in equivoca bile. Il Vaticano fa sapere: grazie, presidente Berlusconi, per essere venuto di persona a San Giovanni in Laterano per il “Family Day”; grazie governo di centro-destra, per il decreto di gennaio su Eluana. Ma non basta. Se “papi” vuole che cardinali e vescovi continuino ad appoggiarlo, come hanno fatto alle ultime elezioni in Lazio, Sardegna, e ovunque, allora si deve fare di più. In Vaticano si ricordano lo “schiaffo” quando “papi” non ha voluto accogliere il suggerimento di affidare la presidenza del Senato a Beppe Pisanu (e da Pisanu sono venute critiche che anticipavano quelle del Vaticano, per quel che riguarda gli immigrati); e “papi” non deve dimenticare che c’è un cattolico gradito che si chiama Pierferdinando Casini, che potrebbe decidere di appoggiare più di quanto già non si faccia. Così non basta che il Senato abbia approvato una legge sul testamento biologico che definire medioevale significa offendere il medioevo, che non solo non tiene in alcun conto quello che ci dice il più qualificato mondo scientifico, e va decisamente contro la sensibilità dei cittadini. Una legge dettata, voluta e imposta dal Vaticano, e che ha trovato zelanti e obbedienti zuavi pontifici al Senato.

Quegli stessi zelanti zuavi pontifici che in queste ore si affannano a dare assicurazioni di imperitura fedeltà. La sottosegretaria al Lavoro Eugenia Roccella lancia i suoi strali contro la Ru 486 sostenendo che quella pillola non è sicura e che attorno a quella pillola ci sarebbero troppe morti sospette; Sempre la sottosegretaria Roccella dice che non è il caso di installare distributori di preservativi nelle scuole o nei dintorni, perché tanto si trovano dappertutto, e comunque il preservativo non è “il modo giusto di affrontare l’emergenza educativa tra i giovani”. Si provi a spiegarle che non si tratta di educare, quanto di informare. Il “modo giusto è aiutare la famiglia a riacquistare la sua capacità educativa che si è fortemente indebolita”; ad ogni modo, niente corsi di informazione sessuale nelle scuole, perché la cosa puzza troppo di socialismo: “E’ una visione statalista. Non si può sostituire un rapporto di relazione e fiducia tra figli e genitori con un corso in cui si spiegano cose che i ragazzi magari già sanno. Il problema è più sottile, è l’educazione alla responsabilità, anche in campo sessuale, che va svolta all’interno della famiglia”.

Il “pezzo” forte. Il ministro della Salute, intervistato da “Avvenire”, annuncia che parte in Commissione Affari Sociali della Camera l’esame della legge sul fine vita. Ha avuto cura di far sapere che “per il Governo si tratta di una materia che è urgente portare a compimento, e quindi ci aspettiamo che nel più breve tempo possibile quel disegno di legge, già licenziato dal Senato, venga approvato definitivamente”. Perché non insorgano equivoci, Sacconi ha cura di sillabare che “alimentazione e idratazione” vanno considerati sostegni vitali, indisponibili; e che questo costituisce un caposaldo della legge che deve restare inalterato. Al giornalista che gli chiede perché l’approvazione di questa norma torna a essere urgente, Sacconi risponde: “Perché non si ripetano casi come quello di Eluana Englaro e per evitare che il vuoto normativo venga colmato da provvedimenti della magistratura”; e poi specifica: “L’indisponibilità di idratazione e alimentazione sono sostegni vitali e non terapie, e afferma che questa è la posizione di tutto il Governo e della maggioranza…Un qualcosa che non è negoziabile”.

Sacconi, insomma, dice “Signor Sì!” a quanto, non molto tempo fa, ha ordinato il presidente della CEI monsignor Angelo Bagnasco: che ha letteralmente sillabato quello che il Parlamento deve fare in materia di testamento biologico e fine vita; Bagnasco ha tracciato una vera e propria agenda di lavoro: “Spetta alla politica agire nell’approntare e varare, senza lungaggini o strumentali tentennamenti un in equivoco dispositivo di legge che preservi da altre analoghe avventure”. Bagnasco ha poi aggiunto che “è raccapricciante il diritto a morire”. Per capirci: le “analoghe avventure” sono quelle di Eluana Englaro, e definirla “avventura” credo dia la cifra della loro misericordia e della loro umanità.

E’ un’ulteriore, proterva minaccia ai diritti di tutti. Occorrerà tutta l’intelligenza, l’astuzia, la fantasia, la determinazione, la capacità di noi tutti, per sventare questa recrudescenza dell’offensiva clericale.

motorino radicale
12-07-09, 12:46
Il Caso Lombardia. Un movimento ecclesiale e fondamentalista guida la regione più ricca e popolosa d'Italia

di Valerio Federico, Giorgio Myallonnier e Luca Perego

Introduzione

Roberto Formigoni è l’Amico degli Amici del Movimento. Il Movimento, ecclesiale e fondamentalista, si chiama Comunione e Liberazione (CL). Comunione e Liberazione è sinonimo di Potere. Formigoni e CL guidano la Regione Lombardia ininterrottamente dal 1995. L’Istituzione lombarda è sinonimo di Formigoni. Il presidente della regione più forte - economicamente parlando - del nostro paese, ha costruito nell’arco di questi anni un sistema clientelare basato sul trinomio Religione-politica-affari, ponendo le fondamenta di una discriminazione tra coloro che sono parte di questo sistema e coloro che non ne sono parte o più semplicemente non l’accettano. Tutto questo è stato possibile grazie a CL.



Il movimento fondato da don Giussani non è più una semplice associazione cattolica. I membri di CL, gli “Amici del Movimento”, stringono tra loro un patto di amicizia sulla base delle loro convinzioni etico-religiose. Molti del Movimento scelgono di privilegiare la natura di questi rapporti nei vari settori della società indipendentemente dai meriti del singolo. La coesione interna al Movimento è fortissima. CL “segue” l’adepto dalla scuola, all’università e poi nel mondo del lavoro. In Lombardia vi sono maggiori opportunità di successo per chi sposa le idee

cielline. Il potere di nomina della Regione e la natura delle relazioni cui si è appena

accennato fanno sì che la Sanità lombarda e altri settori pubblici siano in mano agli “Amici del Movimento”. Comunicazione e media, la Fiera, le ferrovie, il no profit, la somministrazione di lavoro temporaneo e non, i servizi universitari sono altri ambiti, sia pubblici che privati, dove il ruolo ciellino in Lombardia è dominante. La Compagnia delle Opere, un’articolazione del potere ciellino a cui aderiscono migliaia di aziende, nonostante i richiami alla libera concorrenza, non

disdegna di ricevere finanziamenti pubblici.



Insomma, un movimento ecclesiale numericamente esiguo ha in mano una Regione. Perfino alcuni esponenti di Forza Italia - principale riferimento partitico di CL - tra i quali Guido Podestà, Francesco Fiori e Ombretta Colli hanno sostenuto che «Il ruolo e il potere che hanno assunto Formigoni e il sistema connesso di Comunione e Liberazione e della Compagnia delle Opere determinano la quasi totalità delle scelte politiche e amministrative, a fronte di un peso elettorale che non raggiunge un decimo dei voti di Forza Italia» (Corriere della Sera, 7.6.2005). Il sistema esclusivo e quasi monopolistico creato da Formigoni & Co. viene gestito attraverso assessorati, nomine di esponenti ciellini alla direzione o nei consigli di amministrazione di aziende pubbliche, in special modo sanitarie, assegnazione di fondi ad associazioni no profit vicine a CL e alla Compagnia delle Opere o ad imprese private ad essa collegate. Un pericoloso connubio tra pubblico e privato in nome del principio di sussidiarietà, parola d’ordine e mantra ciellino. Tutto questo è possibile grazie anche al silenzio dei media, collusi con CL. Un sistema clientelare che gestisce la cosa pubblica, consolidato da una diffusa abilità tra gli uomini di Formigoni, capaci anche di distribuire fette di potere, rigorosamente

minoritarie, ad altre lobbies.



L’intervento sui diritti individuali - Un tentativo in corso da parte del governatore è quello di intervenire nella sfera delle scelte dell’individuo condizionandone gli effettivi diritti, appropriandosi di un ruolo che la legislazione non gli affida. Molte iniziative ciellino-formigoniane hanno creato o rischiano di creare una ‘fattispecie incostituzionale’, laddove alcuni diritti individuali basilari differiscono tra la Lombardia e il resto del territorio nazionale. Si configura una discriminazione a scapito di alcuni cittadini italiani in relazione a libertà

individuali fondamentali. Così è stato per il caso Englaro, per i consultori privati accreditati, per le linee guida sulla legge 40, per vari interventi sull’applicazione della 194, per l’obiezione di coscienza, per il finanziamento ai CAV (Centri Aiuto alla Vita) e per la pillola del giorno dopo.



Insomma, Formigoni riferendosi impropriamente alla revisione del titolo V della Costituzione, interferisce con materie di competenza esclusiva dello Stato. E’utile ricordare che l’articolo 117 della Costituzione (parte appunto del capitolo V) attribuisce allo Stato la tutela della potestà in materia di salute in quanto materia di legislazione concorrente che, per la determinazione dei princìpi fondamentali, è riservata alla legislazione dello Stato. La legge 194, poi, non lascia certo spazio ad interventi di stampo amministrativo, insomma il libero arbitrio regionale è illegittimo. Il Caso Englaro - Il 13 novembre 2008, a seguito del pronunciamento della Corte di

Cassazione che consentiva di fatto l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione ad Eluana Englaro, da 17 anni in stato vegetativo, Roberto Formigoni dichiarava “la Corte di Cassazione introduce in Italia la condanna a morte. Da oggi la vita umana non è più adeguatamente tutelata nella patria del diritto. E' soggetta ad arbitri. Si tratta di una sentenza inaccettabile” e

continuava “in Italia si introduce l'eutanasia (...)”. L’assessore regionale alla Famiglia e Solidarietà Sociale Guido Boscagli commentava “Di fronte a una sentenza, che considero ingiusta non posso che ribadire che ci sono valori, come l’intangibilità della vita umana, che neanche un tribunale può mettere in discussione”.



Cinque giorni dopo, Formigoni si permetteva di affermare che i medici e le strutture della regione non avrebbero tenuto conto della sentenza pro-Eluana. Il governatore lombardo aveva dichiarato che le strutture della Lombardia sarebbero rimaste indisponibili a togliere il sondino dell’alimentazione a Eluana Englaro, intimando ai medici della regione di non dare esecuzione a un diritto sancito da una sentenza, anche se una struttura fosse stata attrezzata a farlo e anche se il personale fosse stato disponibile. Inutile la sentenza della Cassazione.



A seguito di una istanza di Beppino Englaro, padre di Eluana, il direttore generale della Sanità della Regione Lombardia Carlo Lucchina aveva formulato così la sua risposta ufficiale il 3 settembre 2008: “Il personale sanitario non può sospendere l’idratazione e l’alimentazione artificiale del paziente: verrebbe meno ai suoi obblighi professionali e di servizio. La richiesta da Lei avanzata - si legge nella lettera - non può essere esaudita in quanto le strutture sanitarie sono deputate alla presa in carico diagnostico-assistenziale dei pazienti. In tali strutture, hospice compresi, deve inoltre essere garantita l’assistenza di base che si

sostanzia nella nutrizione, idratazione e accudimento delle persone”. Visto il monopolio ciellino nelle cariche di direttori generali e sanitari, e di conseguenza tra i primari, i medici lombardi non hanno potuto far altro che cedere al ricatto della Regione.



Beppino Englaro ha fatto ricorso al TAR e il 26 gennaio 2009 i giudici del Tar si pronunciavano dandogli di nuovo ragione: «Il diritto costituzionale di rifiutare le cure, come descritto dalla Suprema Corte, è un diritto di libertà assoluto, il cui dovere di rispetto si impone erga omnes, nei confronti di chiunque intrattenga con l'ammalato il rapporto di cura, non importa se operante all'interno di una struttura sanitaria pubblica o privata. (…) Conformandosi alla presente sentenza l'amministrazione sanitaria, in ossequio ai principi di legalità, buon andamento, imparzialità e correttezza, dovrà indicare la struttura sanitaria dotata di

requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi tali da renderla "confacente" agli interventi e alle prestazioni strumentali all'esercizio della libertà costituzionale di rifiutare le cure, onde evitare all'ammalata (ovvero al tutore e curatore di lei) di indagare in prima persona quale struttura sanitaria sia meglio equipaggiata al riguardo». “La Regione” commentava il legale della famiglia Englaro Vittorio Angiolini, «dovrà indicare una struttura sanitaria idonea, dove eseguire il decreto che dispone l'interruzione dell'idratazione e alimentazione forzata per

Eluana Englaro. Lo stabilisce la sentenza del Tar, che ha accolto in pieno le nostre richieste», mentre il presidente della Regione Lombradia Roberto Formigoni si apprestava a dichiarare “strabiliante pretendere di deliberare sulla vita e la morte di una persona per via amministrativa, facendo così dipendere una decisione tanto drammatica da un rapporto tra pubbliche amministrazioni, mentre, ai sensi stessi della Costituzione, i diritti fondamentali, tra cui quello alla vita, sono indisponibili. Non sono cioè alla mercè di nessun tribunale. La legge attribuisce alle Regioni, tramite il servizio sanitario, il compito di assistere e curare le

persone con lo scopo di guarirle. Non posso accettare che la magistratura ci attribuisca un altro compito, quello di togliere la vita”.



Il Ministro Sacconi emanava poi una circolare ministeriale per impedire che una sentenza avesse il suo corso. La gerarchia delle fonti del diritto veniva ribaltata. Dunque anche Roma veniva raggiunta dal virus lombardo, Sacconi raccoglieva da Formigoni il testimone dell’autoritarismo e intimava così ai medici di tutta Italia di non rispettare le leggi dello Stato.

Formigolandia nel caso Englaro si è posta ancora una volta fuorilegge. Sprezzante e

indifferente verso le sentenze della magistratura. Ancora una volta la Regione di Formigoni ha ostacolato decisioni dello Stato che riguardano i diritti individuali di base e non sono certo competenza né di un qualunque assessore locale alla sanità né del suo presidente. In conclusione, se le altre regioni si fossero comportate come la Regione Lombardia, il corpo di Eluana Englaro sarebbe tuttora in stato vegetativo, contro la sua volontà.



Attuazione della Legge 194

Formigoni ha ritenuto di emanare delle indicazioni sull’attuazione della legge 194 - atto di indirizzo per la attuazione della legge 22 maggio 1978 n. 194 "norme per la tutela sociale della maternita' e sull'interruzione volontaria della gravidanza (22-1-2008) - contando sul fatto che sono sufficienti delle decisioni non vincolanti della Regione per porre i medici in una condizione di sostanziale ricatto: i medici, per non compromettere il loro percorso professionale, non potranno far altro che seguire tali indicazioni indipendentemente dalla legislazione nazionale.

La legge 194 all’art.6 non prevede limiti all’aborto terapeutico, il Ministero, nelle linee guida emanate, parla di 22 settimane più 6 giorni. La Regione Lombardia risponde con delle propagandiste indicazioni di 22 settimane più 3 giorni, ponendosi ancora una volta al di fuori della legge. Ci sarebbe bisogno di ben altro in realtà: nelle strutture ospedaliere la diagnosi prenatale si dovrebbe anticipare e l’ecografia morfologica dovrebbe essere prevista a 19 settimane per dare un tempo sufficiente alla donna di prendere la propria decisione.



Un caso emblematico dell’effetto del predominio ciellino nella sanità è quello del Comitato Etico dell’ospedale milanese San Paolo, organismo ‘politico’ evidentemente all’oscuro delle conoscenze scientifiche, che aveva spostato il limite alle 21 settimane. Ricordando che il medico resta libero in scienza e coscienza di prendere la decisione che ritiene opportuna, tutelata dalla 194, in quei giorni ci siamo chiesti cosa sarebbe accaduto al San Paolo a una donna in gravidanza da 21 settimane e 3 o 4 giorni con un feto malformato e la sua salute psicologica a rischio, tenendo conto che a quello stadio di sviluppo il feto ha zero possibilità di vita autonoma. Sarebbe stata invitata a proseguire nella sua ricerca in altre strutture

ospedaliere? Ricordiamo che in Lombardia la stragrande maggioranza degli ospedali non effettuano l’aborto dopo il 90esimo giorno e molti altri non lo prevedono neanche nei primi 3 mesi (esempio: H S. Raffaele, H S. Giuseppe-Fatebenefratelli e H S.Pio X). Quella del San Paolo è stata in tutta evidenza una decisione punitiva nei confronti delle donne che fanno la diagnosi prenatale. Un altro punto del decreto ciellino comporta un ulteriore consistente ostacolo per la donna che scelga la strada dell’IVG: all’articolo 7 del decreto si dice che il

certificato per l’IVG dopo i primi 90 giorni (cosiddetto aborto terapeutico) deve essere redatto da almeno 2 medici ginecologi. Sorge un dubbio: ma la Regione si ricorda di tutti quegli ospedali che hanno zero (con “gettonista”), o un solo “non obiettore”? Ma in questi ospedali la seconda firma chi la mette?



C’è una legge in Italia, è la 194, non è perfetta, va migliorata ma è in vigore, anche per la Lombardia. All’articolo 7 della 194 (non l’art.7 del decreto propaganda) si afferma: “I processi patologici che configurino i casi (…) vengono accertati da un medico del servizio ostetrico-ginecologico dell'ente ospedaliero in cui deve praticarsi l'intervento, che ne certifica l'esistenza. Il medico può avvalersi della collaborazione di specialisti”. Ecco, il trucco è svelato, la 194

non si tocca ma si invita a non rispettarla. Da una ricerca effettuata dalla Associazione Enzo Tortora-Radicali Milano del 2006, emerge che gli ospedali lombardi che nel 2006 fornivano il servizio IVG con solo 1 o 2 ginecologi non obiettori erano 17, mentre quelli che fornivano il servizio solo con ginecologo gettonista addirittura 12.



L’atto di indirizzo riserva un’altra sorpresa: “Per quanto attiene inoltre l’articolo 6 (della legge 194) (…). Numerose evidenze dimostrano che il maggior supporto alle famiglie con a carico bambini portatori di handicap è dato dalle Associazioni di Genitori di bambini affetti dalle medesime patologie. La presenza di queste associazioni nei luoghi pubblici e l’interazione tra le associazioni dei genitori e gli operatori sanitari che si occupano di Diagnosi Prenatale è uno

strumento utile per il sostegno globale alle coppie che si trovano ad affrontare il percorso di una gravidanza complicata da una malformazione fetale. La Regione promuove ed auspica l’accoglienza negli ospedali delle Associazioni dei Genitori, negli spazi già definiti per le Associazioni dei Malati e facilita affinché questo si realizzi negli ospedali di 3° livello dove sono presenti i Centri di Diagnosi Prenatale”. La Regione in sostanza ci dice che è opportuno che se a seguito di una diagnosi prenatale una coppia venga a conoscenza di gravi malformazioni del feto, trovandosi dunque in una situazione psicologica difficile, questa venga invitata ad

incontrare già in ospedale, i genitori di bambini con handicap che quindi non hanno scelto di abortire. Si tratta evidentemente di una forma indebita di pressione psicologica che parte dal presupposto che la scelta in questo campo debba essere il più possibile indirizzata. Come per i CAV (Centri Aiuto alla Vita) la Regione ha trovato il modo di prevedere la presenza di un presidio antiabortista anche negli ospedali che fanno diagnosi prenatale. Questo atto di indirizzo della Regione è stato poi annullato dal Consiglio di Stato, come era prevedibile, ma oramai la voce del governatore è giunta a destinazione.



2006 – Indagine dell’Ass.E.Tortora Radicali Milano sugli ospedali lombardi -

L’Associazione Enzo Tortora Radicali Milano, dall’ottobre 2005 al giugno 2006, ha contattato tutti gli ospedali lombardi dotati di un reparto di Ginecologia, per monitorare l’applicazione della 194 e confrontarsi con i medici non-obiettori. Ne è emerso un quadro desolante: i ginecologi che scelgono di non fare l’obiezione di coscienza in Lombardia sono risultati ovunque in minoranza. In alcuni casi è presente un solo medico non obiettore, che garantisce da solo il servizio di IVG per l’intero reparto, arrivando talvolta ad effettuare annualmente 200 aborti e oltre. Questo grande carico di responsabilità da vivere in sostanziale solitudine incide

profondamente sulla qualità del lavoro e della vita dei medici non-obiettori. In altri casi è risultata una totale assenza di medici non-obiettori: le Direzioni ospedaliere scelgono di non effettuare il servizio di IVG (secondo la legge possono farlo, a patto che qualche ospedale sufficientemente vicino lo effettui), oppure di pagare un medico non-obiettore esterno all’ospedale (un “gettonista”) affinché periodicamente vada a praticare le IVG.



Molto spesso al lavoro dei medici non-obiettori, che garantiscono un trattamento sanitario tutelato dalla legge, si contrappone l’attività degli antiabortisti del Movimento per la Vita, direttamente presenti con le loro sedi in alcuni ospedali. Nel corso dell’indagine sono stati contattati 66 reparti di Ginecologia, su un totale di 74 presenti negli ospedali pubblici lombardi. Non per tutti gli ospedali è stato possibile reperire il dato del numero di medici non-obiettori rispetto a quello dei medici obiettori. I dati parziali in nostro possesso permettono di rilevare che mediamente in Lombardia nei reparti di Ostetricia e Ginecologia lavora intorno al 20% di personale non-obiettore, contro un 80% di personale obiettore di coscienza.



Ciò comporta grave stress per quei medici che si trovano, specie se da soli (come accade a Esine, a Como, a Cuggiono, a Bollate, a Tradate), ad essere minoranza garante del servizio di IVG all’interno di un intero ospedale. Spesso è proprio il rifiuto di diventare esclusivamente “procuratori di aborti” a spingere i medici a presentare l’obiezione di coscienza. Al progressivo aumento delle obiezioni di coscienza si aggiunge la preoccupante tendenza delle giovani generazioni di fare già durante la specializzazione in Ginecologia l’obiezione.



Vi sono in Lombardia almeno 12 reparti di Ostetricia e Ginecologia dove lavora esclusivamente personale obiettore di coscienza. Per garantire l’applicazione della legge 194 questi ospedali ricorrono al “gettonista”, cioè ad un medico non-obiettore esterno che periodicamente (di solito una volta alla settimana) si reca in ospedale ad effettuare le IVG.



Oltre alle strutture private e/o religiose, gli ospedali che hanno un reparto di Ostetricia e Ginecologia ma che non effettuano il servizio di interruzione volontaria di gravidanza in Lombardia sono almeno 9, di cui ben tre in provincia di Brescia. Vi sono medici che in 17 diverse strutture ospedaliere si sono dichiarati a vario titolo interessati all’aborto farmacologico e all’utilizzo della Ru 486. Sfortunatamente il clima di ossequio ai vertici della Regione Lombardia, dovuto probabilmente al timore di non vedersi riconfermati, determina in molti casi un abbandono della “battaglia” ancor prima dell’inizio: molti medici dichiarano infatti di essere favorevoli alla Ru 486 e persino indignati della mancata commercializzazione in Italia del farmaco, ma preferiscono evitare di esporsi richiedendone a viso aperto l’importazione. In altri casi i medici hanno scelto di parlarne prima con la Direzione, ricevendone quasi sempre veti più o meno categorici.



In 6 ospedali lombardi il Movimento per la Vita ha una sede.

Di fronte all’ospedale di Tradate, in provincia di Varese, all’entrata dell’ospedale capeggia il cartellone “Mamma ti voglio bene non uccidermi” raffigurante un feto di 15 settimane (il termine “ordinario” per le IVG è di 12 settimane). In almeno 6 ospedali è capitato o capita tutt’ora, anche se in casi sporadici, che le donne in IVG vengano messe nelle stesse stanze o in stanze attigue a quelle di donne che stanno partorendo. E’ da ritenere indispensabile che sia attuata una rigorosa separazione tra i ricoveri di Ginecologia e quelli di Ostetricia.



L’Ass.E.Tortora Radicali Milano ha inoltre svolto anche un’opera di informazione, supporto e consulenza per tutti quei ginecologi interessati all’utilizzo della pillola abortiva Ru486, attraverso l’avvio di uno studio clinico o la richiesta di importazione dall’estero. I dettagli di questa ricerca sono disponibili al link: www.lucacoscioni.it/node/5088740



Linee Guida Legge 40 - Il 1 maggio 2008 Formigoni dichiarava che in Lombardia non si

sarebbero rispettate le linee guida sulla legge 40/2004 sulla fecondazione assistita, che tra l’altro tornavano a rendere possibile la diagnosi genetica pre-impianto. Si leggeva infatti in un articolo del Corriere della Sera: “Diffonderemo a breve una circolare di raccomandazione ai medici per scongiurare i rischi di eugenetica impliciti nelle nuove linee guida del ministro della Salute uscente”. La decisione di non applicare il decreto di Livia Turco per Formigoni era

“una questione di rispetto della vita”, oltre che della “volontà popolare”: “I risultati del referendum del giugno 2005 - continuava il governatore lombardo – ci dicono che almeno il 75% degli italiani non vuole modificare le norme sulla fecondazione assistita. (…)“Inviteremo i ginecologi a rispettare la legge 40. Le linee guida non sono da considerarsi obbligatorie (...) consiglieremo ai medici delimitarsi a fare quello che hanno fatto negli ultimi quattro anni”. L’indebita pressione sui medici continua.



RU486 - Mentre in Piemonte iniziava la sperimentazione dell'aborto medico con la RU486, il Presidente Formigoni proclamava che non avrebbe mai permesso di utilizzare la RU486 in Lombardia, stroncando sul nascere ogni richiesta da parte degli ospedali. Così nel 2006 per aggirare il divieto, furono eseguiti 53 aborti medici all'Ospedale Buzzi utilizzando il methotrexate, farmaco disponibile in Italia, al posto della RU486. Sebbene l'iniziativa fosse mossa da intenti scientifici, la disobedienza civile del Prof. Umberto Nicolini dimostrò la liceità dell'aborto medico in Italia. La Regione gli impose lo stop, ma la magistratura archiviò il

procedimento penale prima della sua prematura scomparsa a causa di un tumore nel 2008. Oggi in Lombardia la questione della RU486 è un tabù e sempre più donne lombarde si rivolgono all'estero. Nel 2008 un terzo degli aborti del Canton Ticino riguarda donne italiane e il 90% di queste si è recato in Svizzera proprio per avere la RU486.



Seppellimento feti ed embrioni - La Regione di Formigoni ha, inoltre, legiferato in contrasto con la legge 194 sul seppellimento dei feti (come pronunciato da sentenza della Procura in risposta ad un esposto presentato dai radicali Federico e Viale). Il regolamento lombardo varato a fine gennaio 2008 prevedeva la sepoltura dei feti sotto le 20 settimane. A febbraio dello stesso anno i Radicali hanno presentato una denuncia, sulla quale si è espresso il pubblico ministero Marco Ghezzi, per il quale: “il regolamento regionale recentemente introdotto si pone oggettivamente come ostacolo, quantomeno di natura psicologica, all´interruzione volontaria della gravidanza, posto che, prevedendone la sepoltura tende ad assimilare il prodotto del

concepimento a un individuo (…) ». Il magistrato chiamato a valutare la denuncia presentata, a febbraio, dai radicali contro il discusso regolamento ha chiesto l´archiviazione dell´esposto "perché non c´è violazione di norma". Pur avendo archiviato l’esposto il magistrato nel merito ha dato ragione ai radicali riconoscendo che di fatto il regolamento, oltre a limitare la libertà della donna crea un ostacolo reale alla scelta di abortire. Al quotidiano Repubblica il

procuratore ha dichiarato: «L´archiviazione l´ho chiesta perché il regolamento non viola le norme. Questo però non mi impedisce di dire che il provvedimento sulla sepoltura dei feti sia un ostacolo a una legge dello Stato, fatta apposta per evitare il ricorso agli aborti clandestini».

Una donna aveva denunciato che in un ospedale milanese, il San Paolo, era stata costretta a firmare un modulo in cui doveva indicare se avrebbe provveduto a seppellire il feto oppure delegava l´ospedale. Il tutto prima di entrare in sala operatoria. Da lì si era scoperto che altri ospedali, come il Niguarda e la Melloni, avevano adottato la stessa prassi, sconfessata poi dalla Regione. «Hanno male interpretato - ha fatto sapere l´assessorato regionale alla Sanità - le donne vanno informate con una semplice lettera messa nella bacheca della corsia ospedaliera».



Milano, 9 giugno 2007 • Dichiarazione dei radicali Valerio Federico e Silvio Viale, presentatori dell’esposto alla procura di Milano contro il Regolamento regionale sulla sepoltura dei prodotti del concepimento: “Lo avevamo detto che avrebbero molestato le donne, violando privacy e 194, e prontamente avevamo depositato un esposto in Procura. Alcuni ci avevano risposto che era un adempimento di legge, un “vuoto da colmare”. Altri con un “vigileremo”, ironizzando sulla nostra previsione che alle donne sarebbe stato chiesto cosa fare del “materiale abortivo”. Oggi abbiamo la conferma che avevamo ragione; perciò rinnoviamo la richiesta che la

magistratura apra un’indagine sui casi riguardanti gli ospedali Niguarda, San Paolo e Melloni”.



Il PM ha ritenuto, non emergendo alcuna ipotesi di reato, di archiviare l’esposto. La motivazione non convince: se la Procura stessa afferma che è certo l´ostacolo, quantomeno di natura psicologica, all’IVG allora è necessario fare riferimento alla legge 194 là dove afferma che è perseguibile penalmente chi adotta modalità o procedure che violano la dignità o la libertà della donna. In più nei moduli dati agli ospedali è previsto che venga rivelata l´identità della donna, in contraddizione con la normativa attuale: “In nessun modo si deve poter risalire alla identità di chi ha scelto l´interruzione volontaria di gravidanza». Per questi motivi gli esponenti radicali hanno presentato opposizione con richiesta motivata di prosecuzione dell’indagine preliminare.

motorino radicale
12-07-09, 12:47
L´opposizione in Regione non ha fatto nulla per impedire l´approvazione del regolamento. Il centrosinistra ha avuto un atteggiamento passivo. È caduto in un tranello ma quando se ne è accorto, invece di ammettere di aver sbagliato e cercare di risolvere il problema alla radice, contestando il principio di questo regolamento, ne ha contestato il metodo, riferendosi alla modalità di come la donna deve essere informata. E’ invece il principio che va difeso: se scelgo

l´interruzione di gravidanza io non uccido nessuno e nessuno mi deve chiedere se voglio seppellire o meno il feto, l’embrione o lo zigote. In Lombardia i Radicali sono stati i soli a difendere ancora questo principio. Sono stati l’unica forza politica a dire che il regolamento andava spazzato via. Altrimenti si arriverà ad avere anche i cimiteri dei feti, che serviranno a ricordare, come sostiene il Movimento per la Vita, che lì ci sono degli individui assassinati.

Anche in questo caso la Lombardia è sembrata fare da apripista verso altre città, come Roma per esempio, nel volere esportare dei modelli ideologico religiosi, ben lontani da un’idea di stato laico. Luna De Bartolo scrive, infatti, su Il Politico del 16 marzo 2009 che “Il consiglio del XX municipio di Roma (Tor di Quinto) ha approvato, con 11 sì (Pdl), 3 no (Pd), 2 astenuti (uno de La Destra e uno del Pd) e su ordine del giorno dell’esponente Pdl Marco Petrelli, la richiesta formale inoltrata al Campidoglio circa la proposta di riservare nei cimiteri del XX Municipio apposite aree per la sepoltura di embrioni e feti abortiti, che figurano nel documento con la perifrasi ‘bambini non nati’”, riportando inoltre le parole di Giorgio Gibertini, presidente del Centro di aiuto alla vita di Roma e promotore dell’iniziativa, secondo il quale “il Cav di Roma propone per Roma quello che già accade in Lombardia: in caso di aborto, sia spontaneo che volontario, gli ospedali avranno l’obbligo di spiegare ai genitori che possono chiedere la sepoltura e celebrare il funerale. Si tratterebbe di una norma storica sacrosanta in nome del

diritto naturale”.



La legge nazionale prevede che solo i feti abortiti, spontaneamente o per motivi terapeutici, dopo le venti settimane debbano essere inviati al cimitero, mentre i feti e gli embrioni al di sotto delle venti settimane sono trattati come tutto il materiale organico umano e inceneriti.

Era ed è irrisorio il numero delle donne che chiede il funerale e/o la sepoltura per feti sotto le 28 settimane. Questo dimostra l’assenza di una domanda sociale di questo tipo e quindi quanto siano state strumentali e propagandistiche le argomentazioni degli antiaboristi.



Sin dall’inizio di questa vicenda, l’intento è sempre stato quello di accanirsi psicologicamente contro le donne che vogliono ricorrere alla IVG, creando condizionamenti e sensi di colpa. Purtroppo un Consiglio regionale distratto, pensando più alle imprese delle pompe funebre che alle donne, ha votato all’unanimità una disposizione aberrante e perversa, dimostrando quanto la maggioranza di centrodestra sia “pronta a tutto” e quanto l’opposizione di centrosinistra sia “buona a nulla”.



La legge regionale n.3 del 2003 - In merito all’interruzione volontaria di gravidanza, oltre a quanto già citato, bisogna ricordare che, lo scorso anno, il Consiglio Regionale ha approvato una legge (L.R. 12 marzo 2003, n.3), il cui articolo 4 recita testualmente: “1. Le unità di offerta sociale hanno il compito di: (comma b) tutelare la maternità e la vita umana fin dal concepimento e garantire interventi di sostegno alla maternità e paternità ed al benessere del bambino, rimuovendo le cause di ordine sociale, psicologico ed economico che possono

ostacolare una procreazione consapevole e determinare l’interruzione della gravidanza”. Insomma, una Legge regionale che contrasta apertamente, almeno nei principi, con la 194 e tenta di garantire una sponda legislativa, (debolissima se il diritto in Italia fosse rispettato) a manovre amministrative volte ad interferire su libere scelta dell’individuo.



Finanziamenti ai CAV - E che dire dei finanziamenti al CAV della Mangiagalli erogati a seguito di un appello di Giuliano Ferrara? Il Movimento per la Vita ha ottenuto per il suo CAV all’interno della clinica Mangiagalli di Milano un finanziamento di 700 mila euro da Comune e Regione,

assicurato dall’oggi al domani su richiesta dei responsabili del CAV e di Giuliano Ferrara, in sfregio a qualunque prassi consolidata di utilizzo del denaro pubblico. Il Centro di Aiuto alla Vita della Mangiagalli è diretto dalla dottoressa Paola Bonzi, candidatasi proprio nelle liste di Giuliano Ferrara. La Regione Lombardia, su iniziativa di Formigoni e dell'assessore alla Famiglia Gian Carlo Abelli, il 20 dicembre ‘07 ha deliberato uno stanziamento di 500mila euro a

favore del Centro di Aiuto alla Vita (CAV) dell'ospedale Mangiagalli di Milano. Il Comune di Milano, grazie all'iniziativa del capogruppo di AN in consiglio comunale Carlo Fidanza, ha stanziato invece "solo" 200mila euro. E' intollerabile che il CAV abbia ottenuto 700mila euro per le proprie attività senza alcun controllo né presentazione di progetti ma solamente perchè è una struttura "amica" della Moratti e di Formigoni. E’ – o almeno dovrebbe essere - finito il tempo dei finanziamenti a pioggia dati agli "amici". I soldi al privato sociale, ormai da anni, si danno a seguito di bandi, con criteri chiari e con rendicontazioni trasparenti. I soldi dei cittadini devono finanziare chi garantisce un servizio migliore, sulla base delle indicazioni delle istituzioni, sulla base insomma di una sana competizione.



Ci sono centinaia di associazioni e organizzazioni che svolgono ottimi lavori a beneficio della cittadinanza e che non riescono ad ottenere i finanziamenti o ne ottengono in misura minima.

Che siano i cittadini a mettersi in fila per aiutare il CAV della Mangiagalli in difficoltà, non le istituzioni.



Formigoni ha poi comunicato la sua intenzione di regalare i soldi dei contribuenti a tutti i CAV lombardi. Che servizio di “accompagnamento psicologico” possono garantire persone che in realtà esercitano un forte e indebito “condizionamento psicologico” su chi intende esercitare una scelta garantita, da trent'anni, dalla legge dello stato?



Nella stanza del CAV della Mangiagalli vengono mostrati filmati e foto che danno una visione ideologico - religiosa dell'aborto, facendo un'operazione di grave disinformazione. Non sappiamo se sia il caso della Mangiagalli, ma in altri ospedali (come per esempio a Brescia) i volontari del CAV avvicinano le donne in sala d'attesa, sapendo benissimo in quali giorni sono fissati i colloqui per le interruzioni di gravidanza: questo è "terrorismo psicologico" e invasione della privacy.



E' legittimo che i volontari del CAV mostrino o dicano quello che vogliono, ma noi preferiremmo che lo facessero fuori dagli ospedali: e se proprio devono rimanere dentro, pretendiamo che almeno non lo facciano grazie ai soldi dei cittadini. I volontari del CAV dovrebbero starsene buoni e tranquilli nelle loro sedi e aspettare che siano le donne a decidere di chiedere il loro consulto: è inconcepibile che ledano la privacy in questo modo. Il lavoro di sostegno psicologico alle donne che stanno decidendo se abortire deve essere fatto dai consultori pubblici o dai consultori privati laici, e non da una organizzazione antiabortista come il CAV. Che, per di più, ha la sede dentro l'ospedale.



Il Movimento per la Vita (i CAV sono sue articolazioni) fin dal 1995, con una legge di iniziativa popolare, ha proposto che, modificando l’art.1 del Codice Civile, la soggettività giuridica di ogni essere umano sia dichiarata fin dal concepimento. Consultori - Un collegato alla finanziaria regionale del 2001 ha modificato la legge regionale 6 settembre 1976, n. 44 (Istituzione del servizio per l'educazione sessuale, per la procreazione libera e consapevole, per l'assistenza alla maternità, all'infanzia e alla famiglia), consentendo ai consultori privati accreditati -

finanziati dalla Regione - di non applicare la Legge 194.



La conseguenza è un paradosso: la Regione finanzia dei consultori che non fanno i consultori, poiché non rispettano la legge n. 405 del 29 luglio ’75 che ha istituito in Italia la figura del consultorio familiare. Questa legge afferma all’art. 1 che “il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha come scopi (comma b) “la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti” (comma d)

“la divulgazione delle informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza consigliando i metodi e i farmaci adatti a ciascun caso” In Lombardia sono decine e decine i consultori finanziati con i soldi dei contribuenti che hanno solo medici obiettori, che quindi non prescrivono la pillola del giorno dopo - considerandola una pratica abortiva -, non informano sui metodi contraccettivi e non prescrivono nemmeno la pillola anticoncezionale. Esiste nella

regione lombarda una rete di centri convenzionati in cui si pratica una "obiezione di struttura" che si traduce nell'impossibilità, per la donna, di far valere i suoi diritti. Il numero di medici obiettori in Lombardia è altissimo: sette su dieci non praticano interruzioni di gravidanza (contro il 60% a livello nazionale) e — in una interpretazione estensiva dei diritti degli obiettori — non prescrivono la pillola del giorno dopo, contestandone la classificazione come farmaco per la contraccezione d'emergenza.



Pillola del giorno dopo - La struttura ospedaliera deve sempre garantire il diritto della donna ad accedere alla contraccezione d'emergenza. Questo non accade però in molti ospedali della Lombardia di Formigoni, dove grazie all’iniziativa della Cellula Coscioni di Milano denominata SOS PILLOLA DEL GIORNO DOPO un gruppo di medici ha raccolto testimonianze di donne che si sono viste rifiutare la prescrizione della pillola da parte di altri medici incontrati nei seguenti

ospedali: Gallarate, Busto Arsizio, Riguarda, Fatebenefratelli, Abbiategrasso, M. Melloni, S. Carlo, Lodi, Crema, Melegnano, Bassini (Cinisello), Sesto S. Giovanni, Riuniti di Bergamo, S. Giuseppe, S. Paolo, S. Raffaele. In attesa che venga abolito l’inutile obbligo di ricetta medica per questo farmaco l’Associazione Coscioni e i radicali hanno chiesto che le guardie mediche e le aziende ospedaliere non vengano meno ai loro compiti, e che garantiscano le prescrizioni a tutte le donne senza perdere tempo prezioso, riducendo così il rischio di ricorso all’aborto. Hanno altresì chiesto che tutti i consultori pagati dai cittadini assicurino questo servizio: cosa che oggi, nella Lombardia di Formigoni, non avviene. La Cellula Coscioni di Milano ha messo in piedi un’iniziativa con 11 MEDICI DI COSCIENZA, che a titolo volontario con il loro impegno militante hanno assicurato alle donne un diritto che il sistema sanitario nazionale in spregio alle leggi non garantisce.



Soldi al banco alimentare - Legge Regionale N. 25 del 2 dicembre 2006 - Se poi facciamo riferimento a un’altra parola d’ordine dei ciellini - la sussidiaretà – allora capiamo come il cosiddetto privato-sociale finanziato dalla Regione non è altro che un sistema per foraggiare gli amici del governatore. Basti pensare ad una legge di qualche anno fa che finanziava con 700.000 Euro il Banco Alimentare, organizzazione a controllo ciellino, senza alcuno spazio per altri attori. Lo Statuto - Con oltre otto anni di ritardo rispetto alla modifica costituzionale

che attribuiva alle Regioni una funzione costituente, finalmente, nel 2008, anche la

Lombardia è riuscita ad approvare un nuovo Statuto regionale, chiamato pomposamente,

tanto per non scontentare la Lega, già troppo penalizzata dal crescente potere ciellino: “Statuto d’Autonomia della Lombardia”. Sarebbe troppo lungo raccontare le vicende che hanno portato a una dilatazione così evidente dei tempi di approvazione, basti pensare che la legislatura 2000-2005 ha visto i consiglieri radicali incalzare costantemente e senza successo le altre forze politiche perché venisse rispettato l’impegno costituzionale all’approvazione del

nuovo Statuto. I veti incrociati, le divisioni interne a maggioranza e opposizione e i contrasti tra il Consiglio e la Giunta hanno reso impossibile per otto anni, anche solo parlare seriamente di Statuto e l’unica proposta formalmente depositata nella settima legislatura è stata quella radicale.



Nella legislatura attualmente in corso si è finalmente arrivati a rispettare le indicazioni costituzionali. Ovviamente la strategia per arrivare all’approvazione del testo statutario è stata tutta fondata sul compromesso tra le due forze politiche principali, lasciando ai “piccoli” alcuni ‘contentini’ e costruendo il testo su un modello di società totalmente avulso dalla realtà lombarda. Da un punto di vista liberale e radicale lo Statuto approvato presenta una serie

impressionante di lacune e incongruenze, sia sotto l’aspetto della tutela dei diritti civili, sia sui temi economici, su cui lo sbandierato, un tempo, liberismo del centrodestra, lascia spazio ad una visione definitivamente corporativa e social-ciellina.



L’elaborazione dello Statuto ha rappresentato per Formigoni e i suoi l’occasione più ghiotta per ribadire alcuni principi, per altro ben radicati anche nel centro sinistra, su cui hanno impostato le politiche regionali di questi quindici anni. Il risultato è uno Statuto che, nonostante i proclami di imparzialità, è frutto di una impostazione culturale molto chiara e di fatto esclude una parte assolutamente rilevante di cittadini lombardi che non si riconoscano nella visione formigoniana del mondo e della vita, nella visione sindacal-cooperativa del lavoro e in quella

leghista dell’ordine pubblico.



Indubbiamente è il Titolo I a presentare il maggior numero di aspetti critici per chi creda ad un’idea di società aperta, inclusiva e liberale, modello che peraltro, nella “Lombardia reale” attuale, continua a prevalere. Intanto c’è da chiedersi se fosse necessario prevedere nello Statuto regionale un intero titolo zeppo di enunciazioni di principio, di richiami ideologici, che

resterà verosimilmente lettera morta. Nessuno ha avuto il coraggio di proporre di limitare lo Statuto agli aspetti istituzionali e, una volta accettata l’idea di richiamare nel testo aspetti culturali ed ideologici, si è aperta la gara per farci entrare di tutto: un po’ di autonomia per i leghisti, la famiglia tradizionale per i ciellini, la sicurezza sul lavoro per Rifondazione, il valore della cooperazione per il PD, le radici cristiane volute da AN, il rispetto per gli animali e il paesaggio. Il risultato di questa gara al rialzo è che all’articolo 2, comma 4, i punti

qualificanti dell’azione regionale sono diventati addirittura sedici e riguardano, di fatto, l’intero Universo.



Diritti civili (famiglia, maternità) - Ovviamente per gli elaboratori dello Statuto i diritti civili sono “temi eticamente sensibili”, per cui la discussione è stata particolarmente complessa e ha visto il “contributo” anche di elementi esterni, tra cui l’ ”Osservatorio Diocesano”, che ha ottenuto una audizione in Commissione e ha presentato proposte emendative in larga parte accolte. Dopo lungo dibattito si è arrivati a stabilire letteralmente che: “ La Regione, nell’ambito delle proprie competenze tutela la famiglia, così come riconosciuta dalla Costituzione, con adeguate politiche sociali, economiche e fiscali…”. Ciò significa, ad esempio, che se in futuro una giunta regionale di colore politico diverso, dovesse decidere di inserire le coppie di fatto nelle graduatorie per l’assegnazione di contributi o per l’assegnazione di alloggi popolari lo farebbe in contrasto con lo Statuto regionale. E’ vero che alcune sentenze della Corte Costituzionale hanno stabilito che gli articoli di principio degli statuti regionali non hanno carattere vincolante, ma resta il fatto che nella Carta fondamentale della Lombardia è sancita una discriminazione nei confronti di molti cittadini della regione.



Altro tema spinoso è stato quello relativo all’aborto. Il testo iniziale, approdato in commissione, non comprendeva richiami sull’argomento; in sede di audizione è stato il già citato “Osservatorio Diocesano” a chiedere che venisse richiamata la tutela della vita fin dal concepimento. Il testo dello Statuto che recita: “La Regione, nell’ambito delle proprie competenze attua tutte le iniziative positive in favore del diritto alla vita in ogni sua fase”, rappresenta un compromesso comunque inaccettabile per chi ha una visione laica della società.



Rapporti Regione/Chiesa - “La Regione Lombardia riconosce nella Chiesa cattolica e nelle altre confessioni religiose riconosciute dall’ordinamento, formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo e orienta la sua azione alla cooperazione con queste, per la promozione della dignità umana e il bene della comunità regionale”.



Un’affermazione simile, messa tra i principi fondamentali di uno Statuto, non ha bisogno di commenti. La personalità dell’individuo si forma solo nelle Chiese riconosciute dall’ordinamento (nelle altre chissà come mai no….) e la Regione collabora con la Chiesa per il bene della comunità.



E’ da sottolineare che questo comma non era previsto nella stesura iniziale dello Statuto ed è stato letteralmente imposto in Commissione dopo l’audizione con il solito “Osservatorio Diocesano”, che ne ha curato anche la stesura materiale. Ovviamente non manca il richiamo alle radici cristiane, a cui, su richiesta della Sinistra Arcobaleno sono state inutilmente affiancate quelle “civili”: “La Lombardia persegue sulla base delle sue tradizioni cristiane e civili il riconoscimento e la valorizzazione delle identità storiche, culturali e linguistiche presenti sul

territorio”.



Il progetto formigoniano trova importanti sponde: indicative sono le parole del consigliere regionale del Partito Democratico Carlo Spreafico usate durante il suo intervento in aula sulla proposta di Statuto della Regione Lombardia (11/03/2008): “Mi pare importante mettere al centro, come fa lo Statuto: la persona, la partecipazione, il ruolo legislativo della Regione rafforzato dal Titolo V della Costituzione (…)” “Mi pare importante avere messo in rilievo il ruolo pubblico della religione, che lo Statuto sostiene rifiutando l’idea di una religiosità relegata alla sfera della coscienza personale”



Sussidiarietà in salsa lombarda - Dal 1995 l’applicazione del concetto di sussidarietà, così caro alla componente ciellina della maggioranza ha preso sempre più piede. Ovviamente la sussidiarietà attuata in Lombardia non è quella cosiddetta verticale, per cui la ripartizione gerarchica delle competenze viene spostata verso gli enti più prossimi al cittadino, bensì quella orizzontale, per cui i corpi intermedi cooperano con la Regione nella definizione delle politiche da attuare e direttamente le gestiscono.



Di fatto si afferma sempre più un centralismo regionale, che espropria gli Enti locali di moltissime competenze e che la Regione gestisce insieme ai corpi intermedi, in buona parte di matrice “Compagnia delle Opere”. In questi anni la sussidiarietà è stata interpretata come il modo per garantire agli amici di Formigoni finanziamenti, strutture, agevolazioni di ogni tipo. Gran parte delle leggi ispirate al principio di sussidiarietà, approvate in questo quindicennio, si sono risolte in enormi vantaggi per la “C.d.O.”, che ha visto aumentare e a dismisura il proprio potere, ormai ramificato in ogni settore dell’economia regionale, ma ovviamente a questa logica non è estraneo neppure il Partito Democratico, con il suo sottobosco di Acli, cooperative e sindacati. Con queste premesse lo Statuto non poteva che trasformarsi nel “Manifesto della

sussidiarietà lombarda”, a cui è dedicato un articolo nell’ambito dei principi e addirittura un intero titolo in cui viene apertamente riconosciuto che “le autonomie funzionali e sociali concorrono alla formazione degli indirizzi generali della politica regionale”.



Lo scippo dei referendum regionali - I sostenitori dello Statuto sostengono che “questo documento risponde appieno alle esigenze dei cittadini”, parole che suonano beffarde se riferite alle migliaia di coppie di fatto non tenute in considerazione nel testo o ai numerosi imprenditori che credono nella libera iniziativa e si vedono scavalcati da congregazioni affaristico-religiose, per non parlare dei cittadini che credono alla democrazia diretta e ai referendum, che si vedono espropriare un diritto fondamentale.



Anche su questo l’asse PDL-PD è stato deleterio: le firme per proporre un referendum

abrogativo di leggi regionali sono state portate da 90.000 a 300.000 e si è rischiato finisse anche peggio, visto che il PD, in commissione, aveva addirittura proposto di portare il numero a 700.000!



Da notare che fino al 1985 le firme da raccogliere erano solo 20.000 e solo una volta, nel 1981 si è arrivati a votare su alcuni quesiti, finchè il Consiglio ha ritenuto che le richieste di referendum fossero troppe e ha portato a 90.000 il numero di sottoscrizioni. L’obiettivo di limitare le richieste è stato raggiunto in pieno: da quel momento solo una richiesta di referendum di iniziativa popolare è arrivato all’esame dell’Aula, ma mancando 5.000 firme, è risultata inammissibile. Insomma, se già 90.000 firme in Lombardia erano un risultato difficile da raggiungere, 300.000 sottoscrizioni non sono neppure ipotizzabili, per cui si può dire che l’istituto referendario regionale sia stato definitivamente affossato. E alla faccia della sussidiarietà, quella vera, anche il numero di consigli comunali che possono proporre referendum abrogativo di leggi regionali è stato aumentato, da 50 a 150, rendendo improbo, anche per questi enti, richiedere il pronunciamento degli elettori.



Modello istituzionale - Lo Statuto conferma il modello presidenzialista, con elezione diretta del Presidente della Regione e un esecutivo forte e indipendente. Il presidenzialismo lombardo, come quello della maggior parte delle regioni italiane, in definitiva, si risolve in un modello decisionista, tutto centrato sulla figura del Presidente, senza previsione di contrappesi efficaci e soprattutto di strumenti di controllo per i Consigli. La situazione rischia di aggravarsi con

l’approvazione del nuovo Regolamento Generale del Consiglio Regionale, attualmente in discussione in commissione, che prevede l’eliminazione di qualsiasi possibilità di ostruzionismo reale, il contingentamento sempre più serrato dei tempi di discussione in aula, la compressione di alcuni diritti dei consiglieri in favore della mediazione di presidenti dei gruppi consiliari.



Entro la fine della legislatura dovrebbe anche essere approvata una nuova legge elettorale che per ora è in discussione nelle segreterie dei partiti maggiori, senza nessun confronto pubblico, tanto meno in commissione. L’idea prevalente è che ancora una volta, a tre mesi dalle elezioni, arriverà una proposta blindata, con l’obbiettivo di rafforzare il modello proporzionale bipartico, ovviamente secondo il bipartitismo italiano, quello in cui i due partiti maggiori si accordano per far fuori gli altri. Il rischio, in Lombardia, è quello di trovarsi a convivere con un modello istituzionale di tipo centro-americano, proporzionale – bipartitico – presidenziale, con il potere accentrato nelle mani dell’esecutivo che, con l’appoggio dei corpi intermedi, consolida e impone la propria visione dell’economia, della società e delle istituzioni.



In Aula - Lo Statuto è stato approvato con il voto favorevole di tutti i gruppi del centro-destra e del PD, la Sinistra Arcobaleno si è astenuta e ha votato contro il consigliere dell’ Italia dei Valori, dichiarando che il suo partito era pronto a raccogliere le firme per il referendum confermativo. Ovviamente, nei tre mesi in cui sarebbe stato possibile farlo, non un solo tavolo di raccolta firme dell’IDV si è visto nelle strade di Lombardia e lo Statuto è entrato regolarmente in vigore il 1 settembre 2008.



Compagnia delle Opere - La Compagnia delle Opere è il braccio economico di Comunione e Liberazione. Pur professandosi per il libero mercato attraverso il motto “più società, meno Stato”, la CDO è un’associazione che sopprime la libera concorrenza e il libero mercato, anche grazie alle sovvenzioni pubbliche che alcune imprese iscritte alla CDO ricevono da parte della Regione Lombardia, oltre che alla oramai sommaria esclusione delle aziende non iscritte nell’assegnazione di appalti pubblici, concessi ad imprese “vicine” a Comunione e Liberazione e/o iscritte alla Compagnia delle Opere. Il sistema non rappresenta quindi un esempio di mercato concorrenziale, ma trae spunto piuttosto dal sistema delle arti e delle corporazioni

medioevale. Anche in questo ambito, quello del mercato, la Regione Lombardia, grazie a Roberto Formigoni e ai suoi collaboratori, sta sperimentando un pericoloso connubio tra pubblico e privato, il tutto basato su una tessera che privilegia alcune aziende a discapito di altre, occupando quasi monopolisticamente il mercato. Attualmente la Compagnia delle Opere conta 34.000 imprese iscritte in tutta Italia (nel 2002 ne contava circa 20.000, tra cui più di 6.000 nella sola zona del milanese, circa 1000 nel Lazio e 700 in Campania), ma il dato da non sottovalutare è che in alcune zone il numero di iscritti alla CDO infastidisce la Confindustria

locale. L’esempio siciliano è illuminante, nel 2002 le aziende iscritte alla Compagnia delle Opere erano 330, questo dato bastava però per fare sì che l’allora presidente di Sicindustria, Giovanni Catalano, storcesse il naso e dichiarasse «massimo rispetto per ogni forma di associazionismo. Bisogna stare attenti, però, a non ingenerare confusione. A non tradurre un' azione nel sociale in attività di tutela di interessi non propri della sfera sociale» e continuasse affermando che «noi e l' Api siamo le uniche associazioni a non aver mai ricevuto contributi dal

bilancio regionale». La giunta regionale guidata da Salvatore Cuffaro approvò, infatti, in Finanziaria “il finanziamento al Banco alimentare (...). Oppure la norma che cancella l' Irap per le imprese onlus e per le coop sociali, vale a dire la base e il cuore dell' organizzazione imprenditoriale ciellina”, come scriveva allora Enrico Del Mercato su La Repubblica ed. Palermo.



Anche in questo caso, la Regione Lombardia ha rappresentato un modello esportabile ed esportato di sistema nel quale il privato non agisce indipendentemente dalle azioni del pubblico, ma ne è strettamente interconnesso attraverso finanziamenti e agevolazioni, contrapponendosi in questo modo a quelli che sono i principi del libero mercato.

motorino radicale
12-07-09, 19:18
San Paolo, i sofisti, il ministro Maroni

• da "Il Foglio”

di Angiolo Bandinelli

Le notizie sono due, e si completano l’una con l’altra. A Roma, nella catacomba di Santa Tecla, nei pressi della basilica di San Paolo, hanno scoperto una immagine dell’Apostolo delle genti, forse la più antica (è del IV secolo). Ispezionando poi una tomba all’interno della basilica, sono stati individuati reperti che sembrano confermare testimonianze secolari circa la sua sepoltura in quel luogo. L’immagine riapparsa nella catacomba raffigura un uomo di mezza età, calvo ma con una barba nera a punta, aggrottato, scavato, teso nel pensiero. Secondo gli studiosi, riporta ad una iconografia abbastanza consueta: questo San Paolo avrebbe insomma le fattezze di un filosofo, anzi del filosofo greco per eccellenza, Platone. Il professor Antonio Paolucci, Direttore dei musei vaticani, spiega che il nascente cristianesimo adottò per Gesù Cristo raffigurazioni estrapolate dai culti pagani del tempo. Per dire, Cristo fu assimilato al sole. "Ma - prosegue Paolucci - come rappresentare Pietro e Paolo, i principi degli apostoli, le colonne portanti della Chiesa, i fondamenti della gerarchia e della dottrina?” La domanda assillò i credenti. “Qualcuno ebbe un'idea felice. Diede ai protoapostoli le sembianze dei protofilosofi. Così Paolo, calvo, barbato, l'aria grave e assorta dell'intellettuale, ebbe il volto di Platone o forse di Plotino, mentre quello di Aristotele fu dato al pragmatico e terrestre Pietro, che ha il compito di guidare nelle insidie del mondo la Chiesa professante e combattente".



Si può capire l’ambizione della chiesa nascente, di contrapporre ai grandi pensatori pagani i suoi apostoli, con dignità e valenza pari a quelli. Ma io, se dovessi trovare nel pensiero greco un qualche precedente di San Paolo, non darei la palma a Platone o a Plotino. Di san Pietro non saprei cosa dire, il parallelo con Aristotile forse ha senso, regge; di San Paolo, invece, direi convintamente che egli somiglia, per aspetti non secondari della sua predicazione, a un sofista presocratico, magari al Socrate dei primi dialoghi platonici. Sì, per me i sofisti sono stati i predecessori dell’Apostolo delle genti. Non Platone, non Aristotile, “professori”, teorici, metafisici chiusi nel loro Liceo, nel loro Peripato, nella loro Accademia; ma i sofisti, quelli che andavano in giro - proprio come San Paolo - tra le piazze, le agorà, nei mercati, per provocare, mettere in crisi, inquietare le coscienze. Chiedevano: “Ti esti touto?” “Cosa è questo?”, secondo il ricordo che ce ne dà, attraverso la figura di Socrate, il giovane Platone. In questo interrogare sofistico-socratico che non si placa mai è la vera nascita dell’Occidente. I greci amavano distinguersi dai barbari (quelli che non parlano, che emettono solo suoni incomprensibili) soprattutto per questo, il rigore logico del pensiero, che nasce appunto con l’inquietante interrogare dei sofisti (e/o di Socrate). Con quell’interrogativo, “ti esti touto?”, sbriciolavano, laicizzavano il mito, le credenze, le opinioni, obbligavano la ragione a discuterne. Così anche San Paolo, il quale porta incessantemente alle coscienze il tema del Cristo, per le strade e le piazze di mezzo mondo, in un dialogo che rifiuta espressamente circoncisione, pratiche e formalismi esteriori e dunque vive al di fuori e senza mediazioni chiesastiche. La parola non riconosce né poteri né investiture: niente istituzioni, niente costrizioni, la ecclesia è innanzitutto un fatto interiore, di fede, è comunità di questi fedeli. San Paolo si offrì, si rimise al potere, fino al sacrificio, forte solo della sua parola. Che fosse, lui, un laico?



E magari, accanto ai sofisti, metterei tra i predecessori di Paolo i cinici, quelli che predicavano (nelle piazze, anche loro) che la felicità consiste nel vivere secondo virtù, ma anche manifestavano dispregio per ogni costume, abitudine o convenzione umana. Anche Paolo chiede l’abbandono del mondo, la conversione totale a Cristo.

I cristiani fioriti da una parola così rivoluzionaria erano un po’ come gli immigrati clandestini rispetto a Maroni. Estranei alla polis, ostili ad un potere lontano dalle coscienze, quei metaforici “boat people” dovevano essere respinti sulle sponde di Palestina; quanti caddero in mani imperiali subirono la pena della crocefissione, infamante, buona solo per i non romani. A Paolo, proclamatosi cittadino romano, fu risparmiata l’onta, ottenne la decollazione. Se il ministro degli interni, il Maroni del tempo, non avesse lasciato aperta quella falla della cittadinanza ottenuta per discutibile diritto di nascita (per Maroni, mi pare, conta solo lo jus sanguinis) Paolo non sarebbe stato ammesso ai tribunali dell’Impero, la sua parola sarebbe stata quella di un extracomunitario. Non avrebbe avuto il credito che si è guadagnato: e dunque la storia dell’occidente sarebbe del tutto diversa.

motorino radicale
12-07-09, 19:19
Banalità di un’enciclica

di Francesco Pullia

L’enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI non aggiunge nulla di nuovo rispetto a quanto ormai conosciamo dell’indirizzo pastorale dell’attuale pontefice. Sorretta da un sostanziale impianto tomistico, è imperniata su quella concezione di umanesimo integrale che già aveva caratterizzato i predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II.



Di che si parla? Di verità assoluta, di cristianesimo come “elemento indispensabile alla costruzione di una buona società”, di critica alla “tendenza a relativizzare il vero” e al “sincretismo”. Emblematica, in particolare, l’affermazione secondo cui libertà religiosa non significherebbe indifferentismo religioso. Detto altrimenti, secondo Joseph Ratzinger le religioni non sono tutte uguali. Non solo.



“Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la

costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico”.



Chiaro no? “Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità e della

verità. Siccome è in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di emancipazione e di inclusione nell’ottica di una comunità umana veramente

universale. «Tutto l’uomo e tutti gli uomini » è criterio per valutare anche le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano », porta in se stesso

un simile criterio. La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica”.

E ancora: “Nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo e di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa”.



Su questo impianto s’innesta l’attenzione ratzingeriana al sociale, con particolare riguardo alla disuguaglianze, alla povertà, alla fame causate da uno sviluppo mal distribuito, da un uso squilibrato di risorse non rinnovabili, da una tecnologia dimentica dei suoi compiti precipui, vincolata com’è ad uno sviluppo fine a se stesso. E’ a questo punto che, secondo il pontefice, deve prodursi una svolta in senso etico. Il problema è che questa etica è sempre considerata in chiave apodittica, univoca: o è derivante dalla visione cristiana o non è.



Di qui, ad esempio, l’arroccamento su una posizione nettamente contrastante qualsiasi forma di controllo dell’esplosione demografica, fenomeno che non viene affatto indicato come una delle (non la ma certamente una tra) cause del dissesto ambientale del pianeta, con, a ricasco, il progressivo depauperamento di vaste aree, la costrizione alla migrazione, lo sterminio in loco di milioni e milioni di esseri per carenza di nutrimento, l’incentivazione a violenze, esasperazioni, guerre.



Da un lato si pone “l’urgenza della riforma sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni”, dall’altro si dice che nei paesi economicamente più sviluppati “le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi, contribuendo a diffondere una mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale. Alcune Organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione dell’aborto, promovendo talvolta nei Paesi poveri l’adozione della pratica della sterilizzazione, anche su donne inconsapevoli. Vi è inoltre il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati a determinate politiche sanitarie implicanti di fatto l’imposizione di un forte controllo delle nascite”.



Anche per quanto concerne l’ambiente, il pontefice se la prende con “atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo”: “dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, non può”, egli sostiene, “derivare la salvezza per l’uomo”.



Siamo alla riproposta del solito antropocentrismo che da secoli (pre)domina nell’ideologia teologica cattolica impedendo di concepire il nesso interdipendente che pone l’uomo non al centro ma all’interno del mondo naturale, come parte di un tutto e, quindi, responsabilmente partecipe dell’equilibrio planetario.



Ed ecco il punto su cui Joseph Ratzinger non smette di insistere: “Per salvaguardare la natura non è sufficiente intervenire con incentivi o disincentivi economici e nemmeno basta un’istruzione adeguata. Sono, questi, strumenti importanti, ma il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società. Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell’uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale. E’ una contraddizione

chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, quando l’educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesso”.



D’altronde, non mancano gli strali contro eutanasia, libertà di scelta della propria morte, contraccezione, aborto legalizzato:“La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell’ibridazione umana nascono e sono promosse nell’attuale cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice della vita (…)Alla diffusa, tragica, piaga dell’aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già surrettiziamente in nuce, una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite. Sul versante opposto, va facendosi strada una mens eutanasica, manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta”.



Non sappiamo quale importanza verrà attribuita al testo ratzingeriano nel dibattito culturale (e non solo). Certo è che non rappresenta, a nostro modesto avviso, un salto qualitativamente in avanti. Anzi, sia detto senza alcuna polemica pretestuosa, conferma quella carenza di profondità da noi più volte riscontrata nel pensiero del papa tedesco.

motorino radicale
12-07-09, 19:19
L’appello di un prete ai cattolici: “Impediamo l’incontro tra Ratzinger e Berlusconi”
Lettera aperta a papa Benedetto XVI perché non riceva Berlusconi in udienza né pubblica né privata dopo il G8 dell’Aquila.

• dal sito della rivista “Micromega”

di don Paolo Farinella

"Con sgomento apprendiamo dalla stampa l’eventualità che lei possa concedere udienza privata all’attuale presidente del consiglio italiano, Silvio Berlusconi. Egli per parare il diluvio di indignazione e disprezzo che gli si è scatenato contro a livello mondiale per i suoi comportamenti indecenti che sono anche la negazione della morale cattolica che tanto sbandiera nei suoi deliranti proclami, ha fatto capire che dopo il G8 cercherà di strappare alla Santa Sede un incontro con il Pontefice a conclusione del summit dell’Aquila. L’unico modo, a suo giudizio, per «troncare le polemiche».



Monsignor Mariano Crociata, segretario della Cei, senza fare riferimenti personali, ha detto parole gravi che avremmo voluto ascoltare già da tempo, ma non è mai troppo tardi. Il segretario della Cei afferma che stiamo assistendo «ad un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile». Non si deve quindi pensare che «non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati, soprattutto quando sono implicati minori» (Omelia in memoria di Santa Maria Goretti, a Latina 5 luglio 2009).



Sì, perché tra le varie sconcezze del presidente del consiglio (compagnia con donne a pagamento), vi sono riferimenti precisi di rapporti con minorenni (testimonianza della moglie) e di cui il presidente ha dato diverse differenti letture, nonostante abbia spergiurato sulla testa dei figli.



Le parole del segretario della Cei hanno toccato nel segno la depravazione in cui è caduta la presidenza del consiglio italiana, disperatamente alla ricerca di un salvagente per salvare la faccia e offendere il mondo civile e cattolico con lo show dell’udienza. A Silvio Berlusconi nulla importa del papa e della Chiesa cattolica e della sua morale come della dottrina sociale, a lui interessa di farsi vedere «urbi et orbi» insieme al papa e così cercare di parare le richieste pressanti che da tutto il mondo arrivano perché esca di scena dignitosamente, se ne capace.
La supplichiamo, per amore della sua e nostra Chiesa, che è ancora inorridita e scossa, non lo riceva pubblicamente né privatamente perché lei darebbe un colpo mortale alla credibilità della gerarchia della Chiesa che ha preso posizione solo dopo la mobilitazione del mondo cattolico e del mondo civile che in internet ha raggiunto livelli di esasperazione molto elevati.
Se lo riceve, la visita sarà usata strumentalmente per dire che il papa è con Berlusconi e quindi tutte le sue ignominie, depravazioni e corruttele troverebbero facile copertura morale. La morale che lei dovrebbe rappresentare diventerebbe una farsa di copertura dell’immoralità di un uomo presuntuoso e malato che ancora non si è degnato di rispondere pubblicamente del suo operato come ha chiesto la libera stampa, mentre è andato in tv dove senza contraddittorio, ha esaltato le sue gesta di corrotto corruttore, aggiungendo sprezzante a sua giustificazione che “la gente mi vuole così”.



Inevitabilmente lei diventerebbe complice agli occhi dei fedeli semplici e dei non credenti ancora attenti alla Chiesa. In nome di Dio e della dignità del nostro popolo e della serietà dell’etica non lo riceva, perché se lo riceve, lei perderà moltissimi fedeli che già sono sulla soglia".

In fede

Paolo Farinella, prete

motorino radicale
12-07-09, 19:20
Il problema non è tanto cosa possa avere Berlusconi da papa Ratzinger, quanto cosa il Vaticano chiederà per continuare a chiudere un occhio (anzi, entrambi)

di Valter Vecellio

Caro don Paolo,

Ti rivolgi fiducioso al pontefice perché non riceva Silvio Berlusconi; spero che tu non venga deluso. Ma c’è qualcosa che va al di là e oltre l’incontro, ci sia o no.



La domanda da cui si può partire, e a cui occorre cercare di dare una risposta, è: che cosa vuole, davvero, il Vaticano dall’Italia? Da questa, derivano altre domande e questioni: perché il governo di Silvio Berlusconi, l’attuale maggioranza di centro-destra salvo rarissime – e assai poco influenti eccezioni- ma anche consistenti, significative componenti del centro-sinistra, si pongono in posizione prona, concedono tutto e di più, anche quando questo loro concedere va chiaramente contro la volontà della maggioranza degli italiani, dei loro stessi elettori?



Le ragioni di questo apparentemente assurdo comportamento da parte di Berlusconi sono ravvisabili e ben descritte e raccontate in un recente libro di Ferruccio Pinotti, il giornalista e scrittore che ci ha dato tempo fa il bel “Opus Dei Segreta”; e di Udo Gumpel corrispondente dall’Italia per una rete televisiva tedesca. Pinotti e Gumpel hanno scritto “L’unto del Signore”, e l’unto in questione è appunto Berlusconi, che viene descritto non solo o tanto come cattolico convinto, sia pure sui generis, ma economicamente e politicamente parlando “cresciuto sotto l’ala di un grande ‘potere forte’, il Vaticano, fino a diventare uno degli imprenditori più ricchi del mondo e un potentissimo politico”.



E’ un libro interessantissimo, con una quantità di notizie poco o nulla conosciute anche agli addetti ai lavori. Perché sì, si parla degli iniziali rapporti e del ruolo svolto dalla Banca Rasini, istituto guidato dal padre Luigi, “una sorta di piccola vatican bank”, viene definita, con “sorprendenti legami anche all’estero”; assai più che la piccola banca utilizzata da Cosa Nostra a Milano, come racconta in una delle sue ultime interviste Michele Sindona, che evidentemente di queste cose era esperto; c’è anche tutto l’intreccio con misteriosi fiduciari del Liechtenstein; ci sono i collegamenti con la finanza “bianca”; e contestualmente si analizzano le prese di posizione del Vaticano di fronte alla discesa in campo, nel 1994, di Berlusconi, e si ricostruiscono i rapporti intessuti con l’Opus Dei e con Comunione e Liberazione.



“Abbiamo”, scrivono Pinotti e Gumpel, “seguito il filo rosso del denaro, componendo il puzzle dei giochi di potere che hanno condotto, in Italia, all’affermazione della finanza cattolica. Abbiamo delineato le tappe attraverso le quali il rapporto privilegiato di Berlusconi con il Vaticano si è trasformato in un patto di ferro che sta producendo esiti imprevedibili per entrambe le parti”. Perché “se è vero che le gerarchie vaticane più aduse al potere si sono servite e si servono di Berlusconi per raggiungere i propri scopi, è altrettanto vero che il Cavaliere ha fatto con il Vaticano e con un certo mondo cattolico il suo instrumentum regni”.



Sono trecento pagine davvero interessanti e rivelatrici. “Il Cavaliere”, annotano Pinotti e Gumpel, “gode del sostegno elettorale della Curia. Da parte sua, la ricambia con favori economici e politici. Il Vaticano infatti appare determinato a sfruttare l’impronta teocon del governo Berlusconi per orientare l’opinione pubblica e le strategie politiche su temi delicatissimi come l’aborto, il divorzio, la procreazione assistita, le unioni civili, il testamento biologico. La sintonia tra i due poteri forti non è mai apparsa così salda”.



Ecco dunque che forse troviamo una prima risposta ai nostri interrogativi. Ed ecco che comincia a trovare risposta anche la domanda: come mai solo in Italia è potuta passare una battaglia che definire medioevale significa offendere il medioevo, contro il testamento biologico: che non solo non tiene in alcun conto quello che ci dice il più qualificato mondo scientifico, ma va decisamente contro la sensibilità dei cittadini. Una legge dettata, voluta e imposta dal Vaticano, e che ha trovato zelanti e obbedienti zuavi pontifici al Senato, dove tutto c’è stato meno che un embrione di dibattito liberale. Naturalmente mentre in Aula i Gaetano Quagliariello e i Maurizio Gasparri tromboneggiavano di valori etico-morali, poco lontano, nella residenza romana di “papi” cene, dopo-cene, feste e festini con aspiranti veline e aspiranti candidate.



Occorrerà essere più vigili che mai, più che mai capaci di mobilitare e contrastare quello che si annuncia e prepara. Perché, per esempio, tutto quello che sappiamo in questi giorni a proposito delle abitudini private di Berlusconi può determinare una pericolosa accelerazione.

ùMi par di aver capito che in Vaticano non sia granché piaciuto l’editoriale di “Famiglia Cristiana” nel quale si chiedono le dimissioni di Berlusconi. Sembra che il cardinal Bertone, che gestisce i rapporti tra i politici e le autorità italiane sia letteralmente furibondo. E tuttavia dal Vaticano arrivano segnali di maldipancia. Non è un caso se il 19 giungo scorso Ratzinger intervenuto alla Fondazione De Gasperi abbia magnificato la riconosciuta dirittura morale dello statista trentino, “basata su un’indiscussa fedeltà ai valori umani e cristiani, come pure la serena coscienza morale che lo guidò nelle scelte della politica”; ne sono seguite altre analoghe. Critiche che denotano insofferenza e fastidio per comportamenti imbarazzanti del presidente del Consiglio? Chissà. Mi chiedo piuttosto se non siano parole il cui significato è: grazie presidente Berlusconi, per essere venuto di persona a San Giovanni in Laterano per il “Family Day”; grazie per il decreto di gennaio su Eluana. Ma se vuoi che cardinali e vescovi continuino ad appoggiarti, come hanno fatto alle ultime elezioni in Lazio, Sardegna, e ovunque, allora devi fare di più. Perché noi non abbiamo dimenticato, per esempio, che non hai voluto accogliere il nostro suggerimento di affidare la presidenza del Senato a Beppe Pisanu; e tu non devi dimenticare che c’è un cattolico a noi gradito che si chiama Pierferdinando Casini, che potremmo decidere di appoggiare più di quanto già non si faccia.



E dunque ora Berlusconi corre ai ripari: accelerazione della legge sul testamento biologico e il fine vita, in discussione a tappe forzate a Montecitorio, con il ministro Sacconi che annuncia che la legge, nei punti essenziali, non è emendabile (idratazione e alimentazione considerati sostegni vitali e non terapie); e richiesta di udienza in Vaticano, per dare anche una visiva rassicurazione di “obbedienza”.



Sono ormai trascorsi dal Concordato, e il bilancio è avvilente: si impedisce l’introduzione al cosiddetto divorzio breve, anche quando la coppia non ha figli; si è imposta una legge sulla fecondazione artificiale che considera giusto l’impianto di un embrione malato nell’utero della donna, che però è libera qualche settimana dopo di farselo raschiare a norma di legge sull’aborto; per quanto riguarda la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, si è brutalmente scoraggiato il referendum cavalcando l’astensione; e se la legge non è più quella mostruosità che era, lo si deve alla Corte Costituzionale. Si è sabotata in ogni modo una legge sulle coppie di fatto che pure è in vigore in gran parte dei paesi europei e occidentali; le unioni gay hanno subito e subiscono anatemi di ogni tipo; si favorisce, incoraggia ed esalta l’obiezione di coscienza, illegale, alla prescrizione della pillola del giorno dopo; si è scatenata una irresponsabile campagna contro la pillola abortiva Ru-486 in vendita tranquillamente in mezzo mondo…



Questo è il quadro, don Paolo. A questo punto, se l’udienza non c’è, bene. Ma il problema non mi pare tanto cosa possa avere Berlusconi da papa Ratzinger, quanto, piuttosto, che cosa il Vaticano si accinge a chiedere al presidente del Consiglio per continuare a chiudere un occhio, anzi, tutti e due.

motorino radicale
12-07-09, 19:20
Mancato finanziamento cellule staminali embrionali umane. Di chi la responsabilità per quanto accaduto? Ancora una volta mortificata la ricerca scientifica

di N.R.

Le dottoresse Elena Cattaneo, Elisabetta Cerbai e Silvia Garagna ( vedi articolo su “Tutto Scienze” che riportiamo oggi) sollevano una questione su cui è necessario fare il massimo di chiarezza. Perché i casi sono due: o il sottosegretario Ferruccio Fazio dice il falso; oppure a dirlo è il rappresentante della regione Toscana Enrico Rossi.



Una cosa è certa: le cellule staminali embrionali umane sono state escluse dal bando di finanziamento nel campo della biologia delle cellule staminali. Il sottosegretario Fazio sostiene che l’esclusione si deve alle pressioni esercitate dalle Regioni (intervista al “Corriere della Sera”); il rappresentante della regione Toscana lo esclude nel modo più netto e categorico. La dottoressa Cerbai, come si può leggere sull’autorevole “Nature”, inoltre adombra un sospetto grave: che tutto ciò sia “frutto di compromessi avvenuti ad alto livello politico”. Quali compromessi e quale alto livello politico sarebbe opportuno saperlo.



Per questo è augurabile che i ministri interessati forniscano rapida ed esauriente risposta a una interrogazione urgente presentata dai deputati radicali che fa seguito alla presa di posizione di ieri di Maria Antonietta Farina Coscioni, co-presidente dell’associazione Luca Coscioni.



Nell’interrogazione si chiede, tra l’altro, di smentire nel modo più esauriente il sospetto adombrato dalla dottoressa Cerbai, e autorevolmente ripreso dalla rivista “Nature”, sui “compromessi avvenuti ad alto livello politico”; e come si spieghi che una commissione ministeriale abbia inizialmente stilato un bando per i finanziamenti alla ricerca sulle staminali, senza divieti relativi a particolari filoni, e nella stesura finale del testo questi finanziamenti risultano esclusi; chi abbia aggiunto la frase che esclude dai finanziamenti le cellule staminali embrionali; a che titolo, e per quale ragione, lo abbia fatto; chi sia stato informato preventivamente, o successivamente, di detta iniziativa, e perché se ne sia dato l’assenso.

Non si tratta di questioni peregrine o astratte. Purtroppo è l’ennesimo episodio che dimostra come l’Italia sia governata da una “filosofia” retrograda e medioevale, che in nome di un’ideologia mortifica e punisce la libertà di ricerca.

motorino radicale
12-07-09, 19:21
La figuraccia di chi odia le staminali

• da “Tutto Scienze” 8 luglio 2009

di Elena Cattaneo, Elisabetta Cerbai, Silvia Garagna

Immaginate un Paese dove un governo vari un bando pubblico - 8 milioni di euro delle tasse dei contribuenti - per i progetti migliori che sviluppino le conoscenze con cui produrre auto più
ecologiche. Supponiamo che siate esperti di idrogeno e che, leggendo il bando, vi troviate di fronte alla frase: «Sono esclusi i progetti che prevedono l’impiego dell’idrogeno». Senza alcuna spiegazione e soprattutto senza motivazioni giuridiche.



Voi sapete, come lo sanno tutti i vostri colleghi onesti, che quell’esclusione a priori vieta la presentazione di idee perfettamente affini agli obiettivi del bando. Probabilmente non accettereste di subire una simile discriminazione. Non pensereste a un abuso di potere da parte di chi ha elaborato quel bando? Non trovereste ingiusto che ai cittadini venisse precluso di beneficiare al meglio del denaro pubblico? Forse vi chiedereste da chi e perché è stato
escluso l’idrogeno. Sembrerebbe sia stata una Regione, ma resterebbe da capire come mai un
funzionario di un’altra Regione, di quell’ipotetico Paese, abbia dichiarato che «non è vero che
l’esclusione di quelle ricerche dal bando sia stata chiesta dalle Regioni». E non è. finita. Qualcuno deve anche spiegare perché l’esclusione appaia «tecnicamente» credibile. Senza scriverla nel bando, ma solo affidandola agli uomini politici.

«La ricerca sull’idrogeno – dice uno di loro - non ha prodotto vetture ecologiche e non
porterà mai a nulla». A voi non sembra insensato che un politico pretenda di prevedere il futuro della ricerca e, immaginando che ciò sia possibile, che lo possa fare meglio degli
scienziati? Peraltro, sarebbe come se si dicesse che, poiché la ricerca sul cancro non ha ancora
prodotto cure certe e definitive, allora la si deve interrompere.


La situazione sin qui immaginata sta accadendo nella realtà. E, guarda caso, in Italia. Dove è stato pubblicato un bando per la ricerca sulle cellule staminali che esclude progetti che usano staminali embrionali umane. Il cui impiego in ricerca, per meglio conoscere e sperare di curare, è perfettamente legale. Il perché dell’esclusione non è stato spiegato. O meglio, qualcuno racconta bugie ai giornalisti, nascondendo il fatto che ci sono già risultati e ricerche che confutano le loro posizioni preconcette. Ad esempio, tutti sanno che le cellule staminali pluripotenti indotte (iPS), che sono il risultato più rivoluzionario, da decenni a questa parte, della ricerca sulle cellule staminali, derivano proprio dallo studio delle cellule staminali embrionali umane.


Il bando in questione contiene anche una palese contraddizione: afferma l’intenzione di sviluppare le conoscenze sulla biologia delle cellule staminali e contemporaneamente
esclude una tipologia di ricerca che è fonte continua di conoscenza, oltre che strumento già utilizzato per aumentare le possibilità che in futuro si trovino delle cure. Proprio questa
settimana il gruppo di Kenneth Chien del Massachusetts General Hospital ha pubblicato su «Nature» uno studio che, a partire dall’analisi dello sviluppo in vivo delle cellule del cuore, ha cercato di ripercorrere quelle fasi per arrivare a cardiomiociti migliori, usando staminali embrionali umane. Con risultati positivi. Qualcuno domani userà le sue cellule o le sue scoperte per un altro passo avanti, magari partendo da staminali adulte.

A chi scrive pare che questo modo di architettare bandi pubblici rifletta una «lettura politica» dei risultati della scienza. Il che trascina il nostro Paese su una china pericolosa. L’aberrante logica sottesa al divieto in questione è che la ricerca scientifica debba essere indirizzata secondo obiettivi e limiti predefiniti su basi ideologiche, identificati come “criteri etici assoluti”. E’ una logica in contraddizione con il principio espresso dall’articolo 33, comma 1, della Costituzione, il quale, per giurisprudenza consolidata, «va inteso e interpretato nella sua autentica portata, che è quella di consentire (...) alla scienza di esteriorizzarsi, senza subire
orientamenti ed indirizzi univocamente e autoritariamente imposti».

Oggi, l’unica strada aperta e trasparente che ci resta da percorrere è quella del ricorso alla magistratura contro la Conferenza Stato-Regioni, contro il ministero della Salute e contro la Presidenza del consiglio dei ministri. Contro chi, in questo momento e a nostro avviso, non sta rispettando la Costituzione e abusa del potere nell’uso di denaro pubblico. E così esclude l’Italia dal confronto scientifico internazionale. Noi e - se valgono i dati dell’Eurobarometro 2006 - il
60% degli italiani, che approvano la ricerca (legale e utile) sulle staminali embrionali umane, attendiamo l’esito del ricorso al Tar del Lazio.

NOTE

Elena Cattaneo, Elisabetta Cerbai, Silvia Garagna (Università di Milano, Firenze, Pavia)

motorino radicale
12-07-09, 19:21
Interrogazioni parlamentari

di N.R.

I INTERROGAZIONE

Ai ministri della Giustizia; e del Lavoro, della Salute e delle politiche sociali,

premesso che le precarie condizioni igienico sanitarie cui versa la Casa circondariale di Reggio Calabria, hanno indotto i detenuti ad avviare una civile manifestazione di protesta; che da qualche giorno i carcerati rifiutano i pasti che vengono forniti dalla mensa e rinunciano alle ore d’aria giornaliere; che la protesta è volta a sensibilizzare l’Amministrazione carceraria e i rappresentanti politici di ogni livello, affinché vengano stanziate le necessarie risorse economiche occorrenti per realizzare i lavori di restauro all’interno della struttura penitenziaria; che le carceri di Reggio Calabria entrarono in funzione nel 1932, quindi rispecchiano i canoni dell’edilizia penitenziaria dell’epoca, e che la capienza ottimale è di 157 detenuti, quella tollerabile di 244;

per sapere: quali iniziative si intendono promuovere, adottare e sollecitare in relazione alla situazione in cui versa in carcere di Reggio Calabria; e in particolare per garantire condizioni igienico sanitarie adeguate per detenuti e agenti di polizia penitenziaria.



II Interrogazione



Ai ministri della Giustizia; del Lavoro, della Salute e delle politiche sociali, per sapere se siano a conoscenza della denuncia della polizia penitenziaria di Palmi secondo la quale "le condizioni di lavoro" presso la Casa Circondariale di Palmi sono “disastrose”; che gli agenti della polizia penitenziaria protesta al fine di rivendicare alcuni diritti fondamentali, come "il diritto alle ferie e turni di lavoro sostenibili". I turni di lavoro, infatti, secondo quanto riferiscono gli interessati, raggiungono addirittura le 12 ore consecutive. Una conseguenza questa, causata dal fatto che le unità in servizio, nella Casa Circondariale, sono 110 a fronte di 240 detenuti. Da qui le condizioni di "massima insicurezza" in cui versa la struttura. Dopo l’astensione al servizio mensa, del 22 giugno scorso, il corpo di Polizia in servizio, ha organizzato una manifestazione di protesta davanti al Palazzo di Giustizia di Palmi, il 26 giugno, in occasione della Festa Provinciale del Corpo;

per conoscere quali iniziative si intendono promuovere, adottare e sollecitare a fronte di una situazione di massima insicurezza che rischia di degenerare, se non ci si preoccuperà di dare rapide e adeguate risposte.



III Interrogazione



Ai ministri della Giustizia; del Lavoro, della Salute e delle politiche sociali, per sapere se siano a conoscenza che il segretario generale della UIL Pa Penitenziari Eugenio Sarno, al termine della visita effettuata il 1 luglio 2009 alla Casa Circondariale di Milano S.Vittore, assieme ad Angelo Urso della segreteria nazionale e Pasquale Toto, responsabile locale della UIL Penitenziari, ha dichiarato che "le condizioni che abbiamo riscontrato contribuiscono ad annientare la persona umana e non solo la dignità di essa. Credo che San Vittore rappresenti il livello più basso del disastrato sistema penitenziario e può essere eletta a vergogna nazionale. Nei reparti già ristrutturati le condizioni sono ai limiti della legalità. Nel VI raggio, non ancora ristrutturato, le condizioni sono pessime e indegne. In tutto l’istituto le persone sono ammassate nelle celle. Viene, quindi, negato lo spazio fisico e l’unica posizione possibile quando si è in cella è quella orizzontale da stesi sul letto. Analogamente i poliziotti penitenziari sono costretti quotidianamente a lavorare in ambienti insalubri e insicuri a contatto con la disperazione, il dolore e la bruttura che alimentano le aggressività e fomentano le tensioni";

che all’aumento esponenziale dei detenuti corrisponde un proporzionale depauperamento degli organici. A San Vittore sono chiusi due reparti (II e IV raggio) per cui la massima ricettività dovrebbe essere di circa 780 posti. Al 2 luglio 2009 invece i detenuti presenti a San Vittore assommavano a 1.610 (1.503 uomini e 107 donne). I detenuti stranieri sono a 976 (937 uomini e 39 donne). I detenuti con condanna definitiva sono pari a 297 (264 uomini e 33 donne) in attesa di condanna definitiva sono 1313 (1.239 uomini e 74 donne). I numeri della Polizia Penitenziaria sono ancora più allarmanti. A fronte di circa 1.000 unità assegnate ne risultano presenti circa 620 per i servizi d’istituto e 160 per il servizio traduzioni, circa 200 sono le unità distaccate in altre sedi.

"Quanto abbiamo potuto accertare”, ha dichiarato il dottor Sarno, “sarà oggetto di comunicazione con i responsabili del Dipartimento, pur consapevoli che nell’immobilismo che contraddistingue il Dap nessuno, probabilmente, troverà il tempo e la voglia di leggere le nostre denunce. Meno che mai di trovare soluzioni. Non posso, quindi, biasimare chi riferendosi a San Vittore ha parlato di degrado, vergogna e persino di torture".

Per sapere quali urgenti iniziative si intendono promuovere, adottare e sollecitare a fronte della gravissima situazione in cui versa il carcere milanese di San Vittore.



IV INTERROGAZIONE



Ai ministri della Giustizia; e del Lavoro, della Salute e delle politiche sociali, per sapere se siano a conoscenza del contenuto del dossier “Morire in carcere” curato da Francesco Morelli per conto dell’associazione “Ristretti orizzonti”;

in detto dossier si documenta come i primi sei mesi dell'anno 2009 si chiudono con un bilancio da "bollettino di guerra" per le carceri italiane: in 181 giorni sono morti 89 detenuti (1 ogni 2 giorni, in media) e 34 di loro si sono suicidati;

che in 10 anni (2000-2009) i "morti di carcere" sono stati 1.449. Nello stesso periodo i detenuti suicidi sono stati 514, con un massimo storico nel 2001 (69 casi), che quest'anno "rischia" anch'esso di essere oltrepassato;

che la portata del dramma che quotidianamente si consuma nelle nostre prigioni si comprende meglio guardando oltre le statistiche, per capire chi sono questi detenuti e come muoiono: Vincenzo Nappo, si è ucciso il 9 giugno: era internato nell'Opg di Aversa e affetto da un grave tumore che lo aveva molto debilitato;

Anna Nuvoloni, seminferma di mente, rinchiusa nel reparto "Casa di Cura e Custodia" del carcere di Sollicciano, è morta (sembra) soffocata da una mozzarella (!?). Aveva 40 anni e doveva essere scarcerata a fine luglio;

altre vicende "al limite" nelle carceri di Poggioreale a Napoli, e di Benevento, dove sono morti per "cause naturali" due detenuti coetanei: entrambi avevano 79 anni e, gravemente ammalati, da tempo chiedevano una misura alternativa alla detenzione, per potersi curare... o anche solo per "morire liberi".

Per sapere per quale ragione il signor Vincenzo Nappo è rimasto chiuso in carcere nell’Opg di Aversa, nelle sue condizioni di salute;

per quale ragione la signora Anna Nuvolosi, seminferma di mente, è rimasta rinchiusa nel carcere di Sollicciano, nelle sue condizioni di salute;

per quali ragioni sono rimaste rinchiusi nelle carceri di Poggioreale a Napoli e di Benevento i due detenuti morti “per cause naturali” due detenuti 79enni, gravemente ammalati e che da tempo avevano chiesto una misura alternativa alla detenzione;

per sapere inoltre a proposito dei detenuti morti nelle carceri italiane nel 2009, e di cui si fornisce l’elenco in ordine cronologico:



Nome e cognome


Età


Data morte


Causa morte


Istituto

Aziz, marocchino


34 anni


03 gennaio 2009


Suicidio


Spoleto

Salvatore Mignone


37 anni


04 gennaio 2009


Omicidio


Secondigliano (Na)

Rocco Lo Presti


72 anni


24 gennaio 2009


Da accertare


Torino

Detenuto croato


37 anni


26 gennaio 2009


Suicidio


Poggioreale (Na)

Francesco Lo Bianco


28 anni


27 gennaio 2009


Da accertare


Ucciardone (Pa)

M.B., detenuto italiano


60 anni


30 gennaio 2009


Suicidio


Sollicciano (Fi)

Gaetano Sorice


38 anni


31 gennaio 2009


Overdose


Teramo (scarcerato)

Vincenzo Sepe


54 anni


01 marzo 2009


Suicidio


Bellizzi Irpino (AV)

Mohamed, marocchino


26 anni


06 marzo 2009


Suicidio


S.M. Maggiore (VE)

Leonardo Di Modugno


25 anni


08 marzo 2009


Suicidio


Foggia

Giuliano D., italiano


24 anni


08 marzo 2009


Suicidio


Velletri (RM)

Giancarlo Monni


35 anni


09 marzo 2009


Malattia


Cagliari

Detenuto italiano


37 anni


16 marzo 2009


Suicidio


Poggioreale (NA)

Jed Zarog


30 anni


17 marzo 2009


Suicidio


C.C. di Padova

Detenuto algerino


42 anni


19 marzo 2009


Da accertare


C.I.E. di Roma

Marcello Russo


38 anni


22 marzo 2009


Suicidio


Voghera (PV)

Francesco Esposito


27 anni


27 marzo 2009


Suicidio


Poggioreale (NA)

Carmelo Castro


20 anni


27 marzo 2009


Suicidio


Piazza Lanza (CT)

Gianclaudio Arbola


43 anni


31 marzo 2009


Suicidio


Marsala (TP)

Detenuto tunisino


28 anni


13 aprile 2009


Suicidio


Pisa

Andrei Zgonnikov


47 anni


16 aprile 2009


Suicidio


Salerno

Antonino Saladino


57 anni


20 aprile 2009


Suicidio


Viterbo

Daniele Topi


37 anni


21 aprile 2009


Suicidio


Rimini

Ihssane Fakhreddine


30 anni


24 aprile 2009


Da accertare


Firenze

Franco Fuschi


63 anni


26 aprile 2009


Suicidio


Alessandria

Graziano Iorio


41 anni


1 maggio 2009


Suicidio


Poggioreale (Na)

Ion Vassiliu


21 anni


1 maggio 2009


Suicidio


Pisa

Nabruka Mimuni


44 anni


7 maggio 2009


Suicidio


Roma (C.I.E.)

L.P., detenuto italiano


27 anni


15 maggio 2009


Da accertare


Campobasso

Detenuto marocchino


30 anni


15 maggio 2009


Da accertare


C.C. Padova

Detenuto marocchino


25 anni


19 maggio 2009


Suicidio


Bergamo

Samir Mesbah


36 anni


27 maggio 2009


Suicidio


Firenze

Detenuto italiano


40 anni


30 maggio 2009


Malattia


Terni

Vincenzo Nappo


43 anni


09 giugno 2009


Suicidio


Opg Aversa (Ce)

Detenuto italiano


79 anni


09 giugno 2009


Malattia


Secondigliano (Na)

Antonio Chiaranza


32 anni


10 giugno 2009


Suicidio


Crotone

Anna Nuvoloni


40 anni


11 giugno 2009


Da accertare


Sollicciano (Fi)

Charles Omofowan


32 anni


14 giugno 2009


Malattia


Lanciano (Ch)

Rino Gerardi


38 anni


16 giugno 2009


Da accertare


Venezia S.M.M.

Detenuto marocchino


30 anni


18 giugno 2009


Suicidio


Brindisi (Caserma)

Detenuta italiana


35 anni


21 giugno 2009


Suicidio


Civitavecchia (Rm)

Detenuto indiano


30 anni


21 giugno 2009


Suicidio


Vercelli

G.Z. (Assistente P.P.)


43 anni


21 giugno 2009


Suicidio


S.M. Capua V. (Ce)

Khalid Husayn


79 anni


21 giugno 2009


Malattia


Benevento



Quali di questi detenuti erano in attesa di giudizio; per quale reato erano detenuti; quando erano stati arrestati. Dei detenuti condannati in sede definitiva, per quale reato erano stati condannati; da quanto tempo si trovavano in carcere; quando sarebbero stati scarcerati.



V INTERROGAZIONE QUESTA ATTENZIONE (E QUELLA ANCHE DI CERTI DIRITTI)



Ai ministri dell’Interno; e delle Pari opportunità,

per sapere se siano a conoscenza di quanto pubblicato dal settimanale “L’Espresso” in data 9 luglio 2009 nell’articolo “L’agente è gay? Va punita”, a firma del giornalista Paolo Tessadri;

in particolare, nell’articolo si sostiene che la signora Luana Zanaga, di Rovigo, in forza alla polizia patavina, ha ricevuto una lettera del questore di Padova Luigi Savina, in cui la si informava dell’avvio della pratica per la sua destituzione dalla polizia;

che la signora Zanaga “nei mesi passati ha fatto coming out, rivelando pubblicamente la sua omosessualità. E da ottobre dello scorso anno, da quando ha reso pubblica la sua tendenza sessuale, per lei è cominciato un calvario. Dapprima è stata “processata” da una commissione di disciplina, che ha proposto di punirla con una sospensione dal servizio “fino a sei mesi”. Ma ora, forse, non farà nemmeno in tempo a scontare quella sanzione, perché è arrivata la nuova tegola: la destituzione. Che nei fatti significa licenziamento. Il questore Savina nega che nel provvedimento si parli di licenziamento, ma non dice quale punizione intende affliggere all’agente Zanaga. Infatti con la lettera si è solo avviata la pratica di contestazione degli addebiti, mentre i provvedimenti adottati verranno resi noti solo successivamente. A parlare apertamente di destituzione è invece il funzionario incaricato di seguire il caso per conto del questore. E Savina infatti scrive che non è più sufficiente la sola “deplorazione” con la conseguente sospensione. D’altra parte in questi giorni Luana Zanaga si è anche sentita rivolgere l’accusa di essere pericolosa. Perché come è scritto espressamente nella lettera del questore Savina, alla fine di maggio ha rilasciato dichiarazioni senza autorizzazione a “L’Espresso” riportate nell’articolo “Agente gay a rapporto”, e poi riprese dal sito “Dagospia”. Nell’articolo l’agente gay diceva di vivere in un ambiente omofonico, di aver subito il mobbing e si essere stata sottoposta a vessazioni. Come successe anni fa, quando la costrinsero ad andare dal medico per attestarne l’idoneità visto che era omosessuale. “Mi chiedevano se stavo bene con la mia omosessualità e io rispondevo che stavo benissimo”, accennava nell’articolo. Per il capo della questura di Padova queste accuse sono fortemente denigratorie e portano discredito alla Polizia. Nessun cenno invece, nella lettera, agli altri giornali, riviste e TV che hanno riferito della poliziotta. O alla solidarietà manifestatele dal presidente della Camera, Gianfranco Fini. Pubblicazioni uscite nello stesso periodo e anche successivamente. Più che per le dichiarazioni dell’agente Zanaga viene il sospetto che l’infrazione più grave sia aver parlato con il nostro giornale. Invece di approfondire e verificare le accuse della poliziotta sull’ambiente omofonico, si preferisce rimuovere chi solleva dubbi e parla di discriminazioni. Nessuno infatti ha chiesto all’agente di portare le prove delle sue accuse. Una denuncia, la sua, circostanziata, precisa e grave, come nel caso dei due poliziotti che le scrissero che doveva “bruciare in un lager”. Dunque non c’è stato accertamento della verità, ma è comunque in arrivo una punizione esemplare perché ha parlato. Così Luana Zanaga rischia di veder svanire il sogno di una vita, cioè fare la poliziotta, solo perché difende e rivendica la propria sessualità;

per sapere se il contenuto dell’articolo pubblicato da “L’Espresso” e qui riportato, corrisponde a verità;

quale sia l’opinione dei ministri in relazione a quanto sopra esposto;

se non ritenga gravemente discriminatorio e inaccettabile che una persona possa subire un licenziamento a causa delle sue preferenze sessuali;

se non si ritenga di dover promuovere un’inchiesta amministrativa per accertare la fondatezza delle denunce dell’agente Luana Zanaga a proposito di mobbing e vessazioni subite.



VI INTERROGAZIONE



Al ministro della Giustizia, per sapere se sia a conoscenza che il carcere di Villalba, struttura per 140 detenuti (32 celle a due posti, servizi igienici e docce annesse, la cucina per 250 pasti, la lavanderia, la mensa e spazi verdi per i detenuti nonché padiglioni per gli uffici e gli alloggi del personale), inaugurata vent’anni fa e costata all’epoca 8 miliardi di lire, è chiusa dal 1990;

per conoscere inoltre le ragioni per cui da ben diciannove anni la struttura non viene utilizzata.

motorino radicale
12-07-09, 19:22
Testamento biologico-cure palliative: le manovrine notturne

di Maria Antonietta Farina Coscioni

Hanno approfittato del fatto che l’attenzione è concentrata sui lavori del G8 dell’Aquila, e di notte, nel chiuso di una commissione parlamentare, quella Affari sociali della Camera, la maggioranza di centro-destra ha tentato l’ennesimo colpo di mano. Come anticipato in un’intervista su “L’Avvenire” del 19 giugno scorso, il ministro della Salute Maurizio Sacconi conferma la volontà del governo di procedere a tappe forzate per quel che riguarda la legge sul testamento biologico; e questo senza che prima sia stato approvato il provvedimento in materia di terapie del dolore e cure palliative, come era stato concordato. Ancora una volta si viene meno alla parola data. Sacconi ha inoltre fatto sapere che, in dispregio alle obiezioni che da tanta parte dello stesso centro destra si sono levate, il governo non intende negoziare in alcun modo questioni come idratazione e alimentazione, considerati sostegni vitali e non terapie.

Un’accelerazione che si spiega con il fatto che per il presidente del consiglio è vitale riguadagnare credito presso le gerarchie vaticane, dopo le ripetute ed esplicite critiche per i suoi comportamenti "privati"; si cerca insomma di recuperare la fiducia incrinata anche varando norme come quella sul testamento biologico: una legge medioevale e retrograda, che non esiste in nessun altro paese europeo, non tiene in alcun modo conto della volontà del paziente, e contraddice il principio di libertà di cura uno dei capisaldi della bioetica liberale - chiaramente espresso nell’articolo 22 della Costituzione, là dove si afferma che «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in ogni caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

È questo il "dono" che Berlusconi intende portare a papa Ratzinger, nell udienza che si dice abbia chiesto e che forse otterrà?



Noi radicali e associazione Luca Coscioni per la libertà della ricerca, non ci daremo per vinti; contrasteremo queste manovre con tutti gli strumenti a nostra disposizione, e mi auguro che dal centro-sinistra come dal centro-destra quanti hanno annunciato la loro contrarietà a questa legge da «Stato etico» (come l’ha definita il presidente della Camera Gianfranco Fini), sappiano dare voce, corpo e sostanza, a quelle politiche laiche e liberali che il Paese invoca. Cari amici e compagni di “Terra”, abbiamo bisogno del vostro aiuto: dobbiamo spezzare la spessa cortina di silenzio su queste vicende; l’opinione pubblica va informata di quello che si sta facendo, di nascosto, senza dibattito e confronto a Montecitorio. Sono decisioni, leggi che riguarderanno tutti.

motorino radicale
12-07-09, 19:23
Biopolitica, sfida cruciale di questo millennio

di Francesco Pullia

Un mostro, scaturito dal preconcetto della presunta centralità dell’uomo nell’ecosistema, continua ad aggirarsi nel mondo producendo un indice maggiore di barbarie, devastazione, scempio di vite di quanto sia stato causato nel secolo scorso dalle ideologie totalitarie.

Questo mostro si chiama specismo, è l’ultimo e il più odioso dei razzismi e sta alla base di un massacro quotidiano di esseri che ipocritamente si finge di ignorare.



Le odierne Dachau, Auschwitz, Treblinka sono meglio camuffate dei campi di concentramento novecenteschi in cui si incenerivano i corpi dei deportati ma, in termini di crudeltà e volontà di sterminio, non sono affatto dissimili. Si occultano dietro il sistema degli allevamenti intensivi, dei laboratori in cui la scienza è ingannata, vilipesa, negata da inutili pratiche di sadismo organizzato, del commercio di animali, dell’industria legata all’esercizio venatorio.



Schiavizzato, mercificato, schernito, degradato in nome dell’assolutismo antropocentrico, l’animale, ogni animale, sconta di fatto l’arbitraria imputazione d’essere depositario, rispetto all’uomo, di una radicale differenza ontologica e, pertanto, viene a bella posta considerato come assoggettato al vorace dominio umano, vittima designata del nichilismo calcolatore, cinicamente razionalista, che precariamente si regge su teologie prevaricatrici.



Lo specismo antropocentrico è il principale responsabile del genocidio animale, di una violazione generalizzata altrimenti detta ecocidio che, volenti o nolenti, interpella e coinvolge lo stesso statuto dell’uomo.



Già oltre dieci anni fa, Norberto Bobbio si domandava se i “dibattiti, sempre più frequenti ed estesi, riguardanti la liceità della caccia, i limiti della vivisezione, la protezione di specie animali diventate sempre più rare, il vegetarianesimo” non costituissero “avvisaglie di una possibile estensione del principio di eguaglianza al di là addirittura dei confini del genere umano, un'estensione fondata sulla consapevolezza che gli animali sono eguali a noi uomini, per lo meno nella capacità di soffrire”. Lo stesso filosofo aveva, poi, auspicato la nascita di un “grandioso movimento storico” capace di “alzare la testa dalle schermaglie quotidiane e guardare più in alto e più lontano”. E, molto prima, Aldo Capitini invitava a vedere in ogni essere l'inizio di un’apertura e di ulteriori possibilità.



Oggi il pensiero non può più prescindere da una prospettiva olistica, non può eludere cioè la consapevolezza dell’interdipendenza, dell’interrelazione che nel pianeta lega ogni aspetto della vita.



Se è vero che il battito d'ali di una farfalla nella foresta amazzonica può ripercuotersi nell'altra parte del mondo e che la scomparsa di qualsiasi specie è un colpo inferto all’intero ecosistema terrestre, allora non si può più parlare di geopolitica se non come sfaccettatura della biopolitica.



E’ nel bios e dal bios che si prefigura la sfida del ventunesimo secolo e tale sfida comporta, innanzitutto, l’estensione dei diritti dall’ambito (specista, maledettamente specista) umano a quello animale. L’ecologismo deve cedere posto all’ecosofismo, il logos (connesso minacciosamente al suffisso della -kratia, del dominio) alla sofia.



La politica è chiamata a farsi strumento di traduzione ecosofica. Un pensiero verde è inadeguato al presente se non si fa ecosofico, se non intercetta il passaggio dal geo- al bio-. La stessa geografia si fa biografia.



Dobbiamo uscire dalla supremazia dell’umano, valutare le infinite implicazioni prodotte dalla decostruzione della più grave impostura formatasi nel corso della storia di cui sono egualmente responsabili le teologie (il logos, subdolamente, torna sempre, da assassino incallito, nel luogo del delitto) e il razionalismo cartesiano. Le prime e il secondo convergevano, infatti, nell’assolutizzare l’uomo a scapito degli altri viventi. Adesso non è più così.



I segnali di allarme, attraverso la diffusione di diverse epidemie, sono stati lanciati. L’uomo da artefice di dissesto e squilibrio epocale si ritrova tassello del multiforme ingranaggio della complessità. E non è paradossale se proprio l’animale, il vivente scartato, relegato alla marginalità, si faccia depositario di quell’umanità dispersa dall’uomo nei meandri della crudeltà. La lotta, iniziata da tempo, è nella fase cruciale. Tertium non datur: o la violenza antropocentrica o la nonviolenza ecosofica. Noi abbiamo scelto. Il mostro ha i giorni contati. Il pianeta si prepari a tirare un respiro di sollievo.

motorino radicale
12-07-09, 19:23
Una donna, 27 anni, madre di un bambino, morta a Sollicciano...

• da “Il Foglio”

di Adriano Sofri

“Una donna di 27, madre d un bambino, detenuta per piccoli reati legati alla tossicodipendenza, è morta lunedì in cella a Sollicciano, Firenze. Dall’istituto si spiega che non si tratta di morte violenta o suicidio: si pensa a un malore. Al vaglio direrse ipotesi, compresa quella che la donna possa aver sniffato gas da un fornellino”. Così il breve articolo della Repubblica fiorentina di ieri. Ancora l’articolo: “Talvolta i detenuti sniffano il gas dei fornellini da campeggio per stordirsi...”. Leggevo, e mi è venuto in mente l’Albatro: “”Sovene, per trastullo, gli uomini d’equipaggio fan prigioniero un albatro...”. Le detenute di Sollicciano, informa Franco Corleone, sono 103 e con loro sette bambini. La notizia a suo modo è completa di tutto: una giovane donna, madre di un bambino, futili reati, tossicodipendenza trattata a forza di galera, forse il gas aspirato dalla bomboletta. Ah no, per perfezionarla mancava la richiesta di qualche sindacato di polizia penitenziaria, che venisse vietato l’uso dei fornelletti da campeggio nelle celle. Non l’uso delle celle per le giovani madri tossicodipendenti da piccoli reati, ma l’uso dei fornelletti a gas. Cioé la possibilità di farsi il caffé. Ecco: ora la notizia è perfetta.

motorino radicale
12-07-09, 19:24
Carceri: sull’orlo dell’abisso

di Valter Vecellio

Il flash d’agenzia avrebbe dovuto far sobbalzare dalla sedia; ha invece conquistato qualche riga sui giornali, poco più di un trafiletto-“riempitivo”. La notizia è questa: il carcere di San Vittore a Milano, “oggi rappresenta una vergogna nazionale, un istituto penitenziario non degno di un paese civile come l’Italia”. La denuncia viene dal segretario generale della UIL PA Penitenziari Eugenio Sarno, dopo una visita nel carcere milanese: “In celle pensate per una persona, ne trovano ospitalità sei, in celle da tre ne sono stipati otto-dieci. Spesso l’unica posizione consentita è quella orizzontale, stesi sui letti. Mancano gli spazi fisici. La struttura è obsoleta e fatiscente...Il personale è costretto a lavorare in condizioni pessime, e ogni giorno aumentano le tensioni e i rischi di rivolta”.



Se è vero quello che insegna Voltaire, che la qualità della civiltà di un paese si misura dalle condizioni delle sue carceri, l’Italia è un paese che ha di molto superato la soglia della barbarie. Venezia: quattro detenuti nelle celle “singole”, fino a otto, i detenuti stipati in quelle che ne dovrebbero ospitare tre.

Sanremo: carcere super-affollato: 320 detenuti in 209 posti.

Verbania: mancano gli agenti; pregiudicati i “lavori sociali” dei detenuti.

Siena: nelle carceri organici ridotti all’osso, sicurezza a rischio.

Padova: nel carcere “Due Palazzi” c’è l’allarme scarafaggi.

Sicilia: il Garante dei detenuti della regione Sicilia denuncia: nelle carceri dell’isola la situazione è drammatica.

Campania: l’Osservatorio sulle condizioni di detenzione denuncia che in un solo giorno sono morti due detenuti.

Aversa: un detenuto di 43 anni si impicca all’OpG di Aversa.

Palermo: al carcere dell’Ucciardone per i colloqui, i parenti fanno anche dieci ore di attesa.

Crotone: un detenuto di 32 anni si toglie la vita, era in carcere da una settimana.

Venezia: emergenza sanità, c’è un solo medico e per tre ore al giorno.

Brindisi: agenti penitenziari protestano, l’organico è insufficiente.

Roma: il segretario della UIL PA Penitenziari Eugenio Sarno denuncia: carceri verso il disastro. Il DAP silente e immobile.

San Gimignano (SI): sit in di protesta della polizia penitenziaria.

Sulmona: psicologi carcerari in piazza: situazione insostenibile.

Busto Arsizio: i rappresentanti della Polizia Penitenziaria denuncia: dietro le sbarre, l’emergenza è una quotidianità.

Milano: anche all’istituto per minorenni “Cesare Beccaria” è emergenza: 540 i ragazzi stipati in celle che ne dovrebbero ospitare 400.

Roma: il garante dei detenuti della regione Lazio denuncia: pochi agenti, quindi il nuovo carcere di Rieti non apre.

Palermo: il garante dei detenuti della regione Sicilia denuncia: il carcere della Favignana è disumano.

Ravenna: il sovraffollamento è del 300 per cento: 60 i posti disponibili, 180 i detenuti.

Viterbo: contro il sovraffollamento, sit in della polizia penitenziaria.

Trentino: nelle carceri il 30 per cento di detenuti in più della capienza.

Tolmezzo: i detenuti sono 293, un centinaio più della capienza del carcere.

Viterbo: un detenuto tenta il suicidio tagliandosi la gola.

Napoli: nel carcere di Poggioreale, il più affollato d’Europa, 2700 detenuti sono stipati in celle che ne dovrebbero ospitare non più di 1300.

Sassari: ai detenuti fanno compagnia i topi, che escono dai cessi alla turca. “Noi e i topi”, raccontano i detenuti, “restiamo chiusi in quella cella per 22 ore al giorno”.

Bolzano: i detenuti occupano praticamente tutto lo spazio disponibile del carcere. In un’unica cella stipati fino a dodici detenuti.

Roma: nel carcere di Regina Coeli si dorme per terra su materassi di fortuna.

Palermo: carcere dell’Ucciardone: i posti letto sono 378, ma i detenuti nel 2008 sono arrivati a essere anche 718 detenuti. In alcune celle da quattro, dormono in dodici, in grappoli di quattro letti a castello. Per dormire si fanno i turni tra il giorno e la notte. I bagni alla turca sono spesso tappati con bottiglioni di vetri, per evitare che i topi che escono dalle fognature fatiscenti invadano le celle.



Ognuno di questi episodi corrisponde una dettagliata interrogazione presentata dai parlamentari radicali e del PD ai ministri della Giustizia Angiolino Alfano, e della Salute Maurizio Sacconi. Cosa si sta facendo, cosa si vuole fare, cosa si è fatto? L’impressione è che al di là delle promesse e delle assicurazioni, si confidi nella “buona sorte”, nel proverbiale “stellone”.



E’ una verità sgradevole, ma la situazione è tale che occorrerebbe un nuovo indulto, accompagnato questa volta da quell’amnistia che sciaguratamente non si è voluta fare. E poi quel programma riformatore di respiro fatto di pene alternative al carcere e depenalizzazione, che non si è saputo, voluto, potuto approntare quando venne varato il primo indulto (che, peraltro, come documentano cifre e rapporti ufficiali non ha provocato gli sfracelli evocati dalla destra).



Non è questione di essere tolleranti e condiscendenti verso chi delinque; il problema è che nel momento in cui lo Stato priva della libertà uno dei suoi cittadini, più che mai si fa garante della sua incolumità, della sua salute. Nelle carceri italiane si sconta un supplemento di pena, oltre alla detenzione in quanto tale; nelle carceri italiane ci si uccide per disperazione dopo pochi giorni di detenzione, ci si ammala, si vive in condizioni vergognose; detenuti e agenti di polizia penitenziaria. Non solo: c’è un amarissimo paradosso: quel minimo (davvero minimo) dato di efficienza nei tribunali e nelle carceri, deriva dalla sostanziale inefficienza del sistema.



Immaginiamo per un momento che quel 90 per cento di reati rimasti impuniti sia invece punito e si trovi un colpevole; supponiamo che i magistrati riescano a istruire e a celebrare i processi, invece di lasciarli accatastati cibo per topi “amnistiati” per prescrizione; supponiamo che finalmente in carcere ci vada chi deve andarci…Bel sogno, vero? Che dopo appena qualche minuto si trasformerebbe in un incubo, perché l’intero sistema salterebbe: troppi detenuti, molti di più degli oltre sessantamila detenuti attuali. Oppure immaginiamo che cosa sarebbero oggi le carceri se non si fosse varato l’indulto.



A queste domande il ministro della Giustizia Angiolino Alfano non risponde, per la semplice ragione che non ha una risposta, non ha una politica. Si continua a ciancicare di sicurezza, ordine pubblico, certezza della pena, necessità di caccia all’immigrato da punire se clandestino in quanto tale, e non per quello che fa o ha fatto. E poi ci si siede tranquillamente, sull’orlo dell’abisso.

motorino radicale
16-07-09, 12:46
Sempre più drammatica la situazione nelle carceri italiane. Da Viterbo a Modena, di Ferrara a Padova è ormai “ordinaria” emergenza

di Valter Vecellio

Nelle carceri ci si uccide per disperazione dopo pochi giorni di detenzione, ci si ammala; detenuti e agenti di polizia penitenziaria vivono e lavorano in condizioni vergognose. Francesco Morelli, per conto dell’associazione “Ristretti orizzonti” ha curato un dettagliato dossier. I primi sei mesi dell'anno 2009 si chiudono con un bilancio da "bollettino di guerra" in 181 giorni sono morti 89 detenuti (1 ogni 2 giorni, in media) e 34 di loro si sono suicidati; in 10 anni (2000-2009) i "morti di carcere" sono stati 1.449. Nello stesso periodo i detenuti suicidi sono stati 514, con un massimo storico nel 2001 (69 casi), che quest'anno "rischia" anch'esso di essere oltrepassato.



La portata del dramma che quotidianamente si consuma nelle nostre prigioni si comprende meglio guardando oltre le statistiche, per capire chi sono questi detenuti e come muoiono: Vincenzo Nappo, si è ucciso il 9 giugno: era internato nell'Opg di Aversa e affetto da un grave tumore che lo aveva molto debilitato; Anna Nuvoloni, seminferma di mente, rinchiusa nel reparto "Casa di Cura e Custodia" del carcere di Sollicciano, è morta (sembra) soffocata da una mozzarella (!?). Aveva 40 anni e doveva essere scarcerata a fine luglio; altre vicende "al limite" nelle carceri di Poggioreale a Napoli, e di Benevento, dove sono morti per "cause naturali" due detenuti coetanei: entrambi avevano 79 anni e, gravemente ammalati, da tempo chiedevano una misura alternativa alla detenzione, per potersi curare... o anche solo per "morire liberi".



Non è questione di essere tolleranti e condiscendenti verso chi delinque; il problema è che nel momento in cui lo Stato priva della libertà uno dei suoi cittadini, più che mai si fa garante della sua incolumità, della sua salute. Nelle carceri italiane si sconta un supplemento di pena, oltre alla detenzione in quanto tale; nelle carceri italiane ci si uccide per disperazione dopo pochi giorni di detenzione, ci si ammala, si vive in condizioni vergognose; detenuti e agenti di polizia penitenziaria. Non solo: c’è un amarissimo paradosso: quel minimo (davvero minimo) dato di efficienza nei tribunali e nelle carceri, deriva dalla sostanziale inefficienza del sistema.



A queste domande il ministro della Giustizia Angiolino Alfano non risponde, per la semplice ragione che non ha una risposta, non ha una politica. Si continua a ciancicare di sicurezza, ordine pubblico, certezza della pena, necessità di caccia all’immigrato da punire se clandestino in quanto tale, e non per quello che fa o ha fatto. Le chiacchiere però stanno a zero.



Si vada a Viterbo, carcere di Mammagialla, per esempio. La situazione viene definita “allarmante”. Mancano oltre 140 unità di polizia penitenziaria e sono circa trentina gli agenti distaccati in altra sede. Per contro, il numero dei detenuti ha raggiunto livelli mai toccati in precedenza: più di 670 carcerati, tra cui tanti extracomunitari e tossicodipendenti, molti con problemi psichiatrici. Non mancano detenuti sottoposti a regime penitenziario 41 bis e 416 bis.



A Modena l’allarme lo lancia il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna Francesco Misto: "A Modena i detenuti dormono anche nella cappella". Maisto, in particolare, parla di polizia penitenziaria allo stremo delle forze e sfiduciata, di assistenti sociali in via di estinzione, perché pochi e ormai anziani, di risorse che mancano. Infine un dato: il sovraffollamento in Emilia Romagna ha raggiunto il 198%; è la regione con il più alto tasso di presenza in carcere.



Critica anche la situazione nella vicina Ferrara. Secondo gli ultimi dati, attualmente i detenuti sono 545 contro una capienza di 235 posti o di 440 "tollerati" in quanto in una cella invece di una persona si è autorizzati a ospitarne due. Fra ispettori, sovrintendenti, agenti e assistenti invece, svolgono il proprio ruolo 160 dipendenti che in questo periodo, come del resto in quasi tutte le case circondariali d’Italia, stanno veramente dando di più di quanto previsto dalla normativa vigente: turni che dalle sei ore previste, arrivano sicuramente ad 8 - 10 al giorno per coprire le necessità della struttura e degli ospiti in un superlavoro che non rientra certamente nella normalità. "Ci vorrebbero 20 agenti in più - sono le richieste ufficiali - e più fondi per gestire al meglio la presenza dei reclusi. Mancano infatti le docce e in un periodo caldo come l’estate l’esigenza non è solo logistica ma di ordine igienico; tante altre sono poi le problematiche che si aggiungono, molte delle quali proprio relative all’elevato numero delle presenze".



Al carcere di Perugia-Capanne, finalmente, entrerà in funzione una nuova Sezione, si prevedono arrivi per circa 200 detenuti; nuovi arrivi che determineranno un ulteriore sovraffollamento. Ma questo significherà un nuovo sovraffollamento. Inoltre c’è il problema del personale sia allo stato attuale, che in previsione dell’ampliamento dell’organico pari a 40 unità, fortemente sottodimensionato.



Insostenibile la situazione a Padova. Attualmente sono rinchiusi 231 detenuti,più del doppio rispetto alla capienza regolamentare: otto, nove persone in celle da sei. Celle dove non c’è nemmeno lo spazio per stare in piedi tutti insieme e i reclusi devono farlo a turno.



A queste “domande” il ministro della Giustizia Angiolino Alfano non risponde, per la semplice ragione che non ha una risposta, non ha una politica. Si continua a ciancicare di sicurezza, ordine pubblico, certezza della pena, necessità di caccia all’immigrato da punire se clandestino in quanto tale, e non per quello che fa o ha fatto. Le chiacchiere però stanno a zero.

motorino radicale
16-07-09, 12:47
Crescita demografica. Un G8 da riconvertire

• da “Terra”

di Elisabetta Zamparutti

Lascia a dir poco interdetti che in un summit in cui per giorni si è parlato di fame nel mondo, clima, pace, sicurezza ed economia la questione “crescita demografica” sia stata letteralmente tabù.



Eppure si può essere o meno d’accordo sul global warming, ma un dato incontrovertibile è che l’umanità è passata dal miliardo e mezzo dell’inizio del secolo scorso ai 6,5 miliardi individui di oggi, con prospettive di crescita al ritmo quanto meno degli attuali 60 milioni l’anno. Questa è la vera insostenibilità del pianeta, la vera minaccia alla pace e alla sicurezza ed è assolutamente irresponsabile ignorarlo.



Così come, di fronte a questa crescita esponenziale che di tutta evidenza pregiudica la assoluta certezza di continui rifornimenti da fonti fossili a partire da quelle petrolifere, è un dato di fatto che la vera sfida ormai è quella tecnologica.



Si tratta di decidere se continuare a produrre secondo l’attuale sistema da fonti fossili o passare alle rinnovabili e a produzioni che puntino prioritariamente sull’efficienza energetica. Anche se questo punto di vita, il G8 ha evidenziato drammatici limiti con l’inadeguatezza degli stessi paesi sviluppati a liberarsi degli attuali assetti produttivi – che comportano anche precisi legami geopolitica – per puntare decisamente a una riconversione degli interi apparati produttivi verso sistemi efficienti e “verdi”.



Senza contare che efficienza energetica, sole e vento, farebbero uscire dalla povertà e dalla dipendenza i paesi più poveri a cui invece continuiamo a trasferire le produzioni più inquinanti, inefficienti – perché obsolete – che abbiamo. Allora, se l’Europa e l’Occidente in generale vogliono mantenere una qualche leadership devono non solo riconvertire i propri apparati produttivi ma impegnarsi innanzitutto a fornire tecnologie verdi ai paesi in via di sviluppo e ai colossi emergenti.



Non deve sfuggire a nessuno che i cinesi – che non hanno voluto assumere impegni, tanto lontani quanto generici, sulle percentuali di riduzione di emissione al 2050 – investono già circa 500 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni per rinnovabili ed efficienza, contro ad esempio i circa 60 miliardi USA sempre nell’arco di un decennio, e ad agosto un summit in Oriente vedrà Coina, Corea del Sud, Giappone, avviare una collaborazione su tecnologie verdi.



Dall’Aquila a Copenhagen sapremo mettere al centro del dibattito mondiale la questione demografica e la riconversione “verde”?

motorino radicale
16-07-09, 12:48
Il PD e quell’esame di laicità

• da “l’Unità”

di Luigi Manconi

Cari Dario, Pierluigi e Ignazio, le vostre rispettive culture, pur provenienti da tradizioni diverse, non sono certo sospettabili di integralismo confessionale; dunque, la vostra concezione della laicità dello Stato e della politica non dovrebbe sollevare dubbi. Eppure, ascoltando le preoccupazioni dei militanti del PD, emerge nitidamente che questo sembra essere un assunto tutt’altro che scontato. In altri termini, moltissimi tra iscritti ed elettori pensano che la laicità costituisca una premessa essenziale: e ritengono necessario che i candidai alla segreteria si pronuncino inequivocabilmente in quel senso. Se tale richiesta è diventata così incalzante è perché corrisponde ad una raggiunta maturità. La laicità di cui si chiede la tutela, infatti, non ha alcuna parentela con l’anticlericalismo classico e tanto meno con una professione di fedeo con la sua negazione. Insomma, le questioni, sciaguratamente definite “eticamente sensibili”, non rimandano ad un dibattito ideologico o a una disputa filosofica. Teologia e filosofia sono,, sì, sullo sfondo, ma il cuore della controversia è tutto calato nella materialità della vita quotidiana e nella ruvidezza dei dilemmi che essa ci pone. In altre parole, qui non si discute di Dio bensì dell’esistenza reale delle persone reali, in carne e ossa, desiderio e sofferenza. Qui si manifesta il bisogno irriducibile della persona, posta di fronte alla propria “nuda vita”, di compiere le proprie scelte indipendentemente da qualunque vincolo (religioso o morale o statuale) che non sia stato liberamente accolto. Dunque il paradigma della laicità richiama il diritto all’autodeterminazione. Alla sovranità su di sé e sul proprio corpo. Per laicità si intende, pertanto, la libertà dall’interferenza di imperativi esterni comunque motivati in termini religiosi o normativo-statuali. Per questo, la legge sul testamento biologico approvata dal Senato segna un crinale: con la norma che impone l’idratazione e la nutrizione artificiali anche contro la volontà del soggetto, la forza dello Stato si fa strumento di una morale di parte, e, oggi, presumibilmente minoritaria nella società italiana. Contrariamente da quanto sostenuto da Beppe Fioroni – per il quale la laicità è un non-valore e la sola morale sembra essere quella di ispirazione religiosa – il rifiuto di quella interferenza esterna non è la semplice rivendicazione di una libertà negativa. Bensì l’affermazione di un valore, fondato moralmente, Cari Dario, Pierluogi, Ignazio cosa ne pensate?



Ps.: incuriosito da alcune recenti distinzioni tra “laico” e “laicista”, ho dedicato 17 ore e tre quarti (non consecutive) a compulsare acribiosamente testi di scienza e della politica, sociologia e teologia: infine, stremato, ho potuto constatare che di quella speciosa distinzione non c’era alcuna traccia.

motorino radicale
16-07-09, 12:48
Il fallimentare bilancio del Concordato

di Valter Beltramini e John Fischetti

Ci sono molte, buone ragioni per abolire il Concordato siglato nel lontano 11 febbraio del 1929 da papa Pio IX con Mussolini. Quel patto fu poi accolto nella Costituzione attraverso l’articolo 7; infine nel 1984 è stato rinnovato dall’accordo tra Craxi e papa Giovanni Paolo II; che la Chiesa cattolica abbia tutti i diritti di ricordare ai suoi fedeli, e all’intera società, i suoi principi etici e religiosi, non si discute; ed è dovere dello Stato non impedirne la professione, il rispetto, l’esecuzione. Tutto ciò, però, non ha nulla a che fare con il Concordato: Magna Charta del clericalismo italiano, statuto dei privilegi e del potere conquistato dalla Chiesa durante gli anni del regime fascista, accresciuti e rafforzati in questi anni di “democrazia” repubblicana.



A ottant’anni dal Concordato, il bilancio è avvilente: viene impedita l’introduzione del cosiddetto divorzio breve, anche quando la coppia non ha figli, come già accade in altri paesi europei; si è imposta una legge sulla fecondazione artificiale, che considera giusto l’impianto di un embrione malato nell’utero della donna, libera però, qualche settimana dopo di farselo raschiare a norma di legge sull’aborto; per quanto riguarda il testamento biologico, con la legge approvata dal Senato in questi giorni in discussione alla Camera, si toglie ai malati il diritto di fissare il limite all’accanimento terapeutico, e si proclama che la decisione finale sulla nutrizione artificiale non può mai spettare alla persona interessata; si è sabotata una legge sulle coppie di fatto che pure è in vigore in gran parte dei paesi europei e occidentali; le unioni gay subiscono anatemi di ogni tipo; si favorisce e si incoraggia l’obiezione di coscienza, illegale, alla prescrizione della pillola del giorno dopo; si è scatenata una irresponsabile campagna contro la pillola abortiva Ru-486 in vendita tranquillamente in mezzo mondo…



Tutto questo è figlio del Concordato. Eugenio Montale, il grande poeta premio Nobel, diceva che il Concordato gli ricordava quei fossili che si tengono sotto vetro per paura che vadano in frantumi: “Bisogna prenderlo com’è o lasciarlo andare a pezzi. Ogni modifica non farebbe che peggiorarlo. Lasciamo dunque morire questo anacronistico istituto nato ai tempi in cui lo Stato, o meglio, il potere rinunziò a se stesso per poter sopravvivere. E apriamo la via a un nuovo e civile modus vivendi che restituisca autonomia allo Stato, autonomia alla chiesa di Roma e a ogni altra fede o culto. Facciamo che l’Italia sia un paese di piena libertà religiosa”.



Quando, per esempio, la Chiesa attacca il liberalismo, fa politica; ed è giusto rispondere sullo stesso piano. Ma lo stesso Vaticano sarebbe molto più libero di parlare e di essere contraddetto su tutte le materie possibili, se non esistesse il Concordato. Aboliamolo, così si restituisce al Vaticano il pieno diritto di poter fare politica!



Questa Europa continentale, come questa Italia, hanno prodotto nel secolo scorso fascismi, comunismi, nazismi, “unioni sacre” sempre contro la democrazia, la tolleranza, la libertà religiosa e la politica. Il vero conformismo, è impastato di queste radici. Noi radicali lottiamo anche per evitare nuovi, amari, disperati, risvegli tardivi. Il sonno della ragione, e della ragionevolezza, sta già rigenerando i mostri. Ecco perché il nostro primo obiettivo era, ed è ancora oggi, l’abrogazione del Concordato.

motorino radicale
16-07-09, 13:18
Assolti, ma dopo aver atteso anni. Quando la giustizia è un’atroce beffa

di Valter Vecellio

L’accusa era di associazione mafiosa. Giuseppe Modesto, un imprenditore di Camporeale, vicino Palermo, alla fine è stato assolto dalla seconda sezione della Corte d’Appello del capoluogo siciliano; ma il procedimento è durato “solo” quindici anni, costellati da un’incredibile serie di stralci, di eccezioni, di incompatibilità, e di cambiamenti dei collegi giudicanti. Non è finita qui. La pubblica accusa, infatti, ha annunciato che valuterà se ricorrere in Cassazione, con tutto quello che la cosa comporta; il tutto, è bene non dimenticarlo, per fatti che risalgono a vent’anni fa. Il personaggio non appare cristallino; non è di quelli, insomma, da cui si comprerebbe la proverbiale automobile usata; ma non è questo il punto e non è nostro compito stabilire se una persona sia innocente o colpevole. La Corte d’Appello di Palermo poteva anche accogliere la richiesta formulata dall’accusa, e portare la prima condanna a Modesto da sei a otto anni di reclusione. La questione di fondo non sarebbe mutata di una virgola: per arrivare a un verdetto in appello sono serviti quindici anni.



Un’altra vicenda, ha visto coinvolto L.F., un operaio ventottenne, accusato di molestie a due ragazzini. La pubblica accusa per lui aveva chiesto sei anni di carcere. I fatti risalgono al 2002, e già il solo fatto che L.F. abbia dovuto attendere sette anni per avere un verdetto, la dice lunga. La vicenda, poi, è complicata quanto basta. Due fratellini, di nove e dieci anni sarebbero stati vittime di particolari “attenzioni”, ma secondo quanto stabilito dalla Corte, il fatto che i due ragazzini siano cresciuti in un contesto socio-familiare definito “di promiscuità gravissima” rende praticamente impossibile ricostruire che tipo di abusi i due fratellini abbiano subito, e da parte di chi. E qui si viene afferrati da una sorta di vertigine: l’abuso c’è stato, ma non si sa dire quale, il contesto in cui è maturato è gravissimo, ma non si sa dire chi ne sia il responsabile… A complicare la vicenda il fatto che L.F. in aula era stato scagionato dai genitori naturali dei ragazzini e dalla sorella maggiore; in più L.F., all’epoca dei fatti si trovava a Pistoia con la sorella dei due presunte vittime. “I periti”, racconta l’avvocato di L.F., “hanno affermato che quanto raccolto in origine non era credibile e che la terminologia non era propria di bambini di quell’età. Alcuni elementi raccontati, inoltre, si riferivano ad altre persone e non al mio cliente”. Lasciamo perdere le indagini, e come sono state fatte (o più propriamente, verrebbe da dire, non sono state fatte): l’incongruità di aver individuato L.F., come responsabile degli abusi veri o presunti che siano stati, il non tener conto che L.F. non viveva in Sicilia; e che il contesto di “promiscuità gravissima” avrebbe impedito di identificare altri oltre L.F. quale autore del presunto abuso. Il fatto è che per arrivare a questa assoluzione si sono dovuti attendere sette anni.

Si può esser certi che per spiegare perché questi e altri simili episodi che sono molto più frequenti di quanto si possa credere e immaginare, si possono accampare una quantità di giustificazioni; le associazioni come l’ANM in questo sono specialiste. Quando si tratta di difesa corporativa dell’esistente sono davvero imbattibili. E però tutte le “giustificazioni”, tutte le motivazioni che si possono accampare, sono destinate a infrangersi davanti a una semplicissima osservazione: che questo modo di amministrare la giustizia è in realtà una barbarie; viene completamente disatteso l’insegnamento che da Cesare Beccaria, tutti i maestri del diritto hanno insegnato: perché una giustizia sia tale, occorre soprattutto che il verdetto sia celere. Una assoluzione o una condanna se arrivano dopo anni è come se non ci fossero: sono un’atroce beffa nei confronti dell’imputato quando si vede assolto; della collettività, quando l’imputato viene dichiarato colpevole.

motorino radicale
16-07-09, 13:18
La sfida taoista di Mario Perniola alla dittatura della comunicazione

di Francesco Pullia

Siamo immersi in un mondo in cui il ruolo dell’azione individuale e collettiva è stato fagocitato dalla comunicazione, in cui su tutto prevale il motto impossibile, eppure reale!

Di qui l’estinzione della storia stessa, della grande narrazione, sostituita dalla parcellizzazione di fatterelli e gossip, dall’evento costruito e trasmesso dai media, da un’esperienza insieme miracolistica (non nel senso usuale, riferito ad una trascendenza, ma in quello definito da Bataille, cioè di una sottrazione al criterio di utilità, dell’eccesso) e traumatica (inteso come il prodotto di un corpo estraneo del quale non si riesce a trovare spiegazione convincente).

In altri termini, nell’epoca dell’ipercomunicazione in realtà siamo caratterizzati da disagio, frustrazione, impotenza e, soprattutto, da spossessamento del soggetto. Si trasmette continuamente qualcosa di cui ignoriamo la portata. E’ come se ricevessimo una lettera che, però, impossibile aprire.



Mario Perniola, il più originale tra i filosofi usciti dalla scuola di Luigi Pareyson, persevera nell’analisi avviata da una quarantina d’anni con I situazionisti e proseguita con La società dei simulacri, libro in cui intercettava e approfondiva l’analisi del geniale Baudrillard, fino al provocatorio Contro la comunicazione (Einaudi, 2004).



Con Miracoli e traumi della comunicazione, pubblicato da poco da Einaudi, mette ancora più a fuoco il tiro.



La sua non è la solita scontata critica alla società dei consumi, semmai è la fotografia di una condizione postmoderna (e postumana) in cui valore simbolico e valore d’uso sono facce insignificanti di una stessa medaglia che lasciano il posto all’inutilità e all’evanescenza dell’azione storica, in cui le opere sono camere sorde che nel frastuono creato dai miracoli e dai traumi non riescono a far sentire la loro voce.



Che significa? Semplicemente che siamo giunti al parossismo di quanto intravisto da Beckett o Ionesco. Si è generata una situazione in cui le polarità opposte (vero/ falso, morale/immorale, normale/trasgressivo ecc.) si richiamano vicendevolmente mostrandosi oltre che fallaci, effimere, inadeguate anche come aspetti di un’identica impostura.



E’ come se le categorie tradizionali, quelle appartenenti alla razionalità logocratica e totalitaria (viva Derida e la sua decostruzione!) per intenderci, si siano ritirate in una zona oscura e inaccessibile tanto ai profani quanto agli studiosi.



In fin dei conti, Perniola, che fa un’acuta disamina-requisitoria del maggio parigino, della rivoluzione khomeinista, della caduta del muro di Berlino nonché dell’attentato alle Torri gemelle (quattro fatti imprevedibili, egli dice, che hanno colto di sorpresa anche il pubblico più informato), lancia una sfida che si potrebbe definire taoista o zen, perché scavalca, oltrepassa vuoto e pieno, nulla e tutto, svelando come ogni categoria sia fittizia, come non sia altro che aporia e arrivando ad affermare che “la nuova “classe pericolosa” non sarà quella che restaurerà la possibilità dell’azione, impresa impossibile, ma quella che, attraverso la comunicazione, sarà padrona del wuwei, del non-agire”.



Ci sono evidenti tracce, in questa visione, di Guy Debord, dell’esperienza dei Cobra e situazionista ma, se si vuole andare più a fondo, anche di quel Walter Benjamin che pur non pronunciandosi a favore del tempo presente sosteneva che occorresse spezzare una lancia in suo favore. E, poi, anche se probabilmente l’autore non condividerà quanto sosteniamo, di quel Marcuse, da lui d’altronde citato, con cui bisognerà tornare a fare i conti, se non altro perché aveva intuito l’unidimensionalità, l’unidirezionalità del sistema-regime onnivoro sovrastante.

L’immaginazione sessantottina diventa fonte d’ispirazione e mascheramento per il produttivismo del capitalismo attuale, la trasgressione è riassorbita e valorizzata all’interno di un’estesa mercificazione il cui fine è il trionfo della banalità, il piacere diventa anedonia, apatia sensitiva ed emozionale, cioè uno stato prima riscontrabile solo in alcune sindromi depressive e schizofreniche e adesso affermatosi come patologia peculiare a causa della diffusione dei nuovi media: la società, per dirla alla Gehlen, è tanto omogenea e uniforme che non ci sono più differenze culturali e personali, tutte le attività sono coinvolte in un processo generale di restringimento e raggrinzimento. E’ il numbing effect, la narcosi collettiva, l’ottundimento generalizzato, di massa. E’ in atto una nuova forma di autoritarismo che, a differenza del vecchio autoritarismo, è anonima e non contestabile ed instaura una sorta di esonero (Entlastung) da quell’ambizione di rapporto con l’essenziale e il decisivo su cui si fondava la possibilità dell’azione.



Ma se, a quanto pare, non c’è spazio per azione e creazione, quindi, della storia, ciò non significa che siano esclusi nuovi terreni di scontro. Anzi.



Proprio secondo il taoismo anche all’interno della più dominante e soverchiante entità vi è un “infimo inizio”, che è, come sostiene Perniola, opposto all’insieme che lo contiene, qualcosa che che è ancora in stato germinale, ancora impercettibile nella sua esiguità, da cui comincia un mutamento radicale.



Ecco, pure nel mondo della comunicazione c’è qualcosa di simile, qualcosa che si oppone, non in modo frontale, e a poco a poco matura al suo interno. Forse la comunicazione di massa proprio nel momento del suo apogeo sta scrivendo il suo de profundis.

motorino radicale
16-07-09, 13:19
Tra offensive clericali e offensive oscurantiste

di N.R.

Il ministro della Salute Maurizio Sacconi nell’intervista pubblicata dal quotidiano dei vescovi “L’Avvenire” il 24 giugno scorso (la stessa intervista nella quale annunciava la blindatura del Governo per quel che riguarda la legge sul testamento biologico-fine vita e l’indisponibilità a emendarla nei punti relativi all’idratazione e all’alimentazione), faceva sapere di aver firmato due decreti: il primo istituiva un osservatorio con il compito di monitorare l’applicazione della legge sulla cosiddetta procreazione assistita; l’altro prevede la costituzione di una commissione incaricata di fornire pareri etico-giuridici per redigere, probabilmente entro la fine dell’anno, le nuove linee guida, dopo la sentenza della Corte Costituzionale, che ha letteralmente demolito la legge 40.

Ieri è stata comunicata la composizione della Commissione che ha appunto il compito di affrontare le questioni di carattere giuridico, etico e scientifico relative alla conservazione degli embrioni nei centri di procreazione medicalmente assistita: presidente è il professor Francesco D’Agostino, già presidente del Comitato nazionale per la bioetica e dell’Unione Giuristi Cattolici, membro della Pontificia Accademia per la vita, ed editorialista di “Avvenire”. Una garanzia, insomma.

Gli altri membri sono: il professor Bruno Dalla Piccola, presidente dell’Associazione Scienza e Vita; la professoressa Assuntina Morresi, consulente del sottosegretario Eugenia Roccella; il professor Alberto Gambino, teodem, tra gli ispiratori della campagna ruiniana per l’astensione al referendum sulla legge 40; il professor Angelo Vescovi, altro protagonista della campagna astensionistica al referendum, da sempre sostenitore che la ricerca sulle cellule staminali embrionali sia una perdita di tempo; il professor Enrico Garaci, già candidato di “Comunione e Liberazione” alla poltrona di sindaco di Roma. Gli unici laici presenti nella Commissione sono i professori Carlo Alberto Redi e Amedeo Santosuosso; avranno di che sudare, per non essere solo delle foglie di fico, buona fortuna.

Se le idee camminano sulle gambe delle persone, si è facili profeti nel pronosticare che sarà una lunga, penosa, marcia del gambero. Il ministero della Salute si conferma un avamposto di Città del Vaticano, e oggi si è fatto un altro, significativo passo verso lo Stato etico.

Contemporaneamente alla Camera dei Deputati veniva approvata una mozione ispirata dall’UDC che dice NO all’aborto come metodo contraccettivo (come se ci fosse qualcuno disposto a sostenere il contrario). La mozione UDC, su cui la maggioranza ha fatto convergere i suoi voti, però non dice una parola sull’unico metodo per scongiurare gli aborti: contraccezione e informazione, come invece si sostiene nella mozione radicale che non è stata approvata.

C’è poi un’altra questione, frettolosamente archiviata, quella sollevata dalle dottoresse Cattaneo, Cerbai e Garagna. Una questione su cui è necessario fare il massimo di chiarezza. Perché i casi sono due: o il sottosegretario Fazio dice il falso, oppure a dirlo è il rappresentante della regione Toscana Enrico Rossi.

Una cosa è certa: le cellule staminali embrionali umane sono state escluse dal bando di finanziamento nel campo della biologia delle cellule staminali. Il sottosegretario Fazio sostiene che l’esclusione si deve alle pressioni esercitate dalle Regioni; il rappresentante della regione Toscana lo esclude. La dottoressa Cerbai inoltre adombra un sospetto grave: che tutto ciò sia “frutto di compromessi avvenuti ad alto livello politico”. Quali compromessi e quale alto livello politico sarebbe opportuno saperlo. Sulla vicenda i parlamentari radicali hanno presentato interrogazioni, sarebbe auspicabile una risposta in tempi rapidi.

Si chiede, tra l’altro, di smentire nel modo più esauriente il sospetto adombrato dalla dottoressa Cerbai, e autorevolmente ripreso dalla rivista “Nature”, sui “compromessi avvenuti ad alto livello politico”; e come si spieghi che una commissione ministeriale abbia inizialmente stilato un bando per i finanziamenti alla ricerca sulle staminali, senza divieti relativi a particolari filoni, e nella stesura finale del testo questi finanziamenti risultano esclusi; chi abbia aggiunto la frase che esclude dai finanziamenti le cellule staminali embrionali; a che titolo, e per quale ragione, lo abbia fatto; chi sia stato informato preventivamente, o successivamente, di detta iniziativa, e perché se ne sia dato l’assenso.

Non si tratta di questioni peregrine o astratte. Purtroppo è l’ennesimo episodio che dimostra come l’Italia sia governata da una “filosofia” retrograda e medioevale, che in nome di un’ideologia mortifica e punisce la libertà di ricerca.

C’è infine l’accelerazione che il governo ha voluto imprimere all’iter parlamentare della legge sul testamento biologico. Anche qui, ad anticipare la cosa è stato il ministro Sacconi con la già citata intervista ad “Avvenire”; a denunciare la manovra sono stati i radicali, e sono da qualche giorno ci si è accorti della cosa: un vero e proprio baratto, tentato da Silvio Berlusconi per farsi perdonare le sue storie con escort e affini; e con il Vaticano che sta alzando il prezzo del perdono: per ora l’auspicata visita a papa Ratzinger non si farà, evidentemente troppo pochi i doni recati. Ma si può esser certi che Berlusconi farà di tutto per risultare gradito alle gerarchie. La fantasia non gli manca davvero.

motorino radicale
16-07-09, 13:20
Caso Balducci: ma quali sgangherate ironie, quale anacronistica e volgare deriva anticlericale? La carica degli zuavi pontifici. Basta, ci lascino campare!

di Va.Ve.

Si può esprimere non stupore – da tempo non c’è nulla più di che stupirsi! – ma sconcerto per l’incredibile polemica che si è voluta accendere per l’innocentissima battuta che Roberto Balducci si è concesso a proposito dei “quattro gatti per il papa”?



Intanto a Roberto si esprime, pubblicamente, solidarietà; e solo un piccolissimo, marginale dissenso: ma no, i gatti, quattro o quarantaquattro che siano, sono animali troppo intelligenti per sprecare il loro tempo a piazza San Pietro…No, non c’è nulla di che scherzare, anche se tutta la storia meriterebbe solo uno sberleffo. E una pernacchia i furori di queste ore: quelli d’oltretevere, e i codini pio-pio e bau-bau degli zelanti zuavi pontifici.



Si legge di accuse del tipo “sgangherate ironie”, e “anacronistica e volgare deriva anticlericale”. La sagra delle scempiaggini. Ma davvero, in che paese viviamo? Non se ne può più, basta davvero!



Fosse per loro, si dovrebbe vivere prigionieri di una gigantesca cintura di castità. Dicono di NO a tutto. NO alla pillola del giorno prima e a quella del giorno dopo. NO all'uso dei preservativi, perché in nome della vita dobbiamo rischiare la vita con l'AIDS e altre malattie. NO al divorzio, anche quando la vita di coppia è un inferno (e però, con la Sacra Rota si
attribuiscono il diritto di sciogliere a pagamento qualsiasi vincolo). NO all'aborto, anche quando la gravidanza non è desiderata, è stata imposta, frutto di una violenza. NO alla libertà della ricerca scientifica. NO al diritto di ognuno di noi di stabilire quando una vita è degna di essere vissuta, e quando, invece, ci risulta insopportabile. NO all'informazione sui profilattici, al controllo delle nascite, alle pianificazioni familiari nelle aree crescenti nelle quali si muore di fame, di AIDS, di disastri ecologici e demografici. Proibire, vietare, ma mai legalizzare, regolare, "governare" per superare tragedie di ogni tipo e in ogni angolo del mondo. NO a tutto. Non ci si può masturbare per non disperdere il seme, non è raccomandabile farsi prendere in giro dagli oroscopi; non si può giocare d'azzardo; non si può fumare uno
spinello.

Stabiliscono quale spettacolo televisivo è morale, e quale non lo è; quale film va visto o no, quale libro va letto o no, i farmacisti di religione cattolica, a sentir loro, dovrebbero fare obiezione di coscienza, e non consegnare a chi la richiede la pillola del giorno dopo; e si arriva ad approvare chi nega farmaci anti-dolore a donne che devono partorire. Insomma, non si può fare nulla. Ma davvero: ci lascino campare!



In nome della fede, della carità, queste persone senza misericordia si comportano oggi come ieri con Galileo o Giordano Bruno. I Galileo e i Giordano Bruno dei nostri tempi si chiamano Luca Coscioni e Piergiorgio Welby, e i diecimila malati di sclerosi laterale amiotrofica: terribile malattia che potrebbe forse essere curata, un giorno, facendo ricorso alle cellule staminali. In Italia non si può, a causa dell'opposizione della Chiesa vaticana, che vuole imporre il
divieto all'utilizzo di cellule staminali prelevate dagli embrioni soprannumerari. Si mettano meno scarpette rosse e cappellini buffi in testa, abiti sontuosi da satrapi, stiano più a contatto con le persone, i loro problemi, e il “comune sentire”.



“Provo moltissimo dolore nel constatare che la storia giudicherà gli ultimi papi come due dei maggiori responsabili della propaganda dell’AIDS, specie in paesi con grandi maggioranze o minoranze cattoliche, come nel caso dell’Africa”, ha detto Hans Kung al giornale on-line spagnolo “Periodistadigital.com”. “E’ sommamente ipocrita condannare i preservativi in regioni come quelle africane con alto rischio di AIDS e, al tempo stesso, chiedere di proteggere i poveri dalle malattie più nocive”.



Dal momento che si è anticlericali, e anche sgangherati, diciamolo fino in fondo: l'Italia potrebbe essere un paese migliore se non ci fosse nessun Concordato; sottoscriviamo ogni parola del poeta Eugenio Montale: "Il Concordato e i suoi annessi, mi fa ricordare quei fossili che si tengono sotto vetro per paura che vadano a pezzi. Bisogna prenderlo com'è o lasciarlo (andare a pezzi). Ogni modifica non farebbe che peggiorarlo. Lasciamo dunque morire questo anacronistico istituto nato in tempi in cui lo Stato, o meglio il potere, rinunziò a se stesso per poter sopravvivere. E apriamo la via a un nuovo e civile modus vivendi che restituisca autonomia allo Stato e autonomia alla Chiesa di Roma e a ogni altra fede e culto. Facciamo che l’Italia sia un paese di piena libertà religiosa!”.



Se per una volta, invece di scherzare coi proverbiali fanti lo si è fatto con i Santi o il rappresentante in terra del Padreterno, non è la morte di nessuno; meno sdegno, dunque, anche perché è augurabile che gli interessati di altro si interessino e occupino.

motorino radicale
16-07-09, 13:35
Un problema di democrazia

di Valter Vecellio

Agorà: ovvero la piazza principale della polis; se non quello economico-commerciale e sociale, certamente da quello politico e istituzionale; e oggi agorà è sinonimo di democrazia: era la sede delle assemblee dei cittadini; lì si riunivano per discutere i problemi e le questioni della comunità, e decidere collegialmente sulle leggi. I cittadini – cioè chi era titolare di diritti e doveri – si riunivano in assemblea; eleggevano i magistrati i l cui compito era quello di eseguire il volere collettivo; e il sistema funzionò fino a quando la città e lo Stato equivalevano.



Oggi si fa un gran parlare di “agorà” elettronica: un qualcosa che non è prerogativa esclusiva di oligarchie, ma una realtà alla portata di tutti, essendo possibile sfruttare tutto il potenziale democratico, della “rete” e delle tecnologie informatiche.



La diffusione ormai capillare dei computer ha spinto qualcuno a pensare e a credere che si è realizzata l’utopia della democrazia diretta digitalizzata. Se presupposto fondativo della democrazia è la possibilità di discutere ("conoscere per deliberare"), il problema è costituito appunto dagli spazi e dagli strumenti informativi. Nella democrazia dell’agorà il problema era facilmente risolvibile. Un numero tutto sommato esiguo di cittadini partecipava, discuteva, decideva. Oggi potrebbe diventare possibile una forma di agorà virtuale, di democrazia computerizzata, di partecipazione diretta on-line dei cittadini i quali potrebbero essere consultati su molte materie direttamente in rete.



Vista così, la e-democracy può costituire e rappresentare un ulteriore approfondimento della democrazia, essere luogo di esplorazione di problemi, di discussione, messa a fuoco di processi complessi, di decisioni collettive. “La rete”, dice Nadia Urbinati, docente di teoria politica alla Columbia University di New York, “sembra darci quello che avevamo perso: la voce diretta sulle questioni pubbliche”. E’ infatti un sistema che offre i pregi dell’immediatezza “non può che farci pensare di essere ritornati a praticare direttamente la democrazia. Come gli antichi greci entriamo nell’agorà tutti i giorni e quando più lo desideriamo”.



Il discorso, per come è costruito, fa immaginare un “ma”;che, immancabile, arriva: “Con un’aggiunta importantissima: senza mai uscire di casa. La tecnologia è riuscita ad azzerare il tempo tra l’accadere, il conoscere e il reagire. Ad annullare la distanza tra gli attori sociali. Partecipiamo senza uscire dal nostro spazio privato, senza interrompere le nostre occupazioni”. Va bene? Fino a un certo punto, obietta Urbinati; perché “partecipare davvero alla vita pubblica richiede che usciamo di casa, che entriamo in contatto, discutiamo, ci associamo con sconosciuti, non con amici e parenti, figli o genitori. Sperimentare la presenza fisica dell’altro è fondamentale anche per calibrare lo stile della nostra conversazione”. Quello che Urbinati vuole dire è che se si vuole partecipare veramente alla vita della città “occorre uscire dalla dimensione privata…la partecipazione mediatica ci induce a essere sempre più privati. Ci stimola a mettere in campo i nostri gusti invece che le nostre ragioni di cittadini”.

Internet, insomma “cattura la nostra mente istantaneamente e ci fa vivere o agire nell’immediato, annulla il tempo non soltanto tra noi e il mondo, ma anche tra noi e la nostra mente, Cancella lo spazio della partecipazione fisica, elimina i corpi, le presenze dirette e tangibili degli interlocutori. Svuota le piazze concrete delle nostre città e affolla quelle immateriali della nostra immaginazione. Davanti a questo schermo “mi sento” in contatto con il mondo, ma “sono in pigiama a casa mia, sola, a martellare sulla tastiera”.



Il problema c’è tutto.

motorino radicale
16-07-09, 13:35
Costruire, aprirsi, progettare

di Francesco Pullia

Chi scrive non è mai stato tenero nei confronti delle dirigenze del Pd e certamente non per spirito distruttivo. Al contrario, è stato mosso nelle sue critiche dalla ferma convinzione di un grande progetto democratico fondato non su cascami ideologizzanti ma su un concreto programma di riforma sociale, un programma alternativo all’esistente, in grado di proiettarsi ben al di là della contingenza secondo una direzione, tutt’altro che utopica, tracciata da Aldo Capitini e Danilo Dolci e purtroppo mai degnamente considerata da questa sinistra squinternata.



Molto di questa concezione fermamente radicata nella nonviolenza, s’intravedeva già nella prefigurazione avanzata oltre vent’anni fa da Marco Pannella e riscontrabile in nuce nell’attuale conformazione della galassia radicale: un partito non costituito secondo criteri burocratici ma flessibile, disposto non tanto a recepire quanto, in senso opposto, a imporre nella società temi di discussione, europeo, federalista, sovranazionale, quindi capace di guardare al presente partendo da un’angolazione completamente, radicalmente (mai come in questo caso l’avverbio è più calzante), innovativa, ponendosi cioè in prospettiva, puntando al governo dell’immediato futuro, non solo dell’hic et nunc.



Utopia? Nient’affatto. Obama ha vinto anche perché ha saputo improntare la sua campagna e il suo programma non al momento contingente, o peggio ancora volgendosi al passato, ma alla media e lunga durata riuscendo ad infondere entusiasmo e speranza in un elettorato stanco e disamorato.



Si dirà che l’Italia è ben differente dagli Stati Uniti. E’ vero fino a un certo punto. Nel nostro paese ci sono, infatti, dinamiche simili che non possono essere sottovalutate. Ciò che, invece, è diverso, e bisogna subito provvedere a cambiare, è il sistema elettorale.

Solo passando dall’attuale sistema all’uninominale secco, angloamericano appunto, si potrà arrivare ad un bipartitismo che è ben altra cosa dal bipolarismo. E il bipartitismo comporterà, giocoforza, un modo differente di concepire la politica basato sulla persona e sui suoi effettivi intendimenti, non sugli apparati e senza perdenti frammentazioni. Di conseguenza, si arriverà alla creazione di due contenitori multiformi, dimorati dalla pluralità, chiaramente distinguibili.



In attesa che da noi si riesca ad introdurre il sistema americano, è possibile, però, accelerare questa condizione salutare per la democrazia con l’accettazione della doppia tessera, così come da oltre cinquant’anni, e per statuto, fa il Partito Radicale.



Ecco, dunque, che gli articoli di Stefano Menichini e di Luigi Manconi, apparsi ieri su “Europa”, possono essere visti come due facce di un’unica medaglia. Un partito nuovo è un partito includente, non escludente, costituito da diverse anime e volontà costruttrici non omologate, appiattite, schiacciate ma dialoganti tra loro..



Manconi giustamente chiede aperture non chiusure. Il Partito democratico se vuole vincere la sfida che gli viene (im)posta non dovrà arroccarsi nella spartizione di poltrone e privilegi, come accade, purtroppo, in regioni come l’Umbria dove ha ereditato e mantiene il modello di partito-regime proprio del vecchio Pci, ma, per dirla con Capitini, è chiamato a crescere di aggiunta in aggiunta, puntare su nessi e contenuti, nel segno di una compresenza in cui tutti, davvero tutti, possano contribuire a produrre fecondamente realtà.

motorino radicale
16-07-09, 13:36
Un’occasione perduta

di Lorenzo Cenni

Il 13 luglio 2009 il Consiglio Comunale di Gorizia ha discusso, ma non votato, la petizione popolare firmata da 243 cittadini, volta ad istituire un registro dei testamenti biologici a Gorizia, presentatore il dottor Pietro Pipi. La discussione non è terminata visto il protrarsi della stessa fino ad ora tarda ma il risultato si delinea chiaramente: la petizione non verrà accolta nella più ampia e consolidata logica di schieramento. Non è un provvedimento della maggioranza dunque, anche se è condivisibile, non può essere approvato.

Ho seguito attentamente il dibattito in qualità di segretario dell'Associazione radicale di Gorizia, promotrice dell'iniziativa. Proprio il fatto che siamo stati noi radicali a presentare la petizione sarà uno dei motivi di respingimento, si è compreso benissimo, durante la discussione, dalle parole di esponenti della maggioranza come Valenti, Lusina, Noselli ed il Sindaco stesso. Ma a questi consiglieri vorrei dire che quando raccogliemmo le firme non abbiamo chiesto ai firmatari se avessero in tasca una tessera radicale o di altro partito: la petizione è frutto della volontà di cittadini di centro destra, di centro sinistra e di centro niente.

Molti consiglieri, durante il dibattito, hanno trasformato quello che doveva essere un voto sull'istituzione di un nuovo servizio pubblico in un confronto ideologico sulla vita e sulla morte.

Affrontare questi argomenti in un consiglio comunale non serve a dare risposte concrete ai cittadini e certo non le ha date ai sottoscrittori della petizione che chiedevano e chiedono una cosa semplice: "Aprite uno sportello pubblico per raccogliere e custodire le volontà di fine vita, indipendentemente da quali siano."

La risposta sarà no. Questo Comune non lo farà, per mera faziosità partitica. L'hanno proposta i radicali, dunque non deve passare! La battaglia sui diritti civili e di libertà non finisce qui, come non è finita quella sui referendum comunali e quella sul difensore civico. Un risultato lo abbiamo già ottenuto: abbiamo fatto vivere uno strumento di democrazia diretta, abbiamo promosso cultura ed abbiamo acquisito il sostegno ufficiale del PD goriziano.

Ci sentiamo pronti allora per partire con una analoga petizione alla Provincia di Gorizia chiedendo di istituire in tempi brevissimi, prima che la legge passi al Parlamento, un registro provinciale dei testamenti biologici affinché possano usufruirne anche i cittadini goriziani che verranno deprivati di questa possibilità.

NOTE

Lorenzo Cenni è segretario dell'associazione radicale Trasparenza è Partecipazione di Gorizia

motorino radicale
22-07-09, 22:52
Incarcerati perché credenti

di Erping Zhang

In esclusiva per Notizie Radicali, Erping Zhang, attivista dei diritti umani già iscritto al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, ci spiega come – negli ultimi 10 anni – i Falun Gong siano divenuti il gruppo cinese più ampio di prigionieri di coscienza.

Lo scorso aprile una giovane donna, Si Miao, si era recata come al solito in ufficio presso l’Accademia Cinese delle Scienze nella provincia di Hebei. All’ora di pranzo la trentaseienne, il cui fratello vive a Los Angeles, è stata arrestata da agenti della sicurezza cinese e portata presso un centro di detenzione. Dopo nemmeno un mese è stata condannata a un anno e mezzo di detenzione presso un campo locale di “rieducazione attraverso il lavoro”, senza alcuna possibilità di ricorrere in appello. Il suo “crimine”? Essere conosciuta dalle autorità come praticante della disciplina spirituale Falun Gong. All’indomani del grande spettacolo high-tech messo in scena a Pechino nel mese di agosto, un caso del genere potrebbe sembrare un’anomalia, tutt’al più il risultato dell’operato di un pubblico ufficiale corrotto o di un capo di polizia troppo zelante. Ma in realtà la storia di Si Miao è solo un tragico capitolo di un assalto durato dieci anni, da parte del Partito Comunista cinese, rivolto a milioni di normali cittadini.

Secondo quanto riportato dai media occidentali, nel 1999 le autorità di Pechino avrebbero stimato che 70 milioni di persone praticavano il Falun Gong – con i suoi esercizi al rallentatore, i suoi principi di verità, gentilezza e tolleranza. Ma non appena la pratica è divenuta più popolare, parallelamente è aumentata la tendenza a praticare vessazioni da parte delle autorità, inclusi numerosi fermi e arresti, oltre al divieto di diffusione degli insegnamenti Falun Gong. Nel tentativo di opporsi a questa prima persecuzione, il 25 aprile 1999, 10.000 praticanti si appellarono a Pechino.

Invece di allentare la pressione, però, i leader cinesi risposero con l’ordine di “sradicare” i Falun Gong, proibendo questa pratica proprio nel luglio di dieci anni fa. Seguirono una campagna di propaganda al vetriolo, sorveglianza invasiva e un network nazionale di centri di conversione forzata, oltre ad arresti di massa, tortura sistematica, e un numero crescente di morti per abusi avvenuti in carcere. A quasi dieci anni di distanza, almeno metà della popolazione che risulta ufficialmente detenuta nei gulag cinesi è composta di praticanti Falun Gong, secondo fonti citate nel rapporto annuale del Dipartimento di Stato americano. (1)

Afferrare il senso della dimensione di questa campagna vuol dire anche rendersi conto che i Falun Gong costituiscono il gruppo più grande di prigionieri di coscienza in Cina e forse nel mondo. L’espressione “prigioniero di coscienza”, coniata da Amnesty International, s riferisce a individui che siano stati imprigionati per via della loro razza, religione o stile di vita, nonché per l’espressione nonviolenta delle loro convinzioni. I seguaci Falun Gong rientrano chiaramente in questa categoria e anche Amnesty, nei suoi ripetuti appelli a nome dei prigionieri Falun Gong, lo ha ribadito.

Un rapporto di Human Rights Watch del 2005 riportava le dichiarazioni di uno degli intervistati: “Dei circa 1.000 detenuti del campo di Jilin, la maggior parte apparteneva al gruppo dei Falun Gong” (2). Da un insieme più recente di testimonianze pubblicate dal gruppo Chinese Human Rights Defenders, risulta che “i praticanti Falung Gong costituiscono uno dei gruppi più numerosi di prigionieri nei campi”, un’affermazione confermata da oltre la metà dei 13 intervistati, detenuti nei campi di Shaanxi, Liaoning e Heilongjiang (3).

“L’anno scorso il Campo di lavoro femminile di Pechino, per esempio, conteneva 700 Falun Gong e 140 criminali effettivi”, scrive Leeshai Lemish, che ha intervistato insieme a Ethan Gutmann – per un libro di prossima uscita – dozzine di prigionieri di coscienza Falun (4). Si moltiplichi questa cifra per il numero stimato di campi di detenzione in Cina – 300 – e si otterrà la cifra di 200.000 detenuti. (5)

Oltre al sistema dei extra-giudiziario dei campi di lavoro, nei dieci anni passati i giudici in tutto il paese – su ordine delle diramazioni locali del Partito – hanno emesso sentenze contro i Falun Gong in processi-farsa, condannando a pene che arrivano a 18 anni di reclusione. Le statistiche ufficiali ottenute dalla Fondazione Duihua rivelano come, solo a Shangai, 49 praticanti siano stati condannati alla prigione nel solo biennio 2005-06. (6)

In occasione delle Olimpiadi oltre 8.000 praticanti sono stati detenuti nella prima metà del 2008. Da quando la manifestazione si è conclusa, ci sono state notizie continue di sentenze emesse. Nel 2008, solo nella città di Weifang – nello Shandong – 162 praticanti sono stati condannati alla detenzione in prigione o in campi di lavoro.

Presi tutti insieme, i fatti raccontati sopra ci offrono un quadro che vede centinaia di migliaia di praticanti Falung Gong detenuti in campi e prigioni in tutta la Cina. Per fare un raffronto, si pensi che nel 2008 Reporter senza Frontiere ha stimato che in prigione vi sarebbero 48 cyber-dissidenti. Ancora, la stima più elevata del numero di Tibetani detenuti ammonta a 5.000 individui.

Cosa vuol dire tutto ciò? Il numero di gravi violazione dei diritti in Cina è maggiore di quanto molti non abbiano ancora realizzato e i Falun Gong sono un obiettivo di primaria importanza. Al di fuori dei confini cinesi, altre domande vengono in mente: vista tale realtà, come possiamo ripensare le nostre relazioni con la leadership cinese? Le nostre azioni stanno – direttamente o indirettamente – avallando l’imprigionamento di così tanti innocenti cittadini cinesi?

Dieci anni più tardi l’inizio di questa tragedia, cosa stiamo facendo per assicurarci di non essere complici di tali crimini?

NOTE

(1) 2008 Human Rights Report: China (includes Tibet, Hong Kong, and Macau) (http://www.state.gov/g/drl/rls/hrrpt/2008/eap/119037.htm)
(2) HRW, “We Could Disappear at Any Time,”http://www.faluninfo.net/article/801/?cid=83. Il rapporto completo èdisponibile qui:http://www.hrw.org/reports/2005/china1205/china1205web.pdf
(3) Vedi: Chinese Human Rights Defenders, “Reeducation through LaborAbuses Continue Unabated:http://docs.law.gwu.edu/facweb/dclarke/public/CHRD_RTL_Report.pdf
(4) Vedi National Post ‘The Games Are Over, the PersecutionContinues’: http://network.nationalpost.com/np/blogs/fullcomment/archive/2008/10/07/leeshai-lemish-the-games-are-over-the-persecution-continues.aspx
(5) Vedi: “Media and New Religious Movements: The Case of Falun Gong,”A paper presented at The 2009 CESNUR Conference, Salt Lake City, Utah,June 11-13, 2009 Media and New Religious Movements: The Case of Falun Gong (Lemish) (http://www.cesnur.org/2009/slc_lemish.htm)
(6) Analisi ottenuta dopo aver ricercato l’espressione “Falun Gong”nel database dei prigionieri politici della Congressional ExecutiveCommission sulla Cina.
(7) Vedi nota 6.

motorino radicale
22-07-09, 22:53
Incarcerati perché credenti

di Erping Zhang

In esclusiva per Notizie Radicali, Erping Zhang, attivista dei diritti umani già iscritto al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, ci spiega come – negli ultimi 10 anni – i Falun Gong siano divenuti il gruppo cinese più ampio di prigionieri di coscienza.

Lo scorso aprile una giovane donna, Si Miao, si era recata come al solito in ufficio presso l’Accademia Cinese delle Scienze nella provincia di Hebei. All’ora di pranzo la trentaseienne, il cui fratello vive a Los Angeles, è stata arrestata da agenti della sicurezza cinese e portata presso un centro di detenzione. Dopo nemmeno un mese è stata condannata a un anno e mezzo di detenzione presso un campo locale di “rieducazione attraverso il lavoro”, senza alcuna possibilità di ricorrere in appello. Il suo “crimine”? Essere conosciuta dalle autorità come praticante della disciplina spirituale Falun Gong. All’indomani del grande spettacolo high-tech messo in scena a Pechino nel mese di agosto, un caso del genere potrebbe sembrare un’anomalia, tutt’al più il risultato dell’operato di un pubblico ufficiale corrotto o di un capo di polizia troppo zelante. Ma in realtà la storia di Si Miao è solo un tragico capitolo di un assalto durato dieci anni, da parte del Partito Comunista cinese, rivolto a milioni di normali cittadini.

Secondo quanto riportato dai media occidentali, nel 1999 le autorità di Pechino avrebbero stimato che 70 milioni di persone praticavano il Falun Gong – con i suoi esercizi al rallentatore, i suoi principi di verità, gentilezza e tolleranza. Ma non appena la pratica è divenuta più popolare, parallelamente è aumentata la tendenza a praticare vessazioni da parte delle autorità, inclusi numerosi fermi e arresti, oltre al divieto di diffusione degli insegnamenti Falun Gong. Nel tentativo di opporsi a questa prima persecuzione, il 25 aprile 1999, 10.000 praticanti si appellarono a Pechino.

Invece di allentare la pressione, però, i leader cinesi risposero con l’ordine di “sradicare” i Falun Gong, proibendo questa pratica proprio nel luglio di dieci anni fa. Seguirono una campagna di propaganda al vetriolo, sorveglianza invasiva e un network nazionale di centri di conversione forzata, oltre ad arresti di massa, tortura sistematica, e un numero crescente di morti per abusi avvenuti in carcere. A quasi dieci anni di distanza, almeno metà della popolazione che risulta ufficialmente detenuta nei gulag cinesi è composta di praticanti Falun Gong, secondo fonti citate nel rapporto annuale del Dipartimento di Stato americano. (1)

Afferrare il senso della dimensione di questa campagna vuol dire anche rendersi conto che i Falun Gong costituiscono il gruppo più grande di prigionieri di coscienza in Cina e forse nel mondo. L’espressione “prigioniero di coscienza”, coniata da Amnesty International, s riferisce a individui che siano stati imprigionati per via della loro razza, religione o stile di vita, nonché per l’espressione nonviolenta delle loro convinzioni. I seguaci Falun Gong rientrano chiaramente in questa categoria e anche Amnesty, nei suoi ripetuti appelli a nome dei prigionieri Falun Gong, lo ha ribadito.

Un rapporto di Human Rights Watch del 2005 riportava le dichiarazioni di uno degli intervistati: “Dei circa 1.000 detenuti del campo di Jilin, la maggior parte apparteneva al gruppo dei Falun Gong” (2). Da un insieme più recente di testimonianze pubblicate dal gruppo Chinese Human Rights Defenders, risulta che “i praticanti Falung Gong costituiscono uno dei gruppi più numerosi di prigionieri nei campi”, un’affermazione confermata da oltre la metà dei 13 intervistati, detenuti nei campi di Shaanxi, Liaoning e Heilongjiang (3).

“L’anno scorso il Campo di lavoro femminile di Pechino, per esempio, conteneva 700 Falun Gong e 140 criminali effettivi”, scrive Leeshai Lemish, che ha intervistato insieme a Ethan Gutmann – per un libro di prossima uscita – dozzine di prigionieri di coscienza Falun (4). Si moltiplichi questa cifra per il numero stimato di campi di detenzione in Cina – 300 – e si otterrà la cifra di 200.000 detenuti. (5)

Oltre al sistema dei extra-giudiziario dei campi di lavoro, nei dieci anni passati i giudici in tutto il paese – su ordine delle diramazioni locali del Partito – hanno emesso sentenze contro i Falun Gong in processi-farsa, condannando a pene che arrivano a 18 anni di reclusione. Le statistiche ufficiali ottenute dalla Fondazione Duihua rivelano come, solo a Shangai, 49 praticanti siano stati condannati alla prigione nel solo biennio 2005-06. (6)

In occasione delle Olimpiadi oltre 8.000 praticanti sono stati detenuti nella prima metà del 2008. Da quando la manifestazione si è conclusa, ci sono state notizie continue di sentenze emesse. Nel 2008, solo nella città di Weifang – nello Shandong – 162 praticanti sono stati condannati alla detenzione in prigione o in campi di lavoro.

Presi tutti insieme, i fatti raccontati sopra ci offrono un quadro che vede centinaia di migliaia di praticanti Falung Gong detenuti in campi e prigioni in tutta la Cina. Per fare un raffronto, si pensi che nel 2008 Reporter senza Frontiere ha stimato che in prigione vi sarebbero 48 cyber-dissidenti. Ancora, la stima più elevata del numero di Tibetani detenuti ammonta a 5.000 individui.

Cosa vuol dire tutto ciò? Il numero di gravi violazione dei diritti in Cina è maggiore di quanto molti non abbiano ancora realizzato e i Falun Gong sono un obiettivo di primaria importanza. Al di fuori dei confini cinesi, altre domande vengono in mente: vista tale realtà, come possiamo ripensare le nostre relazioni con la leadership cinese? Le nostre azioni stanno – direttamente o indirettamente – avallando l’imprigionamento di così tanti innocenti cittadini cinesi?

Dieci anni più tardi l’inizio di questa tragedia, cosa stiamo facendo per assicurarci di non essere complici di tali crimini?

NOTE

(1) 2008 Human Rights Report: China (includes Tibet, Hong Kong, and Macau) (http://www.state.gov/g/drl/rls/hrrpt/2008/eap/119037.htm)
(2) HRW, “We Could Disappear at Any Time,”FalunInfo.net - HRW: Excerpts about Falun Gong from: ?We Could Disappear At Any Time:? Retaliation and Abuses Against Chinese Petitioners (December 2005) (http://www.faluninfo.net/article/801/?cid=83). Il rapporto completo èdisponibile qui:http://www.hrw.org/reports/2005/china1205/china1205web.pdf
(3) Vedi: Chinese Human Rights Defenders, “Reeducation through LaborAbuses Continue Unabated:http://docs.law.gwu.edu/facweb/dclarke/public/CHRD_RTL_Report.pdf
(4) Vedi National Post ‘The Games Are Over, the PersecutionContinues’: http://network.nationalpost.com/np/blogs/fullcomment/archive/2008/10/07/leeshai-lemish-the-games-are-over-the-persecution-continues.aspx
(5) Vedi: “Media and New Religious Movements: The Case of Falun Gong,”A paper presented at The 2009 CESNUR Conference, Salt Lake City, Utah,June 11-13, 2009 Media and New Religious Movements: The Case of Falun Gong (Lemish) (http://www.cesnur.org/2009/slc_lemish.htm)
(6) Analisi ottenuta dopo aver ricercato l’espressione “Falun Gong”nel database dei prigionieri politici della Congressional ExecutiveCommission sulla Cina.
(7) Vedi nota 6.

motorino radicale
22-07-09, 22:54
La miope campagna anti-aborto di Buttiglione (e Roccella). Oggi come ieri, per avere meno aborti occorrono più informazione e più anticoncezionali

di Valter Vecellio

Si apprende, grazie a una lunga intervista di Aldo Cazzullo per “Il Corriere della Sera”, che Rocco Buttiglione, intende guidare “una grande campagna internazionale per raggiungere l’obiettivo che si sono dati il papa Benedetto XVI e il presidente degli USA Obama”, cioè limitare e contrastare al massimo il numero di aborti: in Italia e nel mondo. In funzione di questo obiettivo Buttiglione ha promosso e ispirato una mozione alla Camera dei Deputati che chiede al Governo di attivarsi in sede ONU, un’iniziativa cui il centro-destra si è prontamente associato.



Obiettivo auspicabile, oltreché lodevole, non fosse che non ci si preoccupa minimamente di indicare una “politica” che si faccia carico del problema, di come governarlo individuando come conseguire l’obiettivo che ci si prefigge. E’ da immaginare che a Buttiglione la cosa non piaccia; e il centro-destra, così mobilitato nel tentativo di ricucire lo “strappo” provocato dagli atteggiamenti di “papi”, si è ben guardato dal sollevare la questione. Ci sono solo due strumenti, validi ed efficaci, per contrastare l’aborto (a parte l’astinenza): si chiamano anticoncezionali, e adeguata informazione( informazione, non educazione!), che è ben lungi dall’esser soddisfacente, visto che tutte le indagini demoscopiche rivelano come una quantità di donne, e spesso ragazze, hanno rapporti sessuali non protetti: rischiano così non solo gravidanze non desiderate, ma anche malattie e contagi. Per inciso: già nel 1967 i radicali manifestavano a piazza San Pietro, esibendo cartelli con scritto: “Più pillola, meno aborti”; ed erano impegnati a fianco dell’AIED di Luigi De Marchi.



Nel corso del dibattito parlamentare della settimana scorsa Buttiglione ha fatto cenno alla situazione nelle favelas brasiliane. Allora è bene ricordare anche quello che ha detto recentemente don Luigi Verzé, il fondatore del San Raffaele, nel libro-colloquio con il cardinale Carlo Maria Martini “Siamo tutti nella stessa barca”: “Nella mia visita alle favelas del Brasile frequentemente mi incontravo con povere donne senza marito con un bimbo in seno, un altro in braccio e una sfilza di altri che le seguivano, tutti prodotti di diversi mariti. Era giocoforza concludere che la pillola anticoncezionale andava consigliata e fornita”.



Nella mozione di Buttiglione (e nell’intervista al “Corriere della Sera”) non si fa alcuna menzione agli anticoncezionali. E’ il grande, vistoso, limite dell’iniziativa che ha promosso; e tradisce anche la sua finalità politica.



Le parole di Buttiglione sono state accolte con entusiasmo dal sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella, impegnata da tempo nella sistematica rimozione e demolizione del suo passato. Figuriamoci se ci si permette di censurare chi mostra di aver mutato opinione. Dopo aver letto l’intervento di Eugenia Roccella ospitato sul “Corriere della Sera” “(“il muro della 194 è caduto, l’aborto è a una svolta”), ci si è limitati ad andare a rileggere un libretto dimenticato, “Aborto, facciamolo da noi”, pubblicato nel 1975 dall’editore Roberto Napoleone. Si apre con una dedica, siglata E.R.: “…A Paolo VI, Fanfani, la DC, a tutti coloro che sono contro l’aborto libero, gratuito, assistito, per l’aborto clandestino, di massa e di classe, magari in none del ‘principio della vita’, perché ci pensino su…A le sorelle e i compagni del Movimento di Liberazione della Donna, del Partito Radicale, del CISA, della Lega 13 Maggio, dell’ “Espresso”, dei comitati raccolta firme, a tutti coloro che hanno fatto e fanno qualcosa per l’aborto libero…A tutte le donne, perché prendano in mano il proprio destino e la propria lotta, perché la sorellanza sia aiuto concreto tra donne per lottare insieme per la liberazione nostra e di tutti…”.



Nella lunga introduzione, si può tra l’altro leggere: “…E’ un vecchio discorso che non ci stancheremo di ripetere, perché a difendere il diritto dell’aborto dobbiamo essere proprio noi femministe, noi donne, che l’aborto in sé per sé siamo le ultime a volerlo: ma è un primo passo verso la libera disponibilità e l’autogestione del nostro corpo, senza la quale non c’è libertò né felicità possibile. Invece proprio su questo e in particolare sulle nostre funzioni riproduttive, sono state messe ipoteche: il patriarcato ci ha tolto ogni giurisdizione sul nostro corpo, sequestrandoci nella famiglia, applicandoci il bollo del cognome maritale e paterno, imponendo alle donne una sessualità solo riproduttiva, vietandoci l’aborto, impedendoci qualunque possibilità di controllare la nostra fecondità…”.



L’introduzione recava la firma di una dirigente del Movimento di Liberazione della Donna di allora, Eugenia Roccella. Se l’anticomunista più accanito è chi ha un passato di comunista, e se l’anticlericale più determinato è chi ha indossato una tonaca e poi l’ha gettata alle ortiche, non stupiscono certo i “sentimenti” di oggi del sottosegretario Roccella, cui si augura di essere convinta oggi di quello che sostiene come lo era ieri, quando sosteneva le cose che sosteneva. Un dubbio, in questo senso, tuttavia, ci si permette di coltivarlo…

motorino radicale
22-07-09, 22:54
Notizie che non fanno notizia

• A cura di “N.R.”
Gran Bretagna: nelle carceri arrivano i distributori di metadone



Per i detenuti eroinomani arrivano nelle prigioni inglesi i distributori automatici di metadone. Il governo britannico ha investito 4 mln di sterline per questo progetto. Installati per ora in 57 penitenziari, i distributori identificano il detenuto tramite le sue impronte digitali e la scansione dell’iride e gli forniscono una dose personalizzata del farmaco.


Brasile: "Ala dos viados"; creata una Sezione per omosessuali



Il carcere brasiliano di Sao Joaquim de Bicas, alla periferia di Belo Horizonte, in Brasile, ha inaugurato oggi un braccio riservato unicamente a transessuali, travestiti e gay. "L’ala dos viados", come è stata soprannominata, ospita attualmente venti detenuti in dieci celle. Gli omosessuali avevano chiesto ripetutamente in passato di esservi trasferiti. Gli ospiti dell’ala speciale godono di alcuni privilegi, come quello di poter lasciarsi crescere i capelli. Il braccio del penitenziario è stato creato a titolo sperimentale su richiesta della segreteria di diritti umani del governo di Minas Gerais, e la formula potrebbe estesa ad altre prigioni brasiliane se avrà successo.


Iran: 41 sono in carcere, tra blogger, giornalisti e fotoreporter



Quarantuno. Tanti sono i blogger, giornalisti e fotoreporter iraniani in prigione. Ad un mese dall’inizio delle proteste post elezioni, Reporter senza frontiere esprime tutta la sua preoccupazione, affermando che "quattro degli ultimi cinque arrestati sono nascosti in un posto segreto e, come succede agli altri, i familiari non hanno alcuna notizia sulle loro condizioni. In molti di questi casi, ai prigionieri non è concessa nessuna visita e gli avvocati non possono accedere ai loro fascicoli". Tra gli ultimi arrestati c’è il fotografo Tohid Bighi del sito Mashroteh (che alle presidenziali supportava il candidato riformista Mehedi Karoubi), detenuto da sabato senza alcun motivo apparente. Il giorno prima è toccato, fermato davanti casa, al suo collega Majid Saeedi, che nel 2001 aveva fatto un reportage dall’Afghanistan per il “Time”. Simili circostanze per le giornaliste Henghameh Shahidi, autore del blog d’ispirazione riformista Paineveste, attestata il 29 giugno e Somaieh Nosrati, redattrice delle pagine parlamentari di Teheran Emoroz e Hayat No, arrestata il 21 giugno. I quattro sono stati portati in un posto segreto. Anche Said Matinpour, del settimanale in lingua azera Yarpagh, è detenuto da sabato dopo essere stato processato dalla Corte rivoluzionaria di Teheran. Un mese fa è stato condannato a otto anni di detenzione perché imputato di "avere collegamenti con stranieri" e "propaganda anti-regime".



Droghe: nel 2008, hanno fruttato alle mafie 59 miliardi di euro

Niente di meglio del sano proibizionismo per le mafie, pronte a monopolizzare i mercati neri di tutto il mondo. In Italia il crimine e l’economia irregolare hanno fruttato lo scorso anno oltre 400 miliardi di euro. La stima è del “Sole 24 Ore”, che in un servizio sul quotidiano di ieri sottolinea come "la maggior parte" sia frutto dell’economia in nero "che lo scorso anno ha incassato 250 miliardi, producendo un mancato gettito fiscale di almeno 100 mld". Mentre "i restanti 170 miliardi sono il bottino dei reati: il più remunerativo nel 2008 è stato il traffico di droga che ha movimentato complessivamente 59 miliardi".

motorino radicale
22-07-09, 22:55
Carceri di nuovo in emergenza e le balle e Prodi

di Luigi Manconi e Andrea Boraschi

Vale la pena di ricordarlo? Nel sistema penitenziario italiano sono attualmente recluse 63.710 persone, ventimila oltre la capienza regolamentare; e si è oltrepassata anche la così detta “soglia di tolleranza”, il limite ultimo di capacità d’accoglienza degli istituti di pena. Mai così tanti detenuti dal secondo dopoguerra (e dall’amnistia di Togliatti). Sappiamo che oggi la cosa suscita ben poca attenzione; e che la “questione carcere” risulta tuttora profondamente compromessa dalla mobilitazione “ideologica” che ha accompagnato l’approvazione del provvedimento di indulto del luglio 2006. Eppure, sulla scorta di dati limpidi e inoppugnabili, oggi siamo in grado di dire che quell’atto di clemenza – anche se negativamente condizionato dalla mancata approvazione di una contemporanea amnistia – ha fatto bene al carcere e alla società. Una recente ricerca, curata da Giovanni Torrente dell’Università di Torino per l’associazione “A Buon Diritto”, conferma che il carcere, come strumento di repressione del fenomeno criminale, funziona poco o punto. E dimostra che quante più volte si è finiti in carcere, tanto più, paradossalmente, si tende a farvi ritorno: ovvero, la detenzione negli istituti di pena non rieduca e non dissuade dal proseguire in una condotta criminale. Ancor più, il carcere sembra socializzare oltre misura a quella condotta. I dati, riferiti ai detenuti beneficiati dell’indulto del 2006, dicono che il tasso di recidiva (reiterazione del reato) di chi ha alle spalle una sola esperienza detentiva è del 27 per cento, mentre – tra quanti hanno alle spalle tre carcerazioni – è del 39,4 per cento. Sale al 43,8 per cento per chi ne ha quattro e raggiunge il 52,5 per cento per chi ne ha cinque o più. Dunque, più carcere si fa, più si delinque. Cosa confermata, peraltro, sempre in quella ricerca, dal tasso di recidiva di chi è tornato in libertà dopo aver beneficiato di misure alternative: è del 21,7 per cento (contro il 30,3 per cento di chi invece è uscito da un istituto di pena). Lo studio di Torrente, infine, smentisce definitivamente ogni luogo comune sul provvedimento di clemenza che fu di iniziativa parlamentare ma che, ancora oggi, resiste, nell’immaginario collettivo, come il più insidioso capo di imputazione nei confronti del governo Prodi: il tasso di recidiva medio, a tre anni di distanza, è del 28,4 per cento. E’ tanto? Certo, è tanto ed è troppo. Ma è assai meno della metà del tasso di recidiva medio, che interesse la popolazione detenuta nel suo complesso: che arriva al 68 per cento. In quello scarto sta la valutazione positiva che si può dare all’indulto: ecco ha interrotto il ciclo criminale di migliaia di persone: e ha impedito che le carceri implodessero. Così facendo, ha contribuito alla sicurezza collettiva.

motorino radicale
22-07-09, 22:55
I liberali italiani dall’antifascismo alla repubblica (vol. 1)

• da L’”Indice dei libri del mese”, n. 7/8, luglio-agosto 2009

di Angiolo Bandinelli

Se, nel dibattito politico, si fa ancor oggi un proditorio uso ed abuso del termine “comunismo”, non manca chi dal lato opposto rievoca o riesuma, con pervicace insistenza, il termine “liberalismo”: quanto più scomparso come sostantivo tanto più il liberalismo viene qua e là invocato nella sua forma aggettivata, fino al vagheggiamento di un “partito liberale di massa” che in Italia non è esistito nemmeno nell’età d’oro dei seguaci di Benjamin Constant, J. Stuart Mill o Benedetto Croce. Certamente in Italia ci sono stati liberali, e c’è stato un Partito Liberale Italiano la cui storia merita senz’altro rispetto. Bene fa dunque ad occuparsene attivamente il “Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale”, l’istituzione nata a seguito di un convegno di studio tenutosi presso l’Università di Siena nel 2004 e che a sua volta ha promosso analoghe occasioni: nell’ottobre 2006, ancora a Siena, realizzava un secondo incontro, dedicato a “I liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica”, i cui materiali ci sono ora offerti in una ponderosa antologia: una trentina di interventi e saggi, per oltre ottocento pagine. Il volume sarà seguito - si spera tra breve - da un secondo, con le risultanze di due analoghi convegni svoltisi a Padova e a Napoli nel 2007.



La documentazione che ci viene offerta dall’antologia, curata da Fabio Grassi Orsini e Gerardo Nicolosi, è condita con il sale di una orgogliosa apologetica, e punta scopertamente a ravvivare l’interesse per una vicenda politica, per una cultura, per figure non banali, anche se non più capaci di ripetere quell’immediato dopoguerra quando Benedetto Croce o Luigi Einaudi giocarono un ruolo di altissimo profilo anche istituzionale. Ci fu allora chi si illuse che l’Italia potesse finalmente avere la sua bella età del liberalismo dispiegato e trionfante. Non fu così, e nell’antologia non manca chi riconosce che quel tanto di liberalismo che si ebbe in quel momento - sia pure non in forma di sostantivo ma di aggettivo - venne promosso dal cattolico De Gasperi. Fu De Gasperi a volere Einaudi alla Presidenza della Repubblica, e la scelta fu felice. Ma anche irripetibile e irripetuta: tra compromesso storico e dilagante partitocrazia anche quel liberalismo cattolico ebbe breve vita, assieme a ogni “terza forza” che tentasse di opporsi al montante compromesso storico.



Il volume ci documenta, momento dopo momento, sulla presenza del PLI dall’antifascismo e dalla Resistenza in poi, fin circa il 1953, con indagini sulla composizione della sua classe politica, la sua cultura militante, le sue iniziative e il suo rapporto con le istituzioni. Seguono una serie di medaglioni relativi a personalità eminenti del movimento, da Giovanni Amendola ad Alberto Bergamini, Novello Papafava, Mario Pannunzio, Eugenio Artom, Gaetano Martino, Giovanni Malagodi (molti altri nomi si potrebbero onorevolmente aggiungere), e inchieste sui rapporti tra liberali, socialisti e monarchici. Non manca neanche l’attenzione per figure provenienti da altri filoni ed esperienze: in questo volume compare Guido Calogero, nel secondo si parlerà del “radicale” F.Saverio Nitti, del Partito d’Azione o dei Demolaburisti (manca, invece, qualche eretico tipo Panfilo Gentile). Ma abbiamo la sensazione che il termine ad quem - il 1953 - sia stato scelto per evitare di dover fare i conti con un evento non secondario, vale a dire la nascita, da una costola del PLI, del Partito Radicale. Di Mario Pannunzio si mette in giusto risalto l’opera, non solo giornalistica; il suo percorso politico viene però fatto concludere con il convegno del 1951 che vide i dissidenti della “sinistra liberale”, di cui Pannunzio faceva parte, rientrare nel PLI. Ma solo quattro anni dopo Pannunzio promuoveva la nascita del Partito Radicale, concepito da lui e da quanti collaborarono al progetto - Ernesto Rossi o Nicolò Carandini o Mario Ferrara - come l’approdo obbligato della esperienza liberale giudicata, non solo da loro, come già conclusa in epoca prefascista. Una riflessione, sul piano meramente storiografico, l’avrebbe meritata anche l’ulteriore evoluzione - o inveramento storico? - nel radicalismo di Marco Pannella, capace, con il suo aggiuntivo libertarismo, di condurre grandi battaglie maggioritarie e vincenti. E’ diffusa opinione che esso sia estraneo o comunque diverso rispetto alla tradizione del PLI o alla cultura di Pannunzio, Carandini o Paggi. E’ un’opinione comunque da discutere, visto che Pannella e i suoi rivendicano quanto meno la continuità giuridica con il partito fondato nel 1955. Il Partito Radicale di oggi è del resto schierato nella difesa e promozione delle istituzioni, come dell’economia e della civiltà liberale, richiamandosi proprio a Croce o Einaudi. Invece dell’ostracismo, non sarebbe meglio il riconoscimento che l’innesto libertario e della nonviolenza ha forse aperto una nuova prospettiva al liberalismo classico?



“I liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica”.

a cura di Fabio Grassi Orsini e Gerardo Nicolosi.

Vol. I, pp. 838, Є 36. Rubbettino, Soneria Mannelli (Cz) 2009

motorino radicale
22-07-09, 22:56
Se le guerre non hanno un giudice

• da "L'Unità"

di Emma Bonino

Undici anni fa nasceva il tribunale internazionale sui crimini di guerra. Oggi la posizione dell’Africa che non coopera rimette tutto in discussione



Questa settimana ricorre l'undicesimo anniversario della nascita della Corte Penale Internazionale. Il 17 luglio 1998 i governi di 120 stati adottarono a Roma lo Statuto che consentì, quattro anni dopo, d'istituire, per la prima volta nella storia, un tribunale permanente su crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio. Dovrebbe essere una settimana di celebrazioni, quindi. Celebrazioni per festeggiare il fatto che, indipendentemente dall'incarico di potere ricoperto, chi si macchia di questi gravi crimini alla fine viene giudicato. Prevale, invece, un senso di apprensione e di frustrazione: proprio quando la Corte avrebbe dovuto avvicinarsi all'età adulta, improvvisamente scoppia una crisi adolescenziale.


Paradossalmente, la fonte di preoccupazione proviene dall'Africa, continente che in questi anni ha dimostrato il maggior interesse per la crescita e l'affermazione della Corte. Le nazioni africane sono state la forza motrice della sua costituzione e le più attive nel sottoporle casi, come tre dei quattro attualmente in giudizio. Per questo, la dichiarazione della scorsa settimana a conclusione del Summit dell'Unione Africana in Libia, che esortava i suoi stati membri a non cooperare con la Corte, rappresenta un passo indietro inquietante.



Innanzitutto, è una violazione dei principi di responsabilità contenuti nell'Atto Costitutivo dell'Unione Africana. In secondo luogo, viene meno all'impegno, preso dagli stati africani membri della Corte al meeting ad Addis Abeba d'inizio giugno, in cui riaffermavano il loro supporto allo Statuto di Roma come mezzo per porre fine all'impunità. Infine, è soprattutto un tradimento nei confronti del popolo africano, dal momento che schiera l'Unione dalla parte dell'impunità e a favore degli oppressori anziché degli oppressi. Le ciniche e antidemocratiche tattiche usate dalla presidenza libica, durante il Summit, per imbavagliare il dibattito, forzare l'adozione della dichiarazione e dipingere la Corte come una sinistra istituzione coloniale, vanno denunciate in maniera ferma. Come pure il tentativo, purtroppo riuscito, di una classe dirigente che fa quadrato per proteggere «uno dei loro».

Invece, la comparsa questa settimana del presidente della Liberia, Charles Taylor, davanti al Tribunale Speciale per il Sierra Leone prova che, con una sufficiente pressione internazionale, anche leader come Omar Al-Bashir possono essere portati a rispondere delle loro azioni. I meccanismi della Corte non sono perfetti, d'accordo, ma non dobbiamo dare adito alla tesi fuorviante che questi abbiano un impatto negativo sui negoziati di pace nei paesi dove si svolgono indagini. In Uganda, per esempio, dove una guerra civile è infuriata per più di 20 anni, solo quando la Corte ha iniziato le indagini i protagonisti si sono seduti al tavolo dei negoziati; e in Sierra Leone i tentativi di pace si sono sbloccati quando il Tribunale Speciale per il Sierra Leone è diventata componente centrale nella ricostruzione post-conflitto.

L'esperienza dimostra che la Corte rafforza gli attori locali che vogliono costruire una pace reale e stabile, basata sulla responsabilità e sullo stato di diritto. È forse anche per questo che per la giustizia in Africa sono tempi difficili. Ma, in occasione dell'undicesimo anniversario della CPI, la scelta che si presenta ai leader del continente è molto semplice: o sono dalla parte delle vittime del Darfur e della giustizia, oppure dalla parte del Presidente Al-Bashir e dell'impunità. La prima scelta aiuterebbe a costruire un futuro migliore per la loro gente, la seconda non solo minerebbe il sistema di giustizia penale internazionale - della quale si dichiarano sostenitori - ma anche, riprendendo le parole di Kofi Annan, «indebolirebbe il desiderio di dignità umana che risiede nel cuore di ogni africano».

E l'Italia? Rischia di predicare bene e razzolare male. Nonostante sia stata tra i primi ad aver ratificato lo Statuto (luglio 1999) e nonostante la creazione di quattro commissioni ministeriali e altre iniziative parlamentari - tra cui la proposta di legge presentata dai deputati radicali - l'Italia non ha ancora adottato alcuna normativa di attuazione necessaria per consentire la cooperazione delle nostre autorità con la Corte. Senza la quale anche le migliori intenzioni rischiano di vanificarsi, con la prospettiva che l'Italia diventi il rifugio per i peggiori criminali di guerra.

motorino radicale
22-07-09, 22:57
Notizie che non fanno notizia

• A cura di “N.R.”

Droghe: nella regione Lazio, tossicodipendente un detenuto su tre.



I detenuti presenti nei diciotto penitenziari del Lazio sono 5.634, di cui 3.622 italiani e 2.012 stranieri. Un terzo della popolazione carceraria è tossicodipendente, con una netta prevalenza di uomini (1.655), rispetto alle donne (74), e circa la metà appartiene alla cosiddetta “area del consumo problematico” di sostanze stupefacenti, con un’incidenza notevolmente superiore alla popolazione non reclusa. Questa, secondo i dati del ministero della Giustizia, la fotografia dei detenuti tossicodipendenti che affollano le carceri laziali.



Droghe: Gran Bretagna, il dipartimento salute chiede la legalizzazione dell’eroina.



Il professor John Ashton, direttore del Dipartimento di Salute Pubblica della regione di Cumbria, ritiene che le droghe “pesanti” dovrebbero essere legalizzate e disponibili in farmacia, aggiungendo che “la guerra alle droghe è stata un fallimento. Occorre un diverso approccio”. Partecipando alla conferenza sulle droghe “Tackling Drugs, Changing Lives”, ha paragonato la situazione attuale inglese a quella del proibizionismo americano degli inizi del secolo scorso. “Malgrado l’illegalità, le droghe di classe A sono ovunque disponibili”.

Il professor Ashton ha chiesto un cambiamento radicale nell’affrontare il problema, affermando che dovrebbe essere considerato un reato promuovere la sostanza, non consumarla. “Cosa abbiamo fatto con l’illegalità è simile a quello che fece l’America con l’alcol negli anni ’30. All’epoca c’era Al Capone e un’enorme attività criminale intorno. L’alcol e la nipoti hanno un florido mercato, con pop stars e atleti che ne promuovono ovunque l’uso. Questo è ciò che vorrei limitare. Dovrebbe essere reato promuovere il consumo di alcol, nicotina e droghe”.

Vendendo le droghe in farmacia, sostiene il professor Ashton, “si conoscerebbero i nomi dei consumatori. Si eliminerebbe il mercato nero. Sono certo che si arriverà a questo. Siamo così concentrati sulla parte criminale che ignoriamo la prevenzione. Finanziamo carceri e forze straordinarie di polizia, ma è in prigione che molti cominciano a consumare droghe. Anniamo così ricchi signori delle droghe e interi quartieri dominati dai crimini alle droghe. Controllare la disponibilità significa togliere risorse a questi criminali e al mercato illlegale”.



Cambogia: bambini-detenuti uccisi, per evitare rischio vendette.

Ammissione choc davanti al Tribunale speciale per i crimini commessi durante la dittatura comunista. I bambini imprigionati nel carcere di Tuol Sleng (S-21) dai Khmer rossi in Cambogia vennero atrocemente assassinati per evitare che si vendicassero una volta divenuti adulti. Lo ha detto il responsabile del carcere Kang Khev Iev, conosciuto anche come “il compagno Duch”. “Quando i bambini arrivavano al carcere avevo ordinato che fossero uccisi, perché eravamo preoccupati che potessero vendicarsi se fossero sopravissuti”, ha detto Duch alla Corte. “Dovevo adempiere alle direttive del Partito Comunista”, si è difeso l’ex capo dell’S-21, un liceo scientifico di Phnom Penh trasformato in un luogo di tortura, dove interrogò e fece morire almeno 15mila persone.

Duch ha poi confermato che alcuni dei bambini vennero uccisi atrocemente, sbattendoli contro gli alberi: “Non ho ordinato io quel crimine, ma sono convinto che i miei compagni lo abbiano fatto”.



Droghe: quasi metà dei detenuti ha problemi di tossicodipendenza.

Degli oltre 60mila detenuti nelle carceri italiane, quasi la metà è costituita da tossicodipendenti o appartenenti all’eterogenea area dei consumi di sostanze stupefacenti, molto spesso non diagnosticati. “La violazione della legge sugli stupefacenti”, dice Gerardo Guarino, segretario di ACUDIPA (Associazione nazionale per la cura delle dipendenze patologiche), “è tra le cause maggiori di ingresso in carcere, e contribuisce in maniera determinante al sovraffollamento degli istituti”.



Russia: giornalista denuncia torture sui detenuti della Cecenia.

Come ai tempi dell’Unione Sovietica. La giornalista russa Elena Maglevannaia ha chiesto asilo politico alla Finlandia, dopo aver partecipato a una conferenza a Helsinki. La giornalista, che è anche attivista per la difesa dei diritti umani nei suoi articoli ha denunciato le torture sui detenuti nelle carceri della Cecenia.

motorino radicale
22-07-09, 22:58
Figli di un dio minore. Malformazioni, inquinamento ambientale, omissioni. Dimmi dove nasci, ti dirò come vivrai

di Elena Ciccarello

Il mensile “Narcomafie” pubblica un articolo di Elena Ciccarello sulle malformazioni, conseguenza evidente, ma taciuta, dell’inquinamento ambientale: “Pochi però, si preoccupano di tenerle d’occhio. Così in Italia il luogo in cui si nasce può cambiare il proprio destino…”.



Una gravidanza senza intoppi con i giorni che precipitano allegri verso l’appuntamento del parto. L’orologio si ferma solo sulla soglia della stanza d’ospedale, finché il bambino non nasce. Poi tutto diventa veloce, inatteso, drammatico. Così ricorda la nascita di suo figlio il signor Domicoli. Una corsa frenetica tra ospedali, da Vittoria a Ragusa, da Ragusa a Catania. Cinque lunghi giorni in una stanza, fissando il corpicino di Carlo attaccato alle macchine. Il tempo scandito da analisi e esami, fino alla scoperta che la causa di tutto è un’alterazione genetica. Un fattore esterno.



Domicoli, guardando le fiamme delle ciminiere che illuminano la notte e il mare di Gela, si chiede quanto lo stabilimento dell’Enichem sia responsabile delle sofferenze della sua famiglia. La risposta forse riposa su qualche scrivania della procura cittadina, in uno studio epidemiologico che evidenzia tra i neonati gelesi un’incidenza delle malformazioni doppia rispetto alla media nazionale, con una prevalenza di ipospadie (malformazione dell’apparato genitale) tra le più elevate mai riportate in letteratura.



Le prove ci sarebbero, ma bisogna cercarle. “Sono casi di malattia e morte che si potrebbero evitare”. Fabrizio Bianchi, dirigente di ricerca del dipartimento di epidemiologia del CNR di Pisa, studia da anni le ricadute dell’inquinamento sullo stato di salute delle popolazioni. Sono indagini molto complesse, perché non esistono “malattie di contaminazione”, perciò il compito dell’epidemiologo è di osservare, ed eventualmente riscontrare, l’aumento di alcune patologie in presenza di fattori a rischio.



E’ ormai provato che metalli pesanti, sostanze chimiche industriali, pesticidi e altri agenti incidono significativamente sulla salute. Resta da capire, per ogni singolo caso, quanta parte dell’eccesso di malattie sia effettivamente riconducibile all’inquinamento. Sono studi che richiedono anni, la cui reale complessità è stata spesso strumentalizzata, fino a diventare un alibi per negare evidenti problemi di salute pubblica.



Intanto, l’attesa di inconfutabili riscontri scientifici ha provocato, e continua a provocare, sofferenze – malformazioni, malattie e morti – che tempestivi interventi di bonifica dei siti contaminati potrebbero invece evitar. “E’ come per l’amianto, sono serviti decenni per accertare le normative di protezione. Ritardi che sono costati migliaia e migliaia di morti per mesotelioma pleurico e sofferenze che non sono ancora finite”. Bianchi parla con l’amarezza di una cassandra. “I nostri primi studi sulla Campania risalgono al 2004 e i primi dati su Augusta e Priolo, in Sicilia, a più di dieci anni fa. Da allora sono stati documentati eccessi di patologie di vario tipo. Ma ancora si va cercando lo studio risolutivo, dimenticando che per quel tipo di studi occorrono anni di ricerca e di finanziamenti”.



Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente (EEA) esistono negli Stati membri circa 250mila siti che necessiterebbero di interventi di bonifica. Molti di più invece i siti potenzialmente contaminati sui quali non è stato condotto ancora alcuno studio specifico. Più di 300mila in Europa, 13mila solo nel nostro paese. Tra quelli censiti in Italia ne sono stati individuati 53 di rilevanza nazionale e migliaia di competenza regionale. A questi si aggiungono migliaia di discariche abusive: ogni anno sono decine di milioni le tonnellate di rifiuti di cui si ha notizia di produzione ma nessuna traccia di smaltimento. Finiscono mescolate al terreno, sotto i manti stradali, sepolti in cave abbandonate. In questi casi l’epidemiologia è in grado di individuare le aree più compromesse, fornendo agli amministratori le basi scientifiche per stabilire delle priorità di intervento. Così è avvenuto in Campania, dove lo studio di due ricercatori, Fabrizio Minichilli e Francesco Mitis, ha circoscritto un’area tra le province di Napoli e Caserta, coincidente pressappoco a un sito da bonificare e una zona martoriata dalle discariche illecite di rifiuti. Nei comuni coinvolti sono stati registrati eccessi di mortalità e un rischio di indicende delle malformazioni superiori, rispettivamente, del 10 per cento e del 29 per cento ai valori di riferimento.



Tra le patologie che possono diffondersi in presenza di inquinamento, le malformazioni congenite, come quella che ha colpito il figlio del signor Domicoli, sono tra i gruppi di malattia più sensibili all’ambiente. “Sappiamo che ne sono responsabili fattori genetici e ambientali, agenti vitali, chimici e fisici. In breve, qualsiasi condizione anormale in grado di determinare alterazioni patologiche dell’ambiente uterino”, ci spiega la dottoressa Carmen Mortellaro, presidente di Fedra, una onlus che dal 2004 promuove la ricerca sulle patologie malformative. L’agenzia USA per le sostanze tossiche e i registri di malattia (ATSDR) le colloca al primo posto, insieme ai disordini riproduttivi , tra le condizioni di salute prioritarie. Per di più le malformazioni – rispetto ai tumori – hanno tempi di incubazione che coincidono alla gravidanza, perciò costituiscono una sorta di effetto a breve termine dell’inquinamento. Il loro monitoraggio sarebbe di particolare importanza per tenere sotto controllo le condizioni di salute di una popolazione, eppure in Italia esistono solo sei registri regionali, capaci di raggiungere esclusivamente il 45 per cento del campione nazionale. Una copertura a macchia di leopardo che lascia sguarnite le aree che ne avrebbero più bisogno. Un esempio? Taranto, sede dell’ILVA, una delle zone più inquinate d’Italia, non possiede alcuna struttura per la registrazione dei dati. Altri studi, come quelli su Gela, sono stati possibili solo grazie a una certosina indagine a ritroso, a partire da ricoveri e prestazioni sanitarie di dodici anni: 40mila schede e un lunghissimo lavoro di ricerca, all’inseguimento delle famiglie dei bambini segnalati dai pediatri nel corso di un decennio. Anche in questo caso, comunque, al netto delle difficoltà e dell’incompletezza dei dati, i risultati non si sono fatti attendere. Sono stati rilevati 530 malformati su 13mila nati, con un’incidenza di 40 casi su mille, il doppio rispetto al resto d’Italia.



Conoscere più approfonditamente l’entità del problema consentirebbe di attuare politiche sanitarie più idonee sia in termini di prevenzione che di assistenza. Eppure nulla sembra muoversi in tal senso. Il 22 luglio del 1999 fu gettato un sasso nello stagno con il decreto del presidente del Consiglio dei ministri n.170, proposto dall’allora ministro della Sanità Rosy Bindi, ma rimasto lettera morta. Queste ricerche continuano a non rappresentare una priorità politica. Perciò, ancora oggi, le donne non possono conoscere i rischi connessi al vivere in luoghi contaminati dai rifiuti. I bimbi come Carlo ricevono con difficoltà le cure e l’assistenza adeguata. E ai papà come Domicoli non resta che continuare a chiedersi, in solitudine e senza risposta, se il proprio figlio sia stato destinato a una vita più difficile a causa della negligenza di qualcuno.

motorino radicale
22-07-09, 22:58
Tra notizie fasulle e informazione negata. I radicali intanto…Pannella, Bonino, i radicali, più che mai vieti e vietati

di Valter Vecellio

Si può cominciare da un’agenzia “AdN-Kronos” delle 13.57 di ieri, 20 luglio: “La notizia di una suora salesiana multata dalla polizia stradale per aver superato il limite di velocità sull’autostrada Torino-Aosta, diffusa il 18 luglio scorso dalle principali agenzie di stampa, non trova conferme dalle verifiche effettuate sull’attività svolta dalle pattuglie della specialità nelle scorse giornate in Piemonte”. E’ quanto afferma un comunicato della polizia stradale. Nel comunicato, la polizia sottolinea che “appare destituita di ogni fondamento la vicenda così come descritta e cioè che la religiosa in apprensione per le condizioni di salute del papa per gli esiti dell’intervento per la frattura al polso, sia stata fermata da agenti della polizia stradale per aver percorso a velocità elevata (180 km orari) il tratto autostradale tra Torino ed Aosta nei pressi di Quincinetto”.



La “notizia” delle suore in apprensione per la salute di papa Ratzinger, e per questo guidatrici indiavolate, ha avuto grande risalto: servizi nei telegiornali, e il 19 un po’ su tutti i quotidiani. “Notizia” talmente ghiotta che qualche giornale ci è tornato anche il 20 luglio. E si può immaginare come nelle redazioni falcidiate dal fine settimana la “notizia” sia stata confezionata: il “take” di agenzia ripulito e “arricchito” da qualche agenzia, e via: un altro articolo…



Poi, la smentita: chissà perché ci hanno impiegato due giorni a dire che “appare destituita di ogni fondamento la vicende così come descritta…”. Non dev’essere frequente che tre suore, a bordo di una vettura Ford Fiesta viaggino a 180 km orari, e quindi se una pattuglia della polizia le ha fermate o no, non dev’essere complicato da accertarlo…Forse qualcuno è intervenuto, chissà…



Ad ogni modo la polizia stradale è drastica: “Appare destituita di ogni fondamento”. Infortuni, si dirà, che possono capitare; e come no? Come un infortunio fu la notizia del povero pensionato che, praticamente ridotto alla fame, ruba un pezzo di formaggio in un negozio in Sardegna; il proprietario del negozio scopre il furto, ma conosciutane la ragione, perdona il pensionato-ladro e gli regala formaggio e altri generi alimentari. Bella storia, anche allora se ne occuparono televisioni e giornali. Peccato solo fosse inventata di sana pianta: un occhiuto osservatore si accorse che la fotografia del negozio che accompagnava l’articolo non era in Sardegna, ma in una regione del nord Italia. Il giornalista fidando nella genericità della fotografia e nella poca attenzione dei lettori, aveva letteralmente costruito una storia da libro “Cuore”, e dopo qualche giorno lo ammise.



Cosa se ne ricava? Questo: che nelle redazioni sempre più è caccia non alle notizie interessanti, ma alle notizie divertenti o patetiche; e che non ci si dà quasi mai pena di verificarle. E’ pubblicata su un giornale o diffusa da un’agenzia? Tanto basta, e il circo si mette in moto.



C’entrano, i radicali? C’entrano. Perché i radicali e le loro iniziative sono percepiti generalmente come petulanti e noiosi. Perché le questioni che sollevano e agitano, e di cui hanno perfino l’ardire di offrire possibili soluzioni, sono appunto giudicate petulanti e noiose.



E’ noiosa la questione delle carceri e del più generale problema della giustizia, sempre più allo sfascio; è noiosa la questione delle pensioni e dell’innalzamento dell’età pensionabile per le donne, con tutto quello che ne consegue; è noiosa la questione del testamento biologico e del fine vita, degli anticoncezionali e dell’informazione sessuale; è noiosa la questione sollevata da Marco Pannella e dai radicali della democrazia all’interno dei partiti, della libertà del cittadino di potersi associare; è noioso il rapporto, faticoso e accidentato, tra PD e radicali; è noiosa la questione climatica sollevata da Elisabetta Zamparutti sulle inadempienze dei controlli e delle informazioni sulle emissioni co2; è noiosa la questione relativa all’immigrazione sollevata da Rita Bernardini e Emma Bonino; è noiosa la questione dei finanziamenti negati alla ricerca sulle cellule staminali embrionali sollevata da Maria Antonietta Farina Coscioni e da Marco Cappato (per non dire delle dottoresse Cerbai, Garagna e Cattaneo, e dalla rivista “Nature”); è noiosa la relazione annuale dell’Unione europea sui diritti umani per il 2008 che ha visto come relatore Matteo Mecacci; è noiosa la clamorosa denuncia di Maurizio Turco relativa ai mezzi di protezione e sicurezza dei soldati italiani che operano sui mezzi “Lince” impiegati in Afghanistan e la questione dei diritti negati ai militari; è noiosa la questione degli ammortizzatori sociali e la mozione parlamentare approvata per modello welfare to work…



Sono davvero tante le cose noiose, ci si è limitati a citarne solo alcune, le prime che sono venute in mente. Al punto che giovedì scorso per la prima volta, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ha reso nota una delibera clamorosa sull’informazione radiotelevisiva: si è accolta la denuncia dei radicali, e si è accertata la violazione, nel periodo 2007-2009 del Contratto di Servizio pubblico Stato-RAI per il lungo inadempimento degli obblighi del servizio pubblico, in particolare a danno dei soggetti del movimento radicale. E’ un primo, storico passo verso l’interruzione di una condotta che da decenni vede negare agli italiani il diritto di conoscere per deliberare. L’Agcom accerta inequivocabilmente un fatto storico, e diffida il servizio pubblico “dal reiterare la sua condotta illecita”. Naturalmente tutti presi da notizie “divertenti” o “patetiche”, non se n’è accorto nessuno.



Si è insomma ritornati alla situazione precedente alle elezioni, quando Pannella, per ripristinare un minimo di quella legalità così clamorosamente violata, fu costretto a un lungo sciopero della fame e della sete, una situazione di così grave e patente illegalità che lo stesso presidente della Repubblica Giorgio Napolitano fu costretto a intervenire. Allora qualche brandello di informazione venne recuperato. Brevissima stagione, il muro della censura e della disinformazione è oggi più che mai la questione con cui ci si deve tornare a misurare. Marco Pannella, Emma Bonino, i radicali sono oggi più che mai vieti e vietati.

motorino radicale
22-07-09, 22:59
Le vene aperte del delitto Moro

di Valter Vecellio

Ancora un libro sulla vicenda Moro? C’è ancora altro che non sia stato detto, scritto, insinuato, gridato, sussurrato, evocato? Evidentemente sì, se è vero quanto scrive il curatore di “Le vene aperte del delitto Moro” (Mauro Pagliai editore, pagg.357, 23 euro), “se dal capitolo dei delitti e delle pene si passa all’analisi di ciò che hanno significato i 55 giorni trascorsi tra il sequestro e l’uccisione di Moro, si può parlare di vene aperte…Sono domande ancora appese, quasi conficcate, ai punti interrogativi, smarrimento delle interpretazioni, particolari grandi o piccoli che, ognuno animato da una logica interna quasi sempre assoluta si infoltiscono sulla filiera. Randagi o malinconicamente muti…”(pag.7).

Ecco dunque squadernati nove saggi di altrettanti studiosi o testimoni di quei giorni: dal professor Richard Drake al professor Marco Clementi; dal magistrato Luigi Carli al professor Roberto Bartali; da Fernando Orlandi, esperto di guerra fredda, a Gabriele Paradisi, da Franco Mazzola a Vladimiro Satta e lo stesso Salvatore Sechi. Tutto nasce da un convegno sul delitto Moro organizzato dal comune di Cento, due giornate di studio in occasione della morte del trentennale della morte del leader democristiano.



Di misteri, di vene aperte, la vicenda Moro è piena. Per dire: le incredibili protezioni di cui gode uno dei componenti del commando brigatista, Alessio Casimirri, fuggito in Nicaragua. In un’intervista al settimanale “L’Espresso” raccontò il mirabolante e assai poco credibile percorso effettuato: da Parigi a Mosca, e di lì finalmente nel Nicaragua sandinista, dove acquisisce, caso più unico che raro, la cittadinanza pur non avendo alcun titolo per farlo, e da allora è un intoccabile. Ancora più incredibile la storia della famosa seduta spiritica nel corso della quale emerge il nome di Gradoli. Qui ammirevolmente abbiamo tre professori, Romano Prodi, Mario Baldassarri e Alberto Clò, che – in una sorta di patto di sangue – ancora dopo anni accreditano la stessa incredibile versione, pur sapendo che nessuno crede alla seduta spiritica, e che un po’ tutti sanno essere, quello, l’artificio per coprire la fonte di autonomia che aveva fatto filtrare il nome di Gradoli. Ma a distanza di tanto tempo, che senso ha ancora “coprire” quella fonte? Altri misteri poi aleggiano sulla figura di Mario Moretti: il capo brigatista è stato sospettato d’essere in realtà un infiltrato, un doppiogiochista. Per qualche tempo lo sospettarono anche i capi storici delle BR, Renato Curcio e Alberto Franceschini: fecero una sorta di inchiesta interna, poi si convinsero che Moretti era “pulito”. In effetti riesce difficile credere che una persona sia disposta a farsi il lungo periodo di carcerazione che Moretti ha fatto, e non si comprende quale possa essere il “premio” per il suo doppiogioco e la sua lunga detenzione, niente affatto di comodo; di più: se Moretti è davvero detentore di qualche innominabile segreto, quale luogo migliore del carcere per simulare un “incidente” ed eliminare un personaggio scomodo? Che non sia accaduto, evidentemente, è un elemento a suo favore.



Meglio lasciar perdere la dietrologia. In questa vicenda se n’è fatta parecchia, e, per esempio, inseguendo la pista del direttore d’orchestra di fama internazionale Igor Markevitch c’è chi si è trovato dalle parti dei Rosacroce. Però, peccato, al convegno c’era Franco Mazzola, uno dei protagonisti di quei 55 giorni: aveva la delega ai servizi di informazione e sicurezza, partecipava alle riunioni di quel comitato di crisi, è autore di un libro “I giorni del diluvio”, pubblicato inizialmente da Rusconi, e solo recentemente da Aragno. Un romanzo, con personaggi da decrittare; che “racconta” episodi e retroscena che – nel momento in cui furono scritti – apparivano letteralmente incredibili, un “segretissimo” scadente; e che invece, i fatti si sono incaricati di rivelare in moltissimi casi fondati. Richiesto di qualche spiegazione, Mazzola se la cavò dicendo di aver attinto dagli appunti presi giorno dopo giorno, in agende che riposavano da qualche parte, in cantina. Piuttosto incredibile, ma tant’è.



Nel suo intervento Mazzola invita a guardare a Est, in quello che era, in quegli anni, l’Est comunista: la Cecoslovacchia, la Germania dell’Est, l’URSS. E sillaba tre righe: “Ho sempre creduto, e continuo a credere, che Mario Moretti sia l’unica persona in grado di dire la verità su questo aspetto fondamentale della storia delle BR. Moretti però, fino a oggi, non ha mai voluto parlare…”. E in conclusione del suo intervento accredita la teoria che ci fu un intervento esterno “che fece precipitare la situazione, portando alla tragica decisione di porre fine alla vita di Moro…Non si tratta di una ipotesi ‘fantapolitica’, come molti ritengono, ma di un’ipotesi ‘logica’. Mi pare l’unica possibile alla luce di tutto lo svolgimento della vicenda e soprattutto delle circostanze che hanno accompagnato la sua tragica conclusione” (pag.202).



Chissà. A leggere “A Praga, a Praga”, l’intervento di Fernando Orlandi, si ricava esattamente l’opposto di quello che sostiene Mazzola (e non solo Mazzola, beninteso); qualcosa però, dalle parti di Praga (e di Mosca) dovevano sapere e devono aver fatto. Ne fanno fede lo stranissimo attentato di cui fu vittima Enrico Berlinguer; e la ferocissima polemica che oppose lo stesso Berlinguer a Leonardo Sciascia, e che determinò la fine traumatica della storica amicizia dello scrittore con Renato Guttuso. Questo a prescindere dal fatto che appare naturale, logico, che i servizi segreti di mezzo mondo, di fronte al fenomeno brigatista e al rapimento di Moro, abbiano cercato di capire che cosa accadeva, chi lo faceva accadere, e di ricavarne un’utilità. Non stupisce dunque che affiorino di volta in volta presenze del Mossad israeliano o dei mukhabarat arabi, del KGB o della CIA… Quello che però non sta in piedi è l’accreditato risentimento americano (di Henry Kissinger, nella fattispecie), sopravissuto per anni, originato da un contrasto vecchio di una decina d’anni e che trova nelle BR lo strumento per la vendetta. Plausibile, dunque, l’osservazione di Sechi: “Perché tacere che, in linea teorica, possa essere stato interesse di Tel Aviv togliere di mezzo, o vedere sparire dalla scena politica, l’artefice di questa tortuosa e rischiosissima diplomazia (ndr.: una linea politica estera parallela a quella ufficiale, creata da Moro per favorire l’OLP). Il desiderio di farla finire mi pare il solido motivo per cui Israele sin dall’inizio alle BR sembra abbia offerto armi, soldi e soprattutto informazioni preziosissime. E probabilmente qualcosa di più, cioè il ‘controllo’ del capo delle nuove BR, Mario Moretti…”(pag.281).



C’è poi una notazione che Sechi riprende da uno studioso, Giuseppe De Lutiis, relativo al ruolo di Giovanni Senzani, definito “oscuro e centrale”; e davvero meglio non lo si potrebbe definire. A un prossimo convegno, ci si permette di suggerire a Sechi di invitare Marco Pannella: che da anni, su Senzani dice cose molto interessanti, che non vengono smentite, e che si finge di non sentire. Cose dette, per esempio, nel corso di un paio di audizioni alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi presieduta da Giovanni Pellegrino. Quelle audizioni meriterebbero ancora oggi di essere lette: a preziosa integrazione di quanto gli studiosi che Sechi ha chiamato a Cento hanno detto, e che ora possiamo finalmente leggere grazie a un libro che opportunamente quegli interventi raccoglie.

motorino radicale
22-07-09, 22:59
Notizie che non fanno notizia

• a cura “N.R.”

Lettere: il colloquio col papà detenuto, è diventato un'odissea.

Di Vittorio Svegliado, volontario



Desidero denunciare ai mass media un episodio molto grave capitato all’Istituto Penale di Padova giovedì 2 luglio. Il detenuto G.B. ristretto presso il carcere penale di Padova chiedeva un colloquio con la famiglia, facendo presente che la figlia, affetta da leucemia, aveva ottenuto l’autorizzazione dei sanitari ad affrontare il viaggio aereo Palermo-Venezia ed il colloquio con il padre purché questo potesse avvenire in una stanza singola ed evitando possibilmente promiscuità con altre persone. La sua educatrice si faceva interprete di queste esigenze assolutamente imprescindibili e il colloquio veniva autorizzato dal direttore.

Il giorno 2 luglio i parenti giungono al carcere con due ore di ritardo (esattamente alle ore 11.20) per un guasto dell’aereo. Un agente addetto alla portineria riferisce che il colloquio potrà avvenire solamente alle 12.30. Non produce alcun effetto la dichiarazione della mamma che la figlia è molto ammalata (lo stato di malattia era evidenziato anche dalla mascherina di protezione respiratoria). L’attesa dovrebbe avvenire sotto la pensilina a 35° centigradi e con il passaggio continuo di auto e persone. Il mio intervento presso l’agente è immediato e assolutamente determinato: chiarisco la gravità della malattia e l’autorizzazione particolare. Visto che l’agente si appella continuamente al regolamento chiedo di parlare con il Direttore, ma sono anticipato dallo stesso agente che viene prontamente ricevuto.

Il direttore dà autorizzazione a farle entrare nel locale del controllo dei pacchi. Alle ore 12.10 finalmente i famigliari di G.B. (dopo 40 minuti di attesa) entrano nel locale sporchissimo per il passaggio e l’attesa di chissà quanti altri parenti dei turni precedenti. Non ci sono gli agenti. Sono a pranzo! Arrivano alle 12.30 e ricominciano le discussioni. L’ammalata e la mamma non vengono fatte entrare perché manca l’agente per portarle alla sala colloqui ed anche perché la stanza riservata all’ammalata è occupata da altri parenti. Alle 13 (prima di entrare) viene effettuata un’ulteriore perquisizione e l’ammalata deve togliersi la mascherina di protezione per un controllo. È il regolamento!



Puglia: Osapp; le carceri in emergenza ma tv e giornali tacciono.

Una condizione di emergenza della quale si hanno scarse notizie. Il fatto si scopre dopo in comunicato dell’Osapp. "Per dovere istituzionale" l’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osapp) ha sospeso in via cautelare la propria partecipazione alla manifestazione nazionale indetta per il 28 luglio a Bari, e analoga decisione starebbero prendendo altre sigle sindacali del comparto Sicurezza che avevano aderito all’iniziativa. Lo riferisce il vice segretario generale dell’Osapp, Domenico Mastrulli, che ha inviato una lettera, tra gli altri, al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, al capo del dipartimento amministrazione penitenziaria, Franco Ionta. La decisione di sospendere la manifestazione è legata, spiega Mastrulli, alle tensioni che si stanno registrando in diverse carceri italiane. Nella lettera Mastrulli sottolinea la situazione di emergenza di alcune carceri pugliesi (Trani e Foggia su tutte), dovuta soprattutto al sovraffollamento di detenuti e all’utilizzo non razionale del personale. Mastrulli chiede quindi che per la Puglia sia previsto un incremento di almeno 300 agenti di polizia penitenziaria, anche per far fronte agli attuali estenuanti turni di servizio. Sorprende la disattenzione dei media nei confronti di una situazione così grave, fino ad oggi non segnalata con la necessaria attenzione da televisioni e giornali.



Manca il personale, non apre la nuova sezione del carcere. Accade a Noto, in Sicilia.

La nuova sezione del carcere di Noto resta chiusa. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ne avrebbe "congelato" l’apertura in seguito alle proteste delle organizzazioni sindacali di categoria contro il metodo adottato, che non ha tenuto conto delle normative né delle regole minime della contrattazione sindacale.

A comunicarlo è il deputato regionale del Partito democratico Mario Bonomo: "Davanti ad una simile vicenda - dichiara Bonomo - appare quantomeno stucchevole la scelta di chi, con reboanti annunci su giornali e tv, e ringraziamenti al ministro della Giustizia per la solerzia con cui aveva raccolto l’invito ad intervenire nella vicenda, aveva dato per certo qualcosa che invece certo ancora non era, come dimostra la brusca frenata del Dipartimento. Al di là di ogni cosa - conclude il deputato siracusano del Pd - rimane un dato fortemente contraddittorio. Da una parte si parla di carceri sovraffollate che in qualche modo vanno "svuotate" o potenziate, mettendo mano ad un serio programma d’edilizia penitenziaria, dall’altra, mancando il personale si tengono chiusi istituti di pena, come accade a Reggio Calabria e Noto".



Ravenna: carcere invivibile; il Sindaco a sostegno dei sindacati.

"Protesta sacrosanta". Così il sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci definisce l’iniziativa promossa da Cgil, Cisl e Uil per protestare contro la "situazione invivibile del carcere di Ravenna". Matteucci conferma il suo "totale sostegno" ai tre sindacati che hanno promosso un presidio davanti alla sede della Prefettura, con l’obiettivo di sensibilizzare i ravennati sulle precarie condizioni della Casa circondariale. I sindacati chiedono al Ministro di intervenire al più presto per garantire il pieno rispetto della capienza detentiva, per ripristinare un livello dignitoso di vivibilità della struttura e per procedere immediatamente ad aumentare il numero degli operatori carcerari. "I detenuti - sottolinea Matteucci - vivono ammassati nelle celle, i servizi igienici sono inadeguati, la polizia penitenziaria già sott’organico in condizioni di normalità, lo è a maggior ragione nell’attuale situazione di estremo sovraffollamento. Parlo con cognizione di causa: ho visitato il carcere un anno fa. E già in quell’occasione ho avuto modo di vedere di persona in che condizioni disumane vive la popolazione carceraria e in quali condizioni gli agenti sono costretti a lavorare: in una struttura pensata per ospitare al massimo 62 detenuti non ce ne possono stare 170. La situazione è seria e pericolosa: è a rischio la sicurezza di tutti i cittadini. Ho emesso un’ordinanza che obbligava la direzione del carcere ad attuare alcuni interventi per migliorare i servizi. Alcuni sono stati fatti. Ma il Comune può fare ben poco. Ho scritto tre volte al Ministro Alfano, nel giugno del 2008 dopo la mia visita al carcere, il 25 maggio di quest’anno e l’ultima volta il 30 giugno scorso. Nell’ultima lettera ho

chiesto all’on. Alfano un incontro. Ma a nessuna delle tre lettere finora ho ricevuto risposta. Spero che l’azione dei sindacati abbia maggiore fortuna".



Perugia: sindacati; "no" al nuovo padiglione, servono 50 agenti.

"Le Organizzazioni Sindacali firmatarie del presente documento, unitariamente ritengono il provvedimento di apertura del nuovo padiglione di Perugia, sconsiderato e privo di un adeguato e congruo sostegno di personale di polizia Penitenziaria; addirittura lo stesso appare pericoloso per l’ordine e la sicurezza dell’Istituto di Capanne e anche del circostante territorio.

Le scriventi si dichiarano altresì unitariamente contrarie al provvedimento e ne chiedono l’immediata revoca o, nelle more, l’assegnazione minimo di ulteriori 50 unità di Polizia Penitenziaria, rispetto a quelle già assegnate. Nella deplorevole ipotesi che il provvedimento di apertura non venga revocato o che le unità richieste non siano assegnate, si proclama, fermo restando lo stato di agitazione di tutto il personale, l’inizio di ogni utile iniziativa di protesta consentita dalla Legge.

Appare inoltre utile sottolineare come le sottoscritte riterranno direttamente responsabili i vertici del Dap per le eventuali ed inevitabili criticità che, immancabilmente, si verificheranno nei prossimi mesi a seguito di questo scellerato e sconsiderato provvedimento, sicuramente non giustificato dall’emergenza Nazionale del sovraffollamento delle carceri Italiane.

Ci si augura, infine, come invece spesso accade, che scelte del genere non vadano a minacciare concretamente l’incolumità fisica del personale tutto. Si chiede al Provveditore Regionale, oltre che di condividere e sottoscrivere la richiesta di revoca del provvedimento, di inviare il presente verbale alle Direzioni Generali del Dap e al Capo del Dipartimento, al quale si chiede un’immediata convocazione".

Sappe, Osapp, Sinappe, Cisl-Fp, Cgil-Fp



Iran: tutte stuprate in carcere, le ragazze condannate a morte

Un membro della milizia iraniana dei Basiji, in un’intervista al “Jerusalem Post”, ha raccontato di aver "sposato" la notte prima delle esecuzioni giovani donne condannate a morte per aggirare il divieto islamico di portare al patibolo una vergine. La guardia ha anche detto che molte delle brutalità contro i manifestanti a Teheran sono state fatte da reclute di 14-15 anni venute da villaggi dell’interno. Il Basiji è stato punito dai suoi superiori con un periodo di detenzione, per il "crimine" di aver permesso a due giovanissimi manifestanti di 13 e 15 anni di sfuggire all’arresto durante una delle manifestazioni. "L’onore" di sposare le ragazze condannate è considerato un premio per le guardie. "La notte prima dell’esecuzione - ha spiegato - si tiene un matrimonio: la giovane donna è costretta ad avere un rapporto sessuale con una guardia: in effetti è vittima di stupro. La maggior parte delle ragazze avevano più paura della loro "notte matrimoniale" che dell’esecuzione. Poiché facevano resistenza, dovevamo mettere un sonnifero nel loro cibo. La mattina dopo avevano uno sguardo vuoto, come se fossero pronte o volessero morire. Piangevano e gridavano. Non scorderò mai una giovane che dopo si era graffiata il volto e il collo con le sue unghia. Era piena di graffi profondi".



Moldavia: Ue; violazione divieto di maltrattamento dei detenuti

“Le violazioni del divieto di maltrattamento, emerse in proporzioni inquietanti a seguito delle manifestazioni post-elettorali del 6 e 7 aprile, devono essere affrontate con determinazione al fine di ristabilire un clima di fiducia" e "garantire tolleranza zero in materia di maltrattamenti in tutto il sistema di giustizia penale". È quanto ha dichiarato ieri a Strasburgo il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg, in occasione della pubblicazione del rapporto sulla visita effettuata nella Repubblica di Moldavia. È necessario, secondo Hammarberg, "esaminare non solo il comportamento dei singoli agenti di polizia ma anche la responsabilità" dei loro superiori. L’auspicio è che "la determinazione espressa dalle autorità moldave nel fare in modo che ognuno risponda dei propri atti", si traduca "in azioni concrete, risolute e durature". Non solo "procuratori, giudici, ufficiali di polizia e avvocati dovrebbero prestare attenzione alle accuse e agli indizi di maltrattamento; nei luoghi di detenzione le lesioni dovrebbero essere debitamente accertate, registrate e segnalate". Sono inaccettabili, conclude il commissario le cui parole sono state riprese dal Sir, "le pressioni esercitate sui media e sulle Ong che denunciano oltraggi ai diritti umani. La libertà di espressione e di informazione deve essere tutelata, a maggior ragione in periodi di crisi".

motorino radicale
22-07-09, 23:00
Giustizia: agronomi in carcere dove "non semina più nessuno"

• da Innocenti Evasioni - La privazione della libertà e le libertà possibili (http://www.innocentievasioni.net)

di Daniela de Robert

Quando si sono avvicinati per la prima volta al mondo carcerario il gruppo di giovani neolaureati e laureandi in scienze agrarie e forestali della città di Padova che si era organizzato in una cooperativa non pensava certo che quasi vent’anni dopo sarebbero diventati famosi anche all’estero per i loro manichini di cartapesta e per il pluripremiato panettone. Ma questi sono i percorsi del carcere, quando ci si crede e quando ci si investe.



La vicenda carceraria di Nicola Boscoletto, presidente del consorzio sociale Rebus (che raccoglie le cooperative Giotto, Work crossing, e Cusl), inizia un po’ per caso quando, giovane laureato in scienze agrarie e forestali decide, insieme ad alcuni amici, di dare vita a una cooperativa per il mantenimento e la gestione delle aree verdi.



"Cercavamo di inserirci nel mondo del lavoro - racconta - e l’apertura del nuovo istituto penitenziario di Padova nel 1991 si presentò come un’occasione". La Casa di Reclusione Due Palazzi che si sostituiva al vecchio carcere di Piazza Castello, arrivava alla meta dopo un lungo percorso segnato anche dagli scandali delle carceri d’oro della fine degli anni 80. Il bando per un lavoro di appalto per il recupero, la bonifica e la ristrutturazione dell’area verde sembrava una buona opportunità. Ma i risultati della gara di appalto non arrivavano. "È a questo punto - dice Boscoletto - che è nata un’idea. Abbiamo pensato che in quello stesso carcere c’erano centinaia di persone che non facevano nulla e che forse avrebbero potuto essere coinvolte. Abbiamo quindi proposto un corso di giardinaggio per venti detenuti".



Partiva così nel 1991 l’avventura galeotta dei giovani agronomi di Padova. Oggi il corso è alla sua diciannovesima edizione, ha formato oltre duecentocinquanta persone e ha dato vita al primo parco didattico interno a un carcere dove si svolgono le lezioni pratiche. "Formare e inserire al lavoro all’intero dell’istituto per portarli fuori con un lavoro vero. È stata questa la filosofia del nostro lavoro in carcere - continua Boscoletto. E abbiamo visto che tra le persone che usufruivano delle misure alternative, che quindi si preparavano con un percorso accompagnato al rientro nella società libera, la recidiva precipitava dal novanta al quindici per cento". Come dire, il gioco valeva la candela.



Con la legge Smuraglia si aprono altre possibilità. Nel 2001 un capannone inutilizzato del carcere viene trasformato in un laboratorio per la produzione di manichini di cartapesta, realizzati a mano secondo un’antica tecnica toscana che si stava perdendo. I manichini galeotti sono molto apprezzati nel settore dell’alta moda e sono venduti in Italia e all’estero.

"Abbiamo sempre pensato che quando si ha a che fare con il lavoro - dice Nicola Boscoletto - bisogna misurarsi con il mercato e con le sue regole. Non si può vivere di carità. Questo significa che per superare pregiudizi e diffidenze - ma anche le grandi complicazioni della burocrazia carceraria - bisogna proporre un lavoro che punti all’eccellenza. La concorrenza è tanta e bisogna farci i conti".



E questa scommessa ha dato grandi risultati quando la cooperativa Giotto ha portato in carcere il lavoro di assemblaggio della gioielleria Morellato e della valigeria Roncato. "La resa del lavoro fatto in carcere è del 99,9 per cento questo significa che gli scarti sono praticamente nulli, tanto che i lavori difettosi delle altre lavorazioni vengono portate da noi per sistemarle. Ma la cosa più significativa è che dopo l’ingresso della lavorazione a Due Palazzi, la Roncato ha chiuso i laboratori che aveva aperto nei paesi dell’Est, riportando in Italia il lavoro che aveva de localizzato. Una bella soddisfazione per tutti noi!".



Poi è arrivato il laboratorio di cartotecnica che ha una convenzione con il Comune di Padova per la riproduzione delle immagini della Cappella degli Scrovegni. Scatole, quaderni, blocchi per appunti, rubriche, ma anche puzzle, manifesti, cartelline, giochi di carta con gli splendidi affreschi di Giotto vengono composti in carcere. E ancora il call center che in due locali completamente rivestiti degli affreschi della Cappella degli Scrovegni i detenuti lavoratori prenotano le visite e le analisi in convenzione con la Asl della città.



Ma la svolta è venuta con il progetto Ristorazione Due Palazzi. Padova e Roma sono state scelte dal Dap per una sperimentazione: affidare la gestione della cucina detenuti a cooperative sociali. Ma dato che l’appetito vien mangiando Boscoletto e amici non si sono fermati. "Abbiamo attivato una pasticceria a fianco alle cucine del carcere. Ancora una volta puntando all’eccellenza". Sono nati i dolci di Giotto: i biscotti, il panettone pluripremiato (premio Golosaria 2008, Piatto d’Argento dell’Accademia italiana della cucina 2009), le veneziane, le colombe, fino all’ultima linea dei dolci di Antonio (dove Antonio, sta per Sant’Antonio da Padova) con la Noce del Santo.



"L’ultima soddisfazione è arrivata durante il G8 dell’Aquila. Tra i veri prodotti enogastronomici made in Italy, selezionati da esperti del Gambero rosso e non solo, da presentare e offrire ai grandi della terra riuniti in Abruzzo sono stati scelti anche il nostro panettone e la Noce del Santo. Una scelta che ci fa piacere non solo per la vetrina internazionale ma anche per la natura spiccatamente sociale di questo G8. I nostri dolci sono un modo per veicolare anche l’opera di reinserimento che facciamo attraverso il lavoro, per dire che il reinserimento è possibile e che quando viene attivato un percorso da dei risultati incredibili".



Certo questa di Padova è una delle eccellenze che caratterizzano il mondo penitenziario italiano, molto disomogeneo che coniuga esperienze come questa a situazioni drammatiche e di grande isolamento e chiusura. Il tutto reso ancora più difficile dal sovraffollamento che ha di gran lunga superato il livello precedente all’indulto.



"Quando abbiamo cominciato non sapevamo bene dove saremmo arrivati, ma già allora credevamo che bisognava investire sulle persone. Oggi, ancora di più, siamo convinti del valore rieducativo del lavoro. Purtroppo però il carcere è stato abbandonato a sé stesso da venticinque anni e il lavoro da fare è veramente tanto". Di storie di rinascite Boscoletto ne ha viste tante in questi anni: detenuti saliti agli onori della cronaca nera e persone anonime finite dentro, italiani e stranieri, giovani e meno giovani, persone con lunghi anni di detenzione alle spalle e altri che hanno vissuto di piccoli espedienti. A tutti hanno offerto un percorso prima di tutto umano.



"Quando ti poni di fronte a un altro uomo non per quello che ha fatto ma per il valore che ha emerge fuori l’umanità vera, nascono la fiducia, la ricerca della verità e la giustizia". Ma questo lo capisci quando guardi il mondo galeotto con occhi diversi. "Io stesso - dice Nicola Boscoletto - per capire la società ho dovuto frequentare il carcere. Dentro c’è un’umanità che fuori fatichi a vedere e capire, perché quando stai fuori ti senti dalla parte del giusto. Quello che ho imparato in carcere invece è che il male non è solo dentro e non è solo quello che ti porta dentro. Anche nella società libera, nella società di chi si sente giusto, c’è un male diffuso che spiega anche perché le cose vanno così come vanno. E i detenuti non sono altro che i figli di questa società".



"Non so - dice ancora Nicola Boscoletto - se esperienze come la nostra siano replicabili. Certamente è legata anche alla rete di rapporti sul territorio, con le imprese, le istituzioni, le realtà sociali, i cittadini. Noi a Padova abbiamo trovato molta accoglienza. Lo stesso storico Caffè Pedrocchi ci ha aiutato molto veicolando i nostri prodotti di pasticceria. Per questo penso che le esperienze di eccellenza che ci sono in diversi settori devono essere guardate per i valori che esprimono. Sono un po’ come dei fari sparsi per l’Italia che indicano che la strada del recupero e del reinserimento è la strada vincente".



Ma il percorso è in salita. Dal 1991, quando la cooperativa Giotto è entrata in carcere, a oggi le cose sono cambiate molto. "È cambiata la popolazione detenuta ed è cambiato molto il fuori. Si è perso il senso e il valore del lavoro, dell’impegno. E quando la società va male, il carcere va peggio".



Mentre parliamo, le carceri italiane continuano a riempirsi. I detenuti dormono sui materassi nelle celle, nelle palestre e persino nelle cappelle. E l’appello di Nicola Boscoletto di ricordarsi sempre che ogni uomo ha un valore e un cuore, anche chi ha sbagliato rischia di rimanere soffocato da un piano carceri che pensa solo a costruire nuove galere. E il faro che illumina la strada del reinserimento rischia di sbattere contro mura di cinta sempre più alti costruiti in nome della paura.



"Si raccoglie sempre quello che si è seminato - dice Boscoletto. Purtroppo in carcere non si semina da venticinque anni e oggi non c’è niente da raccogliere. Credo che sia indispensabile un nuovo gesto di clemenza, questa volta però accompagnato da una riforma strutturale sulle misure alternative. Perché il carcere non può essere l’unica risposta".

motorino radicale
12-08-09, 18:04
Lo scettro senza il re. Partecipazione e rappresentanza nelle democrazie moderne
A partire dalle riflessioni sulla non-demcrazia di Nadia Urbinati

di Valter Vecellio

“Il diritto dei cittadini di godere di un’eguale opportunità di determinare la volontà politica con il loro voto dovrebbe essere accompagnato da quello di avere un’opportunità non aleatoria di formarsi e far sentire le proprie idee e infine controllare chi opera nelle istituzioni”. E’ forse uno dei passaggi chiave dell’importante saggio di Nadia Urbinati “Lo scettro senza il re” (Donzelli editore, pagg.132, 15 euro). Nadia Urbinati insegna Teoria politica alla Columbia University, al suo attivo ha numerose pubblicazioni, “Lo scettro senza il re” è la edizione riveduta e aggiornata di un lavoro di un paio d’anni fa, “Representive Democracy. Principles and Genealogy” (Chicago Press).



Osserva Urbinati che “nelle nostre società, mettere il bavaglio alla democrazia non si traduce necessariamente nella reazione estrema di espellerci dal demos (benché, fino a pochi decenni fa, il colpo di Stato era praticato con relativa frequenza). E’ sufficiente rendere la nostra voce inascoltata o stravolta…”. E’ un’analisi di “sapore” familiare, vero? Andiamo avanti: “Il fatto che la rappresentanza, non il voto semplicemente, sia il mezzo attraverso il quale la nostra voce si esprime comporta che abbiamo bisogno di fare qualcosa di più o d’altro oltre l’andare a votare, se vogliamo che la nostra opinione non sia irrilevante. Dobbiamo fare degli sforzi aggiuntivi o usare una varietà di stratagemmi sconosciuti agli antichi. Votare non è la sola espressione del nostro potere democratico, pur essendo il potere più certo, perché comprovabile e computabile e, soprattutto, espressione unica della volontà sovrana” (pag.8).



Ma cos’è che rende democratica una democrazia moderna? La conoscenza, la possibilità di farsi conoscere, dice in sostanza Urbinati: “…Il fatto che le istituzioni elettive rendono i pubblici poteri temporanei nella durata e soggetti al controllo pubblico. L’elezione è una forma di controllo proprio perché induce gli eletti a far conoscere il loro operato nella speranza di essere ben giudicati e rieletti…La democrazia moderna è un ‘governo per mezzo della discussione’, in cui la pubblicità e l’elezione dei rappresentanti sono l’unico potere politico del quale godono indistintamente tutti i cittadini adulti: il primo come potere del giudizio, il secondo come potere della volontà…” (pagg.9-10).



Siamo, come si vede, all’einaudiano: conoscere per poter deliberare. Ma se è così, ne consegue la conferma che in Italia la democrazia latita: perché è scarsa o nulla la conoscenza dell’operato degli eletti, e ancor più ridotte sono le forme di controllo. La riflessione di Urbinati conferma questo assunto: “E’ evidente a tutti che sul fronte della garanzia del diritto all’informazione e delle circostanze del giudizio pubblico le costituzioni moderne non sono abbastanza attrezzate…nessuna delle costituzioni occidentali è attrezzata efficacemente per proteggere il diritto dell’informazione e il pluralismo delle fonti di informazione altrettanto quanto lo è con il diritto di voto” (pag.125).



Urbinati in sostanza auspica e sostiene l’urgenza di garantire un diritto “che difende sia la libertà di esprimere opinioni che la libertà di essere informati”. Una libertà, sospira, che in Italia “leggi improvvide hanno vanificato, permettendo la formazione di fatto di un sistema di monopolio privato dell’informazione e non liberando il servizio radiotelevisivo dal dominio del Parlamento e quindi della maggioranza”. Informazione che viene individuata come “bene pubblico”, al pari della libertà e del diritto, e dunque non soggetti alla discrezione della maggioranza. Un bene che, soprattutto, “ci consente di avere altri beni: di monitorare il potere costituito, di svelare ciò che esso tende a voler tener segreto…senza questo potere di controllo le democrazie moderne sono a rischio, anche qualora il diritto di voto non sia violato…”.



Un discorso, quello di Urbinati, che si può collegare e che va di pari passo con quello di Massimo L. Salvadori col suo recente “Democrazia senza democrazia” (Laterza, pagg.94, 14 euro). “Certo, quelli che vengono chiamati democratici non sono sotto nessun punto di vista dei regimi autoritari di tipo tradizionale”, annota Salvadori. Si tratta piuttosto di sistemi che continuano a poggiare sul pluralismo culturale, politico e sociale, su un sistema di libertà politiche e civili, su ordinamenti costituzionali e su istituzioni rappresentative: “Ma è corretto – ecco la domanda – continuare a definirli democratici, quando, in condizioni e con tecniche quali Mosca non avrebbe neppure potuto immaginare, gli eletti si fanno scegliere dagli elettori e non viceversa, e gli eletti del popolo sono privati del ‘grande potere decisionale’ che la democrazia, anche in veste liberale, dovrebbe essere in grado di attribuire loro, dal momento che tale potere non è più nelle loro mani ma, e in misura enorme, in quelle di élites che operano al sopra e al di fuori del processo politico?”.



Qui, per ora, a osservare che nulla può danneggiare la democrazia e contribuire al suo esaurirsi quanto l’accettazione passiva e retorica, senza scorgere la sostanza di quello che ci cela dietro la sua forma. Mai come nel nostro tempo vi sono stati e regimi che si proclamano democratici, e al tempo stesso sottraggono poteri di primaria importanza per la vita dei cittadini. “Se dunque i regimi che continuiamo a chiamare democratici in effetti non lo sono, quale definizione conviene loro più propriamente?”, si chiede Salvadori. “Parlare di post-democrazia serve certo a sottolineare una differenza, e a capire che siamo in un ‘dopo’. Tuttavia occorre anche cercare di comprendere ‘in che cosa siamo’. Questo è il problema aperto”.



Come si vede, una questione cruciale; che converrà riprendere.

motorino radicale
12-08-09, 18:05
Notizie che non fanno notizia

di a cura “N.R.”

Toscana: le carceri sono al collasso c’è il 50% di detenuti in più,

Carceri al collasso per troppo affollamento. Nelle celle vivono circa il 50 per cento di detenuti in più di quelli che potrebbero contenere. L’allarme sulla situazione dei penitenziari in Toscana lo lancia il direttore del dipartimento regionale per la salute in carcere Francesco Ceraudo, autore di un’indagine sulle condizioni dei detenuti. "Le strutture sono 17, dopo la recente chiusura di Pontremoli ed Empoli e comprese il minorile e lo psichiatrico di Montelupo - spiega - Le carceri sono ormai al collasso: i posti disponibili sono 2.836 ma i reclusi al 30 giugno scorso risultavano 4.284. E sono in costante aumento". Gli effetti del sovraffollamento sono vari. "Rende precarie le strutture edilizie e le più elementari regole di igiene personale ed ambientale - dice sempre Ceraudo - In certi casi nelle celle per due detenuti ce ne stanno anche in sei, e per 22 ore al giorno. Una follia. Questo vuol dire maggiore assistenza medica e più farmaci. Senza tenere conto della difficile convivenza tra detenuti, in gran parte extracomunitari, di etnie diverse, che danno origine a situazioni di violenza. Proteste, scioperi della fame, gesti di autolesionismo sono molto frequenti in questo periodo. Si tratta di espedienti che servono per emergere dalla triste, confusa realtà dei numeri".



Viterbo: al Mammagialla grave situazione di sovraffollamento



Una delegazione composta da Anna Pizzo, consigliere regionale del Lazio, Luigi Nieri, assessore al Bilancio della Regione Lazio, Mauro Palma Presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, Giancarlo Torricelli e Sara Bauli dell’Arci Viterbo e da rappresentanti dell’ associazione Antigone, si è recata al carcere "Mammagialla" di Viterbo. Al termine della visita la delegazione ha messo in luce le difficili condizioni di vita nel carcere. "In questo istituto c’è un grave affollamento - ha dichiarato Luigi Nieri - Sono presenti 690 detenuti, più del doppio della capienza regolamentare. Questo determina delle condizioni di vita molto difficili per i detenuti".

"All’interno del carcere c’è una situazione di vita complicata - ha aggiunto Anna Pizzo - Anche perché il numero delle ore destinate alla socialità e alle attività formative è ridotto all’osso. In questo modo è difficile proseguire nel percorso di rieducazione dei ristretti. Sono poche anche le attività di studio e formazione".

Per Mauro Palma vi è "una preoccupante carenza di personale. È all’attivo solo il 60% di quello previsto. Ai detenuti - aggiunge Palma - è riservato inoltre un trattamento molto duro, come se tutti quelli presenti fossero soggetti ad alto tasso di pericolosità".

"A questo si aggiungono altri problemi di carattere strutturale - hanno sottolineato Giancarlo Torricelli e Sara Bauli - Basti pensare alle docce, che versano in una incredibile situazione di fatiscenza. A Viterbo vi è inoltre una concentrazione di situazioni difficili, soprattutto dal punto di vista psichiatrico. Di fronte a queste complessità balza agli occhi la mancanza di strumenti a disposizione degli operatori penitenziari".



Trieste: il direttore; piove sul carcere sovraffollato... e io esulto

di Enrico Sbriglia (direttore del carcere di Trieste)



L’altra notte a Trieste si è abbattuto un violento fortunale, ha piovuto a dirotto, i fulmini erano fortissimi come lo scroscio della pioggia grossa, insistente; per me, direttore di un carcere sovraffollato, era deliziosa musica, la più dolce che potessi sentire. Vi dico una cosa che vi sorprenderà: i direttori penitenziari amano la pioggia, amano la grandine e le tempeste, amano il cattivo tempo, il freddo specialmente.

In celle sovraffollate, dove si riescono a cogliere i suoni del respiro e dei singhiozzi, e dei flati più indecenti, dove il sudore si appiccica sulla pelle, così come intinge i succinti indumenti che i detenuti indossano, e dove l’unico rubinetto presente nella stanza deve placare sete e bisogno di acqua per le abluzioni di tutti gli occupanti e per rinfrescarti, in queste giornate di caldo umido e insolente, l’abbattimento improvviso delle temperature, la pioggia che massaggia con forza i cortili dei passeggi, i tetti del carcere ed i mille percorsi interni di un istituto, è un dono di Dio, come per i beduini nel deserto.

Il ritorno a una temperatura sopportabile ti calma, ti consente di parlare con gli altri attenzionando le cose che dici e le tue reazioni, ti consente di guardare con interesse le sbiadite immagini che provengono da vecchi e gracchianti televisori, ti consente di impegnarti nel piccolo lavoro artigianale che stai curando e che donerai non si sa ancora a chi, forse a tuo figlio quando verrà ai colloqui, forse alla tua donna o a tua madre, forse allo stesso direttore perché una volta ha mostrato di ricordarsi il tuo nome.

Anche per i poliziotti penitenziari la pioggia è benedetta: lavorano spesso in condizioni pietose, in ambienti privi di aria condizionata e dove la frescura viene ricercata "aprendo" tutte le finestre protette dalle pesanti sbarre, alla continua ricerca dei posti dove si possa vigilare usufruendo di un maggiore circolo d’aria.

Quando entrano nel mio ampio ufficio, dove il ventilatore senza mai fermarsi mi dona sprazzi di respiro, leggo e comprendo dai loro occhi una linea di invidia e non li biasimo: forse dovrei spegnerlo per mostrare maggiore solidarietà, ma non lo faccio, so che se dovessi sprofondare nel caldo non riuscirei neanche più a leggere la più semplice delle carte, spero che mi perdonino e comprendano.

Intanto aspettiamo di vedere realizzato il "piano straordinario delle carceri" e noi tutti operatori penitenziari voliamo con la fantasia: immagino architetti di grido, Renzo Piano tra tutti, che discetta sulle soluzioni innovative che propone, vedo costruzioni bellissime e dai colori chiari, piene di aree verdi e con fontane sgorganti, con postazioni dignitose per i "baschi blu", con uffici gradevoli per il personale che al loro interno lavora, dove i magistrati ben volentieri si apprestino per compiere i loro atti giudiziari (convalide degli arresti, interrogatori), dove i detenuti barattano soltanto la loro libertà per i torti che hanno causato e non anche la dignità, dove i familiari incolpevoli delle persone detenute siano accolte con l’attenzione che merita ogni cittadino che ha un rapporto con la pubblica amministrazione, dove la pulizia, l’ordine e il

valore del rispetto verso ogni persona compaiano in ogni anfratto dell’unico vero posto dove "comanda", solo ed esclusivamente, lo Stato. Nel frattempo mi godo la frescura della pioggia.

(Da “Il Piccolo” 21 luglio)



Sanremo: Sappe; oramai abbiamo più detenuti che materassi

"Da tempo stiamo denunciando la grave situazione complessa in tutta Italia, la condizione lavorativa dei poliziotti penitenziari è da considerarsi stravolgente dal punto di vista psico-fisico, ogni poliziotto deve sobbarcarsi doppi e tripli compiti...".

È allarme sovraffollamento alla casa circondariale di Sanremo, dove i detenuti sono saliti a quota 340, contro i 209 posti previsti, superando la disponibilità dei materassi. A lanciare l’allarme è la segreteria del Sappe Liguria, il sindacato della Polizia Penitenziaria, che definisce il penitenziario di Sanremo al collasso completo.

"Da tempo stiamo denunciando la grave situazione complessa in tutta Italia - spiega una nota sindacale - la condizione lavorativa dei poliziotti penitenziari è da considerarsi stravolgente. Dal punto di vista psico-fisico, ogni poliziotto deve sobbarcarsi doppi e tripli compiti, con tutto quello che ne deriva in fatto di sicurezza propria del dipendente. Siamo di fronte a numeri esagerati ed insopportabili per la struttura sanremese. I detenuti sono più della disponibilità dei materassi, un dato questo raccapricciante e preoccupante".

Pensare di continuare a stipare carne umana nelle patrie galere, non porterà sicuramente da nessuna parte, anzi , come sindacato autonomo di polizia penitenziaria con maggiore adesione nel settore, riteniamo il particolare momento bisognoso di immediati ed efficaci interventi da porre in essere ragionevolmente dall’esecutivo politico. In Italia la soglia dei detenuti ha superato il limite pre-indulto del 2006, siamo a quota 64mila a fronte dei 42mila previsti, vale a dire un fallimento vero e proprio, dove forse con accorgimenti e leggi appropriate si poteva migliorare tutto il sistema.

La Polizia penitenziaria continua imperterrita nella sua opera lavorativa, ma certamente con meno garanzie e soprattutto in assenza di una mera organizzazione lavorativa, anzi , a questo punto si fa prima a chiamarla disorganizzazione lavorativa dove nessuno dei vertici può o sa metterci mano, la dirigenza della Casa Circondariale di Sanremo non ha bisogno del messia o della fata turchina per risolvere il problema in toto.

Di questo ne siamo consapevoli, ma deve darsi da fare per ottenere subito una trentina di nuovi agenti prossimi a terminare il corso di formazione presso la scuola di Cairo Montenotte in Savona, magari tralasciando certe velleità poco utili alla causa del momento, dedicandosi con maggiore profitto ad argomenti del genere i quali per ovvio hanno precedenza assoluta. Nel penitenziario sanremese va ricordato che tra pochi giorni andranno via anche una decina di neo Agenti in prova, i quali per alcune settimane hanno rinforzato nel limite del possibile le fila dell’attuale organico al quanto deficitario e carente, dando peraltro prova di ottima collaborazione e grado professionale.

Il Sappe da questo momento e con questo comunicato, da l’allarme della situazione anche a tutti i cittadini sanremesi e limitrofi , il carcere della città dei fiori è stracolmo di esseri umani, manca l’essenziale, non ci sono a sufficienza materassi e lenzuola per gli "ospiti", siamo in emergenza, la situazione non è delle migliori e desta forte inquietudine. Faremo appello anche e soprattutto alla classe politica locale neo insediatasi e alle istituzioni Provinciali e Regionali, di quelle amministrative ne conosciamo già la scuola di pensiero , gli atteggiamenti e gli obiettivi che vanno verso un’altra direzione.

(da: Riviera24.it (http://www.riviera24.it))



Ravenna: protesta dei Sindacati; questo carcere è da chiudere

Anche il ministero della Giustizia non ha dubbi: a Ravenna c’è un "pauroso sotto organico" delle forze che devono gestire la drammatica situazione del carcere. È quello che un dirigente del dipartimento romano avrebbe ammesso con il prefetto di Ravenna Floriana De Sanctis, che lunedì ha incontrato una delegazione sindacale in occasione del presidio organizzato in piazza del Popolo per protestare contro il sovraffollamento della struttura di via Port’Aurea.

Sono in tutto 48 agenti, racconta uno di loro, che al momento devono occuparsi di 177 detenuti (la capienza massima è di 62). Di questi 18 sono ammalati, e nove "per stati di ansia, dovuti certamente anche al lavoro che svolgono". Lavorano quasi 12 ore al giorno, riferisce, e alcuni arrivano a fare anche 71 ore di straordinario in un mese.

Nessun riposo settimanale, insomma, nessuna possibilità di programmare le ferie, e a volte vengono anche richiesti altrove, per coprire carenze di personale di altre strutture della regione. "Purtroppo non c’è rimedio - dice Deborah Bruschi, segretario generale della Funzione pubblica per la Cgil di Ravenna - dall’abolizione della leva in poi non c’è altro modo di incrementare gli organici che attraverso concorsi pubblici. Va da sé che se non sono previste le risorse dalle finanziarie non ci si muove di un millimetro".

Da Roma il prefetto non ha avuto buone notizie: "Ci ha riferito che per il ministero la situazione carceraria è drammatica in tutta Italia, e che ci sono situazioni in cui i detenuti dormono nei corridoi - riporta la sindacalista - ma questo non ci fa stare meglio". Così come non la consola l’annuncio di un parziale "sfollamento" di 20 detenuti, perché "siamo in estate e si sa che in questo periodo per 20 che escono ne entrano 40".

Se non ci sono soldi per i rinforzi, figuriamoci per migliorare la struttura. "Almeno dopo sette anni ci hanno sistemato docce e bagni", scuote la testa chi ci lavora, raccontando di celle non a norma di legge ("in sette metri e mezzo dormono in tre") e infiltrazioni d’acqua nella zona dei semiliberi, "in cui sono ospitati dei detenuti". Ma, malgrado le migliorie (sollecitate anche da un’ordinanza del sindaco), quel carcere "sarebbe da chiudere", commenta cupo.

Quando l’ha visto, "anche il deputato radicale Maurizio Turco ha detto che era il più brutto carcere d’Italia, che neanche in Turchia ne ha mai visto uno così", racconta Cesare Sama di Ravenna radicale, avvolto in una bandiera per sostenere la protesta dei sindacati. "Mi chiedo perché nessun dica niente - continua - nonostante le visite periodiche, anche con istituzioni e parlamentari, gli aggiornamenti annuali, perfino un’inchiesta. Non c’è un’altra situazione in Italia come quella del carcere di Ravenna, eppure niente si muove".

Oggi, in piazza, Cgil, Cisl e Uil sono riusciti a radunare fino a un centinaio di persone. A loro è arrivata l’adesione di associazioni e partiti e quella del primo cittadino, che parla di protesta "sacrosanta". La situazione è "seria e pericolosa - secondo Fabrizio Matteucci - è a rischio la sicurezza di tutti i cittadini". Ma il Comune più di tanto non può fare: "Ho scritto tre volte al

ministro Alfano, a giugno 2008, dopo la mia visita al carcere, il 25 maggio di quest’anno e l’ultima volta il 30 giugno, per chiedergli un incontro. Ma a nessuna delle tre lettere finora ho avuto risposta, spero che l’azione dei sindacati abbia più fortuna".

menti di tipo "giuridico-legislativo" che, per il momento, non sembrano preludere a procedure d’infrazione o a interventi,’ censori da parte delle autorità comunitarie.

Il portavoce del Commissario europeo alla Giustizia Jacques Barrot, Michele Cercone, ha chiarito ieri che le richieste di informazioni al ministro degli Interni Roberto Maroni si muovono su due fronti. Una prima lettera firmata dal direttore generale di Barrot, Jonathan Faull, è stata inviata mercoledì scorso: chiedeva chiarimenti sui respingimenti in Libia dei migranti clandestini raccolti in mare, avvenuti nei mesi scorsi.

Al governo italiano viene domandata la garanzia di non aver violato il diritto d’asilo, respingendo i barconi dei clandestini nel Canale di Sicilia, e di aver provveduto ad accertare che non vi fossero persone idonee a ricevere la qualifica di rifugiati e ad essere protette dall’Italia. Già sarebbero comunque arrivate assicurazioni verbali a Bruxelles da parte italiana che l’intercettazione e l’eventuale respingimento delle imbarcazioni con immigrati illegali è ora gestita direttamente dalle navi della marina libica e, pertanto interventi italiani non sono destinati a ripetersi, se non in circostanze eccezionali.

Una seconda lettera è in partenza dalla Commissione europea con richieste di delucidazioni sul pacchetto sicurezza. In particolare, l’Esecutivo Ue vuole avere garanzie sulle possibilità dell’iscrizione all’anagrafe dei figli dei clandestini e sui costi relativi al conseguimento del permesso di soggiorno.

Si tratta però di dubbi - si spiega nei corridoi di Palazzo Berlaymont - che possono essere diradati, senza arrivare a un muro contro muro tra Bruxelles e Roma. Tanto più in questa fase, in cui una Commissione a fine mandato, con il presidente José Manuel Barroso in cerca di riconferma, non pare particolarmente propensa ad assumere atteggiamenti minacciosi nei confronti dei Governi Ue, ma preferisce la strada del dialogo.

Cercone ha ricordato che Barrot e Maroni hanno già avuto occasione di dibattere della questione giovedì a Stoccolma a margine del Consiglio informale dei ministri della Giustizia dell’Ue. "Con l’occasione - ha proseguito il portavoce - il commissario ha spiegato al ministro i punti su cui chiediamo alcuni chiarimenti, e ha già ricevuto dal ministro alcuni elementi di risposta". Maroni ha, per esempio, già offerto garanzie sul fatto che l’iscrizione all’anagrafe di un figlio nato in Italia dia la possibilità al padre e alla madre dì ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Non rientra invece tra le preoccupazioni della Commissione europea l’istituzione del reato di immigrazione clandestina. "La scelta - ha spiegato il portavoce di Barrot - di inserire l’immigrazione illegale tra i reati rientra nella sfera del diritto penale che è di esclusiva competenza degli Stati. Ed è già reato in almeno un paio di Paesi europei, la Commissione europea non ha poteri in materia".

L’unica preoccupazione di Bruxelles su questo fronte è semmai ribadire che il reato di immigrazione clandestina non può essere contestato a cittadini di altri Stati comunitari, che beneficiano della libertà di circolazione nell’Unione europea, ma può scattare solo nei confronti di cittadini di Paesi terzi.

motorino radicale
12-08-09, 18:05
Ossimoro, contraddizioni e altri guai per l’ateo devoto

• da “Il Foglio”

di Angiolo Bandinelli

Girello per wikipedia e mi imbatto nel termine “ateo”. Sono due, apprendo, le forme in cui l’ateismo per lo più si presenta: una che nega l’esistenza stessa di una qualunque divinità o realtà trascendente l’uomo, sia in forme teiste che panteiste; ed una, più sfumata - l’agnosticismo - che raccoglie quanti sulla questione della esistenza/inesistenza di dio sospendono il giudizio perché, dicono, non c’è modo di risolvere il dilemma. Proprio gli atei sono convinti di sapere cosa sia la religione. Vengono, per lo più, da una cultura nata in fasce illuministe, per la quale la religione è un inganno, un imbroglio, una truffa, se non oppio dei popoli. “Primus in orbe deos fecit timor”, scrivono Stazio e Petronio, forse sulla scia di Lucrezio, “fu la paura la prima nel mondo a creare gli dei”. Pare che nel mondo vi sia una quantità di associazioni di atei, disinvolte e aggressive nella difesa delle proprie verità. Spesso, si fregiano della qualifica di “umanistiche”, ritenendosi custodi ed interpreti dei più autentici valori dell’uomo e dell’umanità. Platone propose punizioni severissime, fino alla pena di morte, per gli atei. Deprecabile. Nel 1546 il tipografo e poeta Etienne Dolet vene torturato, strangolato e arso sul rogo a Parigi. Deplorevole.



Più ci penso, però, più mi convinco che proprio gli atei sono i migliori propagandisti di dio. Dio è il loro vero, necessario interlocutore. Perché possano così efficacemente discuterne, polemizzare e lottarci contro, perfino odiarlo, è necessario che dio ci sia, esista in tutta la pienezza del termine. Affari loro. Attualmente il termine ha trovato una nuova declinazione grazie ai cosiddetti atei devoti, figure pubbliche che hanno avuto negli ultimi tempi un ruolo notevole nel dibattito culturale, politico e religioso, almeno nel nostro paese (non so se un qualche corrispondente si trovi anche altrove). Gli atei devoti sono accaniti avversari degli atei-atei, quelli che sono puramente e semplicemente atei. Degli atei devoti mi colpisce l’ossimoro della definizione. Una contrapposizione che cela un sottile connubio, mi pare. L’ateo devoto dice di essere, appunto, un ateo, un non credente in dio. Questo non credente, tuttavia, ritiene di dover restare devoto rispetto alle disposizioni di fede o semplicemente etiche emanate dall’autorità religiosa, considerando però tale esclusivamente quella cattolica. Credo infatti che l’ateo devoto sia figura che si può incontrare solo nell’ambito del cattolicesimo.



Confesso di non amare la definizione, nella sua prima come nella seconda metà. Del termine “ateo” ho detto, il termine “devoto” mi lascia ancor più perplesso. La devozione è parte integrante dell’educazione religiosa. Da bambino, venivo esortato da mia madre a dire le “devozioni”, cioè a pregare. L’espressione era bellissima, me ne è restato un dolce ricordo. Nella tradizione cattolica, la devozione viene consigliata come pratica di amore individuale nei confronti di Dio o di una figura religiosa - meglio se un santo - da esercitarsi però fuori della liturgia ecclesiale. Tipica forma di devozione cattolica è la recita del rosario. Ma la devozione è riconosciuta anche dal filosofo Hegel, che la pone tra i momenti costitutivi della”coscienza infelice” (seguo ancora wikipedia, in questa sede può bastare). La coscienza infelice è un concetto chiave della “Fenomenologia dello Spirito” perché, secondo Hegel, solo passando attraverso il suo dramma si giunge dialetticamente alla conciliazione e alla fusione tra il finito e l'infinito. La coscienza, infatti, raggiunge il suo stato di massima infelicità nel momento in cui, nella radicale distanza tra l'uomo e Dio, si presenta la separazione tra il mutevole e l'immutabile, tra la realtà sensibile e la realtà ultrasensibile. Le religioni, rappresentate nell’Occidente dall'Ebraismo e dal Cristianesimo medievale, non consentono però di soddisfare la pretesa di cogliere in una presenza particolare e sensibile un Assoluto che si dimostra irraggiungibile. Solo nel travaglio della “coscienza infelice” questo divario può essere colmato, attraverso tre momenti dialettici. Il primo è quello della devozione - appunto - nel quale il pensiero religioso è incapace di elevarsi a concetto; segue poi l’operare mondano nel quale la coscienza cerca di emergere attraverso il proprio affaccendarsi; infine, viene la mortificazione di sé, il momento nel quale l’io sperimenta la totale mistica ascetica in favore di dio.

Dopo tanti giri, l’ossimoro ora si capovolge. L’ateo, come abbiamo visto, afferma e ha bisogno di dio, il devoto è solo figura di superficiale beghinismo, dedito a pratiche esteriori o a esperienze misticheggianti. Ma resto perplesso, questa rappresentazione è banale. Gli atei devoti sono troppo bravi. Forse, sono le definizioni di wikipedia ad essere insufficienti.

motorino radicale
12-08-09, 18:06
Radicali-PD: quella della doppia tessera è una questione di democrazia e di libertà di associazione

di Valter Vecellio

Luigi Manconi, con un intervento su “Europa” del 14 luglio, ha preso il toro per le corna: membro eletto dell’Assemblea nazionale costituente del Partito Democratico e iscritto a Radicali italiani, componente della direzione di questo organismo: doppia tessera, doppio dirigente. Si può fare?, ha chiesto. Non ai radicali, evidentemente, che della doppia tessera sono sostenitori da quando esistono, e sono ormai trascorsi oltre cinquant’anni. Doppia tessera, per esempio, fu Loris Fortuna, iscritto al PSI e ai radicali; ma negli anni Settanta si iscrisse il senatore Giorgio Fenoaltea: socialista per un quarto di secolo, vedeva nella tessera radicale una necessaria, indispensabile integrazione; iscritto PSI-radicali anche Ruggero Orlando; senza tradire la loro fede e il loro impegno, hanno preso la tessera radicale molti repubblicani e liberali...



La scommessa giocata da sempre dai radicali è quella di essere il Partito della Democrazia: ricondurre cioè i partiti al posto che la Costituzione prescrive, ponendo un freno alle loro prevaricazioni: per ristabilire le regole del gioco per cui le leggi devono essere applicate, i cittadini sono tra loro eguali, ed egualmente titolari di diritti e doveri, e non sudditi rispetto allo Stato ed ai potentati, e con il Parlamento che recupera la sua funzione di luogo nel quale effettivamente si prendono le decisioni. In una parola: lo Stato di diritto contro lo Stato della partitocrazia.



E’ accaduto così che di volta in volta, al Partito radicale hanno aderito e vi hanno militato persone con alle spalle le più diverse esperienze e culture, ma con un comune denominatore: riconquistare lo Stato di diritto e la Costituzione. Ed è questa l’importanza dell’iscrizione, il suo valore.



“Un Partito Radicale”, disse una volta Jean-Paul Sartre, “internazionale, che non avesse nulla in comune con i partiti radicali attuali in Francia? E che avesse, ad esempio, una sezione italiana, una sezione francese…ho visto i radicali italiani e le loro idee, le loro azioni; mi sono piaciuti. Penso che ancora oggi occorrano dei partiti, solo più tardi la politica sarà senza partiti. Certamente dunque sarei amico di un simile organismo internazionale”.



Dunque per i radicali nulla osta alle iscrizioni. Per loro vale quel che diceva Giovanni XXIII: poco importa da dove venite, conta dove vogliamo andare. Credo siano l’unico partito al mondo che “accoglie” la tessera, senza possibilità di rifiutarla, e non dispone di probiviri o altri organismi che valutino la congruità di un’iscrizione o possano decretare l’indegnità di un iscritto. Regola bizzarra si dirà; e tuttavia si pensi che in oltre cinquant’anni i radicali non hanno – con questa regola di massima apertura – avuto mai un infiltrato, mai un provocatore, mai un “incidente” di percorso.



Il problema appare diverso per il PD. In risposta al quesito posto da Manconi, Berlinguer nella sua veste di presidente vicario della commissione di garanzia del PD ha risposto che lo statuto esclude iscrizioni doppie o plurime; però ha aggiunto che l’iscritto al PD deve anche riconoscersi nelle proposte politiche del partito e sostenerlo: “E palese che i radicali non sono entrati in conflitto con la lista del PD nel corso delle elezioni, come accade ad altri movimenti politici”, pur non esprimendosi, dice che nel caso di presenza di doppia tessera la commissione di garanzia valuterà.



Ci si permette di sollecitarla, questa valutazione, e in tempi non lunghi. Perché oltre al caso di Manconi, ci sono altri casi di doppia tessera: Mina Welby e Giulia Innocenzi, che ha anche partecipato alle elezioni per la segreteria dei giovani democratici; tuttavia non mancano casi di radicali cui viene rifiutata la tessera del PD: a Lecco, a Udine, a Vicenza; mentre a Reggio Emilia invece viene rilasciata. Contemporaneamente, a “Radio Radicale”, nel corso delle conversazioni con Marco Pannella, esponenti di primo piano del PD come Marco Follini, Franco Marini, Francesco Rutelli, hanno inequivocabilmente sostenuto di non scorgere nulla di ostativo a che un radicale sia anche iscritto al PD e partecipi attivamente alla vita di questa formazione politica.



Nel suo “Un’anima per il PD” Manconi scrive: “Il superamento del carattere rigido ed escludente delle appartenenze è una risorsa indispensabile nella prospettiva di un partito-famiglia allargata…aggregare forze, tessere alleanze, realizzare intese diventa più agevole”. Personalmente faccio voti che quanto prima quell’auspicio diventi realtà.

motorino radicale
12-08-09, 18:07
Freedom House, Reporter sans frontiéres, Nadia Urbinati, Massimo L.Salvadori, Vincenzo Memoli: Italia, paese non democratico…

di Valter Vecellio

“L’Unità” di ieri, domenica 26 luglio, informa che siamo messi male. Umberto De Giovannangeli informa che Freedom House ha ulteriormente declassato il nostro Paese: dieci sono i paesi che hanno perso colpi in fatto di libertà di stampa; siamo in compagnia di Moldavia e Capo Verde. Un altro rapporto, questa volta curato da “Reporter sans frontières” ci pone al 44esimo psto su 173, dietro a Ecuador, Uruguay, Cile e Argentina. Le ragioni della ulteriore retrocessione (da paese libero, “free”, siamo diventati semiliberi, “partly free”) sono descritte in questo significativo passaggio: “Nonostante l’Europa Occidentale goda a tutt’oggi della più ampia libertà di stampa, l’Italia è stata retrocessa nella categoria dei Paesi parzialmente liberi, dal momento che la libertà di parola è stata limitata da nuove leggi, dai tribunali, dalle crescenti intimidazioni subite dai giornalisti da parte della criminalità organizzata e dei gruppi di estrema destra, e a causa dell’eccessiva concentrazione della proprietà dei media”; e ancora: il punto cruciale è costituito “dalla concentrazione insolitamente alta della proprietà dei media rispetto agli standard europei…”.



Qualche giorno fa ci siamo occupati su “Notizie Radicali” di un libretto di Nadia Urbinati, “Lo scettro senza il re”, che si occupa di partecipazione e rappresentanza nelle democrazie moderne. “Nessuna delle costituzioni occidentali è attrezzata efficacemente per proteggere il diritto dell’informazione e il pluralismo delle fonti di informazione altrettanto quanto lo è il diritto di voto”, annota Urbinati, “Un diritto che difende sia la libertà di esprimere opinioni che la libertà di essere informati…”. L’informazione, si osserva, “è un bene pubblico come la libertà e il diritto, e come libertà e diritto non è discrezione della maggioranza. E’ soprattutto un bene che ci consente di avere altri beni: di monitorare il potere costituito, di svelare ciò che esso tende a voler tener segreto. Essa fa parte perciò dell’onorata tradizione dei poteri negativi e di controllo, anche se il suo è un potere indiretto e informale. Senza questo potere di controllo le democrazie moderne sono a rischio, anche qualora il diritto di voto non sia violato, anche qualora non ci sia più, nemmeno nell’immaginario, l’idea di un altrove rispetto alla democrazia; anche qualora la democrazia non abbia più nemici politici”.



Quasi contemporaneamente è stato pubblicato un altro interessante saggio, di Massimo L. Salvatori: “Democrazie senza democrazia” (Laterza, pagg.96, 14 euro).Si comincia con una riflessione sconsolata: “La cosiddetta sovranità popolare…si trova ad essere profondamente mortificata e largamente svuotata. E il tutto nel contesto di una incessante, assordante ‘ritualità democratica’ e santificazione ideologica della democrazia, alimentata dal fatto che mai come nell’era presente si sono dati nel mondo tanti Stati retti da regimi che si proclamano liberaldemocratici…”(pag.X); e ancora: “Proprio mentre conosce i suoi maggiori trionfi, la democrazia, sotto la cappa della sua glorificata ideologia, appare però tutt’altro che in buona salute, poiché nella realtà dei fatti e dei suoi concreti meccanismi di funzionamento, troppi dei suoi presupposti essenziali appaiono profondamente scossi da processi di natura insieme politica, sociale ed economica, sia all’interno dei singoli Stati sia a livello internazionale…” (pag.6). E infine: “Chi può oggi credere che abbia ancora un senso parlare di ‘sovranità popolare’, quando il ruolo del cittadino è ridotto dovunque a quello di un consumatore della politica che ha quale unica possibilità di cambiare fornitore? Sicuramente si tratta di un potere che, per quanto limitato, non è affatto trascurabile ed è senza alcun dubbio assai meglio di nessun potere. Le dittature negano anche questo. Ma possiamo definire democratici dei sistemi soltanto perché non sono dittature? Stando ai processi che effettivamente presiedono alla loro formazione, sembrerebbe più proprio definire i governi dei sistemi oggi chiamati ‘liberaldemocratici’ più propriamente ‘governi a legittimazione popolare passiva’”…(pag.86).



Sull’ultimo numero della “Rivista Italiana di Scienza Politica”, il professor Vincenzo Memoli, che insegna “Metodologia della Ricerca Socio-Politica” all’università del Molise, ha pubblicato un interessante saggio, “Il sostegno democratico in Italia”: “Nonostante il moderato ottimismo generato dai risultati degli studi condotti negli anni Novanta”, scrive Memoli, “non sono pochi gli studiosi che ritengono oggi i cittadini più sfiduciati nei confronti della politica; più scettic nei confronti delle istituzioni; disincantati rispetto all’effettivo funzionamento dei processi democratici…”. Si ricorda uno studio condotto nel 1963 dai professori Gabriel Almond e Sidney Verba “The Civic Culture: Political Attitudes and Democracy in Five Nation” (Princeton University Press). Fin da allora emergeva un dato fondamentale che con il tempo si è consolidato e anzi, aggravato: “Il carente interesse per la politica e il basso livello di informazione condizionavano negativamente la relazione tra cittadino e Stato…”.



Da varie angolazioni, insomma, si arriva a una identica conclusione: il nostro paese è “governato” da un regime non democratico; e la cifra fondamentale di questo regime è la negazione della possiibilità di poter conoscere e di essere adeguatamente informati. C’è chi, come Urbinati e Salvatori individua in Berlusconi e nella sua scesa in campo il momento in cui questo processo si è maggiormente concretato; altri ci ricordano che si tratta di una situazione “antica”, che viene da lontano; e Berlusconi semmai è il punto terminale di un processo molto più complesso e articolato, che ha di fatto confiscato il cittadino dell’elementare principio liberale del “conoscere per poter deliberare”. Come sia un po’ tutti riconoscono che “troppi poteri di primaria importanza per la vita dei cittadini sono stati sottratti alle istituzioni figlie del voto popolare, troppi poteri formalmente attribuiti a siffatte istituzioni, sono sostanzialmente depotenziati e al limite annullati da altri poteri”.



Ed è quanto si ricava dal “libro giallo” curato qualche mese fa dai radicale, per poter documentare concretamente su cosa poggia la “peste italiana”. Un qualcosa che non viene più considerato con sufficienza, e che gli studiosi del diritto e gli analisti cominciano a riconoscere e studiare.



Dopo la brevissima stagione in occasione delle elezioni dove brandelli di informazione sono stati strappati e conquistati a prezzo di gravi, onerose iniziative nonviolente, il muro della censura e della disinformazione è tornato più che mai ad essere impenetrabile. Marco Pannella, Emma Bonino, i radicali sono oggi più che mai vieti e vietati, cancellati. E’ un problema urgente, una ineludibile questione con cui dovremo tornare a misurarci.

motorino radicale
12-08-09, 18:08
Diritti umani e flussi migratori in una politica globale

• dalla Relazione al convegno Dall'Adriatico all'Atlantico: esodi, migrazioni e scambi culturali, in corso di pubblicazione presso l’Università degli Studi “Roma Tre”, facoltà di Lettere e Filosofia (Master in Storia e storiografia multimediale)

di Antonio Stango

Le migrazioni dai rapporti di forza alla prevalenza del diritto



La storia dei popoli è quasi sempre stata scandita da viaggi, spostamenti di masse, sovrapposizioni e fusioni di gruppi diversi. Anche le ‘radici’ europee, delle quali spesso si parla, appartengono a piante i cui semi sono giunti dall’Africa, dal Medio Oriente, dalle pianure dell’Asia centrale o dal grande Nord scandinavo, con ibridazioni continue di costumi e di idee. Poche tesi sono più infondate di quella secondo la quale una data collettività umana, che in un determinato momento appare dotata di caratteri generali in parte simili e della cittadinanza di uno stesso Stato, sarebbe portatrice di un’identità profonda, onnicomprensiva, ultramillenaria e della quale andrebbero tutelate integrità e impermeabilità. In questo intervento, che tratterà soprattutto delle immigrazioni contemporanee in Europa e in particolare in Italia, intendo quindi interrogarmi laicamente sulle modalità più opportune della convivenza, sapendo che le identità non sono cristallizzazioni statiche ma processi dinamici in continua trasformazione.

Le modalità di regolazione dei movimenti migratori si riassumevano un tempo nella forza: un gruppo (da un’unità di armati a un’intera popolazione) occupava un territorio, ritenuto desiderabile, o approfittando del fatto che questo era inabitato o perché i suoi abitanti potevano essere sottomessi o semplicemente eliminati. L’emigrazione era quindi in primo luogo conquista. In pochissimi casi si addiveniva a un accordo di coesistenza, peraltro mai equo – di solito perché i nuovi arrivati contribuivano alla difesa contro nemici comuni, come nel caso della colonizzazione russa nel XVIII secolo in alcune aree dell’attuale Kazakhstan. Per converso, una collettività organizzata limitava le invasioni del proprio territorio solo se era in grado di sconfiggere militarmente i migranti. Vi erano poi le migrazioni coatte: fughe, diaspore, deportazioni o tratte di schiavi, anch’esse basate sulla potenza dei vincitori o dei compratori, che dalle epoche che gli storici definiscono per convenzione ‘antica’ e ‘moderna’ si sono protratte fino ad oggi, assumendo forme diverse.



Il diritto internazionale – che è stato fino a tempi recentissimi soltanto diritto fra Stati, e non fra organizzazioni sovranazionali, Stati e individui – ha raramente disciplinato con modi diversi dalla forza i fenomeni migratori, almeno fino al 1919. Al massimo, con trattati di pace o arbitrati, stabiliva confini, sfere di influenza, riserve di sfruttamento coloniale. I fallimenti della Società delle Nazioni e la catastrofe della seconda guerra mondiale, con il suo strascico di spostamenti di decine di milioni di persone, hanno infine lasciato spazio al riconoscimento, almeno formale, di diritti umani individuali tendenzialmente validi per ciascuno in ogni parte del mondo, come affermato dalla Dichiarazione Universale del 1948 e dai Patti internazionali successivi; salve le pur frequenti violazioni.



Questo processo include la Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati del 1951 (alla quale aderiscono 140 Stati degli oltre 190 membri dell’ONU e che riguarda essenzialmente il diritto d’asilo e di protezione umanitaria), la fondazione nello stesso anno dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (che ha oggi 120 Stati membri) e una generale percezione, negli Stati democratici, che i migranti siano legittimati ad un trattamento sostanzialmente simile a quello dei cittadini dello Stato ospite, ancorché non ad usufruire di un pieno diritto di cittadinanza. Alla materia fanno riferimento anche molti altri documenti di diverso valore normativo, quali la Convenzione internazionale sui diritti di tutti i migranti lavoratori e dei membri delle loro famiglie adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1990, la Convenzione di Strasburgo sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale adottata nel 1992 dagli Stati membri del Consiglio d’Europa e varie comunicazioni della Commissione Europea, e in particolare quella del 1° settembre 2005 intitolata “Un’agenda comune per l’integrazione. Quadro per l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi nell’Unione Europea”.

Se questi sono elementi importanti di un sistema giuridico astratto, la realtà delle diverse aree geografiche e delle diverse aggregazioni statali o sovranazionali ne offre declinazioni spesso discordi. A rendere inevitabili le differenze di applicazione concorrono vari fattori, dei quali quello numerico è forse il più determinante.



È piuttosto evidente che, mentre i diritti umani fondamentali quali la vita e l’inviolabilità del proprio corpo devono essere garantiti a ciascuno nello stesso modo e in qualsiasi luogo (e non valgono pretese interpretazioni regionalistiche), i diritti sociali ed economici e alcuni diritti culturali sono tutelati in misura maggiore o minore secondo il livello di sviluppo. Non sarebbe realistico aspettarsi che il Bhutan o il Burkina Faso forniscano lo stesso sistema assistenziale o la stessa qualità dell’istruzione scolastica della Svezia o degli Stati Uniti; anche se potremmo desiderare, ad esempio, che gli Stati Uniti offrano lo stesso trattamento sanitario gratuito di alcuni Paesi dell’Unione Europea o che le scuole pubbliche italiane non precipitino ulteriormente nel degrado. In alcuni casi si tratta di scelte politiche più o meno adeguate; in altre, di ragioni semplicemente materiali. Ad impossibilia nemo tenetur, ricorda un saldo principio giuridico.



Sulla base di queste considerazioni, al diritto umano di uscire dal proprio Paese, che a nessuno dovrebbe essere negato, non può corrispondere un pari diritto ad entrare in un altro – se non nei casi previsti da alcune convenzioni. Questo apparente paradosso è un fattore di crisi, aggravato dall’ormai esplosiva crescita demografica in Africa, in Medio Oriente, in Asia meridionale, in America latina.



Dati e temi dell’immigrazione in Italia



Su quanti siano gli immigrati presenti in Italia le statistiche non sono attendibili, se non rispetto a coloro che vi risiedono ufficialmente. Questi ultimi sarebbero (secondo dati peraltro non univoci) circa quattro milioni, costituendo circa il sette per cento della popolazione; l’incremento sarebbe di circa l’uno per cento all’anno. A questa cifra vanno aggiunti gli immigrati irregolari, quelli cioè che sfuggono ai registri dei Comuni e delle questure. Tutti hanno presente i boat people: coloro che, a decine di migliaia ogni anno, raggiungono l’Italia a bordo di barconi gestiti dalla criminalità organizzata e che vengono intercettati e in qualche modo censiti; ma si tratta soltanto di una parte dei clandestini, che spesso entrano dai confini di terra o dagli aeroporti, anche con visti validi ma solo per un periodo di pochi mesi. Secondo stime del Ministero degli Interni, nel 2006 fra gli irregolari di cui si è avuta contezza il 13 per cento sarebbero giunti via mare, il 23 per cento dalle altre frontiere sfuggendo ai controlli, il 64 per cento sarebbero passati alla clandestinità dopo la scadenza del titolo di soggiorno.



La mia percezione – basata su una serie di analisi parziali e su una proiezione tuttavia verosimile – è che ad ogni immigrato regolare corrisponda almeno un immigrato clandestino. Se questo fosse vero, avremmo circa quattro milioni di presenze extralegali, e quindi condannate ad un’esistenza di marginalità se non a cadere nella sfera di influenza di gruppi criminali italiani o stranieri.



È noto che in Italia (nonostante la delocalizzazione di molte fabbriche all’estero e sebbene milioni di cittadini risultino disoccupati, in particolare nel Sud) numerose aziende in alcune regioni lamentano scarsità di manodopera, che non riescono a reperire sul mercato del lavoro interno. Allo stesso modo, è ormai abitudine generalizzata che le persone anziane o non autosufficienti siano affidate alle cure di badanti che provengono per la quasi totalità dall’estero. Questo ha portato i governi che si sono succeduti, qualsiasi fosse la loro formula politica, a promuovere flussi di immigrazione controllati e soprattutto a regolarizzare, attraverso frequenti provvedimenti di sanatoria, la posizione di centinaia di migliaia di clandestini. Anche altri Paesi dell’Unione Europea, del resto, hanno bisogno, almeno in alcuni periodi, di un’immigrazione qualificata e di una disponibile ad occupare i posti di lavoro che i cittadini nazionali rifiutano. Un problema aggiuntivo sorge ovviamente nei periodi di crisi economica, quando il numero delle offerte di assunzione è superato da quello dei licenziamenti. Vorrei notare peraltro che la sanatoria – in questo come in altri campi – è uno strumento paragiuridico se non antigiuridico: il fatto che un quadro legislativo che dovrebbe essere previdente ed astratto si mostri così carente da dover essere corretto rendendo lecito l’illecito è accettabile solo come rara eccezione, non come prassi da riaffermare quasi annualmente.



Rispetto all’allarme sociale causato dai comportamenti delinquenziali di un numero elevato di immigrati clandestini, o di cittadini di Stati membri dell’Unione Europea di recente accessione che vivano in condizioni di irregolarità e marginalità, occorre certo evitare l’uso strumentale della domanda di sicurezza e l’invocazione di provvedimenti d’urgenza non sempre razionali. Tuttavia, secondo un rapporto del Ministero degli Interni oltre il trenta per cento dei reati commessi nel 2006 in Italia sono imputabili a stranieri, per la maggior parte clandestini. Mentre è comprensibile il sentimento dei cittadini che, già vittime di una criminalità organizzata e di un’illegalità diffusa nazionali di vaste proporzioni, non amano l’idea che a queste si aggiungano quelle di importazione, dobbiamo anche considerare che l’immissione nei ranghi della criminalità europea non è esattamente il tipo di promozione umana e sociale che auspicheremmo per chi fugge da aree di miseria. Se è questo il destino che nei fatti attende una grande percentuale di immigrati, la questione del limite alle immigrazioni riguarda anche la loro dignità e la loro qualità della vita: in altri termini, vi sono casi in cui la non ammissione può costituire una tutela dei diritti umani maggiore della ammissione. La promozione del diritto alla vita e della vita del diritto – per usare una formula cara al Partito Radicale Nonviolento – nei Paesi di origine, integrata da meccanismi di cooperazione economica atti a favorire il co-sviluppo, sarebbe certo una risposta più adeguata alla ricerca di condizioni accettabili da parte di centinaia di milioni di persone per le quali emigrare è una scelta di disperazione e non di speranza.



Come ha sostenuto il Presidente della Repubblica Napolitano il 18 dicembre 2006, in occasione della Giornata Internazionale del Migrante, l’immigrazione è una risorsa economica e sociale per l’Italia, poiché “contribuisce a colmare carenze di manodopera, consente alle imprese di produrre e alle famiglie di essere aiutate nella cura dei propri cari”; ma – aggiungeva il Presidente – “la criminalità che ha origine dall’immigrazione clandestina ha spesso come vittime gli stessi immigrati: bambini e adulti ridotti a lavorare in condizioni estreme ed umilianti, persone contrabbandate come merce di nessun valore e talora costrette a subire vere e proprie forme di schiavitù”.



Le sfide da affrontare con urgenza riguardano dunque, a mio avviso, il canalizzare in forme legali e controllate l’immigrazione necessaria, il rifiutare l’ingresso (ove consentito dal diritto internazionale e comunitario) a quanti intendono delinquere o sarebbero di fatto costretti a farlo e il contrastare efficacemente le nuove forme di tratta degli schiavi, che non sono molto migliori di quelle in uso dal quindicesimo al diciannovesimo secolo fra le sponde dell’Atlantico.

Nell’affrontare il problema politicamente – cioè nell’ottica dell’organizzazione della polis, intesa ormai come collettività umana globale – occorre andare oltre l’accoglienza caritatevole di quanti si presentano alle porte di uno Stato. La semplice ammissione e la semplice ospitalità, in sé, non cambiano in alcun modo positivo i disequilibri strutturali, né rimuovono in prospettiva le cause delle migrazioni di massa. La riduzione dei migranti in schiavitù e la loro costrizione a vivere in condizioni indegne (in baracche sulle banchine di un fiume, in grotte, in canali fognari o accatastati in garage e appartamenti-alveare) dovrebbero essere considerate crimini contro l’umanità.



Tutelare la vita e la qualità della vita dei cittadini è un dovere dello Stato, che trova in questa funzione la sua giustificazione primaria. In che misura può ospitare milioni di persone che entrano nel suo territorio in modo spesso incontrollato senza, di fatto, sottrarsi a questo obbligo? E come, senza aumentare in numero, in dotazioni e in preparazione professionale i propri operatori nel campo dell’ordine pubblico, della sanità, dei trasporti, dell’educazione, può assicurare una buona qualità della vita anche agli immigrati regolari ed irregolari?



L’Italia, che come sappiamo ha cessato solo in tempi molto recenti di essere terra di emigrazione, sembra subire le immigrazioni senza esservi preparata. La portata del fenomeno si avvia ormai ad essere maggiore di quella dei grandi mutamenti sociali ed antropologici che caratterizzarono la fase di industrializzazione successiva alla seconda guerra mondiale, con le migrazioni interne, lo svuotamento delle campagne e la rapida inurbazione di una popolazione non più prevalentemente agricola. Anche l’espansione del settore terziario, la nascita della società postindustriale, la rivoluzione delle telecomunicazioni sono state assorbite; ma l’impatto con l’immigrazione di massa, se non gestito con razionalità e con le risorse necessarie, potrebbe rivelarsi altrettanto insuperabile dello squilibrio fra il Nord e il Sud del Paese.



Modelli di integrazione. Il caso dei Paesi Bassi e quelli di altri Paesi europei



Fieri da secoli di una politica di tolleranza, i Paesi Bassi accolsero grandi flussi di immigrati soprattutto dopo la dimissione delle colonie in Indonesia nel 1949 e nel Suriname nel 1975, e in seguito continuarono a concedere l’ingresso ogni anno a decine di migliaia di persone in cerca di lavoro, oltre che di asilo politico. Poiché l’alta densità di popolazione non suggeriva la necessità di immigrazioni di massa permanenti, gli immigranti vennero a lungo considerati come residenti temporanei, o ‘lavoratori ospiti’ (cosa verificatasi anche in altri Paesi, fra i quali la Germania). Tuttavia, alla fine degli anni Settanta il Consiglio scientifico per le Politiche Governative (Wetenschappelijke Raad voor het Regeringsbeleid) raccomandò una legislazione più favorevole all’integrazione, soprattutto per le minoranze etniche – analogamente a quanto si era iniziato a fare in Svezia. Si adottarono norme anti-discriminazione e, nel 1985, fu concesso il diritto di voto attivo e passivo alle elezioni amministrative per i residenti non cittadini. L’anno dopo una riforma estese le possibilità di acquisire la cittadinanza per jus soli.

Negli anni Ottanta il governo olandese spese molte risorse nel campo dell’educazione degli immigrati, anche finanziando scuole islamiche o induiste sulla base del principio che scuole pubbliche e scuole religiose abbiano pari dignità. Questo ha però portato all’esistenza di scuole frequentate da soli immigrati, e bambini e ragazzi dei diversi gruppi etnici sono vissuti spesso in ambiti chiusi l’uno all’altro. In breve tempo l’opinione pubblica olandese iniziò a rendersi conto che questa sorta di ghettizzazione non era favorevole alla coesione sociale; un rapporto del 1989 dello stesso Consiglio suggeriva così di ridurre le politiche di integrazione per gruppi, in campi come l’educazione e il lavoro, per puntare maggiormente su quella degli individui.



Il fallimento delle politiche di integrazione fu sottolineato all’inizio degli anni 2000 da sociologi e politici, fra i quali in particolare il leader populista Pim Fortuyn, che considerava il Paese ormai sovraffollato e poneva l’accento soprattutto sulla minaccia costituita dal fondamentalismo islamista (non solo a proposito della strage dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti) per la libertà di parola e per la stessa democrazia olandese. Il suo partito riportò una larga vittoria nelle elezioni comunali di Rotterdam nel marzo 2002, divenendo il primo della città con il 36 per cento dei voti; ma due mesi dopo, durante la campagna elettorale per il Parlamento nazionale, egli fu ucciso da un attivista olandese di estrema sinistra. Sull’onda della forte emozione per l’assassinio, il partito da lui fondato ottenne oltre 1.600.000 voti e il 17% dei seggi della Camera dei Deputati, o Seconda Camera.



Fortuyn, dichiaratamente omosessuale, aveva indicato come un pericolo anche l’intolleranza diffusa nella comunità musulmana per alcuni comportamenti sessuali e aveva spiegato che il multiculturalismo non doveva essere inteso come uno strumento che sgretolasse dall’interno la tolleranza che la società olandese aveva conquistato.



Solo due anni e mezzo dopo, nel novembre 2004, il regista cinematografico Theo van Gogh, che aveva documentato e criticato nella sua opera e con varie dichiarazioni i frequenti atteggiamenti sessuofobici e di discriminazione delle donne in gruppi di religione islamica, fu assassinato da un cittadino olandese di origine marocchina, motivato da fanatismo islamista.

Questi delitti contribuirono a determinare una svolta nelle politiche di integrazione degli immigrati, oltre che nella coscienza collettiva della società olandese. Dopo l’omicidio di van Gogh, il Ministero per l’Immigrazione e l’Integrazione annunciò un maggior controllo sulle moschee, l’obbligo della conoscenza della lingua e della società olandesi per ottenere il permesso di residenza e politiche di naturalizzazione più restrittive, fino all’eventuale perdita della cittadinanza dei Paesi Bassi. Si punta ora maggiormente all’identificazione normativa, cioè all’effettivo adattamento alle norme giuridiche olandesi da parte degli immigrati.



Il caso olandese sembra rappresentare in modo emblematico problematiche presenti anche in altri Paesi dell’Unione, dove si è verificato negli ultimi vent’anni l’affermarsi di movimenti che esprimono forti preoccupazioni rispetto ai modi dell’immigrazione e che spesso sono sbrigativamente definiti xenofobi, ma che non sempre lo sono. Un’analisi attenta mostrerebbe aspetti molto più complessi, ad esempio, nell’emergere di partiti politici come la FPÖ (Freiheitliche Partei Österreichs, Partito della Libertà dell’Austria) e la BZÖ (Bündnis Zukunft Österreich, Alleanza per il futuro dell’Austria), o della stessa Lega Nord in Italia.



Il Migrant Integration Policies Index misura con oltre 140 indicatori le politiche per l’integrazione degli immigrati regolarmente residenti negli Stati dell’Unione Europea nonché in Canada, Norvegia e Svizzera, rapportandosi agli standard più elevati indicati delle convenzioni applicabili e considerando sei aree di intervento: accesso al mercato del lavoro, riunificazione familiare, residenza di lungo periodo, partecipazione politica, accesso alla cittadinanza e divieto di discriminazioni.



La Svezia ha il punteggio più alto in tutte le aree, assicurando fra l’altro agli immigrati un buon grado di mobilità del lavoro, assistenza per i disoccupati, corsi professionali e di apprendimento della lingua svedese gratuiti, diritto di voto per le elezioni amministrative e semplicità nelle procedure di riunificazione delle famiglie. Tuttavia, il sistema svedese è basato sul multiculturalismo, che nel caso dei Paesi Bassi ha finito per rivelarsi – come abbiamo visto – non soddisfacente. All’estremo opposto, pur trattandosi di un Paese per molti aspetti socialmente affine alla Svezia, si situa il caso della Danimarca, il cui modello è invece l’assimilazione. Noto che fra le cause di questa divergenza di scelte è rilevante la densità di popolazione, in Danimarca sei volte maggiore che nel Paese vicino.



Un caso particolare è quello della Lettonia, che ottiene il punteggio più basso fra gli Stati analizzati in termini di integrazione e che considera come immigrati i residenti non autoctoni, già cittadini sovietici, che non hanno ottenuto la cittadinanza lettone dopo la restaurazione dell’indipendenza. Cipro, Austria, Grecia e Slovacchia precedono di poco la Lettonia, mentre Regno Unito, Spagna, Germania, Francia e Italia – che insieme ospitano circa la metà di tutti gli immigranti extracomunitari nell’Unione Europea – si collocano in una posizione intermedia.

Anche all’interno di ciascuno di questi Paesi si registrano differenze nell’integrazione, dovute alla varietà delle norme regionali e amministrative e ai fattori sociali locali. In Italia, secondo i rapporti del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e di organizzazioni non governative specializzate, gli immigrati sarebbero generalmente meglio integrati nelle regioni del Nord che in quelle meridionali; meglio nei piccoli centri che nelle maggiori aree metropolitane.



Politiche comunitarie e rapporti euro-mediterranei



Il Trattato di Amsterdam fra gli Stati membri dell’Unione Europea, entrato in vigore nel 1999, prevede una politica unitaria per le questioni riguardanti asilo, protezione umanitaria, immigrazione, attraversamento delle frontiere esterne e libera circolazione dei cittadini dei Paesi terzi.



I cittadini non comunitari regolarmente presenti oggi sul territorio dell’Unione sono più di 40 milioni. Gli immigrati clandestini sarebbero invece non meno di dieci milioni: pari all’incirca alla popolazione di Stati come il Belgio, il Portogallo, la Repubblica Ceca o l’Ungheria; più di quella della Svezia, dell’Austria e di altri dodici Stati membri. Tuttavia, come osservato a proposito dell’Italia, questo dato è probabilmente molto inferiore a quello reale.



Secondo l’Istituto Statistico dell’Unione Europea (Eurostat), la popolazione dei Paesi del Mediterraneo meridionale supererà entro il 2025 i 330 milioni di abitanti (con una crescita di quasi il cinquanta per cento rispetto al 2000) e il loro reddito medio pro-capite rimarrà molto inferiore a quello europeo occidentale. Tenendo conto anche dei dati dell’Africa sub-sahariana e del ‘grande Medio Oriente’, la pressione migratoria sull’Europa attraverso il Mediterraneo potrebbe continuare a crescere, se non saranno presi provvedimenti strutturali tali da fermarne le ragioni. Parte della soluzione si troverebbe nel trasformare quella vasta area – oggi fornitrice soprattutto di beni e manodopera a basso costo e quindi di marginalità sociali – in un sistema produttivo dotato di un forte mercato interno.



Con tale obiettivo sono stati lanciati da tempo diversi progetti di aiuto allo sviluppo e di partenariato euro-mediterraneo. La Conferenza di Barcellona del 1995 auspicava l’istituzione di una zona di libero scambio tra l’Europa comunitaria ed i Paesi del Mediterraneo meridionale per la creazione di un’area di prosperità condivisa. Sostenere l’equilibrato sviluppo di una società è però evidentemente cosa molto diversa dall’aumentare la ricchezza delle élites al potere: la Dichiarazione di Barcellona allora approvata sottolineava la necessità di rafforzare la democrazia e rispettare i diritti umani, temi di scarso interesse per molti dei governi degli Stati partner. L’articolo 2 di tutti gli accordi di associazione fra Stati dell’Unione Europea e Stati terzi, del resto, prevede il rispetto dei diritti umani come vincolante, ma è tenuto nei fatti in scarsissima considerazione.



(SEGUE)

motorino radicale
12-08-09, 18:12
Il diritto d’asilo, i rifugiati, i profughi



La Convenzione di Ginevra del 1951 definisce il rifugiato come “chiunque, […] nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato”. Sono escluse le persone di cui vi sia serio motivo di sospettare che abbiano “commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità”, “un crimine grave di diritto comune fuori del Paese ospitante prima di essere ammesse come rifugiati”, o “atti contrari agli scopi e ai principî delle Nazioni Unite”. Già l’articolo 14 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo aveva stabilito, al primo comma: “Ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni”.

I rifugiati – e temporaneamente i richiedenti asilo, fino a che la loro domanda non sia stata approvata o respinta in modo correttamente motivato, anche dopo un eventuale ricorso – sono dunque in una condizione giuridicamente molto diversa dai migranti, regolari o clandestini; e questo sia secondo il diritto internazionale e comunitario (si veda anche il Trattato di Amsterdam del 1999) che ex articolo 10, terzo comma, della nostra Costituzione: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Si tratta di un diritto soggettivo pienamente riconosciuto, non di un semplice interesse legittimo. Ai rifugiati devono essere garantiti in pratica in ogni campo gli stessi diritti dei cittadini del Paese ospite, escluso quello di elettorato attivo e passivo.



La provvisione costituzionale, inserita fra i principî fondamentali, è di poco precedente sia alla Convenzione di Ginevra che alla Dichiarazione Universale, ed è nata dallo stesso spirito di rigenerazione immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale. Malgrado questo, l’Italia ancora manca di una legge organica sul diritto d’asilo, e la materia è disciplinata da norme non del tutto coerenti inserite in leggi che trattano più in generale degli stranieri in Italia (Legge Martelli del 1990, Legge Turco-Napolitano del 1998, Legge Bossi-Fini del 2002 e successivo regolamento di attuazione). Ciò rende a volte difficile distinguere in modo appropriato fra coloro che richiedono asilo (nell’ordine delle diecimila persone all’anno), coloro che in determinate circostanze siano ammissibili alla protezione umanitaria perché profughi da eventi bellici o calamità naturali e i milioni di persone che cercano un miglioramento della propria condizione economica.



Chi richiede asilo potrebbe rischiare morte, tortura o gravi pene detentive in caso di ritorno nel proprio Paese d’origine. Prima di procedere alla sua eventuale espulsione occorre essere certi che la sua domanda sia infondata, e il processo di definizione del suo status deve avvenire secondo tutte le garanzie del caso. Queste non sempre sono offerte nei centri di accoglienza temporanea dove di solito confluiscono anche gli immigrati clandestini, e le cui condizioni costituiscono com’è noto una costante fonte di preoccupazione per le organizzazioni non governative italiane del settore e per le agenzie sovranazionali competenti, in primo luogo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.



I diritti civili alla prova del mutamento sociale



Il sistema di garanzia internazionale dei diritti umani è complementare alla giurisdizione degli Stati ed è soprattutto a questi che compete assicurarne la protezione, benché sia possibile adire organi di giurisdizione internazionale qualora vi siano trattati che lo prevedano. Si ammette però – anche se con molte distinzioni di natura politica – il concetto di diritto-dovere di ingerenza umanitaria nelle vicende interne di uno Stato in casi particolarmente gravi. Già nel 1975 l’Atto Finale della Conferenza di Helsinki sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (da cui prese il nome il “Movimento Helsinki”, tuttora attivo in molti Paesi) era impostato sull’inscindibilità del legame fra diritti umani, cooperazione e sicurezza. Quei principî, che ispirarono una tale ventata libertaria da contribuire ad abbattere la struttura totalitaria sovietica, restano validi e a mio parere utilizzabili anche in altri continenti: finché esisteranno regimi che non solo non proteggono, ma calpestano i diritti dei propri stessi cittadini in modo sistematico e violento, riducendo anche le possibilità di progresso civile e di sviluppo economico, mancheranno le basi per una piena fiducia reciproca fra gli Stati; e sarà estremamente difficile controllare le spinte migratorie.



Consolidare ed estendere lo spazio della democrazia e della libertà, adoperando tutti gli strumenti della diplomazia, dell’economia e dell’informazione – anche attraverso una Comunità delle Democrazie che adotti posizioni comuni puntando a questo obiettivo e superi le limitazioni strutturali del sistema delle Nazioni Unite – è sempre più urgente, poiché l’alternativa è che siano le dittature ad esportare istanze autoritarie, irrazionali, integraliste.



Ogni società è naturalmente portata ad evolversi, se non è ostacolata da un regime oppressivo. L’immissione in un determinato contesto sociale di un numero percentualmente molto rilevante di persone che non ne hanno condiviso la formazione – le lotte per l’emancipazione, la costruzione costituzionale – altera certamente tale evoluzione e potrebbe invertirne il corso, se non si avrà cura di integrare ogni singolo individuo nello schema del complesso governo delle libertà, prima che il coagularsi di gruppi intorno a programmi e rivendicazioni identitarie produca ristrutturazioni settarie e diritti differenziati e ridotti.



I rischi per i diritti civili sono concreti. Casi avvenuti in Francia, in Olanda, in Germania, nel Regno Unito, in Danimarca e nella stessa Italia, dove modelli comportamentali talvolta imposti all’interno di gruppi di immigrati anche di seconda o terza generazione hanno mostrato di sottrarsi a leggi chiave e di minacciare la condivisione di principî di libertà e di eguaglianza, devono indurci a riflettere sul futuro della società europea. Tali casi hanno riguardato, ad esempio, il rifiuto di iscrivere ragazzi di sesso maschile in scuole con insegnanti donne, il forzare ragazze minorenni a sposare uomini scelti dalle famiglie, l’impartire punizioni violente (fino alla morte) a persone considerate immorali, il costringere donne all’uso del velo, mutilazioni genitali femminili, esplosioni di ira collettiva contro l’espressione di idee ritenute blasfeme. I diritti individuali devono essere tutelati non soltanto nei confronti degli Stati, ma anche dagli abusi dei gruppi (politici, etnici, confessionali o familiari che siano, e qualsiasi sia la cittadinanza dei loro componenti).



Se, dopo millenni di persecuzioni, stragi, genocidi, alcuni Paesi hanno raggiunto un livello almeno appena accettabile di rispetto dei diritti umani, delle libertà civili, di salvaguardia della sfera privata dalle ingerenze dei governi, di separazione fra questi e le religioni, di non discriminazione e di pari opportunità anche fra i generi, è illusorio pensare che tali conquiste non possano subire nuove minacce.



L’Italia ha impiegato 92 anni per giungere dalla prima proposta di legge sul divorzio nel Parlamento unitario alla sua introduzione nel 1970, che ha poi difeso con la vittoria nel referendum. È del 1975 il nuovo diritto di famiglia, che finalmente equipara la donna all’uomo in molti momenti dove ancora esistevano differenze giuridiche; del 1978 la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza e per l’abbattimento della piaga dell’aborto clandestino. Solo nel 1984, pur conservando un regime concordatario con una Chiesa dominante più adeguato all’epoca fascista che agli ideali del Risorgimento, la repubblica ha eliminato il concetto di ‘religione di Stato’ dal proprio ordinamento; ha superato lentamente molte delle più odiose discriminazioni relative al comportamento sessuale, anche se nel suo cammino verso maggiori libertà appare tuttora frenata da gabbie dottrinali o moralistiche – ad esempio per le scelte di fine vita o di maternità assistita. Sarebbe in grado un Paese così di non fare passi indietro in questi campi, quando ai residui blocchi conservatori si unisse la spinta di masse di nuovi arrivati provenienti da terre dove queste conquiste non si sono mai realizzate? E sarebbe in grado di non rispondere a tale spinta con una reazione di chiusura che in nome di presunti valori tradizionali invochi il ritorno a schemi sociali superati, soffocando così la propria modernità prima ancora che altri la feriscano?



I caratteri stabili di una collettività umana statuale o sovranazionale – quali, rispettivamente, l’Italia e l’Unione Europea – che valga la pena di conservare e difendere sono le istituzioni e le regole che garantiscono il maggior soddisfacimento possibile dei diritti umani e civili, come statuiti dalla Dichiarazione Universale e dall’insieme del diritto internazionale. È soltanto la piena accettazione di questi principî a fondare la ‘terra’ alla quale approdare, la cittadinanza da ottenere o da confermare giorno dopo giorno con comportamenti coerenti.

motorino radicale
12-08-09, 18:12
Sanità e Malasanità. Promuove chi l’ha distrutta

di Marcello Crivellini

Molte regioni italiane sono sommerse da cumuli di debiti e deficit sanitari, maleodoranti come e più dei cumuli di spazzatura di Napoli e Palermo. Maleodoranti perché frutto di incapacità gestionale e di scientifico utilizzo per il finanziamento dei partiti, per la creazione di consenso elettorale e per il mantenimento di corporazioni e gruppi di potere locale. Questo tipo di sanità fa due vittime: le risorse pubbliche e la salute dei cittadini. E questa sanità è un pericolo per la salute così come per le risorse economiche e finanziarie del paese.

Come Radicali chiediamo una grande operazione di verità e di trasparenza per separare nettamente ciò che è bene per la salute da ciò che è bene per il mantenimento del potere dei ceti politici regionali.

L’ intervento del Governo che ha nominato Commissari i Presidenti di Regione è una ammissione di inconsistenza politica. Non si nomina a capo delle indagini il maggiore imputato. Vanno commissariate quelle regioni in cui il portafoglio e la salute dei cittadini sono minacciati da anni, ma vanno nominati commissari persone di valore che non abbiano alcun rapporto con il potere locale e siano in grado di assumere le decisioni necessarie più drastiche. Stupisce, ad esempio, che non sia stata commissariata la Calabria. Andava commissariata per prima e due volte: una volta per difendere la salute di quella parte dei calabresi che non possono farsi curare in altre regioni (è la regione con la più alta mobilità sanitaria), una seconda per arrestare gli enormi cumuli di debito e deficit che stanno sommergendo l’intera regione. La sanità in molte regioni italiane sta diventando una emergenza di salute, di economia, di giustizia e di criminalità partitica trasversale. Non è pensabile affrontare questo problema rinviandolo o nascondendolo. Come Radicali da anni abbiamo messo a punto analisi e proposte politiche e gestionali fondate sulla informazione degli utenti e la valutazione delle strutture sanitarie da parte degli utenti. L’urgenza di una rivoluzione informativa al servizio dell’utente viene ora confermata dai fatti. Dobbiamo sentire la responsabilità di supplire all’inerzia e all’imbarazzo di una partitocrazia, che ha trovato nel continuo aumento della spesa sanitaria il suo più forte sostentamento, senza che questo si riflettesse in un aumento della salute dei cittadini.

NOTE

Marcello Crivellini è un esponente dell'Associazione Luca Coscioni

motorino radicale
12-08-09, 18:13
L’assurdo “niet” di Stato alle staminali

• da “TuttoScienze”

di Gilberto Corbellini

Il TAR del Lazio ha respinto il ricorso di Elena Cattaneo, Elisabetta Cerbai e Silvia Garagna – ricercatrici docenti delle università di Milano, Firenze e Pavia – contro il bando del ministero della Salute che esclude illegalmente dai finanziamenti per la ricerca i progetti che utilizzano cellule staminali embrionali. La motivazione della sentenza è, se possibile, anche più grave della decisione del ministero. Perché dice che l’eventuale discriminazione o danno per l’esclusione di un progetto di ricerca non riguarda i ricercatori ma l’ente a cui saranno destinati i fondi. Il che non è solo incostituzionale, ma prefigura una pericolosa limitazione dell’autonomia del ricercatore di decidere quali studi portare avanti, con mezzi ovviamente legali, e che è prevista da tutte le leggi che governano gli enti di ricerca e accademici in Italia.



Il caso del bando sulle staminali è interessante sotto il profilo del clima di censura e manipolazione della scienza che regna in Italia. Intanto perché il ministero ha aggiunto il divieto d’ufficio (si dice su richiesta della regione Lombardia), mentre la commissione che aveva stabilito i criteri si era ben guardata dall’inserirlo. Inoltre, per il significato arrogante che assume la limitazione: sarebbe bastato intitolare il bando alla ricerca sulla biologia “delle staminali adulte” e nessuno avrebbe potuto fare ricorso.



Certo, la scelta di investire soldi in una direzione per alcune applicazioni meno promettenti sarebbe stata criticabile. Ma la decisione sarebbe rientrata nelle prerogative del governo. Così, invece, il bando diventa illegale, perché il governo non può introdurre una limitazione che non è giustificata dalla legge in vigore, la 40.



Questa legge, infatti, vieta la distruzione di embrioni residui, ma non di fare ricerche in Italia con cellule staminali embrionali già esistenti e ottenibili da laboratori internazionali. Che infatti si fanno, a fatica, in molti laboratori italiani. Quindi, il ministero e la Conferenza Stato-Regioni si sono assunti una prerogativa che non spetta loro: per ora la Costituzione dice che il governo è ancora solo potere esecutivo.



Qualcuno, come la vice-ministra Roccella, dice che il governo può dare quello che vuole: ha scritto anche che la scelta di vietare la ricerca sulle staminali embrionali non è diversa da quella di Obama, che non ha consentito di finanziare con fondi federali la creazione a scopo sperimentale di embrioni e la clonazione terapeutica. Argomento singolare: come se fosse la stessa cosa togliere un divieto, lasciandone qualcuno già esistente, e introdurne uno senza che vi sia una base giuridica per farlo.



Il TAR del Lazio non poteva giustificare la sua ordinanza basandosi sulla legge 40, anche se la cita a sproposito, e quindi fonda il rifiuto affermando che non sono i ricercatori che possono far ricorso, ma i destinatari istituzionali dei fondi. Questo significa cancellare non solo la libertà di ricerca in un campo specifico, ma l’autonomia del ricercatore tout court. Poiché si attribuisce, ingiustificatamente e contro la Costituzione, ai dipartimenti, alle università e agli enti il potere di esercitare un controllo preventivo sul tipo di studi, e forse anche di insegnamenti, che il ricercatore e il docente possono intraprendere.



Dovrebbe essere chiaro che i bandi sono rivolti ai ricercatori e ai team sulle base delle competenze delle “facilities”. Ma gli enti non possono entrare nel merito degli obiettivi e dei metodi, altrimenti si configurerebbe una limitazione dell’autonomia del ricercatore tutelata dall’articolo 33 della Costituzione.



Attenzione! Il significato di questa sentenza va al di là del caso specifico. L’episodio si configura come una forma di controllo e censura della ricerca. Qualcosa che è la norma nei regimi totalitari e teocratici, ma che deve essere aborrito nelle democrazie.

motorino radicale
12-08-09, 18:14
Goffo come Fantozzi, pericoloso come Peron

di Valter Vecellio

E’ qualcosa di esilarante, ma al tempo stesso di sapore fantozziano, leggere di Berlusconi che fornisce consigli di carattere sessuale a una escort, che poi è il termine elegante per dire prostituta. Un qualcosa che né i fratelli Vanzina, né Neri Parenti, o altri autori di cinepanettoni avrebbero mai immaginato.



Ora di tutta la vicenda non è tanto l’aspetto simil-boccaccesco che colpisce; se un signore settantenne si conforta ascoltando una escort che gli confida che come con lui nessuno da tanto tempo, affari suoi; esser boccaloni non è reato al massimo gli si può ricordare una celebre sequenza di “Harry, ti presento Sally”, e chiuderla lì.



Quello che piuttosto risulta inaccettabile, è la interminabile teoria di bugie che il presidente del Consiglio e i suoi collaboratori hanno disseminato: incredibili balle, a cominciare dalle apparizioni a “Porta a porta”, e tutto il resto. Quello che risulta inaccettabile è la partecipazione al “Family Day”, e la dichiarata volontà di varare per esempio una legislazione anti-prostituzione di giorno, e trasformare palazzo Grazioli o villa Certosa in un escortificio la notte. Berlusconi razzoli come crede e come sa, ma almeno non faccia la morale agli altri; soprattutto ci risparmi l’estremo insulto alla nostra intelligenza di un “pellegrinaggio” nei luoghi di Padre Pio: se davvero è convinto che sia sufficiente andare a Pietralcina o a San Giovanni Rotondo per riconciliarsi con il mondo cattolico, cambi consiglieri; e si affidi piuttosto a quei collaboratori che ha silenziato ed emarginato perché leali più che fedeli.



Edmondo Berselli, l’altro giorno su “Repubblica” ha scritto qualcosa di molto giusto: “C'è un'Italia cattolica sicuramente moderata ma forse non ancora istupidita dai giochi di prestigio dei maghi della destra. È un pezzo di società poco conosciuto, che non si fa sentire, difficilmente voterà a sinistra, ma è perfettamente in grado di togliere la fiducia a un leader politico, e di sgretolarne la base di compenso, Per questa base cattolica, il pellegrinaggio a Pietrelcina e nei luoghi di Padre Pio contiene una strumentalità talmente plateale da generare

Addirittura un’insofferenza ulteriore”.


Berselli aggiunge che la Chiesa è “un organismo complesso, e la realtà cattolica non è identificabile con gli stereotipi. Forse in questa occasione i berluscones hanno scherzato troppo con un mondo che in genere conoscono poco, e che negli anni ha dovuto imparare a cambiare ripetutamente l'orientamento del proprio consenso. Il ritiro della fiducia avviene di solito in modo silenzioso. Questa volta potrebbe essere già cominciato, all'insaputa del mondo berlusconiano”.



In attesa che la fine dell’inizio evolva in inizio della fine, conviene tuttavia interrogarsi sulle ragioni del perché, nonostante tutto, il berlusconismo abbia trionfato. Responsabilità di un’opposizione più di nome che di fatto, che non ha tralasciato occasione per scendere a compromessi di potere e di “roba” (il libro curato da Michele De Lucia, “Il baratto” è quanto mai istruttivo, al riguardo)? Certo, c’è anche questo. Ma il fatto è che questo paese ha premiato svariate volte un imprenditore che nel suo operare ha sistematicamente, pervicacemente contraddetto e negato ogni principio e valore liberale. Quello che è stato definito aziendalismo implacabile non ha esitato a servire la politica più avventurista, pur di ricavare vantaggi personali; è stato propulsore e attivatore di un uso mistificatorio della pubblicità moltiplicando consumi inutili e dannosi; ha diffuso una cultura di massa che fa leva agli istinti peggiori; è molto probabile che gli spettacoli e le esibizioni delle trasmissioni nelle sue televisioni rispecchino la sua “filosofia” e il suo ideale di vita; ma all’atto pratico sono stato un potentissimo cloroformio, ci hanno un po’ tutti mitridizzati e si considera ormai normale un qualcosa di tragicamente eccezionale.



Intanto non passa giorno che qualche autorevole giornale straniero ci sbeffeggi; si può ipotizzare che dietro alcuni editoriali e commenti ci siano interessi solidi di un tycoon come Murdoch; ma se il “New York Times” e “l’Observer”, “El Pais” e “Le Monde”, il “Daily Telegraph” e “Der Spiegel”, “Paris Match” e “Boston Globe” ci mettono alla berlina, non si può accreditare una Spectre antiberlusconiana che giorno dopo giorno muove commentatori, corrispondenti ed editorialisti. “Le buffonate di Berlusconi meritano la nostra censura”, scrivono. Il passaggio del commento dell’ “Observer” è quanto mai indicativo: “Il vero scandalo è il modo in cui la storia è stata cancellata. Berlusconi controlla abbastanza il sistema dei media italiani da limitare gli articoli di critica…è al sicuro da ogni denunzia grazie a una legge che lui stesso ha fatto passare. Importa a qualcuno che la democrazia italiana sia distorta in questo modo?...”.



Sono, tutto sommato, le riflessioni e le inquietudini di Freedom House, di Reporter sans frontiéres, di studiosi come Nadia Urbinati, Massimo L. Salvadori, Vincenzo Memoli; che ancora non sono giunti alla riflessione radicale de “La peste italiana”. Diamo loro tempo, ci arriveranno.

motorino radicale
12-08-09, 18:14
Carceri: quasi la metà dei detenuti ha problemi di droga. Tra tossicodipendenti ufficiali e consumatori non diagnosticati circa 50mila persone transitano in carcere

di Giuseppe Di Noi

Sono oltre sessantatremila (compresi i minorenni), i detenuti complessivamente nelle carceri italiane. Le statistiche ufficiali, aggiornate al 4 giugno 2009, parlano di 63.044 adulti (2,757 le donne), e 530 minori, ripartiti in 223 strutture penitenziarie; e ogni giorno si registrano dai 30 ai 50 “arrivi”.



Quasi la metà delle persone che scontano una condanna nei penitenziari italiani è costituita da tossicodipendenti o appartenenti alla cosiddetta “area” dei consumi di sostanze stupefacenti molto spesso non diagnosticati; proprio il fatto di sottostimare il numero complessivo di pazienti porta a ipotizzare che durante tutto il corso de4ll’anno ci sia un numero di “ingressi” di tossicodipendenti pari a circa 50mila persone. Un fenomeno che viene registrato dagli operatori sanitari, ma non dalle statistiche ufficiali. Al 30 giugno, infatti, c’erano 14.743 presenze con la diagnosi di tossicodipendenza; ma il numero cresce più del doppio se si considerano tutti gli ingressi durante tutto l’anno, e il turnover della popolazione carceraria; e si arriva così a circa 50mila, considerando appunto i casi di consumatori “problematici” che non si dichiarano tali.



Il 43 per cento circa dei detenuti con problemi di droga è costituito da stranieri. “La violazione della legge sugli stupefacenti è tra le cause maggiori di ingresso in carcere, e contribuisce in maniera determinante al sovraffollamento negli istituti”, sostiene il segretario dell’Associazione Nazionale per la cura delle dipendenze patologiche (ACUDIPA) Gerardo Guarino. Incrociando i dati della popolazione carceraria con quelli sui tossicodipendenti/spacciatori o che hanno commesso reati connessi alla dipendenza dagli stupefacenti, si ricava che l’età maggiormente rappresentata dietro le sbarre è quella compresa tra i 25 e i 44 anni (65,3 per cento), con un picco tra i 30 e i 34 anni (18,6 per cento); nel 61 per cento dei casi il titolo di studio non supera la licenza media inferiore.



Uno degli aspetti più preoccupanti è costituito dai nuovi ingressi, che negli ultimi anni hanno subito un’impennata pari al 30 per cento in più, nel secondo semestre 2007; e al 36 per cento nel primo semestre del 2008. Le misure alternative previste per curare queste persone non sono applicate: il numero di affidamenti in prova di tossicodipendenti e alcooldipendenti è passato da 687 casi del giugno 2006 a 255 nel giugno 2008; il numero di affidamenti terapeutici, relativo allo stesso targer, è passato da 4.053 del giugno 2006, a 1072 del giugno 2008. Un calo non imputabile a un risparmio di risorse, dal momento che le rette giornaliere in comunità costano meno della metà del mantenimento in carcere.

motorino radicale
12-08-09, 18:15
E’ necessario difendere l’ordine democratico

• da “Polizia e Democrazia”

di Marco Pannella

Il mensile “Polizia e Democrazia” pubblica, nel suo fascicolo di giugno-luglio un’intervista a Marco Pannella che anticipiamo.



Nei sette giorni di sciopero assoluto della fame e della sete lei ha dichiarato che in Italia c'è una vera e propria «emergenza democratica». Ritiene che nel nostro Paese la libertà dei cittadini sia in pericolo?

“Siccome sono notoriamente eccessivo, Le dico subito che siamo in presenza di un potenziale massacro delle funzioni, della forza, della professionalità e dello spirito della nostra Polizia di Stato, senza salvare da questa prospettiva negativa anche le altre polizie, nessuna esclusa.

E’ un risultato oggettivo, fin qui non necessariamente preordinato e voluto, ma occorre urgentemente ormai, per doverosa prudenza, non escludere anche l’ipotesi di un disegno che si stia formando (o che si è già formato) nel Regime partitocratico, anti-democratico, ormai privo dei connotati fondamentali di uno Stato di Diritto. Occorre, in altre parole, individuare irresponsabilità, inculture, riflessi di stampo paleo-fascista, prima che si traducano in danni irreparabili o quasi”.



Qual è in Italia, secondo lei, il rapporto tra le Istituzioni e la società, tra lo Stato e i cittadini? Come funziona, o non funziona, la divisione dei compiti tra le Istituzioni delegate alla difesa della legalità, dell’ordine pubblico, della sicurezza?

“Da tempo noi Radicali, io stesso con particolare convinzione, avevamo denunciato l’innaturale e oggettiva invadenza, la pratica usurpazione di compiti e di professionalità in atto, realizzata con il dilagare delle funzioni di Polizia Giudiziaria, con la conseguente mutilazione del ruolo e delle competenze cui sono sottoposte in primo luogo la Polizia di Stato, l’Arma dei Carabinieri e sempre più anche la Guardia di Finanza.

E’ inutile sottolineare che – già in via teorica ma ormai come realtà storica – questa infausta realtà è stata ed è connaturale con il potere partitocratico, anti-meritocratico per sua caratteristica intrinseca e perciò utilmente interessato a corrompere le funzioni pubbliche e il potere dello Stato”.



Ritiene che si riscontrino tendenze ad occupare gli spazi riservati alla magistratura e alle forze di polizia, con iniziative tendenti a diffondere nuovi concetti di legalità?

“Poiché la dipendenza della magistratura non è sempre totale e indiscriminata, stanno ora esplodendo “novità” intimamente proprie di ogni Stato autoritario e/o totalitario: l’esercito mobilitato ed esibito nelle città, come necessario garante della sicurezza e dell’ordine pubblico; e l’onnipresenza non solamente mass-mediatica dei ministri della Difesa e degli Interni, per promuovere le “ronde” para-militari e para-poliziesche, formatesi solo grazie e dopo una criminale campagna televisiva e di stampa, volta a creare nell’opinione pubblica una psicosi di paura e di pericolo, falsando i dati relativi alla diffusione e al rafforzamento delle “micro-criminalità”, quale principale conseguenza dell’immigrazione, inizialmente extra-comunitaria e, subito dopo, anche comunitaria”.



L’allarme per una supposta mancanza di sicurezza tende ad attribuire questo rischio a varie cause: una di queste è l’indulto. Ritiene che questo giudizio abbia delle basi concrete?

“Le menzogne reiterate contro le pretese conseguenze dell’indulto – ora scientificamente smentite dai fatti – sono state la più efficace e abusata arena per questa strategia politica. Parallelamente, quella che appare quanto meno sospetta, e comunque assolutamente irresponsabile, è la politica di inauditi e sistematici tagli degli investimenti destinati al funzionamento della Polizia di Stato e dei Carabinieri, oltre a quelli per la Giustizia; e la rinuncia - denunciata unanimemente dal mondo dell’avvocatura, degli editori e dei giornalisti, questi ultimi sia come Ordine che come associazioni sindacali – all’uso dei moderni strumenti scientifici di indagine, “giustificata” da eccessi ed abusi, sì da ottenere di gettare con l’acqua sporca anche il bambino.

Se poi prendiamo finalmente coscienza di quel che accade alla comunità penitenziaria, ai detenuti con forme di carcerazione che lo stesso ministro della Giustizia è giunto recentemente a definire “incostituzionale”, ma in forme non meno gravi anche a carico della Polizia penitenziaria e di tutti gli operatori del settore (medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, insegnanti, educatori, volontari eccetera); se prendiamo coscienza di tutto ciò, dicevo, la politica del governo e della maggioranza parlamentare non può non destare grave allarme ed esigere ormai serie e gravi lotte civili e politiche, che l’opposizione più o meno ufficiale mostra di non volere o di non sapere ingaggiare e finalizzare alla difesa dell’ordine democratico e civile del nostro paese”.



Quali conclusioni, e quali prospettive, si possono trarre da quanto ha detto? Come vede Marco Pannella l’immediato futuro del nostro Paese?

“Anche a non condividere il quadro che ho tracciato, comunque troppi fatti, univoci eloquenti e testardi, parlano chiaro: con l’esile ma efficace nostra forza istituzionale parlamentare e armati - come è noto - di nonviolenza, noi Radicali saremmo, siamo pronti a sostenere le lotte sindacali e politiche in difesa dello Stato e della legalità, del ruolo, dei diritti, della professionalità e della dignità del personale impegnato nell’alta funzione di difendere la sicurezza e l’ordine democratico, contro ogni tipo di criminalità”.



(Intervista a cura di Eleonora Fedeli)

motorino radicale
12-08-09, 18:15
Il sequestro dell’ospedale di Agrigento: costruito con più sabbia che cemento. Ma è sterminata la lista di edifici pubblici come quello ieri sequestrato dalla magistratura, e non solo in Sicilia…

di Valter Vecellio

Non è esagerato dire che quella della disposta dal Giudice per le indagini preliminari su richiesta della procura della Repubblica di Agrigento di disporre i sigilli all’ospedale San Giovanni di Dio, è un’iniziativa, per quanto clamorosa, “annunciata”. Il provvedimento era nell’aria da giorni, da quando sono cominciate a filtrare le notizie relative agli esiti dei carotaggi effettuati dai periti . Esiti che non lasciano spazi a dubbi: la cosiddetta “resistenza alla compressione” dei campioni prelevati è risultata di gran lunga inferiore rispetto a quanto indicato nel progetto; e questo per la scarsa quantità di cemento. Insomma: nella costruzione del nuovo ospedale – una struttura “vecchia” di appena cinque anni, e lungamente attesa – sarebbe stato utilizzato calcestruzzo depotenziato. Secondo quanto certificano i tecnici, la costruzione sarebbe talmente fragile da richiederne l’immediata chiusura. Giorni fa, del resto, era stato lo stesso procuratore della Repubblica a far capire che la clamorosa svolta della vicenda era ormai prossima: “I test eseguiti hanno purtroppo evidenziato delle criticità”, aveva dichiarato il magistrato, aggiungendo che “le ultime verifiche dei consulenti tecnici si sono appena concluse, attendiamo l’esito per valutare l’opportunità o meno di un sequestro di alcune strutture”. Poi il durissimo j’accuse dei periti: “L’intera struttura manca dei necessari requisiti di sicurezza statica”.



Se le cose stanno così – e al momento non c’è motivo alcuno per dubitarne – il provvedimento è giusto, sacrosanto. Il San Giovanni di Dio è una struttura in grado di ospitare almeno 400 pazienti, per non dire del personale sanitario e impiegatizio. Un piccolo paese, insomma. La consulenza tecnica ha evidenziato “gravi carenze strutturali dell’intero complesso ospedaliero, tali da esporre a gravissimo rischio sismico l’intero manufatto”.



Tremano le vene ai polsi al pensiero che si possa ripetere quello che abbiamo visto in occasione del terremoto che ha sconvolto L’Aquila. Dove proprio a causa di questo cemento depotenziato – in sostanza travi e pilastri conterrebbero più sabbia che cemento – edifici nuovi, all’apparenza anti-sismici, sono miseramente crollati provocando morte e distruzione. Se effettivamente l’ospedale di Agrigento si trova nella situazione descritta dai periti, si è davvero rischiata la strage.



Nell’inchiesta in corso risultano indagate una ventina di persone. Nessuno vuole mettere il fiato sul collo agli investigatori, che devono poter svolgere il loro lavoro con serenità e serietà. I deputati radicali hanno già presentato interrogazioni al ministro del Lavoro (responsabile anche della Sanità e delle Politiche sociali), chiedendo che si attivi per “accertare come tale situazione si sia potuta verificare, e per responsabilità di chi, compresi gli omessi controlli”; la Lega Ambiente ricorda che non si tratta di un caso isolato: non molto tempo fa un altro ospedale, a Melito Porto Salvo, in Calabria, è stato chiuso dopo una analoga ispezione; e ricorda come, tra le opere pubbliche al vaglio della magistratura, vi siano anche il nuovo padiglione dell’ospedale di Caltanissetta, gli aeroporti di Palermo e di Trapani, il viadotto Castelbuono e la Galleria Cozzo-Minneria dell’autostrada Palermo-Messina; il lungomare di Ma zara del Vallo; il porto turistico di Balestrate; l’approdo di Tremestieri di Messina; il porto Isola-Diga Foranea di Gela, perfino il palazzo di giustizia di Gela e il commissariato di polizia di Castelvetrano…Nella lista degli edifici a rischio, ci sono molti ospedali: il “Cervello” di Palermo; l’Ospedale civico di Partitico; il Poliambulatorio Biondo, il padiglione 6 dell’ospedale Piemonte di Messina; e poi il cine-teatro di Porto Empedocle, e una quantità di chiese, parrocchie, scuole, asili nido e altri luoghi spesso affollati. Un caso emblematico: a Troppa c’è una scuola media il cui calcestruzzo è talmente scadente che l’ingegnere chiamato a redigere una relazione tecnica ha chiesto l’immediata demolizione dell’edificio. Ed è ragionevole supporre che il fenomeno non sia “esclusiva” della sola Sicilia, e riguarda piuttosto molte altre regioni d’Italia: dalla Campania alla Calabria, dal Molise al Veneto... Si può e si deve parlare di mafie che detengono il monopolio della produzione e della distribuzione del calcestruzzo.


Il cittadino ha tutti i motivi per essere sconcertato e inquieto, da episodi come questo di Agrigento. Se, soprattutto nelle opere pubbliche, si fornisce molta sabbia e poco cemento, questo avviene in omaggio a una spregiudicata logica di rapina che non esita a mettere a repentaglio la vita di decine, centinaia di persone. Non è accettabile quanto accaduto a L’Aquila, e per fortuna non è accaduto ad Agrigento. Per questo, accanto all’essenziale lavoro degli investigatori, occorre che chi ricopre incarichi nelle istituzioni intervenga e operi con tempestività. E’ vero che su una cinquantina di verifiche su edifici pubblici più di quaranta non hanno superato i test? Se la notizia fosse governata, si sarebbe di fronte a un qualcosa di gravissimo, perché – giova ricordarlo – la Sicilia ha il 90 per cento dei suoi comuni su territorio ad alto rischio sismico. Un terremoto è una maledizione della natura, lo si può solo subire e patire. Ma costruire edifici con cemento depotenziato è un crimine dell’uomo. E questo va combattuto e punito con implacabile determinazione.

motorino radicale
12-08-09, 18:16
Goffredo Fofi, minoritario per vocazione

di Francesco Pullia

Si parla anche dei radicali, degli anni Settanta e Ottanta, delle lotte civili definite rivoluzionarie nei modi e nei contenuti, nell’intensa autobiografia, concepita sotto forma di intervista, di Goffredo Fofi pubblicata, a cura di Oreste Pivetta, da Laterza con il titolo La vocazione minoritaria.



Vi si ritrova il travaglio di una tra le intelligenze più vive del nostro Novecento, di un animatore di importanti riviste di analisi come l’indimenticabile “Quaderni piacentini”. Nato nel 1937 a Gubbio, nell’Umbria di Aldo Capitini, di cui nel libro si avverte profonda eco, l’autore traccia il suo percorso intellettuale e insieme politico senza doppiezze o reticenze, dagli esordi socialisti all’esperienza siciliana a fianco di Danilo Dolci al periodo postsessantottesco lottacontinuista sino alla disillusione nell’attuale fase storica dominata dall’omologazione, dall’appiattimento conformistico, dalla schiavitù del superfluo.



Quella di Fofi è la vicenda di un intellettuale non propenso ai facili compromessi il cui impegno si afferma non in presa diretta ma trasversalmente. Ciò non significa affatto con un atteggiamento defilato o, peggio, opportunistico. Al contrario, la sua è una posizione che si esplica irregolarmente, al di là dei canoni stabiliti, attraversando contemporaneamente ambiti disparati che vanno dalla letteratura al cinema, dalla didattica alla politica in senso stretto sullo sfondo di un’accomunante chiave interpretativa minoritaria.



Nulla a che fare con un vezzo snobistico. No. A predominare è, invece, una scelta interpretativa (ed esistenziale) destrutturante che rimanda alla capitiniana non accettazione, come elevata espressione di contrapposizione alla banalità di quanto viene supinamente dato per scontato, e alla rivolta indicata da Albert Camus. Non è un caso che venga insistentemente rimarcata l’eticità di questa scelta.



“Il punto di partenza delle minoranze più sane”, afferma Fofi, “è il rifiuto individuale del mondo così come va, il rifiuto della complicità in un ordine sbagliato delle cose”. E, per meglio spiegare la propria posizione, ricorre alla testimonianza di Capitini che “alla politica voleva si unisse qualcosa di più, e non gli bastava neanche la morale. Predicava quell’aggiunta “religiosa”, che non è affatto teista e che potremmo chiamare aggiunta etica oppure aggiunta etico-sociale se non fosse qualcosa di più, perché riguarda il vivente, le creature, perfino i morti”.



Di qui la necessità della persuasione nonviolenta, il coraggio, in tempi di imbolsimento e torpore generale, di coltivare il terreno dell’utopia, di guardare al presente lavorando per il futuro “dopo il lungo periodo di disperazione che saremo costretti ad attraversare”. Bisogna “essere in opposizione sempre rinnovata, lievito e proposta che cresce”.

Non manca, in questa visione, una severa rampogna nei confronti dei gravi limiti manifestati dal Sessantotto.



“La generazione del ’68 avrebbe potuto contare su padri e madri eccellenti e invece li ha ignorati”, dice Fofi alludendo appunto a Capitini, che aveva messo in guardia il movimento dal burocratizzarsi nella tradizionale forma-partito, e anche ad Ada Gobetti che aveva intravisto una certa continuità con la Resistenza. A prevalere fu, purtroppo, proprio quanto si paventava: la spinta al rinnovamento fu rapidamente soffocata dal leninismo, dall’organizzazione strutturata, centralizzata, verticistica. Così il Sessantotto, anziché minoranze critiche, ha finito per riprodurre il peggio del settarismo dei partiti.



E, adesso, dunque, che fare? Occorre non lasciarsi assimilare dal conformismo omologante, imparare a “vivere in un mondo a cui non ci si può adattare e a cui non si può rinunciare”, praticare la nonviolenza intesa innanzitutto come non menzogna, non collaborazione con le sfaccettature della nuova barbarie.



“Il mondo che si sta preparando sotto i nostri occhi”, conclude Fofi, “sarà certamente terribile. In larga parte lo è già, anche se ci rifiutiamo, forse comprensibilmente, di guardarne in faccia tutto l’orrore e tutte le potenzialità di ulteriore orrore che esso ha in sé e annuncia. Non possiamo farci illusioni. Ci sarà bisogno di progetto, di utopia che recuperi il meglio delle passate utopie, ma non i metodi con i quali si è cercato di tradurle in realtà. E questo non è un compito di intellettuali e profeti, è un compito di piccoli gruppi seri e coscienti, delle persone “di buona volontà” che sanno vedere e imparano a ben fare. A ribellarsi contro l’ingiustizia”.

motorino radicale
12-08-09, 18:16
Termovalorizzatore Fenice. Lettera aperta al presidente della Regione Basilicata

di Marco Cappato e Maurizio Bolognetti

Il segretario dell’Associazione Luca Coscioni e il segretario dei radicali lucani Maurizio Bolognetti hanno inviato al Presidente della Regione Basilicata, Vito De Filippo, Assessore per l’ambiente della Regione Basilicata, Vincenzo Santochirico, al Direttore dell’Agenzia Regionale per l’Ambiente della Basilicata, Vincenzo Sigillito, e al Sindaco di Melfi, Ernesto Navazio la seguente lettera aperta sulla vicenda del termovalorizzatore Fenice.



Torniamo a scrivervi, a pochi giorni dalla nostra missiva sulla situazione di Tito scalo, sulla vicenda, per molti versi analoga, del termovalorizzatore Fenice.



Il 3 marzo 2009, come risulta dalle ordinanze emesse dal Sindaco di Melfi, l’Arpab comunica il superamento “delle concentrazioni di soglia nelle acque sotterranee”; dunque la sub-falda del fiume Ofanto è stata inquinata da pericolosi agenti chimici. Tra questi mercurio, nichel, fluoruri, azoto nitroso, tricloroetano, tricloroetilene (la stessa sostanza presente nelle falde acquifere di Tito) e tetracloroetile. Il 14 marzo, a seguito della comunicazione ricevuta dall’Arpab, il sindaco di Melfi “vieta l’utilizzo delle acque sotterranee emungibili dai pozzi presenti all’interno del perimetro del sito dell’impianto di termovalorizzazione Fenice, nonché di quelli a valle del sito stesso.” Circa due mesi dopo, il 22 maggio, il sindaco della città federiciana emette una seconda ordinanza che così recita: “Allo stato attuale, la Fenice Spa non ha posto in essere gli interventi di messa in sicurezza idonei a garantire la sicurezza dei luoghi ed un efficace contenimento dello stato di inquinamento delle acque sotterranee; gli interventi finora attuati non sono conformi alle prescrizioni impartite dalla conferenza di servizio del 17 aprile 2009.” Solo il 17 giugno, in seguito alla Conferenza dei servizi che determina l’approvazione del piano di caratterizzazione, emerge una risposta ufficiale sulle cause che avrebbero determinato l’“incidente”. Nel comunicato dell’Arpab, leggiamo “che la società dovrà realizzare i necessari interventi per l’ottimizzazione del piano di Messa in sicurezza d’emergenza(MISE)”.



Per quanto concerne le cause dell’inquinamento da mercurio, dobbiamo basarci su quanto pubblicato dalla stampa di Basilicata, che il 18 giugno riferisce che lo stesso sarebbe stato determinato da un “malfunzionamento della vasca che raccoglieva i fumi di griglia”. La stessa stampa regionale, però, riferisce anche che “se per il mercurio è stata individuata la causa lo stesso non è accaduto per gli altri solventi”.



In data 24 giugno abbiamo deciso di chiedere all’Arpab e alla Regione (Dipartimento Ambiente e Territorio) i dati inerenti il monitoraggio ambientale del vulture-melfese. Dopo 30 giorni dobbiamo prendere atto, con rammarico, che le sole risposte pervenute sono due missive con le quali l’Arpab, per ben due volte, nega l’accesso ai dati, trincerandosi dietro un’indagine aperta dalla Procura della Repubblica di Melfi. Precisamente il direttore dell’Arpab afferma, in data 24 giugno, di non poter fornire notizie in quanto “è pendente presso il Tribunale di Melfi, un procedimento inerente le attività dell’inceneritore di Fenice S.p.A.” Successivamente, in data 1 luglio, lo stesso direttore dell’Arpab, nel rispondere ad una nostra seconda richiesta di accesso ai dati, afferma che i dati non possono essere divulgati perché “sono proprio i parametri analitici ad essere oggetto d’indagine della Procura della Repubblica di Melfi”. A nostro modesto avviso le risposte del Dott. Vincenzo Sigillito sono giuridicamente infondate. Per quanto riguarda la Regione, in particolare il Dipartimento Ambiente e Territorio, governato dall’Assessore Vincenzo Santochirico ad oltre 30 giorni dalla richiesta di accesso ai dati non ha fornito alcuna risposta.



Per completezza, segnaliamo alla vostra attenzione che, in data 5 luglio 2005, l’Associazione Radicali Lucani si è rivolta al Difensore civico regionale, avv. Catello Aprea, il quale in data 13 luglio ha comunicato di aver chiesto ad Arpab le ragioni che hanno indotto l’Agenzia a negare l’accesso alle informazioni ambientali, attinenti al “Piano di monitoraggio ambientale del vulture-melfese”. In data 23 luglio 2009, una seconda risposta del difensore civico regionale ci ha informato che il Direttore dell’Arpab ha ribadito il diniego all’accesso dei dati, sostenendo che gli stessi sarebbero coperti da “segreto istruttorio”.



C’è infine da segnalare il documento regionale(DGR n°1008) datato 15 marzo 1996, che istituisce un comitato tecnico-scientifico incaricato di elaborare il “Piano di monitoraggio Ambientale del Vulture Melfese” al fine di dare attuazione alle prescrizioni contenute nel DEC/Via 1790/93. Nel piano in oggetto viene scritto con solare chiarezza che deve essere offerto alla popolazione “uno strumento che permetta tra l’altro una semplice interpretazione ecologica delle informazioni.” Cioè proprio il contrario di quello che sta accadendo.



Per tutti i motivi di cui sopra, riteniamo importante che i cittadini lucani, e in particolare delle aree interessate, possano conoscere:

* Tutti i dati relativi al monitoraggio ambientale dell’area del termovalorizzatore Fenice; in particolare i dati relativi all’inquinamento del suolo e delle acque superficiali e di falda, che dovrebbero essere stati rilevati fin dal 2000 da tutti gli Enti coinvolti e dalla stessa Fenice spa;
* Al momento, in base a quanto riportato dalla stampa, è stata rilevata solo la causa scatenante dell’inquinamento da mercurio. Qual è la causa della contaminazione con altri pericolosi inquinanti della falda acquifera del fiume Ofanto?
* La Procedura di Valutazione Impatto Ambientale non imponeva a Fenice di garantire la sicurezza dell’impianto; perché Fenice non si è dotata della tecnologia necessaria ad evitare questi gravi incidenti?
* Quali provvedimenti sono stati presi rispetto al fatto che Tra il 14 marzo e il 22 maggio, stando a quanto affermato dal sindaco di Melfi, Fenice spa non ha posto in essere interventi di messa in sicurezza idonei ed ha effettuato interventi non conformi alle prescrizioni impartite dalla conferenza di servizio del 17 aprile?
* Perché, nessuno ha chiesto l’applicazione del D.Leg. 16/03/09 n°30, che ha recepito la Direttiva CEE 2006/118, sulla protezione delle acque sotterranee dall’inquinamento e dal deterioramento?
* Presso quali strutture e attraverso quali procedimenti vengono oggi trattate le acque reflue derivate dai cicli produttivi del termodistruttore Fenice?



Restiamo in attesa di una vostra cortese risposta. Cordialmente,

motorino radicale
12-08-09, 18:17
Punto Economia. Un DPEF difensivo, reticente, inadeguato

di Piero Capone

Il Documento di programmazione economica e finanziaria 2010-2013 se da un lato conferma la pesantezza della nostra situazione economico finanziaria, dall’altro manifesta tutta la rassegnata modestia delle politiche governative. Certamente inadeguate a fronteggiare la gravità della crisi. Non mancano dichiarazioni di buona volontà, impegni verbali (ma con quali politiche e quali mezzi?) per correggere alcune gravi distorsioni del nostro sistema, quali il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica ed il risanamento dei nostri disastrati conti pubblici. Che, malgrado tutte le buone intenzioni, continuano a peggiorare a vista d’occhio.



Secondo il Governo le misure finora adottate avrebbero “limitato il deterioramento dei conti pubblici”. E su questa strada vorrebbero continuare. Ma di cosa parlano? Quello che viene sancito dalla crudeltà dei numeri è tutt’altra storia.



Il nostro più grave problema, quello dell’enorme Debito Pubblico, continua ad essere fuori controllo. Altro che contenimento! A fine maggio 2009 lo stock del debito era cresciuto – dalla fine del 2008 – in soli cinque mesi di ben 89 miliardi di euro! In questi primi cinque mesi del 2009, le “straordinarie” politiche governative sono riuscite a far crescere il nostro debito di circa 685 milioni di euro al giorno!



Solo questo drammatico dato avrebbe dovuto imporre delle misure eccezionali, proprie da governo di salute pubblica del bilancio. E non una manovra slavata e reticente. Secondo i dati forniti dal DPEF gli interessi passivi nei sei anni che vanno dal 2008 al 2013 ammonteranno a quasi 526 miliardi di euro, con una media all’anno di quasi 88 miliardi e con una incidenza sul nostro Prodotto Lordo del 5.4%. Una vera emorragia di risorse destinate ad onorare il “grande debito di regime”. Solo nel 2013 dovremo “sborsare” oltre 103 miliardi per interessi pari a 283 milioni di euro al giorno. E’ la certificazione ufficiale dello stato comatoso dei nostri conti pubblici.



Causa fondamentale, con la contrazione inevitabile delle entrate fiscali, sta in quella che il Governatore Draghi – eufemisticamente e diplomaticamente – chiama “l’elevata dinamica della spesa primaria corrente”. Infatti questa voce di spesa (al netto delle uscite per interessi passivi) dovrebbe raggiungere il massimo storico balzando dal 40.4% al 43.4% del PIL. Altro che contenimento!



Particolare curioso e allarmante: secondo il DPEF le spese correnti primarie aumenteranno del 12% a fine periodo, mentre contestualmente diminuiranno del 3% le spese per investimenti fissi. Manovra lungimirante: continuiamo a far crescere la spesa corrente (combustibile del regime clientelare e partitocratico) e tagliamo invece quella per gli investimenti.



Conseguentemente non può che emergere un altro dato inquietante: l’avanzo primario (che per essere incisivo sul debito dovrebbe attestarsi sopra il 5% del PIL all’anno – come da tempo sostenuto con forza dai Radicali) si dovrebbe collocare mediamente nel periodo 2008-2013 intorno all’ 1.2% del PIL. Quindi complessivamente il 7.2% in sei anni contro i necessari 30%.

Ma non basta: per la prima volta da 18 anni, nel 2009 otterremmo il grande risultato di avere addirittura un deficit dello 0.4%!



Con un Prodotto Lordo in forte caduta (ne saranno felici i sostenitori della teoria della cosiddetta “decrescita serena”), l’aumento continuo ed inarrestabile dello stock del debito non può che non comportare l’ulteriore appesantimento del già elevatissimo rapporto Debito/PIL. Nel 2008 chiudiamo con il 105.7% e nel quinquennio successivo ci dovremmo collocare mediamente ad oltre il 116%.



Secondo il Governo si dovrebbe essere soddisfatti: saremmo infatti al di sotto del “picco” di metà anni ’90. Magra soddisfazione soprattutto se paragoniamo i diversi contesti di oggi e di quegli anni. Allora il patrimonio pubblico facilmente liquidabile (ammesso che ora lo si voglia fare, il che è tutto da dimostrare) era molto superiore a quello attuale. In quella fase (decennio 1995-2004) la vendita di patrimonio pubblico determinerà la contrazione di ben 11 punti del nostro debito. Peccato che – a differenza di quanto fatto in Belgio – i governi succedutisi in quel periodo (sia di centro sinistra che di centro destra) non abbiano accompagnato quelle dismissioni con riforme strutturali volte a contrarre e governare la dinamica della spesa corrente. Solo così avremmo dato una svolta decisiva per il rientro dal debito.

Evidentemente le corporazioni e le clientele che sostengano il regime partitocratico (nelle sue due versioni) non hanno permesso questa politica di risanamento. Infatti, senza questo colpo decisivo, non siamo riusciti a scendere al di sotto del fatidico 100%, dato di svolta fondamentale, anche dal punto di vista psicologico. Avere cioè un debito inferiore di quanto prodotto nell’anno.



Nel DPEF il Governo è costretto ad ammettere che i provvedimenti anticrisi hanno “dovuto misurarsi con la presenza di un ancor elevato peso del debito pubblico”. E in effetti l’estrema modestia della manovra è confermata dalle stesse cifre del DPEF: nel quadriennio 2008-2011 sono infatti previsti interventi per 27 miliardi di euro. Circa 6,7 miliardi all’anno, pari ad un modestissimo 0.45% del PIL. Assolutamente incomparabili le cifre (da 4 a 10 volte) messe in moto dai governi dei maggiori paesi industrializzati. Quindi da una parte l’emorragia di spesa corrente e dall’altra l’inaridimento delle entrate tributarie.



Su questo versante, malgrado il record storico (poco invidiabile) della pressione fiscale al 43.4% del PIL nel 2009, si prevede una contrazione del 2% delle entrate fiscali tra il 2008 e il 2010. Ma dell’evasione e dell’elusione fiscale vogliamo parlarne? O meglio, vogliamo finalmente attivare concrete azioni di contrasto? Il Governo si contenta di dichiarare che “saranno rafforzate le attuali forme di contrasto ai fenomeni di evasione ed elusione fiscale”. Ma con quali mezzi concreti non è dato di sapere. Sembra il solito ritornello che non ha mai dato alcun risultato. Una riedizione delle famose “grida” di manzoniana memoria.



In realtà in questo campo e in quello del risanamento dei conti, non ci si espone se non con parole. Nessuna cifra a sostegno. E’ questa forse la critica più dura che possiamo fare a questo documento: la sua totale vaghezza e reticenza.



E questa nostra valutazione viene autorevolmente confortata dal parere-denuncia del Governatore Draghi laddove chiaramente dichiara che: “a differenza del precedente DPEF, il quadro programmatico non include informazioni sui livelli e sulla composizione delle entrate e delle spese”. Ed è totalmente condivisibile la sua sottolineatura in merito a: “l’assenza di informazioni sugli obiettivi per le entrate e per le spese rende difficile valutare alcuni aspetti cruciali della politica di bilancio delineata dal DPEF”.

Si tratta del recente intervento del Governatore di fronte alle commissioni parlamentari congiunte; quindi in sede assolutamente propria e significativa. Peccato che la stampa e la TV “di regime” non ne abbia parlato. Le tesi scomode dei Radicali vengono censurate, anzi oscurate; che vogliano estendere la “terapia anti radicale” anche al Governatore?

Forse se la merita quando – come i Radicali – sostiene che senza riforme strutturali e senza dare priorità al perseguimento del pareggio di bilancio, le prospettive future dell’Italia appaiono senza speranza. Basterebbe un dato: quello delle spese correnti primarie. Soltanto per raggiungere gli obiettivi che il Governo si è prefissato, questa voce di spesa dovrebbe contrarsi in media del 3% all’anno. Ma di tutto questo non c’è traccia nel DPEF.



Eppure i precedenti sono assolutamente poco rassicuranti. Nel decennio 1999-2008 (quindi con governi delle due parti del regime) le spese correnti primarie in termini reali sono aumentate in media del 2.1% all’anno. E con questa storia alle spalle ci si può fermare alle belle parole?

In conclusione: una manovra reticente e inadeguata. Una manovra senza coraggio. Di puro “galleggiamento”.



Con un Debito Pubblico che aumenta nel 2009 alla media di 685 milioni di euro al giorno sarebbe assolutamente necessario, con la consapevolezza della nostra drammatica situazione, il coraggio di lanciare quelle riforme strutturali, dai Radicali proposte da tempo immemorabile, che blocchino l’emorragia e pongano le basi di una diversa, qualificata ed equilibrata fase di crescita sociale ed economica del nostro paese.

motorino radicale
12-08-09, 18:17
Carceri-giustizia: è più che mai emergenza Ma Governo e ministero della Giustizia continuano a fare gli struzzi…

di Valter Vecellio

Attualmente i detenuti rinchiusi nei penitenziari italiani sono oltre 64mila; la capienza massima delle carceri è di 43mila posti; alla fine dell’anno, se il trend non muterà, si arriverà a quota 70mila. Queste, in sostanza, sono le cifre dell’emergenza carceri. A fronte di questa drammatica situazione, né dal Governo né dal ministero della Giustizia giunge il benché minimo segnale di una consapevolezza della urgenza di approntare una politica di “governo” della situazione. E’ una situazione di emergenza come mai ce n’è stata, figlia di irresponsabili scelte legislative, come le leggi Fini-Giovanardi sulle tossicodipendenze, o Bossi-Fini sugli immigrati clandestini; situazione aggravata dalla mancanza di interventi post-indulto di una politica sempre più concentrata a far ricorso alle misure cautelari in luogo di quelle alternative.



Nel frattempo l’Italia continua a essere condannata a Strasburgi per le condizioni detentive e per gli incredibili ritardi nel celebrare processi. Il governo, tuttavia, conferma una sciagurata linea politica: come dimostrano anche le recenti norme sulla sicurezza approvate recentemente dal Parlamento: quella che affida la competenza sui ricorsi inerenti decreti di 41 bis al solo tribunale di sorveglianza di Roma. Per non parlare del più volte annunciato piano carceri. Chi conosce la realtà dei penitenziari, sa bene che una buona metà andrebbero semplicemente rottamati e sostituiti. Ma anche a voler continuare a utilizzare carceri che, come Regina Coeli a Roma sono privi dei minimi requisiti richiesti, le nuove carceri non potrebbero essere pronte prima del 2012; nel frattempo la crescita esponenziale dei detenuti non modificherebbe la situazione esistente; per non dire che già oggi sono in gravissima sofferenza gli organici della polizia penitenziaria. Il cosiddetto “piano Ionta” non dice nulla per quel che riguarda i fondi di finanziamento; come osserva il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, si tratta di un bluff.



Ogni giorno si viene a conoscenza di episodi che sono un insulto e una vergogna per chi ancora si ostina a credere nello stato di diritto e nei principi sanciti dalla Costituzione. I rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria raccontano di realtà che hanno dell’incredibile: nel carcere napoletano di Poggioreale al detenuto che arriva viene dato un materasso senza la branda, perché non c’è spazio sufficiente, nella cella in cui viene destinato; vi sono istituti dove un agente di polizia penitenziaria deve da solo sorvegliare 100-150 detenuti, esistono carceri nuove, come quello di Rieti, che non vengono aperte perché non c’è personale sufficiente per garantire gli elementari standard di sicurezza. Lo stesso ministro della Giustizia Angiolino Alfano ha riconosciuto che le carceri italiane sono incostituzionali.



Occorre invertire rotta. Occorre ridurre l’uso della custodia cautelare carceraria solo e unicamente a quei casi in cui risultino assolutamente inadeguate altre misure restrittive; occorre assumere personale e operatori di settore; occorre soprattutto rimuovere tutta la recente normativa, che impedisce l’accesso alle misure alternative al carcere. E, probabilmente, occorre un nuovo indulto, questa volta accompagnato da un provvedimento di amnistia: in modo che i magistrati siano “liberati” delle centinaia di fascicoli che intasano le loro scrivanie, procedimenti che comunque sarebbero destinati alla prescrizione. Sarebbe interessante se il ministro della Giustizia facesse sapere, per esempio, quanti procedimenti sono diventati carta straccia, nel 2008, per effetto della prescrizione; quanti indagati ne hanno beneficiato, e di quali reati dovevano rispondere; e a fianco a questi dati ricordasse a tutti noi quanti sono i detenuti in attesa di giudizio.



Piaccia o no, questi sono i fatti.

motorino radicale
12-08-09, 18:18
Le responsabilità degli intellettuali. Fareed Zakaria,quel brutto vizio di sottovalutare

• da “Informazione Corretta”

di Alessandro Litta Modignani

Sul “Corriere della Sera” del 27 luglio, Fareed Zakaria sostiene che “la palla adesso è nel campo di Teheran, tocca a Khamenei e ad Ahmadinejad rispondere”. Secondo questa analisi, “il tempo non sta dalla parte dell’attuale regime iraniano”, ragion per cui “la strategia migliore è di non fare nulla”.



Il direttore di “Newsweek” non è nuovo a questo tipo di sottovalutazioni. Già nel 2002, nel suo libro “Democrazia senza libertà”- peraltro assai interessante - egli prevedeva ottimisticamente che il regime degli Ayatollah, sottoposto nuovamente alla prova della elezioni, sarebbe entrato in crisi e si sarebbe rapidamente evoluto verso forme di democrazia più laica e moderna. La volta dopo, era la tesi di Zakaria, i militanti islamici si sarebbero sentiti rispondere: “Conosco già questa storia !” dagli elettori, delusi dalla propaganda del regime dei mullah.



Sappiamo invece come è andata a finire. Nel 2005 non solo non c’è stata svolta moderata, ma addirittura ha vinto Ahmadinejad. E poiché, come è noto, al peggio non c’è limite, quest’anno abbiamo avuto la conferma, fra brogli e violenze, del presidente-dittatore che vuole la bomba atomica e minaccia di cancellare Israele dalla carta geografica.



Qualcuno ha chiesto conto a Fareed Zakaria della sua clamorosa svista di allora? Prima di avventurarsi in nuove, disinvolte previsioni, egli avrebbe il dovere morale di riconoscere di avere completamente sbagliato analisi e chiedere scusa del suo irresponsabile ottimismo ai lettori. Dove trova invece oggi il coraggio di sostenere che “i mullah non aspirano affatto alla catastrofe universale” e che “la repubblica islamica sta perdendo la caratteristica base religiosa, per trasformarsi in una delle tante dittature mediorientali” ? Questa lettura dimostra fra l’altro un completo travisamento della natura intrinseca, qualitativamente diversa, del regime di Teheran.



La domanda ripropone una questione decisiva per le società democratiche: quella della responsabilità degli intellettuali, sulla quale da sempre si interrogano le migliori coscienze del mondo contemporaneo. Chi svolge il ruolo di opinion-leader e dirige un settimanale del prestigio internazionale di “Newsweek”, dopo essersi avventurato in valutazioni a tal punto superficiali e improbabili, dovrebbe almeno ritrovarsi al centro di una salutare e incalzante polemica, tale da consentire all’opinione pubblica di valutare appieno le possibili conseguenze del suo pericoloso minimizzare.

motorino radicale
12-08-09, 18:19
Giotto, Van Gogh e il relativismo

• da “Il Foglio”

di Angiolo Bandinelli

Una piccola, divertita autocritica. Settimane fa, in un lungo articolo sul tema dell’autoritratto, dicevo di non aver mai visto, di non poter nemmeno concepire una raffigurazione del Cristo di profilo. Mi appoggiavo al ricordo delle tante immagini del Cristo bizantino in trono o anche del Cristo sulla croce, sempre ripreso frontalmente, o di tre quarti quando il volto sofferente è reclinato sulla spalla. Ora scopro che Cristo è stato rappresentato anche di profilo. E l’immagine che mi smentisce è così famosa che, fosse pure l’unica in cui il divino volto è in quella posizione, la dimenticanza è imperdonabile. Si tratta dell’affresco giottesco nella padovana cappella degli Scrovegni, in cui si vede Cristo che riceve da Giuda il bacio con il quale l’apostolo traditore indica alla sbirraglia e ai farisei quale sia l’uomo che essi cercano e che vogliono arrestare e trascinare dinanzi a Pilato. Nella scena, mossa e concitata, Cristo è ripreso di profilo così come Giuda che sta per baciarlo, e la potenza dello sguardo del Figlio di Dio è tale che il ceffo di Giuda ne sembra come rattrappito. Scena indimenticabile, pago pegno per la smarronata.



Al Vittoriano di Roma era ormai agli sgoccioli una importante mostra su Giotto e il Trecento. Non volevo perderla e dunque, nonostante l’afa, ho attraversato la città e mi sono infilato dentro l’ineluttabile e insopportabile Vittoriano. Nella penombra, subito, enormi diapositive proiettavano sulle pareti le opere di Giotto che non potevano essere trasportate, come appunto gli affreschi padovani. E lì, fulminante, mi è apparsa l’immagine del Cristo al bacio di Giuda. Nella mostra era presente anche un altro profilo di Cristo, quello di Maso di Banco, ma questo non è, come l’altro, indimenticabile. All’inizio del percorso, sulle pareti, erano anche riprodotti alcuni famosi giudizi su Giotto. Più che quello, noto e memorabile, di Boccaccio, mi ha colpito il giudizio di Vincent Van Gogh. Si tratta di una lettera del pittore a Emile Bernard, datata 1890: “…”Il fatto è che Giotto e Cimabue vivevano in una civiltà fatta a piramide, con un’ossatura interna costruita architettonicamente, in cui ciascun individuo era una pietra, e tutti collegati formavano una società monumentale. Noi, invece, viviamo in anarchico abbandono e noi artisti, innamorati dell’ordine e della simmetria, siamo isolati…”. Queste rapide annotazioni presentano elementi di grande interesse ed attualità. In primo luogo, il fatto che Van Gogh fosse in grado di dare un giudizio del medioevo così straordinariamente pregnante. Van Gogh visse una vita errabonda, da emarginato, e di sicuro non ha mai seguito studi storico-filosofici avanzati e approfonditi, ma il suo medioevo, interpretato come società piramidale e monumentale, è tale da soddisfare le esigenze del più fegatoso dei teocon. Ugualmente puntuale è l’idea della società a lui contemporanea (siamo alla fine dell’800) vista come società anarchica e abbandonata a se stessa, in termini che combaciano con i giudizi espressi ai nostri giorni da ogni rampognatore del nichilismo, a quell’epoca al suo apice culturale. Tra questi critici contemporanei e Van Gogh corre però una gran differenza, che il pittore di Arles enuclea con una battuta fulminante. E’ lì dove osserva come gli artisti, che pure sono “innamorati dell’ordine e della simmetria”, siano isolati, dimenticati, praticamente messi al bando. Ecco: per il teocon il superamento del nichilismo e di ogni “anarchico abbandono” sociale può essere raggiunto solo ritornando sui sentieri della verità, ricostituendo cioè quell’ordine piramidale che fu del medioevo, con al suo vertice la parola promulgata dalla chiesa. L’artista invece attribuisce a sé, agli artisti (!), questo compito di riorganizzazione, di messa in “in ordine e simmetria” del mondo. Straordinaria, coraggiosa intuizione (e denuncia).



Ovviamente, da laico, io sto dalla sua parte, intendendo per artisti tutti quelli che lavorano per costruire, edificare, attraverso la personale capacità, cultura, intelligenza, dedizione e fantasia, le ragioni del convivere umano. E ringrazio il caso che mi ha portato a visitare la mostra di Giotto e a scoprirvi il bellissimo testo. Con i suoi ritratti, quei volti (compreso il Cristo degli Scrovegni) di impressionante verità e realismo, il pittore toscano esprime una storica rottura rispetto all’immobilismo ieratico del medioevo, bizantino e “monumentale”. Con lui la società (occidentale!) si sta frantumando nella realtà dei singoli, della loro individualità e carnalità. C’è un potente afflato cristiano, non c’è più - o è in crisi - l’autorità monolitica della chiesa. Il percorso sarà lungo, ma da quel Giotto a questo Van Gogh il cammino verso la civiltà del relativo e della sua autonomia è mi pare, un processo continuo e lineare.

motorino radicale
12-08-09, 18:19
Giustizia: ultima vittima innocente sull’altare del proibizionismo

• da Linkontro.info - La politica vista da sinistra (http://www.linkontro.info)

di Patrizio Gonnella

Un’altra vittima innocente della stupidità proibizionista. Si chiamava Stefano Frapporti, cinquantenne, muratore con una mano persa dopo un brutto incidente sul lavoro. Pare che sia stato fermato dai carabinieri mentre andava in bicicletta. Lo avrebbero perquisito, gli avrebbero trovato dell’hashish. Hashish, non pistole, non mitra, non eroina. Secondo i carabinieri ne aveva in tasca circa un etto. Un etto di spinelli a loro è sembrato troppo. È così arrestato e condotto nel carcere di Rovereto. Dopo poche ore si ammazza. Era stato ubicato nel reparto osservazione.



Pare che Frapporti fosse un consumatore di hashish. Un innocente consumatore di hashish. Si è ammazzato dopo una notte passata in carcere. Ce la potremmo prendere con i carabinieri che hanno applicato una legge ingiusta. Ce la potremmo prendere con l’amministrazione penitenziaria che non ha prestato l’attenzione adeguata che necessitano i nuovi giunti in carcere. Ce la potremmo prendere con il destino.



Invece ce la prendiamo con questo cocciuto e brutto Paese che criminalizza tutti, che criminalizza gli stili di vita e gli status individuali. Ce la prendiamo con chi mette sullo stesso piano consumatori di droghe leggere e spacciatori di droghe pesanti. Ce la prendiamo con chi non ha il coraggio del pragmatismo antiproibizionista. Ce la prendiamo con Gianfranco Fini e Carlo Giovanardi autori di una legge che - visto quanto successo a Rovereto - non esimiamo a definire assassina.

NOTE

Patrizio Gonnella è Presidente dell'Associazione Antigone

motorino radicale
12-08-09, 18:20
Carceri-giustizia. Notizie che non fanno notizia. Da Bari, Catanzaro, Padova, Rovigo, Rimini…

di Giuseppe Di Noi

Carcere di Bari: la “sezione dell’orrore”. 200 detenuti e diritti negati. La denuncia del Sappe.



La vergogna del carcere di Bari a partire dalla II° Sezione che, come per quasi tutte le carceri pugliesi ed italiane, è stata sancita anche dall’Alta Corte di Giustizia Europea che ha condannato alcuni giorni fa, lo Stato Italiano al pagamento di mille euro quale risarcimento ad un detenuto costretto a vivere per alcuni mesi, in uno spazio inferiore a 7 metri quadri, parificando questa condizione ad una tortura.

Da mesi, tra l’indifferenza generale, il Sappe - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria - maggior sindacato di categoria, sta lanciando l’allarme sulla grave situazione carceraria a partire proprio dal sovraffollamento dei detenuti ormai a quota 64.000 (oltre 20.000 in più del consentito) di cui circa 4200 in Puglia (a fronte di 2300 posti disponibili);dalla fatiscenza delle carceri che cadono a pezzi e che sono completamente fuori legge sia per quanto riguarda le condizioni igienico-sanitarie che per le normative inerenti la sicurezza sui posti di lavoro;alle traduzioni aumentate del 50% per accompagnare i detenuti in ambienti esterni per visite mediche con i rischi che ciò comporta;dalle gravi condizioni di lavoro e di vita a cui è costretta la Polizia Penitenziaria in grave deficit di organici, con diritti quali ferie e riposi sempre più spesso negati,e con la violazione dei contratti e degli accordi stipulati.

Tutti argomenti che non sembrano riscuotere alcuna attenzione dalle Istituzioni, a partire dal Ministro Alfano e dal Capo del Dap Ionta, seguiti poi dai mass-media ormai più propensi al gossip che a denunciare ed informare la gente su una questione preoccupante che viola la

Costituzione e che tra non molto, potrebbe creare seri allarmi alla sicurezza.

Ritornando a Bari, il Sappe poco tempo fa invitò il Sindaco di Bari a visitare il Carcere e soprattutto la sezione della vergogna. Purtroppo a tutt’oggi la mancanza di controlli da parte delle Istituzioni che chiudono entrambi gli occhi, ha ringalluzzito l’Amministrazione Penitenziaria che ha pensato bene di tinteggiare qualche muro e sta pensando di aumentare il numero dei detenuti nonostante il parere espresso in più occasioni dalle Autorità Sanitarie come la Asl di Bari che ha emesso un unica ed incontrovertibile sentenza: la II° Sezione deve essere chiusa per le scadenti condizioni igienico-sanitarie in cui versa, ma che oggi invece, ospita circa 200 (invece di 90) detenuti con i Poliziotti Penitenziari che da solo controllano fino a 100 detenuti ciascuno.

I Politici ed i mass-media sappiano che in circa 12 metri quadri vengono stipati 6,7,8, detenuti con muri pieni di macchie di umidità, con bagni di piccoli dimensioni ed intonaci scrostati, separati dal resto della cella da pannelli in materiale metallico in più punti corroso, dotati di servizi mal posizionati e di difficile utilizzazione, e poi ancora con un ascensore fuori legge che in caso di emergenza non può accogliere una barella, senza considerare gli impianti elettrici fuori norma, i tubi che non reggono all’usura del tempo e scoppiano lasciando spesso le sezioni senza acqua, oppure scarichi fognari che perdono liquami .

Non stanno meglio i Poliziotti penitenziari che sono costretti ad operare presso celle che non sono neanche riadattate con conseguenti sgradevoli odori, infissi, fatiscenti ed arrugginiti. In tale situazione la tensione a Bari come negli altri penitenziari è palpabile, e non si contano più gli episodi di violenza ed autolesionismo, aggressioni, forme di protesta ecc. ecc.

Il Sappe chiede perciò alle Istituzioni e ai mass-media, di lasciar perdere per un solo attimo gossip ed amenità per occuparsi della questione carceraria ormai pronta a scoppiare in qualsiasi momento e che a breve potrebbe lasciare sul terreno vittime e preteste molto dure da parte dei detenuti. Ciò come atto di responsabilità per una Nazione che si proclama civile ma che viene condannata per tortura, anche perché ciò allevierebbe le tensioni e le condizioni di vita e lavoro di chi è costretto giornalmente a provare sulla propria pelle lo sfascio di un mondo che di fatto viene dimenticato e relegato in un grande buco nero, dopo che vengono spenti i riflettori delle brillanti operazioni di Polizia.

Il Sappe chiede in un momento così particolare anche l’intervento della Chiesa ed invita il Vescovo di Bari e di tutte le Province Pugliesi a visitare ad entrare nelle carceri (senza l’apparato che tutto nasconde) anche solo per qualche minuto per visitare l’inferno costruito dagli uomini su questa terra, per testimoniare la vicinanza verso chi viene è dimenticato da tutti e da tutto.



Catanzaro: negati i "domiciliari" a un malato terminale



Franco Corbelli, leader del movimento Diritti Civili, in una nota denuncia il "dramma e l’ingiustizia di un giovane detenuto calabrese, R.C., di 38 anni, malato terminale, che si trova in carcere a Catanzaro da 15 mesi in attesa di processo per un piccolo reato che lui comunque nega, a cui, su richiesta del pm, sono stati negati i domiciliari".

Corbelli riferisce "di aver ricevuto un accorato appello dalla sorella di questo ragazzo che gli descrive la situazione drammatica del proprio congiunto, malato gravemente, e la disperazione della loro famiglia che non sa più cosa fare per poterlo riportare a casa, almeno agli arresti domiciliari, per poterlo assistere con tutta le cure e l"affetto di cui ha bisogno per affrontare la sua gravissima patologia".

"Questo giovane - sostiene Corbelli - è malato terminale di cancro e ha gravi problemi cardiaci subentrati con la malattia. Nei giorni scorsi ha avuto un edema polmonare, è stato ricoverato d"urgenza in ospedale, è rimasto 12 ore in rianimazione. Quindi dal nosocomio è stato di nuovo riportato in carcere. La gravità della sua malattia è stata accertata ed é attestata da cartelle cliniche degli ospedali di Bologna, Napoli, Catanzaro, Cosenza. Eppure continua a restare in carcere, in attesa del processo che doveva svolgersi nei giorni scorsi e che è stato rinviato".



Padova: colpito da ictus celebrale, sta morendo in cella



Una trentina di detenuti del Due Palazzi (ristretti nel reparto Alta Sorveglianza) hanno scritto e poi firmato una lettera di inviata al Mattino di Padova, per protestare per il trattamento - accusano loro - ricevuto in carcere da uno di loro: Fiorenzo Trincanato.



"Scriviamo per informare i lettori su come i detenuti vengono trattati da chi rappresenta le istituzioni. Scriviamo per raccontare la storia di Fiorenzo Trincanato detenuto su ordinanza del Gip per delle intercettazioni telefoniche inerenti ad un traffico di stupefacenti, secondo l’accusa. Trincanato, (a cui è stato asportato un polmone) è invalido al cento per cento come gli è stato riconosciuto dall’Inps per più patologie. A causa di queste patologie il suo difensore con la documentazione Inps e dei periti nominati ha chiesto in più occasioni gli arresti domiciliari per incompatibilità di Trincanato con il regime carcerario.

Il Gip, a sua volta, ha nominato anch’egli una perizia. E i periti del Tribunale hanno certificato la sua compatibilità con il regime carcerario. Il gip quindi ha rigettato la richiesta dei domiciliari giustificandola con i pareri dei periti del Tribunale ignorando sia le perizie della difesa che le certificazioni dell’Inps.

Venerdì 9 luglio scorso Trincanato ha avuto una grave ricaduta e, dopo qualche ora, per vari problemi burocratici attinenti al suo stato di detenzione, è stato ricoverato al pronto soccorso dell’ospedale di Padova. Dopo un’accurata visita viene dimesso e ritradotto in carcere. A distanza di qualche ora dall’"accurata visita" viene colpito da una paresi al cervello e al corpo. Trincanato dopo soli 5 giorni di degenza è stato dimesso con la relativa certificazione del dirigente sanitario dell’ospedale San Antonio.

Oggi sappiamo che il Trincanato è stato colpito da ictus cerebrale causata da una tachicardia che ha favorito la creazione di un embolo. Com’è noto, le conseguenze di questo tipo di patologie sono devastanti. Il solo fatto che l’ammalato sia un detenuto ha fatto sì che venissero meno i diritti che sarebbero valsi e riconosciuti a qualsiasi altro cittadino. Sarà questo il metodo che si intende adottare per far sì che l’affollamento delle carceri diminuisca?".



Bari: detenuto tunisino di 19 anni, si impicca all’Ipm "Fornelli"



Tre mesi fa è stato arrestato a Perugia, con tre dosi di cocaina, aveva detto di avere 16 anni. Rinchiuso nel carcere minorile di Bari "Fornelli", lì si è impiccandosi con un lenzuolo.

Il protagonista di questa storia è un ragazzo di origini tunisine. È stato il fratello, giunto a Bari all’indomani della tragedia, a svelare la vera età, 19 anni. Un particolare non di poco conto: se al momento dell’arresto, il ragazzino avesse detto di avere 19 anni e non sedici, forse il periodo di detenzione sarebbe stato più breve e lui, incensurato e senza guai con la giustizia, avrebbe già lasciato il carcere.



Rovigo: condizioni invivibili nelle celle; la protesta dei detenuti



Il carcere di Rovigo è al collasso. Dall’interno della Casa Circondariale giungono notizie allarmanti: celle da due persone in cui si soggiorna in cinque, brande a castello a tre livelli, addirittura letti e materassi esauriti. Il caldo e l’afa di questi giorni contribuiscono ancor più ad acuire i problemi e la già precaria convivenza di tante persone è portata ai limiti della tollerabilità umana. Problemi che i detenuti hanno espostoi in una lettera aperta:



Noi che ci viviamo 24 ore su 24 ci chiediamo: "Il carcere che cosa sta diventando?". Risposta: "Un deposito merci di persone".

Un magazzino dentro il quale archiviare tutte quelle "vite" che non servono più, che sono diventate improduttive, e nel quale ormai si entra principalmente peri guasti causati da una organizzazione sociale in fase di sgretolamento, che non riesce a garantire il rispetto della dignità umana. Non c’è più lavoro per nessuno e questo gradualmente porta alla estrema povertà, al doversi arrangiare, ecc.

Ma volendo ritornare nel pianeta "carcere-magazzino", possiamo tranquillamente affermare che la maggior parte dei penitenziari ha strutture vecchie, costruite per contenere quantità ben stabilite di posti a disposizione, ma anche per il massimo di tolleranza, superate le quali, per evitare lo scoppio è necessario trovare altre soluzioni adeguate e tali da preservare il "prodotto uomo detenuto" in condizioni con un minimo di dignità.

Le notizie parlano di nuove strutture ma che saranno pronte nel 2012; e, nel frattempo, come verranno affrontati i problemi dei continui ingressi (circa 1.000 ogni mese in Italia)? Le celle sono strapiene già ora, addirittura non si trovano più brande e materassi, le problematiche, di per sé già presenti, si moltiplicano a danno di tutti. Il "Tutti" è da intendersi detenuti ma anche personale addetto alla sorveglianza, all’amministrazione carceraria.

Gli agenti di Polizia Penitenziaria evidenziano carenza di personale e di conseguenza quello a disposizione è in affanno e non sempre può garantire il rispetto dei diritti dei detenuti anche nelle cose più semplici. Turni di lavoro appesantiti oltre misura e questo causa tensioni e stress. A lungo andare tutto fa prevedere l’aumentare di problematiche che non sono positive per nessuno. Già si leggono azioni di dimostrazione in diverse strutture, qua e là per l’Italia, ma soluzioni non se ne vedono. Si legge che verranno ristrutturati e costruiti nuovi penitenziari, che non si ricorrerà più all’indulto.

Anzi si dichiara che l’ultimo è stato inutile; se andiamo a leggere bene le statistiche non è poi tanto vero quanto viene pubblicato su alcuni giornali; non tutti i beneficiari sono rientrati in carcere, solo poco più del 20%, la maggior parte è rimasta nel mondo esterno con buona felicità loro e di tutti i relativi famigliari. Nel frattempo le morti in carcere, da inizio anno, sono arrivate oltre quota 80, parte delle quali con ricorso al suicidio.

È necessario coinvolgere le autorità affinché prendano coscienza delle singole realtà, che vengano attuate verifiche che non devono rimanere solo sulla carta ma che si tramutino nella ricerca di soluzioni utili per tutti. Non si chiede che il detenuto venga liberato, ma che sia in grado di produrre qualcosa di utile per se stesso e per la società, che ci sia un effettivo recupero, che non rimanga a marcire nelle celle, che vengano utilizzate le misure alternative in maniera assidua ove ci siano le effettive valutazioni. Il non ricorso a tali situazioni, a fine pena, il singolo carcerato che non troverà possibilità di reinserimento e quindi nessun’altra possibilità di sostentamento, sarà portato a delinquere nuovamente.

Adeguiamo anche il numero del personale adibito alla gestione delle carceri in proporzione all’aumento delle attuali detenzioni; la presenza giornaliera e continua dell’educatore e di tutto lo staff necessario alla valutazione comportamentale dei detenuti in modo tale che chi può ottenere i benefici previsti dalla legge (permessi, misure alternative, etc.), ne possano usufruire e consentire una minore "sosta" nel carcere.

Serve l’impegno di tutti. Da soli si fa poco. Se lavoriamo tutti assieme forse il mondo sarà anche migliore e le cronache sui giornali avranno notizie positive da raccontare. Abbiamo anche una Costituzione che ha celebrato il suo 60° da poco, vogliamo adeguarci a quelle semplici regole che tutti dovremmo rispettare?



Rimini: 211 detenuti in 90 posti, proteste per sovraffollamento



La capienza massima è di 90 detenuti e sono in 211. In undici, in alcuni casi, si dividono una cella di 16 metri quadrati. Lamentano di essere stipati come bestie. Le zanzare proliferano e con il caldo il sovraffollamento è ancora più insopportabile anche perché, come al solito, d’estate, è più che probabile l’arrivo di nuovi detenuti a rendere ancora più angusti gli spazi. Aumenta così il rischio di malattie infettive come la Tbc. La struttura è inoltre interessata da lavori di ristrutturazione e gli spazi ricreativi sono ridottissimi. La palestra è chiusa da anni dopo una rocambolesca evasione a colpi di bilanciere.

I detenuti da giorni - come avviene in altre carceri - hanno avviato una protesta: prima con la classica "battuta delle inferriate", ora qualcuno rifiuta il pasto, altri fanno lo sciopero della fame. La direttrice dei Casetti Maria Benassi conferma che è in corso una manifestazione pacifica ma è opinione diffusa, non solo tra i detenuti, ma anche tra i loro familiari e gli agenti di polizia penitenziaria, che la situazione sia oramai insostenibile.

motorino radicale
12-08-09, 18:20
Carceri: mancano cinquemila agenti penitenziari, i detenuti dormono per terra…

di Valter Vecellio

Un carcere “discarica” sociale, con l’aumento esponenziale del numero dei detenuti e gli agenti penitenziari sotto organico di almeno 5.500 unità. A Milano, nel carcere di Bollate, ogni agente ha in “custodia” qualcosa come 150 detenuti. Nel carcere napoletano di Poggioreale (il penitenziario forse più sovraffollato d’Europa: tremila detenuti, a fronte dei 1.300 posti letto; quattro suicidi nei primi sei mesi dell’anno), si dorme sul materasso direttamente per terra o in celle con quattro piani di letti a castello. A Regina Coeli a Roma è emergenza continua. A Torino i detenuti hanno i posti letto nella palestra. A Favignana si sta come i “sepolti vivi”, con le celle-tuguri sotto il livello del mare; tutto il penitenziario è sottoterra, compreso il cortile adibito a spazio per l’ora d’aria.

Si potrebbe andare avanti così a lungo. Veniamo al decantato “piano carceri” (cioè la costruzione di nuovi istituti penitenziari) che secondo le intenzioni del ministro della Giustizia Angiolino Alfano e del DAP, dovrebbe risolvere i problemi. A Gela, per costruire il carcere, hanno impiegato “solo” cinquant’anni. Per quello di Reggio Calabria i lavori sono cominciati nel 1988. Non si sa quando finiranno. La Corte dei Conti fa sapere che la media per costruire un carcere in Italia è di circa tredici anni, con i costi che anno dopo anno, lievitano inesorabilmente. Intanto al di là delle buone intenzioni (che poi, di buono hanno poco o nulla), non si fa nulla. Per l’ottima ragione che nulla si sa fare, e quello che si dovrebbe fare, per una preconcetta ostilità ideologica non si fa, non si vuole fare. Ad ogni modo sono ormai un centinaio le interrogazioni e gli altri atti parlamentari, dei deputati e dei senatori radicali e degli altri gruppi di opposizione. Nessuna risposta, si capisce.

Ancora: settanta bambini al di sotto dei tre anni, di nulla colpevoli se non di essere figli delle loro madri, vivono e crescono in carcere. Tra coloro che sono in prigione, il 60 per cento sono immigrati: la cifra evidente di un dato discriminatorio e di classe: gli extracomunitari, a differenza degli italiani, non si possono evidentemente permettere buoni avvocati, e dunque trascorrono il periodo di detenzione preventiva in carcere.

Nelle carceri italiane, denuncia il segretario generale del Forum per il diritto alla salute dei detenuti, sono rinchiusi molti anziani, disabili e malati. “Molti dicono che in carcere si stava meglio prima”, dice il segretario Fabio Gui, “ma il passaggio della medicina penitenziaria al sistema sanitario nazionale ha scoperchiato tante situazioni che prima restavano chiuse negli istituti”. E’ un discorso rischioso, sostiene Gui: “Si faceva abuso di psicofarmaci, mancava la presa in carico della persona, non c’era continuità terapeutica, e si verificavano troppi episodi di sfollamento: ovvero spostamenti da una struttura all’altra. Questo vuol dire che un percorso sanitario iniziato in un carcere può essere bruscamente interrotto per via del trasferimento in un altro istituto determinato dall’eccessivo sovraffollamento, dal superamento del primo grado di giudizio o semplicemente da ragioni di opportunità”.

Per esempio, spiega ancora Gui, accade che “i risultati di un test sull’HIV non possano essere recapitati al detenuto perché nel momento in cui sono pronti, questo è stato spostato in un altro carcere. Oppure c’è il caso del malato di Aids che assume farmaci anti-retrovirali, che viene trasferito senza scorta di medicinali e per poter riprendere la terapia deve attendere la presa in carico e la prescrizione da parte del medico della nuova struttura; e sono proprio le persone più fragili e più problematiche ad essere spostate per ragioni di sicurezza e di opportunità”.

C’è poi il problema di quel che avviene al momento delle dimissioni: fino a oggi, l’amministrazione, una volta scontata la pena detentiva, abbandonava il detenuto al proprio destino. Ora la riforma prevede la presa in carico della persona da parte del “territorio”; questo però richiede un investimento economico, e il denaro destinato al carcere è sempre stato (e continua ad essere) poco, rispetto alle esigenze e alle necessità.

Una questione aperta è quella degli anziani, sempre più presenti tra la popolazione carceraria: l’età porta con sé una domanda di salute particolare: dall’alimentazione alla deambulazione fino al superamento delle barriere architettoniche. Ogni istituto, infatti, “ospita” un discreto numero di detenuti disabili, anziani o affetti da problemi psichiatrici. In un discorso di “presa in carico”, è evidente che occorre inserire anche questa parte di popolazione carceraria. Nell’ambito di un disegno più ampio: nel territorio esiste una zona che si chiama “carcere”, e all’interno di questa zona esistono situazioni sanitarie critiche.

Negli istituti penitenziari italiani oltre alla libertà, si perde, molto spesso, il diritto alla salute; e si perdono anche i diritti civili più elementari. Nelle prigioni c’è di tutto: dagli internati, che restano detenuti anche per vent’anni negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari a causa di una misura amministrativa; a quanti escono dal carcere senza neppure avere la residenza amministrativa.

Piaccia o no, questi sono i fatti.

motorino radicale
12-08-09, 18:21
Caro Bersani, esistiamo anche noi

• da “Europa”

di Marco Pannella

Caro Bersani,

credo che tu ben sappia che da parte nostra e mia non esistano nei tuoi confronti pregiudizio o sentimenti negativi. In particolare durante la comune esperienza nel governo Prodi, dove sin dall’inizio ci trovammo molto vicini all’impegno che ti contraddistinse, impegno ciò malgrado, impantanatosi per strategie politiche "interne", per storie forse troppo oggettivamente diverse.

Ma anche per altre purtroppo: "esterne", queste, al governo Prodi ma non all’area, né agli stessi Ds, o ai mitici "novatori" ex-Dc ed ex-Pci. Dopo di ciò costoro, nominati levatori, ostetrici, psichiatri infantili, custodi e tutori del neonato Pd, imposero una linea, per dirla tutta e senza malanimo, ferocemente quanto ottusamente antiradicale, fino a costringere (noi "prodiani" della Rosa nel pugno) a scelte che furono, per i socialisti tanto necessariamente ostili quanto avventurose, o per noi radicali tanto nobilmente e costosamente responsabili quanto oggettivamente mortificanti. Si corsero rischi letali (per fortuna in parte, si spera, superati) per lo stesso neonato, purtroppo, ancora alle europee, voi tutti e lo stesso Franceschini, avete scelto di allearvi con lo schieramento berlusconiano per salvare quel bipolarismo partitocratico (che è Regime di disordine costituito) dandogli l’estrema unzione antidemocratica di una legge-truffa, giungendo poi persino alla grottesca, incomprensibile, antipopolare scelta referendaria. Lasciamo aggiungere che non possiamo, onestamente, offendere tanti compagni del Pd, a cominciare dallo stesso "nostro" Romano, a D’Alema e Veltroni, Marini e Rutelli, Parisi fino al carissimo Marino, e a te, togliendovi la dignità di corresponsabili pieni di quel che di positivo e negativo sarebbe errato e ingiusto attribuire al solo Dario. Leggo la tua dichiarazione di ieri: «Voglio un partito le cui radici siano socialiste e cattolico-popolari», che anche sia (ma pensa un po’!) «democratico e liberale». Tu punti a: «alleanze larghe, democratiche e di progresso». «Cominciamo a costruire - poi precisi - una politica comune delle opposizioni». Ma quali opposizioni? Non Storace, ovviamente; ma parrebbe anche non Ferrero e dintorni. Potrebbe esserlo di buona parte di Sinistra e libertà. Quella radicale, naturalmente, non esiste, in quanto tale. Allora di chi si tratta?

Qui si torna ad un vecchio vizietto del Regime: basta escogitare una legge elettorale "giusta" e anche gli altrimenti perdenti pensano di farcela. Tu saresti, Pierluigi, da quel che se ne sa, non ostile al sistema elettorale "tedesco", dogma casiniano non sgradito alla Lega. Dario invece ha dichiarato di essere per il maggioritario, non esclusa per ora nessuna delle sue versioni: mattarelliana o francese. E anche quella anglosassone, americana? Riformiste, quelle, riformatrici queste. Glielo chiederemo, come anche a Ignazio, un po’ troppo laconico, per ora, in proposito. Così stante le cose, una strategia che potresti finire per scegliere potrebbe ben essere quella "antiberlusconiana". Certo nei tuoi toni: più moderata, civile, tollerante ma innanzitutto tale: antiberlusconiana. Quindi ottima per l`Idv e per un altro leader "delle opposizioni come l`ottimo Casini. Potrebbero essere coinvolti anche - perché no? - la Lega, vecchia "costola della sinistra". Tutta o in parte, già accadde. E quale interesse potrebbe avere Rutelli ad andarsene, con questo eventuale "nuovo conio` del Pd.

Ma torniamo alla tua dichiarazione. «Cattolico-popolari» affermi. Cioè? Se tu parlassi di "cattolico-liberali" c/o di "cattolico-conciliare` capirei un pd meglio. Posso osare una interpretazione, un sospetto, una malizia? Nella tua Bologna ex "roccaforte rossa" avete portato a sindaco, presidente della provincia, rettore della università tre possibili "cattolico-popolari", rispettivamente il sindaco professor Delbono la presidente della provincia Draghetti, il magnifico rettore Dionigi. Di che render vincente, sullo sfondo la regia del cardinal Caffarra, che di tutto potrà essere accusato, ma non certo di appartenere alla teologia della liberazione o
alle correnti dei credenti conciliari o dei cattolici-liberali.


«Cominciamo a costruire una politica comune delle opposizioni», proclami. Ma se, intanto, si cominciasse a costruire la politica comune del Pd? E se intanto spendessi un po’ del tuo tempo, marginale, per dialogare, riflettere e far riflettere noi radicali in quanto tali?

Qualche volta, forse, sarebbe opportuno e conveniente ascoltarci, e farti ascoltare, più direttamente. lo, come forse ricordi, ti... estorsi una promessa di farti vivo con me, se lo avessi solo ritenuto non inutile; nel dicembre 2007! A volte, sai, può non essere inutile contare perfino su di noi, in quanto Radicali. Come quando, con la Rosa nel pugno, determinammol’esito delle elezioni del 2006: quando l’Unione, che aveva riscosso un milione di voti meno dello schieramento berlusconiano, grazie al milione di voti della Rnp (fra i quali almeno 350.000 tolti al centrodestra) fummo determinanti per battere i "capaci davvero, ma davvero, di tutto" e conseguire l’obiettivo di portare al governo i "buoni quasi a niente"! Non ci fu perdonato: sarà che i (sospetti) creditori spesso sono insopportabili, a volte da eliminare; tanto quanto si ha invece cura della buona salute dei debitori!

Termino con una domanda la cui risposta ti e vi solleciterei, da subito. L’Istituto Cattaneo ha scoperto che alle europee in 9 città capoluogo di provincia su 10 prese in considerazione, le liste Bonino-Pannella con una durissima campagna anti-regime per la riforma e l’alternativa liberale, democratica, e antipartitocratica, laica hanno riscosso maggiore apporto di voti da elettori del centrodestra che da quelli del centrosinistra. Del che vado, e andiamo, particolarmente grati e fieri. Nessuno, ma proprio nessuno, ha mostrato di ritenere meritevole di una, sia pur minima, riflessione o commento questo fatto. Tu? Voi?

il Gengis
06-01-10, 22:14
Storia di ordinaria follia da carcere speciale

di Elisabetta Zamparutti

Vincenzo Stranieri oggi ha 49 anni. Ne aveva 24 quando fu arrestato nel 1984 e, da allora, non è più uscito dal carcere. Sta ancora espiando – secondo il cumulo pene emesso due anni fa dalla Procura Generale della Repubblica di Taranto – la condanna complessiva a anni 29, mesi 4 e giorni 3 di reclusione per associazione per delinquere di stampo mafioso, associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, sequestro di persona a scopo di estorsione, estorsione ed altro. Non sta scontando ergastoli, quindi, né ha condanne per omicidio.



Già affiliato alla camorra di Raffaele Cutolo e passato alla SCU di Pino Rogoli quando era già in carcere, il “boss di Manduria” – come era noto alle cronache di una generazione fa – ha ancora un sospeso con la giustizia che riguarda il processo cosiddetto “Corvo” dove è imputato a piede libero e senza nulla a che fare con l’associazione mafiosa per un “contrabbando di tabacchi lavorati esteri”, al quale avrebbe secondo l’accusa partecipato da dentro il carcere, in isolamento e sorvegliato a vista.



Vincenzo Stranieri è attualmente detenuto nel supercarcere di L’Aquila e la sua storia è emblematica di come funziona il regime di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario a cui è sottoposto ininterrottamente da diciassette anni e mezzo, cioè da quando nel luglio 1992 il “carcere duro” è stato istituito come risposta dello Stato alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove furono massacrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.



Il 3 dicembre scorso, il Ministro della Giustizia ha notificato a Stranieri l’ennesima proroga del regime speciale, motivata con una formula che negli anni si è ripetuta sempre la stessa: “non risulta sia venuta meno la sua capacità di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione criminale di appartenenza.” Ma nell’ultimo provvedimento, oltre alle solite note informative degli organi investigativi e alle segnalazioni di quelli giudiziari che di decreto in decreto si ripetono a mo’ di fotocopia, compare una “novità”. E’ stata segnalata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce e secondo il ministro Guardasigilli sarebbe indicativa tra le altre della capacità di Vincenzo Stranieri di mantenere i rapporti con la criminalità organizzata.



Nella nota della DDA emerge un passaggio che vale la pena citare integralmente perché è un capolavoro della cultura poliziesca e giudiziaria del sospetto: «Da segnalare infine – riferisce la DDA di Lecce – il tentativo di intervista a Stranieri da parte di un giornalista di quotidiano a tiratura nazionale che potrebbe veicolare notizie, informazioni e messaggi che il detenuto ben potrebbe articolare proprio in risposta allo schema di domande predisposto dal giornalista ed inviatogli per lettera, non consegnatali a seguito di provvedimento di non inoltro da parte del Magistrato di sorveglianza di Milano in data 13 ottobre 2008 (nonostante l’interessamento di “persone sempre più influenti” che il giornalista avrebbe interessato per incontrare Stranieri, evidentemente con scarso successo!). Secondo tale schema, Stranieri avrebbe dovuto, tra l’altro, indicare “con quale degli imputati dei primi processi a Lecce e Brindisi mantenesse rapporti epistolari”, se “avesse letto il libro di Antonio Perrone” (esponente fin dal primo momento della S.C.U. della zona a Nord di Lecce, avente influenza nella città di Trepuzzi, condannato all’ergastolo per omicidio, oltre che per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., e autore di un libro sulla vita della S.C.U. e sulle modalità della sua partecipazione ad essa), se abbia letto “quello di Salvatore Mantovano” ed il giornalista aggiunge se abbia saputo che l’autore è stato ucciso (ma sbaglia il cognome perché la persona in questione si chiama Padovano, detto Nino Bomba, esponente “storico” e di primo piano della criminalità mafiosa salentina, affiliato alla Sacra Corona Unita e “responsabile” del territorio di Gallipoli, autore di un libro sulla condizione carceraria, ucciso il 6 settembre 2008 su mandato del fratello Rosario per conflitti all’interno della famiglia “naturale” e di quella “mafiosa” di appartenenza di entrambi). E infine il giornalista chiede a Stranieri “quali personaggi pubblici o politici o cosiddetti vip (ammesso che Manduria ne abbia mai avuti) ricordi dopo tanti anni di assenza da Manduria”. Si ritiene, pertanto, che nei confronti Stranieri Vincenzo debba essere mantenuto il regime di sospensione delle regole del trattamento penitenziario di cui all’art. 41 bis…».



Un giornalista in questa vicenda esiste davvero e corrisponde al nome di Nazareno Dinoi. E’ originario di Manduria come Stranieri e scrive da Lecce e Taranto per il Corriere del Mezzogiorno, l’inserto pugliese del Corriere della Sera. Ma c’è un altro “legame” tra i due, più recente e degno di nota delle “note informative” di organi giudiziari e di polizia. Nazareno Dinoi è coautore con Vincenzo Stranieri di “Dentro una vita”, il libro che sta per essere pubblicato da Reality Book con una prefazione del Segretario di Nessuno tocchi Caino Sergio D’Elia, nel quale Stranieri racconta la sua storia da delinquente e di detenuto al 41 bis. Il fatto dovrebbe essere noto alle questure e procure che negli ultimi trent’anni non hanno perso d’occhio Vincenzo Stranieri. Anche perché Nazareno Dinoi, nella primavera del 2008, in previsione della scrittura del libro, ha chiesto formalmente al ministero della Giustizia di incontrare in carcere Vincenzo Stranieri e poi, a fronte del diniego, ha deciso di procedere per via epistolare, sempre qualificandosi ed esplicitando le finalità di quel “misterioso” e “socialmente pericoloso” carteggio con il “boss di Manduria”. A questo punto, mi viene da chiedere: se anche gli altri “dati” e “fatti” – indicativi per il Ministro della Giustizia dell’attualità dei collegamenti di Stranieri con la criminalità organizzata – sono dello stesso ordine e grado di attendibilità del fatto segnalato dalla DDA di Lecce relativo al “tentativo di intervista a Stranieri da parte di un giornalista di quotidiano a tiratura nazionale”, cosa ci fa ancora, dopo diciassette anni e mezzo, il detenuto Stranieri in regime di “carcere duro”?



Un paio di settimane fa, mi sono recata in visita al Carcere di massima sicurezza di L’Aquila e ho incontrato anche Vincenzo Stranieri. Le sue condizioni psico-fisiche mi sono parse allarmanti e terribilmente profetiche le parole di un suo scritto uscito dal supercarcere nell’aprile del 2009: “Qui stiamo venti ore al giorno in cella, a poltrire. Moltiplicato per 25 anni, di cui 17 di carcere duro del 41 bis, è davvero un’enormità. Per fare cosa? Dicono per farci recidere i contatti con l’esterno, ma quanto meno ci diano il modo di non perdere la ragione: venti ore al giorno per venticinque anni a guardare il soffitto: a cosa e a chi serve tutto questo?”.

I racconti e i ricordi di Vincenzo Stranieri per il libro che sta per uscire sono la più gratuita e, quindi, autentica dichiarazione di dissociazione dal suo passato. Ma la semplice dissociazione non basta per venire fuori dal 41 bis, ci vuole la dissociazione a rischio della vita… e Vincenzo Stranieri “non ha operato condotte che si sono poste in conflitto con la sua appartenenza all’organizzazione” criminale, come è scritto nell’ultimo decreto ministeriale che lo seppellisce per altri due anni in una cella del “carcere duro”.

il Gengis
06-01-10, 22:15
La situazione. Il “sogno” di un format sui diritti umani, le carceri, il PRTTN, la polizza assicurativa...

di Valter Vecellio

Capita a volte, di sognare. Per esempio che la televisione trasmetta uno speciale approfondimento di un paio d’ore, dedicato al problema della giustizia e delle carceri. Un approfondimento introdotto da un servizio giornalistico dove si dà conto di quello che è a tutti gli effetti un disastro, la perenne emergenza in cui versa un’istituzione al collasso: l’elevatissimo numero di morti in carcere, dovute in percentuale rilevante, a “cause da accertare” e la quantità di suicidi, circa il 16-18 per cento superiore a quella rilevata nell’intera popolazione; magari con un’intervista al cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi, che recentemente ha visitato il carcere di San Vittore; alla fine della visita, Tettamanzi – che pure la realtà carceraria la conosce bene – ha detto di aver visto cose di uno “squallore intollerabile...sconvolgenti”. Al cardinale è stato “semplicemente” chiesto di raccontare che cosa di “sconvolgente” ha visto e sentito.



Il sogno prosegue con dibattito, a cui prendono parte il ministro della Giustizia Angelino Alfano, il presidente dell’associazione “A buon diritto” Luigi Manconi, rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria, alcuni detenuti che stanno scontando pene definitive e altri che si trovano in carcerazione preventiva, e che raccontano la loro esperienza quotidiana; previsto anche l’intervento di rappresentanti degli avvocati penalisti e dell’Associazione nazionale dei Magistrati: per dibattere della questione dei processi che non finiscono mai, della vera o presunta scarsa produttività dei magistrati, delle difficoltà che incontrano nel loro lavoro; delle migliaia di processi che ogni settimana vanno in prescrizione, e che nei fatti si traduce in una amnistia quotidiana, silenziosa, di massa e di classe, dal momento che a beneficiarne è solo chi si può permettere un buon avvocato. Alla trasmissione prende parte anche Marco Pannella, cui è riservato uno spazio particolare, simbolico risarcimento del riconosciuto danno che lui in prima persona, e in quanto leader del Partito Radicale ed esponente del movimento dei diritti civili, ha subito e patito nel corso di questi quarant’anni, in cui gli è stato impedita e preclusa la possibilità di far conoscere le sue opinioni, le sue proposte, le sue soluzioni, e l’opinione pubblica non le ha dunque potute conoscere.



Un momento particolarmente suggestivo, dal punto di vista visivo, quando nello studio televisivo sono mostrati plastici e modellini degli ambienti del carcere di Regina Coeli a Roma, di Capanne a Perugia e del penitenziario di Teramo, e si sono ricostruite tutte le fasi che hanno poi portato alla morte di Stefano Cucchi e di Aldo Bianzino; è quando si chiede un commento al ministro Alfano alla registrazione di una conversazione tra alcuni agenti di custodia di Teramo, a proposito di un pestaggio inflitto a un detenuto.



Dopo il primo, un secondo sogno: uno speciale dedicato alla pena di morte. Esponenti di movimenti come “Nessuno tocchi Caino”, “Amnesty International”, “Medici senza frontiere”, “Emergency”, parlano delle iniziative dopo l’approvazione della moratoria delle esecuzioni; di come in alcuni paesi come Cina, Arabia Saudita, Iran, si viene giustiziati; e del caso del cittadino britannico che, pur affetto da riconosciute tare psichiche, le autorità cinesi hanno ucciso; storie, fatti, notizie, alternate magari da letture di brani del libro di Leonardo Sciascia “Porte Aperte”, che racconta come nell’Italia fascista un piccolo giudice si sia battuto allo stremo, e rovinandosi la carriera, pur di impedire una condanna a morte. Battaglia persa da quel piccolo giudice, ben consapevole che sarà stato sconfitto; ma ciò non gli impedisce di battersi ugualmente contro la sentenza di morte.



Peccato che il sogno sia destinato a restare tale; eppure basterebbe poco... Basterebbe, per esempio, approntare quel format per i diritti umani e civili da tempo auspicato, da più parti richiesto, e che però rimane lettera morta. Certo non per un caso.



Anni fa Jean-Paul Sartre, intervistato dal quotidiano francese “Le Matin” a un certo punto se ne uscì con un’affermazione sorprendente, e che per primi sorprese noi: disse che auspicava la creazione di un Partito Radicale Internazionale. “Conosco Marco Pannella, ho visto i radicali italiani e le loro idee, le loro azioni, e mi sono piaciuti. Certamente dunque sarei amico di un simile organismo internazionale”.



Qualche anno dopo un grande commediografo, Eugene Ionesco, pur ammettendo di non saper sostanzialmente nulla dei radicali, si iscriveva, una sorta di intuizione gli faceva credere che quella fosse la cosa giusta da fare, sostenere un partito che lotta per la libertà di tutti.



Elio Vittorini, il creatore del “Politecnico”, traduttore di una quantità di scrittori nord americani, oltre che scrittore tra i più significativi del Novecento italiano, fu radicale,consigliere comunale radicale e presidente del Partito perché, disse a Pannella, i radicali erano gli unici copernicani presenti nella scena politica italiana.



Leonardo Sciascia in un bell’articolo pubblicato sullo spagnolo “El Pais” – in Italia nessun giornale lo volle pubblicare – scriveva che Pannella era il solo uomo politico italiano che costantemente mostra di avere il senso del diritto, della legge, della giustizia, e che i radicali, con cui si onorava di stare, si trovano ad assolvere un compito ben gravoso e difficoltoso: ricordare agli immemori l’esistenza del diritto, e rivendicare tale esistenza di fronte ai giochi di potere che appunto nel vuoto del diritto, o nel suo stravolgimento, la politica italiana conduce.



Il diritto, la libertà, il trasnazionale. Sono in effetti le cifre dei radicali, ottimi motivi per iscriversi al Partito. E’ la cronaca quotidiana a ricordare come sia indispensabile, in Italia e fuori dall’Italia, un partito come quello Radicale.



Giorni fa le agenzie hanno diffuso due notizie. La prima è che la Apple ha bloccato su APP Store cinese tutti i programmi sul Dalai Lama e sulla leader degli Uighuri in esilio Rebiya Kader. Prima della Apple, ad accettare la censura in Cina sono stati altri due colossi del web, come Yahoo! e Google.



La seconda notizia viene da Mosca. Ieri è stata arrestata Liudmila Aleksieva, 82enne militante dei diritti civili, a cui è stato conferito il 16 dicembre scorso il prestigioso premio Sacharov. La Aleksieva assieme ad un’altra sessantina di oppositori aveva manifestato contro il Governo e la politica del Cremlino in fatto di diritti umani e libertà di opinione.



Terza notizia: ci viene segnalata da due nostri compagni, Elio Poliziotto e Gaetano Saturno, è nell’articolo che pubblichiamo oggi. Riguarda l’Irak: più di 430 ragazzi gay uccisi dal 2003. E’ una cronaca terrificante e al tempo stesso ignota e ignorata di quello che accade. Un Partito Radicale Transnazionale serve a contrastare queste violenze, questa barbarie che dilaga e minaccia di sommergerci, a vincere la nostra indifferenza e inerzia.



Fuori dall’Italia, e nel nostro paese. Faccio un esempio. L’altro giorno hanno cominciato a prendere corpo indiscrezioni che circolavano da qualche tempo, relative a un rapporto della Direzione Generale della Sanità Militare, il ministero della Difesa in sostanza, secondo il quale le morti provocate da quella che nell’ambiente viene chiamata “Sindrome del Golfo” potrebbero essere il doppio di quelle che si crede, e che il complesso di patologie derivanti dall’esposizione all’uranio impoverito potrebbe essere dieci volte di più dei 312 casi ufficialmente riconosciuti. Non siamo in grado di sapere quante siano le vittime tra le popolazioni civili nei vari teatri di guerra, sappiamo solo di un numero approssimativo di militari spediti in zone di conflitto senza le necessarie precauzioni nonostante gli effetti delle armi all’uranio impoverito fossero noti da tempo agli alti comandi militari atlantici. Non sappiamo con esattezza quante siano le vittime, ma che ci siano e che ci siano responsabilità precise, è fuor di discussione. Solo un mese fa il tribunale di Roma, sulla scia di una sentenza precedente del tribunale di Firenze, ha condannato il ministero della Difesa a risarcire i familiari di un militare morto per 1 milione e quattrocentomila euro. Ed è di pochi giorni fa, il 22 dicembre, una dettagliata interrogazione di Maurizio Turco e degli alti deputati radicali dove si parla di almeno 174 casi di militari deceduti e di altri 2500 affetti da patologie per possibile contaminazione da uranio impoverito. E si tratta solo dei casi resi pubblici dalle famiglie. Si tratta di reduci dalla guerra del Golfo, dalle missioni in Somalia, Bosnia, e personale impiegato in alcuni poligoni in Sardegna. C’è una proposta di legge – pensate – del novembre 2009, che chiede l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta, non se ne è ancora fatto nulla. Se di questa, come di tante altre cose, se ne sapesse di più, Governo e maggioranza sarebbero costretti a uscire dalla loro inerzia e dalla loro indifferenza.



In questi giorni credo che molti siano stati raggiunti da un mini-“Corriere della Sera”, una simulazione delle notizie che potrebbero essere date, se solo i radicali avessero più forza, più sostegno, in una parola più iscritti di quanti finora ne abbiano. Basterebbero, ci dicono il segretario Mario Staderini, il tesoriere Michele De Lucia e il presidente Bruno Mellano, cento giorni di democrazia, per avere finalmente “quelle riforme economiche, istituzionali, sociali che l’Italia non si può più permettere di rinviare. Ti chiediamo di provarci assieme a noi, di darci la forza per farlo, di sostenerci nella lotta per la libertà e la democrazia iscrivendoti per l’anno 2010”. E’ davvero una buona polizza assicurativa. Se non ora, quando? Se non così, come?

il Gengis
06-01-10, 22:15
Iraq: Liste Nere, Omicidi e Pena di Morte - Quando saremo in grado di fermare questa dottrina di violenze contro essere umani il cui unico reato è essere gay?
Quando saremo in grado di dire basta a questo GENOCIDIO?

di Elio Polizzotto e Gaetano Saturno

Più di 430 ragazzi gay uccisi dal 2003. “Liste nere” dal titolo “cagne sarete giustiziati” campeggiano per strada e invitano la popolazione di Baghdad a prendere nota di nomi, cognomi e indirizzi di persone definite “cucciole”, appellativo che nella regione sta per “gay” e che viene riportato sul corpo martirizzato di coloro la cui condotta non è conforme ai criteri di “mascolinità” del paese: la lunghezza della barba o il tipo di abbigliamento possono essere decisivi.



Questa campagna di violenze vede l’epicentro a Sadr City, l’enorme slum di Baghdad considerata come la fortezza del Mahdi e dove le forze di sicurezza sono spesso tra i responsabili degli abusi.



A febbraio e a marzo del 2009 sono stati ritrovati in un’enorme enclave sciita i corpi di 25 ragazzi sospettati di omosessualità. Negli stessi mesi le autorità irakene hanno trovato 4 corpi che riportavano la scritta “perverso” e “cucciolo” sul petto.



I corpi di altri 7 ragazzi omosessuali, ripetutamente colpiti alla testa, sono stati scaraventati davanti l’obitorio di Baghdad a Bab-al-Moazaam. Ad aprile 2009 sul sito web della tv satellitare al Arabiya si leggevano testimonianze su omosessuali morti per essere stati costretti a ingerire un potente lassativo dopo che il loro sfintere anale era stato otturato con 'l'adesivo dell'emiro', resistente colla prodotta in Iran che sigilla la fessura in modo ermetico, apribile solo tramite operazione chirurgica.



Secondo Hassan, omosessuale irakeno, sarebbero circa 63 le vittime di questa pratica atroce, documentata tramite video girati con il cellulare, e molti tra loro sarebbero stati respinti dagli ospedali ai quali si erano rivolti per aprire lo sfintere. A queste si aggiungono pubbliche esecuzioni e condanne a morte per attivisti del settore, tra cui 17 militanti di Iraqi LGBT.



In base all’International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR), ratificata dall’Iraq nel 1971, e alla Arab Charter on Human Rights, adottata nel 1994, l’Iraq ha obblighi internazionali che affermano il diritto alla vita, alla sicurezza, alla libertà di espressione, di associazionismo e che proibiscono ogni forma di tortura e di trattamento inumano.



All’inizio del 2009 erano 128 i condannati a morte, tra cui persone accusate di omosessualità, da giustiziare in gruppi da 20 persone. Lo scorso febbraio i deputati radicali del Pd hanno depositato un’interrogazione parlamentare per sollecitare le autorità irakene ad aderire alla richiesta Onu di moratoria contro la pena di morte e il governo italiano a intervenire affinché gli aiuti dell’Italia all’Irak siano vincolati al rispetto dei più elementari diritti civili e umani.

Da allora, nonostante le continue e preoccupanti notizie di omosessuali perseguitati in Irak, non sono ancora stati presi provvedimenti volti a una piena tutela delle comunità che, ad oggi, risultano essere le più deboli ed oppresse.



Alle porte del 2010 chiediamo che il Governo non aspetti ancora un altro dolente "bollettino di guerra", prima di intervenire e di prendere provvedimenti per fermare quello che ormai si profila come un vero e proprio genocidio messo in atto in Iraq contro lesbiche, gay, bisessuali e transessuali.

il Gengis
06-01-10, 22:16
Lettera aperta alla Dirigenza del PSI e ai compagni socialisti

di Mario Patrono

Cari compagni,

le elezioni per il rinnovo dei Consigli e dei governi regionali, che abbiamo ormai a distanza di tre mesi da oggi, vengono a cadere in una situazione di crisi strutturale della democrazia nel nostro Paese, una situazione che deve ritenersi anche all’origine, a me sembra, di quel grave spaesamento che attanaglia da tempo le dirigenze politiche dei maggiori partiti.

La crisi della vita democratica è sotto gli occhi di tutti. Lo spazio di democrazia nella vita interna dei partiti è pressoché inesistente. Il sacrosanto diritto dei cittadini di scegliere attraverso il voto alle elezioni politiche i loro rappresentanti è ormai azzerato. Lo stesso istituto referendario, grazie al quale è stato possibile, dalla metà degli anni ’70 alla metà degli anni’80, condurre in porto grandi battaglie di libertà, è stato di fatto svuotato nel suo valore di strumento capace di affermare brucianti istanze della società anche a dispetto di una politica illiberale e repressiva dei partiti. La penetrazione diffusiva dei partiti interessa ormai l’intero apparato amministrativo: dai vertici della dirigenza pubblica giù giù fino ai direttori di una qualsiasi Asl e alle Comunità montane. Ancora. La lunghezza dei processi è diventata intollerabile e configura il nostro Paese come uno Stato senza diritti: proclamati, si, ma non protetti da un sistema giudiziario che funzioni.

Di fronte a questa situazione, che finisce per mettere a repentaglio conquiste storiche del movimento socialista, radicale e liberale in tema di diritti civili, oltre che per intralciare una linea di progresso su temi come il testamento biologico, la libertà di ricerca scientifica, le unioni civili, occorre che la dirigenza del PSI compia un atto di lungimiranza e anche – perché no? – un atto di coraggio politico. Il coraggio dovrebbe consistere nello “smarcarsi” da un sistema di partiti autoreferenziale e senza progettualità, se non quella di spendersi nell’attivare una compressione delle energie democratiche di una società sempre più libera e consapevole dei propri diritti.

La lungimiranza, a sua volta, dovrebbe tradursi nel recupero di una tradizione di alleanza fra socialisti, radicali, liberali ed altre forze laiche ed ambientaliste che possa dare voce ai problemi reali del Paese. Uno è il mercato del lavoro, oggetto in questi anni di cambiamenti rabberciati, che hanno prodotto unicamente una giungla in cui i più deboli, i giovani soprattutto, sono oggetto di sopraffazione di cui nessuno sembra curarsi. Ridefinire la “questione lavoro” dovrebbe essere un imperativo per ristabilire quel patto sociale fra le generazioni che è alla base di ogni comunità. Anche l’emergenza ambientale ha ricevuto dai maggiori partiti una attenzione del tutto inadeguata. L’incapacità da parte di entrambe gli schieramenti di affrontare una politica che fosse capace di recuperare un più equilibrato rapporto con i nostri territori ha condotto, per esempio, alla scelta scriteriata di andare incontro alle necessità dei soli costruttori. La devastazione dei nostri territori, provocata da una cementificazione selvaggia, ha determinato risultati tali da trasformare terreni di estensione pari a regioni grandi come il Lazio o l’Abruzzo da agricoli a edificabili. Il tutto senza alcun riguardo per l’esigenza abitativa che in realtà è un altro dei drammatici problemi di questo Paese.

Affinché tutta questa serie di problemi possa avviarsi a soluzione in un’ottica di profondo cambiamento dello Stato, dei partiti, del livello di libertà individuale e di qualità democratica, faccio appello alla dirigenza del PSI, ma anche a tutti i compagni socialisti, perché valutino l’opportunità di avviare, fin da adesso e cioè fin dalla imminente scadenza elettorale, un processo di svolta sotto il segno del garantismo individuale e sociale, dell’ambiente e della legalità democratica; e di avviarlo, come si fece ai tempi della Rosa nel Pugno, insieme ai radicali, agli ambientalisti e ai laici di questo Paese, in particolare attraverso la presentazione di liste socialiste, unite “in coalizione” con la Lista Bonino-Pannella a sostegno di candidati autonomi alla Presidenza delle regioni.

NOTE

Mario Patrono fa parte del Consiglio nazionale PSI e della Direzione di Radicali italiani, già componente del CSM

il Gengis
06-01-10, 22:28
Pannella fra orti e ghetti

• da “Europa”

di Federico Orlando - Stefano Rolando

Forse il professor Stefano Rolando, docente di comunicazione politica, che ha curato l’intervista a Marco Pannella da cui è nato il libro a doppia firma “Le nostre storie sono i nostri orti (ma anche i nostri ghetti)”, ed.Bompiani, avrebbe fatto bene a non lasciare il lettore nel desiderio di capire, lungo le 200 pagine, il significato di quel titolo. Parlo per me, ultimo dei lettori. Così, azzardo un’opinione: che il leader liberaldemocratico abbia inteso dire che gli impegni della sua vita (80 anni, di cui 65 in politica) sono i suoi orti, amorevolmente coltivati, ma anche i suoi ghetti, dove un pò ci chiudiamo per narcisismo e un pò ci chiudono gli altri per individuarci con
la stella gialla, come s’addice a chi non bela. Se sbaglio, mi scuso.


In realtà, con Pannella sono 65 anni che mi scuso, in pubblico e, più spesso, in scrinio pectoris. Abbiamo la stessa età; siamo entrambi nati in Abruzzo-Molise (regione, appunto, di orti familiari e ghetti di teste dure: fu a Civitella del Tronto che venne ammainata l’ultima bandiera delle Due Sicilie, rimasta anch’essa nel nostro personale contraddittorio museo di presenze antiche recenti e future); ci siamo iscritti alla Gioventù liberale nel 1945 (conservo in una teca la tessera con la fiaccola della patria rinascente, insieme a un testo autografato di Croce, “La storia come pensiero e come azione: gli "arcani miei Lari"). Poi la lacerazione del 1955, io contestatore disciplinato nel Pli di Malagodi, lui ribelle disciplinato al suo genio nel nuovo partito radicale, fondato insieme a Pannunzio e gli altri del “Mondo”, che rimase la bibbia comune nella diaspora. Bibbia che ci richiamava tutti nelle battaglie di Marco, europeismo, divorzio, aborto legale, obbiezione di coscienza, responsabilità civile dei giudici, soppressione del finanziamento pubblico, rivoluzione del diritto di famiglia, femminismo non sessuofobico, abrogazione del concordato, moratoria della pena di morte nel mondo, religiosità intesa come «colloquio diretto con Dio» (definizione del barnabita che fu vicino all’"ateo Croce" nonostante le ire dei suoi superiori gerarchici), laicità nel senso che oggi dà alla parola il fondatore della Sant’Egidio, Andrea Riccardi, che Marco avrebbe candidato alla segreteria del Pd: «Laicità è realizzazione dell’identità dello Stato». Una laicità identitaria, anche se è proprio questo che non vuole la burocrazia clericale, causa non ultima della Peste italiana, come i radicali chiamano la corruzione della politica. Contro la quale Marco continua a preparare battaglie. Perciò, niente monumenti a Marco, perché - ci ricorda -«il farsi della politica presuppone concepimento». E i monumenti, si sa, non concepiscono.




Una domanda posta da Federico Orlando

Ma cosa sono i “ghetti” di cui parla Marco Pannella ?

Di Stefano Rolando



Nel raffinato commento che Federico Orlando dedica (Europa, 31 dicembre 2009) al libro scritto a colloquio con Pannella, vi è un garbato rimprovero per non avere spiegato meglio il senso del titolo del libro “Le nostre storie sono i nostri orti, ma anche i nostri ghetti”. Soprattutto il senso della parola ghetti che ha nella storia significati diversi, vieppiù peggiorativi, conferendo dunque qualche mistero o almeno qualche ambiguità, diciamo qualche restrizione, al valore pieno dell’altra inusuale parola (orti) che esprime luogo di libera coltivazione. Orlando, rapidamente, offre la sua lettura: “… ghetti, dove un po’ ci chiudiamo per narcisismo e un po’ ci chiudono gli altri per individuarci con la stella gialla, come s’addice a chi non bela”.



E’ una buona sintesi. E già con queste due righe facciamo un passo avanti. Ma lo spunto consente di ampliare un po’ il chiarimento.



Innanzi tutto – perché sia chiaro – l’espressione è integralmente di Marco Pannella. Dunque né mia, né dell’editore. Mia è stata l’intuizione, ascoltandola nel corso del colloquio, di proporre e sostenere quel titolo di fronte a comprensibili preoccupazioni dell’editore che avrebbe preferito – che so – “Pannella, redde rationem” o magari (ma scherzo, perché non è il caso di intellettuali robusti come sono gli editor di Bompiani) “Pannella si confessa”, così da provocare almeno un nuovo sciopero della fame al nostro. Ne avvertivo qualche ambiguità e ho pensato che tale ambiguità avrebbe fatto bene ad aleggiare nel corso della lettura dei volonterosi. Almeno attorno ai due corni che propone lo stesso Orlando: l’auto-emarginazione o la discriminazione.



Nel corso del primo dibattito che il libro solleva si coglie una diffusa attenzione alla lettura della storia repubblicana di uno che, per non pochi, è politico che “non bela”. Nei più direi si coglie anche rispetto. Obiettivo ricercato nel tentativo di ribaltare le caricature che la concezione che Pannella ha della politica come rappresentazione di teatro (dunque rappresentazione di una tragedia in forma spettacolare) hanno costruito nel tempo e tra i detrattori. La questione del “ghetto” torna qui e là. E consente non solo due ma forse anche almeno quattro letture.

Partiamo dalle definizioni comuni (che Wikipedia riassume). Ghetto identifica un'area nella quale persone considerate (o che si considerano) di un determinato retroterra etnico, unite da vincoli culturali e religiosi, vivono in gruppo, volontariamente o involontariamente, in regime di reclusione più o meno stretta. In realtà il termine nasce per indicare il quartiere in cui gli ebrei erano anticamente confinati ad abitare, e completamente rinchiusi durante la notte. Il termine ghetto deriva dal Ghetto di Venezia risalente al XIV secolo. Prima che venisse designato come parte della città riservata agli ebrei, era una fonderia di ferro (dal veneziano geto, pronunziato ghèto dai locali ebrei aschenaziti di origine germanica, inteso come getto, cioè la gettata di metallo fuso), da cui il nome. Alcuni affermano che la parola derivi da borghetto, altri dall’ebraico get, letteralmente “carta di divorzio”.



Una prima lettura è dunque quella dell’analisi della cultura politica che l’attualità va imponendo e in cui quell’altra cultura politica – con le citazioni e i ricordi che Pannella (come altri ancora) esprime – non riesce a riconoscersi, così da ritrovarsi in un ghetto provocato dalla alienità dell’idea stessa della politica per come sembra maturare per i più.



Una seconda lettura è invece quella della forzatura discriminatoria degli altri: la metafora del regime, che i radicali avanzano da tempo, materializza un nuovo “male” (Arendt) che tollera gli oppositori di convenienza ma non quelli di sistema. Dunque confina questi ultimi (oscurandone per esempio la visibilità). Così come i nazisti fecero creando condizioni molto più punitive rispetto alla storica concezione del ghetto.



Una terza lettura è quella del bisogno di proteggere la propria “differenza”, per conservare linea e posizionamento, sia pure in condizione di estrema minoranza. Da cui nasce – per esempio in Pannella, per come ne parla con libertà Massimo Bordin – la torsione tra il continuo bisogno di confronto e di dialogo e la critica che gli giunge di non essere mai coalizzabile.

Una quarta lettura è quella del vissuto psicologico del tema, che parte da condizioni che le cose fin qui dette – magari tutte assieme – vanno negli anni ponendo, fino a far maturare una percezione che quella parola (ghetto) riassume allusivamente per assumere quindi il valore di un simbolo e di un’estrema immateriale spada.



Insomma un ghetto un po’ pirandelliano, quindi anche molto sciasciano. E perciò molto pertinente all’argomento.

il Gengis
06-01-10, 22:28
Giustizia: il Capodanno con Pannella apre i cancelli della galera

di Ornella Favero

Di mattine e pomeriggi in carcere ne ho passati tanti, da più di 12 anni faccio un giornale con una redazione di detenuti e volontari, dunque la galera la conosco e la frequento. Ma una notte dentro non l’avevo ancora passata, e tanto meno "LA NOTTE" per eccellenza, quella di Capodanno. E invece l’idea è venuta a uno che la fantasia, viva e pulsante, per trovare forme nuove per parlare di un tema poco appetibile come la galera ce l’ha ancora.



Tutto è cominciato il giorno prima, mercoledì, con una telefonata di Rita Bernardini, parlamentare radicale: Pannella vuole passare il Capodanno nella Casa di Reclusione di Padova. Non ho pensato neanche per un attimo a uno scherzo, conosco Pannella quel che basta per sapere che è uno che le cose le dice e le fa, quello che non pensavo è che nel giro di poche ore arrivassero le autorizzazioni necessarie dal Ministero, e anche la disponibilità del direttore, Salvatore Pirruccio, a sacrificare la sua festa in famiglia per Pannella e soprattutto per tenere viva l’attenzione sul disastro delle carceri, sovraffollate come non lo sono state mai.



"Cenone" alle cinque del pomeriggio e a letto alle nove



Arriviamo davanti al carcere alla sera del 31, alle sette, Marco Pannella, Rita Bernardini, io, Michele Bortoluzzi di Radicali Italiani, il consigliere regionale del Partito Democratico Giovanni Gallo e un tecnico di Radio radicale. Ci accolgono il direttore e il commissario della Polizia Penitenziaria, poi cominciamo questo strano tour partendo da una piccola sezione, il Polo universitario. Con tutta la mia esperienza di carcere ancora immaginavo che almeno l’ultimo dell’anno le persone detenute, anche se davvero hanno poco da festeggiare, passassero la serata con i blindati delle celle aperte, cenando magari a un’ora "decente".



E invece no, arriviamo che stanno già per essere rinchiusi a doppia mandata, il "cenone" l’hanno fatto alle cinque del pomeriggio, come in ospedale. Il nostro arrivo scombussola tutti i piani, o meglio uno solo, quello di cacciarsi a letto e dimenticare che in ogni altra parte del mondo si fa festa. Ci sediamo a tavola, mentre a occuparsi della cucina è Gianluca, il dottore, lo chiamano tutti così per rispetto alla professione che faceva prima di diventare un detenuto. Questa sera tutti tirano fuori il cibo che doveva servire al pranzo del primo dell’anno, e con i loro fornelletti da campeggio ci improvvisano un cenone "classico", cotechino e lenticchie. E anche un dolce sontuoso, così nemmeno noi ospiti dobbiamo rinunciare ai festeggiamenti, tranne Marco Pannella, che non tocca cibo perché è ancora una volta e pervicacemente in sciopero della fame.



L’emozione di Sandro, trenta Capodanni di galera e il primo Capodanno quasi umano



Mi colpisce l’emozione di Sandro, uno dei detenuti della mia redazione: è in carcere da trent’anni, e non gli era mai capitato di stare alzato così tanto, né di vedere intorno a sé per l’ultimo dell’anno persone "normali", la "società civile" che entra in galera anche in una notte così particolare. Io non so se siamo persone normali, né se esiste più la "società civile", so che mi fa quasi star male che una cosa piccola come due ore di una sera "speciale" come Capodanno passate respirando un po’ di libertà possano emozionare e commuovere dei "delinquenti". Sì perché nessuno di loro si vuol far passare per quello che non è, i reati li hanno commessi e nessuno li minimizza, ma nel nostro Paese una volta, quando hanno scritto la Costituzione, dicevano che le pene "non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità", quindi si ricordavano bene di avere a che fare con delle persone, oggi la tendenza è a dimenticarsene. Ecco perché l’idea di Marco Pannella e Rita Bernardini di essere qui con loro questa sera è un modo straordinario per riportare al centro dell’attenzione non il "problema carcere", ma gli esseri umani che ci vivono accatastati dentro.



Il profumo del pecorino albanese



Elton e Gentjan, albanesi, mettono in tavola del pecorino, ha un odore aspro di quelli che ormai è difficile sentire, l’ha portato in questi giorni la mamma di Elton, arrivata dall’Albania con grandi difficoltà per incontrare il figlio, in carcere da molti anni. Ricordo un articolo che Elton aveva scritto per il nostro giornale, quando raccontava che da ormai più di dieci anni ogni Capodanno telefona a casa perché la sua famiglia possa così rinnovare un rito che lo riporta per un po’ a festeggiare con loro: "I miei genitori mettono sempre il vivavoce in modo che la mia presenza diventi più forte e mi raccontano i piatti preparati. Poi mi commentano in diretta ciò che fa mio padre, che ha precedentemente aggiunto il mio posto alla tavola apparecchiata e ha riempito anche il mio bicchiere di vino". Penso che adesso a Elton restano "solo" due anni da scontare, si è laureato con centodieci e lode, fra poco farà la laurea specialistica, eppure quando uscirà lo aspetta solo l’espulsione. Agli stranieri non viene data nessuna seconda possibilità, oggi tanti di loro non riescono a vedere più un futuro da nessuna parte, non qui perché ormai siamo diventati intransigenti con loro, proprio noi italiani con il nostro scarso senso della legalità, e neppure al loro Paese, perché dopo quindici, vent’anni in Italia lì sarebbero più stranieri che qui.



Inizia un "porta a porta" da galera



Marco Pannella questa sera con i detenuti parla anche di informazione e racconta le difficoltà che hanno sempre avuto i radicali per Andare in televisione a trasmissioni come Porta a Porta o Anno Zero. Ripenso alle sue parole quando verso le undici iniziamo con il direttore il giro delle sezioni: Pannella ottiene di far aprire tutti i blindati e comincia, con Rita Bernardini, un paziente "Porta a porta" di quelli veri, una notte di autentico ascolto di sofferenze piccole e grandi, solitudine, angoscia. Quasi nessuno sta festeggiando, solo in lontananza si sente un botto provocato in una sezione da qualcuno che ha deciso di festeggiare comunque e con qualunque mezzo, e ha trovato a disposizione solo la bomboletta di un fornelletto da campeggio.



Non sono ancora le undici dell’ultima notte dell’anno e quasi tutti stanno dormendo, vedo affacciarsi tra le sbarre dei cancelli facce che non riconosco subito, poi mi chiamano e mi salutano sbalorditi e capisco che, per la prima volta, incontro i detenuti che vedo ogni giorno in redazione nell’intimità della vita quotidiana. L’unico che trovo sveglio è Maurizio: seduto sul letto, con un computer davanti e le cuffie in testa, sta sbobinando materiali per i prossimi numeri del nostro giornale, e mi sento quasi fiera che ci siano persone che hanno deciso di usare il loro tempo per impegnarsi in qualcosa di utile, per informare gli altri, per "scommettere" su una possibilità di cambiamento che passa per la cultura. Sbircio dentro le celle, e mi viene in mente che il Regolamento penitenziario ora le vorrebbe chiamare "camere di pernottamento". C’è da star male: in poco più di nove metri quadri ci sono una branda singola e un "castello", mi fermo alla cella di Marino, Davor e Alberto e vedo accatastate tre vite intere, tre ergastolani che in quello spazio devono tenere insieme tutti i pezzi di esistenze rovinate. Mi offrono una camomilla, la accetto volentieri, mi prende l’ansia solo a provare a immaginare cosa significhi vivere così per anni.



Cosa vuol dire saper ascoltare la sofferenza degli altri



Stiamo in galera fino alle quattro del mattino, attraversiamo tutto il carcere, e nelle prime sezioni che visitiamo, il quinto piano e l’Alta Sicurezza, riusciamo davvero a fermarci a ogni cancello. Marco Pannella tra i detenuti è un mito, tutti gli vogliono stringere la mano, vogliono ricordare insieme qualche sua battaglia civile, qualche marcia per l’indulto o protesta per le condizioni disumane delle carceri. Rita Bernardini ascolta con pazienza e competenza ogni voce, e per lei si capisce che sono tutte storie importanti: un detenuto solleva un labbro e ci fa vedere che non ha più i denti, e lamenta che l’Azienda sanitaria non gli vuole pagare la protesi; un altro racconta che gli è morto da tre giorni un fratello e non potrà andare al suo funerale, un terzo si fa portavoce di tutta la sezione Alta Sicurezza per dire che non c’è lavoro, che hanno bisogno di lavorare, hanno pene lunghe e non possono pesare sulle famiglie.



Mi colpisce una cosa rara e preziosa di due persone come Marco Pannella e Rita Bernardini: la capacità di ascoltare e di far sentire le persone ancora vive e degne, appunto, di quell’ascolto, la combattività, la conoscenza approfondita dei problemi del carcere, l’attenzione a tutti, e in particolare anche a ogni agente che sta lì a testimoniare quanto sia duro lavorare in condizioni di degrado e rischio. Questo Capodanno resterà nel ricordo di tutti il Capodanno di carceri ormai al collasso in cui qualcuno, che le ritiene indegne di questo Paese, ha deciso di iniziare il nuovo anno rendendole con la sua presenza un po’ più trasparenti, un po’ più aperte, un po’ meno abbandonate.

NOTE

Ornella Favero è Direttore di Ristretti Orizzonti

il Gengis
06-01-10, 22:29
La forza della verità e l’apostolo della nonviolenza

di Giuseppe Candido

Avremmo voluto ricordare la figura storica di Gandhi in occasione della sessantaduesima ricorrenza della sua scomparsa il prossimo 30 gennaio ma, con il termine violenza ritornato straordinariamente di attualità politica per i fatti che hanno visto Berlusconi ferito da una statuetta e in un momento in cui tutti fanno gara di dichiarazioni ispirate alla condanna di ogni tipo di violenza, ci sembra corretto anticipare il tema e porre la figura di Gandhi al centro della discussione per chiederci se, il suo esempio, serva anche a chiarire la differenza che esiste tra la semplice condanna della violenza e l'uso, continuo perpetuato e costante, della pratica della nonviolenza come mezzo di lotta politica coerente con i fini.



La parola satyagraha significa "forza della verità" e deriva dai termini in sanscrito satya (verità), la cui radice sat significa "Essere", e Agraha (fermezza, forza). Il satyagrahi è il “rivoluzionario” non violento che fa proprio il compito di “combattere la himsa – la violenza, il male, l'ingiustizia – nella vita sociale e politica, per realizzare la Verità”. Egli dà prova di essere dalla parte della giustizia mostrando come la sua superiorità morale gli permetta di soffrire e ad affrontare la morte in nome della Verità: «La dottrina della violenza riguarda solo l'offesa arrecata da una persona ai danni di un'altra. Soffrire l'offesa nella propria persona, al contrario, fa parte dell'essenza della nonviolenza e costituisce l'alternativa alla violenza contro il prossimo.»



Il 30 gennaio di sessantadue anni fa, Mohandas Karamchand Gandhi, il Mahatma, grande anima, politico ma anche guida spirituale del popolo indiano, veniva ucciso a Nuova Delhi. Mentre si recava nel giardino per la consueta preghiera pomeridiana, un fanatico indù con legami con il gruppo estremista Mahasabha lo fredda con tre colpi di pistola.



Dopo l'omicidio, nel discorso alla nazione via radio, Jawaharlal Nehru, si rivolge all'india:“Amici e compagni, la luce è partita dalle nostre vite e c'è oscurità dappertutto, e non so bene cosa dirvi o come dirvelo. Il nostro bene amato leader Bapu, il padre della nazione, non è più. Forse mi sbaglio a dirlo, nondimeno non lo vedremo più come l'abbiamo visto durante questi anni, non correremo più da lui per un consiglio o per cercare consolazione e questo è un terribile colpo, non solo per me ma per milioni e milioni in questa nazione”.



Ricordarlo non significa fare storia o nuovi appelli a non dimenticare ma significa, piuttosto, ragionare se, oggi, serva ancora o no il suo esempio. Significa chiedersi se ha senso assurgerlo a modello di lotta per proporre, oggi e nel nostro paese, una rivolta politica, sociale e morale. Le ragioni per una rivolta ci sono, ci sono tutte e, per questo siamo convinti che il modello di lotta debba essere quello del Mahatma. Pioniere del satyagraha, la resistenza all'oppressione tramite la disobbedienza civile di massa, Gandhi ha portato l'India all'indipendenza. “Le future generazioni – diceva di lui Einstein – a stento potranno credere che un uomo di siffatta statura morale sia passato in carne e ossa sulla terra”.



In Italia è stato Aldo Capitini a proporre di scrivere la parola senza il trattino separatore, per sottolineare come la nonviolenza non sia semplice negazione della violenza bensì un valore autonomo e positivo. Il Mahatma sottolineava proprio questo elemento negativo. Oggi, il Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito di Marco Pannella è l'unico soggetto politico che non solo scrive senza il trattino la parola ma applica quotidianamente il metodo di lotta gandhiana sino ad assurgerlo a vero e proprio strumento di rivolta politica sociale e morale. Una rivolta per la giustizia che non funziona e, con le carceri stracolme, uccide Cucchie e i più deboli mentre si mostra eccessivamente tollerante per i colletti bianchi come quelli della Parmalat o della Tiessen che, col processo breve, non pagheranno più il loro debito causa prescrizione. E' per questo Rita Bernadini, deputata radicale in rivolta, poco tempo fa è scesa in sciopero della fame per la giustizia e per la grave situazione delle carceri italiane. Per questo motivo Sergio D'Elia, ex terrorista di prima linea, sostiene il governo italiano a presentare la richiesta di una moratoria universali delle esecuzioni capitali con uno sciopero della fame. Ed è per questo che i malati di SLA e Maria Antonietta Farina Coscioni scioperano per proporre l'adozione del nuovo nomenclatore tariffario che, ancora oggi, non prevede la sovvenzione di importanti sussidi per i malti. La nonvolenza non è tattica né strategia ma soltanto un mezzo di lotta coerente con il fine, perché non è vero che il fine giustifica i mezzi ma anzi, la storia ci insegna, è vero il contrario e cioè che i mezzi utilizzati sempre condizionano e prefigurano il fine.



L'ingiusto, secondo Gandhi, afferma i suoi interessi egoistici con la violenza, cioè procurando sofferenza ai suoi avversari e, nello stesso tempo, provvedendosi dei mezzi (le armi) per difendersi dalle sofferenze che i suoi avversari possono causargli. La sua debolezza morale lo costringe ad adottare mezzi violenti per affermarsi. Il giusto, invece, dimostra, con la sua sfida basata sulla nonviolenza (ahimsa) che la verità è qualcosa che sta molto al di sopra del suo interesse individuale, qualcosa di talmente grande e importante da spingerlo a mettere da parte l'istintiva paura della sofferenza e della morte. E' la ricerca della verità di cui parla Benedetto XVI, ma anche la verità che chiedono i parenti di Aldo Banzino e Stefano Cucchi morti tra le mani delle Istituzioni. Nel Vangelo si direbbe che, di fronte l'ingiustizia perpetrata, il “combattente” nonviolento “porge l'altra guancia”, affermando la richiesta di verità e, in questo modo, la bontà della sua causa. La nonviolenza non è tattica né strategia, ma è soltanto il mezzo coerente con il fine. Se si vuole migliorare la società in cui si vive, se si vuole la rivolta, questa non può che essere una rivolta gandhiana, perché altrimenti, il mezzo violento che ha caratterizzato le rivolte passate, sarà in grado di comprometterne il fine. E' per questo crediamo che, alla domanda che qualche tempo fa anche Sofri su La Repubblica si poneva, se serva o meno il suo esempio, la risposta sia candidamente si. In un tempo in cui il Natale è sempre più un fatto “consumistico” c'è da credere che, l'esempio dell'apostolo della nonviolenza che con la marcia del sale guidò un paese alla rivolta e alla disobbedienza civile serva ancora al mondo intero, e serve al nostro paese che ha bisogno sempre di più di una rivolta gandhiana, ecologista, democratica, politica, civile.

il Gengis
06-01-10, 22:29
Riflessioni da un’informazione offerta da “Radio Radicale”

di Guido Biancardi

Domenica 27 Dicembre. Fine della rituale sospensione natalizia della pubblicazione della stampa. E torna, prima della rassegna-stampa di Marco Cappato, anche la rubrica di Edoardo Fleischner. Con una notizia: fra i nuovi servizi che vengono offerti nella e per la gestione di internet è arrivata anche il Italia, dai soliti USA, quello della tutela della ”reputation” (immagine) di coloro che fanno parte di social network e che desiderano che la propria immagine venga “ripulita” dalle informazioni sgradite ed imbarazzanti su di sé o su qualche organizzazione o abbellita con opportuni “ritocchi” informativi.



Il primo pensiero è stato: addio all'”Anagrafe degli eletti e nominati”, almeno come attestazione affidabile sino alla certificazione dei dati in essa contenuti, ma soprattutto al profilo generale del candidato, che attraverso di essa si intendeva dare la possibilità di ricostruire al cittadino /elettore. Se, infatti, tale nuovo strumento di conoscenza dei candidati e degli eletti deve essere reso agibile senza dover richiedere la tradizionale trafila burocratica di consultazione di documenti ad accesso riservato o forniti su supporti cartacei per garantire ad essa la assoluta certezza circa le informazioni fornite, ma, al contrario, essere il più facilmente possibile accessibile in via elettronica, allora il mezzo farebbe premio sul contenuto e diventerebbe, in sé,“il garante”della veridicità ed affidabilità dei dati; purtroppo veicolando altresì tutta un'altra possibile serie di elementi di valutazione del soggetto cui si riferiscono che sono “adattabili” senza alcun imbarazzo e del tutto legittimamente “attraverso un servizio” che assicurava la falsificazione programmata dei dati.



Già oggi, con gli “smart phone” la notizia recepita da internet tramite cellulare è assunta come affidabile in quanto sottratta in teoria alla possibilità di alterazione da un potere fuori controllo. Wikipedia è già considerata ”l'enciclopedia libera“, addirittura, secondo Fleischner/Targia, al secondo posto mondiale nelle classifiche di affidabilità (dopo l'Enciclopedia britannica). Ma essa può essere aggiornata con dati che possono essere frutto del nuovo servizio offerto. Tanto più utili quanto meno veritieri. E fra dati discordi è la quantità delle conferme, loro “verità” democratica, a decidere. Ma è una quantità facilmente controllabile.



E' quindi possibile che nello stesso medium si trovino profili diversi, addirittura ritratti diversi di una stessa persona o organizzazione. La scelta fra questi viene lasciata ad un consultatore sprovvisto dei mezzi e dei filtri per poterne valutare la veridicità. A mezzo non tanto di dati contrastanti, ma di significato diverso (positivo o negativo) quanto a capacità di tratteggiare un profilo. “Vincerebbe“, fra loro, con tutta probabilità non tanto il profilo “più vero” quanto quello “più verosimile” e più consono con il pregiudizio d'immagine che l'utilizzatore si è già costruito, fruendo degli interessati indicatori forniti dal provvido servizio.



George Orwell, con il suo “Il fratello maggiore”, ci aveva ammoniti da tempo: il controllo totale è possibile, ma solo attraverso la possibilità di cambiare continuamente la memoria, e la storia, attraverso, puntigliosamente, l'aggiustamento postumo della cronaca (come in un inconsapevole continuo Satyagraha tecnologico/virtuale rovesciato, con al posto della verità la menzogna) si rende possibile far credere ciò che è impossibile all'evidenza, anche che il proprio ricordo sia fallace e che solo elementi informativi più oggettivi possano testimoniarlo, “restituendo la verità al ricordo”. Nel libro, il Ministero della Verità era incaricato di questo adattamento finalizzato e continuo della retro-metamorfosi della realtà. Oggi abbiamo Internet, che ce lo fornisce privatamente, come servizio “liberamente scelto”.



Quanto al contesto, il nemico può non essere individuabile in una coalizione geografica (Eurasia, Oceania, Estasia) ma “trasversale, liquido, ubiquo (quasi altrettanto virtuale del medium). La sua presenza necessaria la si nota in molti focolai anche modesti, ma è lo stillicidio dei “fatti” che ne sancisce “la durata”. Anche un piccolo incendio chimicamente provocato da un dichiarato sospetto terrorista che confessa poi di appartenere ad Al Quaeda, basta a far scendere di molti punti persino la popolarità di Obama.

il Gengis
06-01-10, 22:30
Giustizia: il coraggio di Napolitano, per le carceri "fuorilegge"

• da "Il Riformista"

di Rita Bernardini

Le parole di Giorgio Napolitano nel messaggio di fine anno sono importanti e cariche di speranza per la comunità penitenziaria, e per i cittadini democratici che credono nello stato di diritto e nel rispetto della legalità costituzionale. Già, perché a essere fuorilegge, è proprio lo Stato nel momento in cui sistematicamente e pervicacemente viola le sue stesse leggi, a partire dall’articolo 27 della Costituzione per continuare con l’ordinamento penitenziario che stabilisce regole precise in cui deve realizzarsi lo stato della privazione della libertà negli istituti penitenziari.



Proprio per questo l’Italia, da anni e in modo permanente, sconta una situazione di illegalità tale da aver generato numerosissime condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per questa situazione il nostro Paese è stato richiamato all’ordine a più riprese dal Consiglio d’Europa, che proprio di recente ha riconfermato nei contenuti e nei richiami un rapporto presentato dal Commissario Gil-Robles già nel 2005, il quale sottolineava proprio la necessità di un ripristino della legalità nel sistema giudiziario italiano.



Paradossalmente, il detenuto è vittima di uno Stato "delinquente abituale" che, al momento, non manifesta, attraverso le sue istituzioni, alcuna volontà di redimersi. Anzi, peggiora ogni giorno di più se è vero come è vero che il 2009 si chiude con il massimo storico di carcerati (66mila detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 43mila), il minimo storico di personale operante negli istituti fra agenti, educatori, psicologi, medici, infermieri, assistenti sociali e il minimo di risorse stanziate in bilancio per il trattamento rieducativo.



Noi radicali che abbiamo ricevuto dal leader storico Marco Pannella l’insegnamento concreto di visitare le carceri per testare lo stato di salute del nostro Paese, noi che nelle carceri ci rechiamo tutto l’anno, comprese le feste comandate (a Natale ero con Pannella nella Casa Circondariale di Teramo e l’ultimo dell’anno fino all’alba di ieri nella casa di reclusione di Padova), conosciamo bene il significato delle parole coraggiose pronunciate dal presidente Napolitano quando, riferendosi al sovraffollamento carcerario, ha parlato della privazione di "diritti elementari", di luoghi in cui si è esposti ad "abusi e rischi" (come dimenticare il volto e il corpo martoriato di Stefano Cucchi?), dove "di certo non ci si rieduca".



A Natale del 2005, l’allora senatore a vita non ancora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, era in marcia con noi "per l’amnistia". Allora i detenuti erano 58mila. Oggi ce ne sono ottomila in più, e siamo rimasti soli fra le forze politiche - che invece scelgono di proseguire con la loro politica il fallimentare sessantennio partitocratico - a pronunciare quella parola: "Amnistia!". Amnistia legale, contro quella reale, di classe, ipocrita e della quale nessuno si assume la responsabilità che si verifica con la prescrizione dei processi penali. Negli ultimi dieci anni, ben due milioni di processi cancellati!



L’11 e il 12 gennaio l’aula di Montecitorio discuterà la mozione sulle carceri, promossa dalla delegazione radicale e sottoscritta da 92 deputati del Pd, del Pdl, dell’Idv, dell’Udc e dell’Mpa. Ci auguriamo che quell’appuntamento, che prevede precisi impegni del Governo per il rientro nella legalità degli istituti penitenziari, non cada nel tradizionale vuoto del sistema informativo italiano. Per ora, in questo inizio di anno, mi sento di dire "grazie". Grazie, caro presidente Napolitano; ci hai dato motivo per continuare a sperare e per tentare di "essere" speranza nella nostra vita quotidiana.

il Gengis
06-01-10, 22:37
Pannella: “La questione demografica, ovvero la tragicamente “scomoda” verità"

• da “Agenda Coscioni”, il mensile dell’associazione Luca Coscioni per la libertà della ricerca

di Marco Pannella

“Un pasto che comprenda carne e latticini - secondo una recente inchiesta della quale ha dato grande risalto, addirittura in prima pagina, il quotidiano francese Le Monde - equivarrebbe, in quanto a emissioni di gas serra, a 4.758 chilometri percorsi in automobile, rispetto ai 629 chilometri di un pasto che faccia a meno di carne e latticini”, così il leader radicale Marco Pannella esordisce in un suo articolo che sarà pubblicato domani sul mensile dell’Associazione Luca Coscioni, Agenda Coscioni (che uscirà in edicola allegato al quotidiano ecologista Terra). Il leader radicale, intervenendo nell’ambito di uno speciale completamente dedicato all’evoluzione demografica del pianeta e al suo impatto ambientale e sociale, continua: “La Fao calcola che il 18 per cento delle emissioni totali di gas serra sia dovuto all’allevamento. E il consumo medio per un abitante del pianeta, oggi pari a 28 chili di carne l’anno, passerà a 37 chili nel 2030. Sono numeri –analogamente a quelli di altre realtà di “consumo” a forte impatto ambientale da parte dell’essere umano - che diventano significativi soprattutto alla luce del fatto che, come sostiene il consenso dei demografi, da qui a quarant’anni saremo più di 9 miliardi a vivere sulla Terra. Eppure, a fronte di tutto questo, tanto il primo Al Gore (quello de “Una scomoda verità” per intenderci), tanto i leader mondiali riuniti a Copenaghen, preferiscono l’ostracismo e la censura”.

“Al concepire liberamente con intelligenza e responsabilità – continua Pannella su Agenda Coscioni - si risponde con le sacralizzazioni “etiche” di materiali processi biologici, che investono in modo ossessivo gameti, zigoti, embrioni, etc., attribuendo loro – nella migliore delle ipotesi – “la dignità” di persone. In questo modo, tra l’altro, la religione cattolica annulla in modo manifesto quasi 2.000 anni di propria teologia che situava il momento della piena animazione soprattutto nel momento della natalità assoluta, tanto che solo per il nato c’era la possibilità di prendere i sacramenti. Anche in quasi un secolo di potere comunista sovietico, come d’altronde in altri regimi totalitari, il richiamo al necessario numero in nome della necessaria potenza si è imposto. E poi quel richiamo, con la stessa violenza autoritaria, si è precipitosamente convertito, nel caso del regime cinese per esempio, nella predicazione della compressione forzata delle nascite”.

il Gengis
06-01-10, 22:39
La situazione. Un detenuto si uccide, un altro appena scarcerato si toglie la vita…

di Valter Vecellio

Siamo appena al 5 gennaio, e già dobbiamo segnalare due casi entrambi molto tristi, penosi. Ci siamo appena lasciati alle spalle un 2009 che ha fatto registrare il numero più alto di suicidi in carcere della storia italiana, 72; e questa tragica classifica continua. Nel carcere di Altamura, vicino Bari è morto Pierpaolo Ciullo, 39 anni, detenuto per reati di droga. Secondo le prime informazioni sembra si sia ucciso asfissiandosi con il gas.



Lo hanno trovato ormai senza vita, ai piedi del letto nella sua cella, vicino al corpo un fornello da campeggio di quelli in dotazione ai detenuti. Ciullo, originario della Provincia di Lecce, era arrivato da poco nell’Istituto Penitenziario di Altamura, proveniente dalla Casa Circondariale di Lecce.



Nel piccolo carcere di Altamura, a fronte di 52 posti "regolamentari" i detenuti presenti sono 90. Nel complesso delle carceri pugliesi, invece, i detenuti sono oltre 4.300 (dovrebbero essere non più di 2.535 posti) e nel 2009 si sono verificati 3 suicidi: a Foggia, all’Istituto per minori di Lecce, e a San Severo; i tentativi di suicidio sono stati circa 80. Sul caso di Ciullo i parlamentari radicali hanno presentato un’interrogazione, è da credere che il ministro della Giustizia non risponderà come non risponde alle decine e decine di altre interrogazioni; ma è ugualmente importante che siano fatte, perché resti almeno una traccia in un documento parlamentare di questa ennesima tragedia.



La seconda storia viene da Cagliari. Un ragazzo di 23 anni, uscito dal carcere due giorni fa si è tolto la vita. In carcere per piccoli reati, aveva manifestato l’intenzione di uscire dall’ambiente malavitoso in cui si trovava. Era però senza lavoro, si sentiva senza prospettive e agli amici aveva confidato di sentirsi disperato. Si è impiccato.



Queste storie non fanno storia se non molto raramente. Eppure sono storie che accadono con molta più frequenza di quanto si creda e si dica, si potrebbe dire ogni giorno, più volte al giorno. Storie che dovrebbero far riflettere (ma non c’è da illudersi!) i Giovanardi e i Gasparri, e in generale tutti i sostenitori delle attuali politiche proibizioniste. Grazie a queste norme criminogene, un buon terzo degli ingressi in carcere riguardano tossicodipendenti. Nelle carceri italiane, un detenuto su quattro si dichiara tossicodipendente. Quasi 16mila persone. Se si passa agli arrestati per spaccio, il dato passa dal 25% al 60%. Una situazione vergognosa e insostenibile.



Tempo fa il sottosegretario Giovanardi, incontrando i rappresentanti del Forum Droghe, di Antigone, del Gruppo Abele e altri promotori dell'appello 'Le carceri scoppiano, liberiamo i tossicodipendenti', ha riconosciuto che l'obiettivo deve essere quello di creare rapidamente un'analisi e uno studio di fattibilità sui problemi normativi e quelli amministrativi e sulla sostenibilità finanziaria, cosi da incrementare il ricorso alle misure alternative al carcere.
Un programma che permetta di ridurre il sovraffollamento degli istituti attraverso l'affidamento in comunità o l'applicazione di programmi terapeutici territoriali.



Insomma, è il riconoscimento di un fallimento. Ma si continua a non fare nulla; e anche questo è regime, peste italiana, Satyagraha, cioè ricerca di conoscenza e di verità.

il Gengis
06-01-10, 22:39
Radicali: né caserma, né convento, né chiesa, né setta
Una riflessione, a partire da quelle di Segneri e Capano

di Gianfranco Spadaccia

Ringrazio Michele Capano per la sollecitazione a rispondere al dissenso e ai giudizi personali espressi dopo il Congresso di Radicali Italiani da Pier Paolo Segneri. Michele Capano dice che Segneri ne ha diritto “perché è un compagno”. Per me è anche un amico e una persona che stimo. Io sono sempre attento e interessato e alla singolarità di alcuni radicali eccentrici rispetto alla gestione ordinaria della “Cosa radicale”. E’ il motivo che mi ha indotto a collaborare per lunghi anni con Geppi Rippa, un radicale anomalo, sempre con una gamba dentro e una fuori, ma che ha il merito in un movimento, che si affida salvo rare eccezioni all’oralità, di aver realizzato centodue numeri di una rivista che non appartiene all’ortodossia e alla ufficialità radicale ma si chiama Quaderni Radicali. Il contributo di militante di Pier Paolo si è manifestato anche attraverso la parola e la riflessione affidata qualche anno fa a due agili libretti dedicati alla politica radicale, nel primo dei quali evocava il simbolo e in qualche modo anticipava l’esperienza della Rosa nel Pugno, e nell’ultimo anno andando a ricercare con grande continuità e costanza e anche con molta umiltà spazi di intervento e di comunicazione al di fuori di quelli stretti di partito, dovunque si possano trovare interlocutori sensibili ai nostri obiettivi di riforma, su “Europa” come sull’ “Opinione”, sull’ “Unità” come sul “Secolo d’Italia”.



Quindi raccolgo l’invito di Michele anche se sono chiamato in causa da quelle critiche e dai quei giudizi solo indirettamente come sostenitore prima ed elettore poi del nuovo segretario di Radicali Italiani. Il suo giudizio su Staderini non è solo ingeneroso e ingiusto, è del tutto sbagliato. Per molti anni Mario ha assicurato con le sue iniziative militanti e istituzionali alla galassia radicale un valore aggiunto che non può non essergli riconosciuto e, come avvocato e studioso di diritto, ha dato un contributo fondamentale, non solo pratico ma anche teorico, a uno dei settori nevralgici su cui deve esplicarsi la nostra lotta politica, essenziale per l’esistenza stessa del partito, come sanno tutti quelli che se ne sono occupati da Pannella a Beltrandi, da Rossodivita a Chiarelli. Quindi non può essere considerato “un tecnico” e tanto meno può essere liquidato come una longa manus di Marco Cappato, a cui pure lo lega un lungo sodalizio, o di un presunto clan coscioniano. Non comprendo poi la contrapposizione della spiritualità laica di Pannella al “tecnico” Staderini. La spiritualità (io preferisco parlare di religiosità) si incarna negli uomini (quella di Pannella, per primo, è una spiritualità molto corporea) e deve tradursi nelle loro azioni e nelle loro opere. Essa non è preclusa pregiudizialmente a nessuno così come a nessuno può essere imposta.



La mia sorpresa è grande perché alla vigilia del congresso le posizioni di Pier Paolo mi erano apparse assai simili a quelle di Cappato e a quelle dello stesso Staderini nel sostenere la proposta di una coalizione alternativa con verdi e socialisti, sulla quale io avevo espresso il mio scetticismo. Tanto che dopo due articoli scritti sia da Segneri sia da Staderini su questo argomento, a uno dei due che mi chiedeva un parere (mi pare Staderini) risposi che per mettere a tacere il pessimismo delle mie analisi e delle mie previsioni in proposito dovevo fare fiducia all’intuito del primo e all’istinto del secondo.



Mi sfugge che cosa sia accaduto nella giornata conclusiva del congresso dal momento che quella era la sede per confrontarsi sulle soluzioni organizzative e sulle candidature.



Con questo va tutto bene? No non va mai tutto bene. Personalmente molti compagni sanno come mi sono incazzato per quella che nella fase conclusiva del congresso ho ritenuto una assenza di responsabilità del gruppo dirigente. In un congresso libertario la fase delle decisioni deve essere attentamente preparata proprio perché in momenti convulsi le proposte e le candidature possano essere incanalate per assicurare il massimo di libertà nel massimo di trasparenza e di partecipazione. Ciò, al contrario di quanto pensa Segneri, è avvenuto per l’elezione degli incarichi.. Non è avvenuto per la mozione conclusiva che a pochi minuti della scadenza dei termini era ancora priva di qualsiasi indicazione sulle scelte elettorali. Non è avvenuto per l’elezione del comitato nazionale, dove si è data l’impressione di un arrembaggio di gruppi organizzati. E credo che non possa essere imputato solo al sistema elettorale. E’ certo però che, se si da spazio solo a gruppi e gruppetti organizzati, poi ad essere esclusi dalle scelte sono proprio i “radicali ignoti” (che poi sono i radicali che vivono in città e paesi dove mancano associazioni radicali e sono al pari degli altri i veri azionisti del movimento). Ad essi non si può dedicare un congresso nel 2008, esaltandone il contributo essenziale alla resistenza radicale e snobbarli l’anno successivo magari perché non riescono ad aggregare o ad aggregarsi.



Credo che Mario abbia l’onestà politica, la capacità intellettuale e militante, i mezzi culturali per dare una risposta soddisfacente anche a questi problemi nel vivo di una lotta politica difficilissima nell’annunciato durissimo inverno del 2010. E’ stato eletto dal 78% dei votanti del congresso (un voto a cui ha partecipato una percentuale altissima degli aventi diritto, nonostante l’ora tarda) e quindi è il segretario dell’intero movimento non di un gruppo o gruppetto.



So bene che anche questo intervento sarà considerato la predica paternalistica di un radicale “buono”, unitario per definizione e quindi un po’ coglione, insomma una mozione degli affetti. Non sono affatto buono. Almeno non lo sono necessariamente come non sono sempre unitario. Lo dimostrano alcune scelte politiche ed anche congressuali del passato ed anche il fatto che per quindici anni sono stato assente da ogni responsabilità politica di partito (e mi sono iscritto a Radicali Italiani solo nel congresso in cui Capezzone è stato sostituito da Rita Bernardini). Se il partito radicale non deve essere una caserma (e neppure un convento), a maggior ragione deve guardarsi dal diventare un chiesuola o una setta. Non mi piacciono le esclusioni anche quando possono apparire autoesclusioni, non mi piacciono integralismi e ortodossie. Non mi piace la misurazione ossessiva della “radicalità” del linguaggio o del tasso di radicalità del DNA di ogni iscritto. Per questo spero che Pier Paolo, che ha fatto male a non candidarsi al comitato nazionale, non trasformi una assenza e una dichiarazione di “opposizione” in quella che ai miei occhi sarebbe una perdita. Spero dunque che torni ad essere presente e attivo anche a Torre Argentina. E se qualche saccente considererà anche lui un po’ coglione, non si preoccupi, è in buona compagnia.

il Gengis
06-01-10, 22:46
Le alleanze per le elezioni regionali nel Lazio di marzo 2010. Una chiave di lettura dal territorio

di Demetrio Bacaro

Era l'aprile ormai dell'anno scorso, 2009, quando all'interno dell'Associazione Radicali Roma decidemmo di intraprendere il percorso della campagna di raccolta firme per 8 referendum regionali, 4 abrogativi e per la prima volta in Italia 4 propositivi.



La decisione scaturiva da una, secondo noi, attenta e ponderata lettura dello scenario politico regionale negli ultimi dieci anni almeno, che ci portava unanimemente a concludere che l'avvicendarsi dei diversi “governatori” (Storace prima e Marrazzo poi) non aveva determinato cambiamenti salienti nelle politiche sulle competenze regionali: sanità, diritti, raccolta rifiuti ed ambiente su tutti. Veramente nel Lazio si poteva (e si può) toccare con mano quella continuità partitocratica, che costituisce da decenni il fulcro della lettura e dell'agire politico radicale; potentati economici garantiti ed intoccabili, ampliamento dei diritti fossilizzato sui diktat vaticani, liberismo senza regole, fino al confine con l'illecito, in ambito edilizio ed ambientale.

In quei mesi abbiamo speso moltissimo tempo nel ricercare sensibilità comuni e contiguità iverso quella battaglia, sia nel mondo associativo, che fra le tante forze politiche, con il risultato unanime di un'indifferenza, figlia delle prebende e dei privilegi (di ogni tipo) che ciascuna forza politica ed associativa può vantare nei confronti di un sistema di regime da monopartitismo imperfetto, verso il quale non esiste una “ribellione”, ma la ricerca spasmodica del semplice allargamento dei propri benefit.



Fummo lasciati soli, davvero da tutti e la campagna di raccolta firme non raggiunse la probitiva meta delle 50mila sottoscrizioni, nonostante il generosissimo sforzo militante, economico ed organizzativo di Radicali Roma.



Accade che in questa fase politica, con le elezioni regionali alle porte, siano invece ricominciate a suonare, sempre più insistenti le sirene dei diversi partiti politici, che invitano noi Radicali in ogni sorta di tavolo, nel quale però difficilmente si parla di politiche, alternative e di cambiamento, ma quasi eslcusivamente di toto-nomine e spartizione delle poltrone in caso di vittoria: riunioni fatte più con la calcolatrice che con un programma.



La nostra analisi è però ferma ad aprile, né potrebbe essere altrimenti.

La denuncia dell'immobilismo della Giunta Marrazzo sui tanti temi a noi cari continua ad essere da noi denunciata senza tentennamenti e cercare di arruolarci in una sorta di caravan serraglio “contro” il centro destra è tentativo sterile, se non si getteranno le basi di una riflessione comune sugli errori degli ultimi 5 anni e se non si prenderanno seri impegni programmatici per una legislatura che sia davvero e finalmente di svolta. Capace di tagliare i legami privilegiati con il Vaticano e le sue numerose e paralizzanti diramazioni economiche, soprattutto in ambito sanitario e turistico; intenzionata a verificare (per correggerlo) il comatoso stato dei diritti civili, con discriminazioni fra i cittadini sia in termini di genere (coppie di fatto ed omosessuali), di salute della persona (basti vedere le nostre 2 video inchieste sulla mancata prescrizione della pillola del giorno dopo in circa la metà dei pronto soccorso romani), di ubicazione abitativa (importabilità della cannabis terapeutica possibile solo a “macchia di leopardo” nelle diverse ASL della Regione), sia di stato civile (con i separati ed i divorziati spesso abbandonati al loro destino in caso di difficoltà economica).



Un programma elettorale che sappia incidere con determinazione sugli inquietanti legami che si conoscono fra molte amministrazioni territoriali e la vera e propria mafia dello smaltimento dei rifiuti nella Regione; una dichiarazione chiara e forte sulla necessità di porre in sicurezza il territorio regionale, evitandone il saccheggio edilizio da parte dei soliti noti, che, controllando anche la maggior parte dell'informazione locale laziale, costituiscono una sinapsi pericolosissima del malaffare, con gravi ripercussioni sulla slvaguardia dell'ambiente e della salute pubblica; un impegno meditato e tecnicamente preciso sull'implementazione del trasporto e delle energie a minor impatto ambientale.



Noi Radicali ci presenteremo alle elezioni regionali del 28 marzo partendo dalla riflessione originale di aprile 2009 e su questo stiamo cercando, e continueremo a farlo, convergenze sincere e dichiarate, con ammissioni di responsabilità e programmi chiari. In assenza di ciò continueremo a disertare tutti i tavoli della partitocrazia, giacchè la denuncia è sempre la solita e parte dall'analisi elaborata nella “Peste Italiana”, che trova proprio nel Lazio un'esemplificazione mortificante.



Ci saranno convergenze e ne saremo felici per dare forza alla denuncia. Rimarremo da soli? Non siamo certo spaventati da una condizione per noi consueta, ma che questa volta, sono certo, se adeguatamente diffusa, troverà il consenso dei tanti che soffrono sulla propria pelle, nella loro quotidianità, il disagio di una Regione governata da decenni da una classe politica interessata solo al proprio automantenimento.

il Gengis
06-01-10, 22:46
L'anno nero delle galere
Nel 2009 175 detenuti (72 suicidi) sono morti nelle carceri italiane

• da "Il Secolo d'Italia" del 02/01/10

di Valentina Ascione
Nessuno tocchi Caino ha tenuto il 4° congresso nei giorni in cui ricorreva l'anniversario di quella grande vittoria che è stata l'approvazione della moratoria universale delle esecuzioni capitali all'Assemblea generale dell'Onu, nel dicembre del 2007. Il fatto non è stato ritenuto degno di nota dalla grande stampa, nonostante la scelta della sede dei lavori sia caduta su un luogo particolare, che mai prima aveva ospitato un evento simile: un carcere. La Casa di Reclusione di Padova ha dunque aperto le porte alla due giorni, che ha visto seduti fianco a fianco detenuti, parlamentari, personalità della cultura e semplici cittadini. E quella del carcere Due Palazzi è stata una scelta quasi naturale, perché lì hanno trovato terreno fertile una sensibilità e un'attenzione profonda verso le problematiche dell'universo e della popolazione carceraria. Tra quelle mura, inoltre, opera "Ristretti Orizzonti", l'associazione di detenuti e volontari che svolge una straordinaria attività di monitoraggio, informazione e riflessione sul tema della detenzione e del reinserimento sociale. Ma cosa c'entra il carcere con la pena di morte, che in Italia è stata formalmente abolita per tutti i generi di reati? Il nesso c'è e il lavoro stesso di "Ristretti Orizzonti" può aiutare a metterlo in luce con maggiore evidenza. Solo pochi giorni fa il Centro studi rendeva noto che nel 2009 nei nostri penitenziari sono morti 175 detenuti, in 72 si sono tolti la vita e quasi 800 ci hanno provato. Numeri da record che fanno di quello appena concluso l'annus horribilis delle galere italiane. Molte di queste sono morti oscure, dalle cause ancora da accertare e alcune, anche quando archiviate come naturali, sono sospette. Del resto, in una realtà allo stremo com'è in Italia quella del carcere - tanto disperata, quanto evidentemente incostituzionale, dove il tasso di suicidi è di quasi venti volte maggiore rispetto all'esterno - nessuna morte è "naturale" e tutte le morti sono in qualche modo legate al dolente contesto nel quale si consumano.
Per queste, e per molte altre ragioni che rendono insostenibile la vita dietro le sbarre, non è un'assurdità parlare di ritorno strisciante della pena di morte in Italia. Non è forse con la vita che il giovane Stefano Cucchi ha pagato il possesso di qualche grammo di marijuana? O i tanti che, ostaggi dei tempi biblici della giustizia italiana, pur proclamandosi innocenti decidono di infilare la testa in un cappio o in un sacchetto saturo di gas? Non c'è un giudice a decretare formalmente la condanna a morte, ma è lo stesso sistema carcere a emettere la sentenza, coniugando - in un amaro paradosso - il sovraffollamento che soffoca la popolazione carceraria e la solitudine che la avvolge fino a nasconderla agli occhi dei più. Così come, nei Paesi che ancora applicano la pena capitale, il boia agisce protetto dal segreto di Stato, sulle tante morti che si verificano tra i detenuti molto spesso cade quel silenzio che precede l'oblìo e che dal segreto non è poi così diverso. Il carcere, invece, dovrebbe essere una casa di vetro, come tutte le sedi in cui lo Stato esplica le proprie funzioni. E dovrebbe essere un luogo di speranza, non di aberrazione. Un momento di recupero e rieducazione, come è scritto nella Costituzione italiana. "Caino" non è condannato a restare tale per sempre. La pena, infatti, non ha il valore di un marchio a fuoco impresso sulla pelle, ma è un modo di pagare il debito contratto con la società: quanto più è costruttiva, tanto più la società potrà trarre giovamento dal saldo di questo debito. Ragion per cui bisognerebbe investire molto di più sulle misure alternative alla detenzione.
Uno dei momenti più toccanti ha visto protagoniste due vittime del terrorismo: Olga Di Serio D'Antona, moglie di Massimo, e Sabina Rossa, figlia del sindacalista Guido. Dalle due testimonianze è emersa la necessità di spezzare la catena dell'odio che spesso lega vittima e carnefice, aggiungendo sofferenza ulteriore a quella già scaturita dai delitti e dalle perdite. La Rossa, in particolare, ha compiuto un passo che difficilmente ci si attenderebbe da un parente di una vittima: ovvero la richiesta - formalizzata anche in una proposta di legge - di sostituire la nozione di "sicuro ravvedimento", cui oggi è vincolata la concessione agli autori di reato della liberazione condizionale. Un vincolo che in forma implicita chiama in causa il rapporto tra vittime e colpevoli, la richiesta e la concessione del "perdono". È da qui che bisognerebbe allora partire: dal ripristino di regole oggettive, come del rispetto della legalità e dei diritti umani. Insomma, da tutto ciò che potrebbe restituire al carcere il ruolo che la legge gli attribuisce, e concedere a chi ha saldato in maniera costruttiva il proprio debito con la giustizia il riconoscimento di una vittoria, che è sua e di tutti.

il Gengis
06-01-10, 22:47
La situazione. Una risposta a una gaglioffata di “Famiglia Cristiana”

di Valter Vecellio

La nota di oggi comincia con una riflessione su quanto si può leggere sul settimanale “Famiglia Cristiana”. La rivista dei paolini, che spesso dedica editoriali critici e molto aspri nei confronti sia della maggioranza che dell’opposizione, pubblica questa settimana un editoriale invitando a concentrarsi, nel 2010, su famiglie, poveri e carcerati.



L’editoriale è stato anticipato alle agenzie. “La crisi in Italia c’è, e si consuma "nell’indifferenza generale di una classe politica, tutta, che pensa solo a sistemare se stessa" e "se ne frega" della povera gente”, riassume l’agenzia “Italia”. L’“AdN-Kronos” rilancia: “I dati del pianeta carcerario sono drammatici: 66mila detenuti, ammassati in prigioni che potrebbero ospitarne meno di 44mila; 70 suicidi in un anno, 864 tentati suicidi”; ed è la fotografia di una situazione a dir poco terrificante. Tutto questo, prosegue l’editoriale, “nell’indifferenza generale di una classe politica, tutta, che pensa solo a sistemare se stessa e bene. Dall’immunità ai processi. Della povera gente se ne frega”. Si può pensare che sia stata l’agenzia a forzare i termini della questione; però le stesse cose le scrive un’altra agenzia, l’”AP-Com”: la situazione drammatica nelle carceri e la povertà dilagano “nell’indifferenza generale di una classe politica, tutta, che pensa solo a sistemare se stessa. E bene. Dall’immunità ai processi. Della povera gente se ne frega”.



No, non sono le agenzie che hanno travisato, forzato. E’ proprio “Famiglia Cristiana” che non sa quello che scrive; o se lo sa, consuma quella che è una vera e propria gaglioffata. I radicali credo abbiano tutti i titoli per chiedere se fanno parte della classe politica; e se si, come credo – e credo siano la parte migliore della classe politica italiana – credo siano titolati a chiedere che cosa autorizzi e giustifichi che se ne fregano della povera gente, si preoccupano solo di sistemare se stessi, si disinteressano della situazione nelle carceri e della povera gente in generale. Fino alla prova del contrario, credo si possa dire che l’autore dell’editoriale di “Famiglia Cristiana” ha scritto bugie e fesserie, scrivendo che tutti sono indifferenti e pensano solo al proprio tornaconto. E basterebbe ricordare che se l’11 e il 12 gennaio prossimi alla Camera dei Deputati si discuterà di giustizia e di carcere, lo si deve a una mozione radicale fortissimamente voluta da Rita Bernardini. Dire che tutti sono uguali significa inevitabilmente, premiare il peggiore, ed è esattamente quello che fa l’autore dell’editoriale di “Famiglia Cristiana”.



L’editoriale conclude citando il Vangelo: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare. Carcerato e siete venuti a trovarmi, straniero e mi avete accolto…”. Se è così, credenti o no che siano, Pannella, Bernardini, i parlamentari, i dirigenti e i militanti radicali sono certamente più cristiani nel senso più vero e autentico. Piaccia o no a “Famiglia Cristiana”.



E per restare in tema di carcere. A Trento, lo dice il comandante della polizia penitenziaria di quel carcere i detenuti sono 157, dovrebbero essere 99. Risultato, sono, ripeto, le parole del comandante: “stretti e invivibili. Le attività all’interno delle stanze vengono limitate dalla presenza delle brande. Manca anche lo spazio per stare in piedi o preparare la tavola. Il sovraffollamento crea disguidi, nervosismo e incomprensioni”.



A Savona, il carcere Sant’Agostino scoppia: 80 detenuti stipati in 36 posti. I rapresentanti sindacali della polizia penitenziaria parlano di “un penitenziario indegno per chi ci lavora e per chi sconta una pena (qualcuno addirittura in celle senza finestre!)…Ma sono altrettanto vergognosi i ritardi burocratici del Comune savonese, che fino ad oggi nulla ha fatto per sanare tali indecenze".



Cinque delle sette case circondariali della Liguria sono "fuori legge, ospitano cioè un numero di persone superiore al limite "tollerabile": Genova Marassi, Sanremo, Savona, Imperia e Chiavari. Oltre i limiti regolamentari anche La Spezia e Pontedecimo. E sono solo due tra gli innumerevoli esempi e casi che si potrebbero fare.

Questa la situazione, questi i fatti.

il Gengis
06-01-10, 22:48
Sui diritti servirebbe un inciucio riformatore, a partire dal divorzio breve e dalle unioni civili

di Diego Sabatinelli

Non sempre un "inciucio" è negativo, e non è obbligatorio che opposizione e maggioranza, quando si accordano su qualcosa, lo facciano per interessi spartitori e ai danni del Paese. Vero è che non fa ancora per noi un sistema che consente a chi vince le elezioni di "governare tutto" e a chi perde di fare opposizione e controllare tutto.

Troppe questioni dividono gli schieramenti politici al loro interno, troppe sono le emergenze imposte agli elettori, che peraltro spesso manifestano un disaccordo profondo con le scelte del partito e dello schieramento votato. E tutto questo si accentua soprattutto nei partiti di massa che pretendono di rappresentare la generalità della società italiana, senza riuscire a farlo e senza neppure rispettare quelle "sintesi" di cui la società stessa si mostra capace.

Certamente non può essere definito partito di massa o, in termini contemporanei, "partito-paese" quello in cui non si dibatta su ogni aspetto della società e della vita comune e in cui non siano rappresentate o rappresentabili le più varie posizioni che trovano legittimamente spazio nel dibattito civile.

Le questioni che riguardano le libertà individuali e i diritti civili sono considerate, spesso, "non negoziabili" dai partiti e dagli esponenti politici, pur essendo chiaramente "negoziate" nella discussione pubblica e nella sensibilità di larga parte dell’lettorato. I sondaggi dimostrano che, su questi temi, le decisioni della politica non rispondono all’orientamento dell’opinione pubblica e l’attitudine a non fare, a non svegliare il "cane che dorme" del dibattito civile, continua a essere prevalente e condivisa. E’ una sorta di "inciucio al negativo", un accordo per non discutere, piuttosto che una discussione finalizzata alla ricerca di un compromesso. Come è possibile sostituire a questo "inciucio al negativo" nei confronti delle riforme, che più riguardano la sfera personale e la libertà dell’individuo, qualcosa di realmente positivo?

Al tacito accordo tra i vertici degli schieramenti, per cui il niet o il rinvio serve a sfangarla fino al termine della legislatura, "tanto poi si dovrà ricominciare daccapo", si può sostituire il dibattito, il consenso trasversale per fare, una sorta di passione espressa, contro la paura neppure espressa, ma taciuta? Sarebbe bello un "inciucio riformatore", uno spazio trasversale e trasparente in cui si cerca una soluzione, piuttosto che rinviare un problema troppo delicato, perché "di coscienza".

Nelle prossime settimane si tornerà a discutere della riforma del divorzio, meglio nota come "divorzio breve", già calendarizzata alla Camera in Commissione Giustizia, e sempre nelle prossime settimane convocheremo il congresso della Lega Italiana per il Divorzio Breve. Quale migliore possibilità è offerta per "inciuciare" insieme, ma questa volta ad alta voce e per i cittadini? Il 70,5% degli elettori italiani è favorevole al divorzio breve, e tra gli elettori del PDL la percentuale scende di pochissimo: 69%.

A questo punto, se vogliamo veramente "inciuciare", come possono non ricoprire un ruolo formale di direzione politica nella L.I.D. i parlamentari di opposizione e maggioranza che più si stanno impegnando per portare a buon fine questa battaglia? Come non estendere "l’inciucio" a tutti quei temi che vedono impegnati, senza divisa, gli appartenenti all’uno e all’altro schieramento, a partire dal riconoscimento delle unioni civili? Domanda che attende rapidissima risposta, solo poche settimane.

NOTE

Diego Sabatinelli è Segretario della Lega Italiana per il Divorzio Breve

il Gengis
05-02-10, 20:55
La situazione. Oggi a Montecitorio si discute di carceri e giustizia

di Valter Vecellio

Ancora – e temo per molto tempo – carceri e questioni relative alla giustizia. Quello che sta accadendo è il termometro, la “cifra” di una illegalità e di barbarie generale e diffusa. La situazione terrificante della situazione è data da due cifre: quattro suicidi in appena dieci giorni.



I detenuti prima sono costretti a vivere ammassati in condizioni indegne; poi semplicemente ci si dimentica di loro. Dal ministero della Giustizia si accetta come un dato normale, fisiologico, il fatto che, in preda alla disperazione, si uccidano. Forse dovremmo cominciare a cambiare il nostro lessico: sono vittime dell’incuria, dell’indifferenza, della solitudine; sono persone cui lo Stato ha tolto la libertà, e dunque si fa massimamente garante della loro incolumità fisica e psichica; ecco allora che diventa improprio parlare di suicidio. Si deve e si può parlare di violenza di Stato e di omicidio.



Ci si ammazza – anzi, si viene uccisi – nelle carceri del Nord come in quelle del Sud; giovani e anziani, condannati definitivamente o in attesa di giudizio…E per ognuna di queste morti, i quattro di quest’anno, e la settantina del 2009, non è venuta una sola parola di pietà, da parte di chi ci governa, da parte del ministro della Giustizia, da parte di chi è responsabile del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.



Ci sono storie emblematiche, paradigmatiche. Il 24 settembre del 1996 – 14 anni fa! – si uccideva (anzi: veniva indotto a uccidersi) nel carcere di Bologna Georges Alain Laid, aveva 31 anni, era un tunisino. Era in cella di isolamento, mancavano solo sei giorni alla fine della sua pena; si è impiccato prima. Il tribunale di Bologna qualche giorno fa ha condannato il ministero della Giustizia a risarcire la madre di Laid con 100mila euro. Dieci anni fa Maurizio Fregulia, 35 anni, fu trovato morto nel carcere di Rovigo. Il tribunale civile ha condannato il ministero della Giustizia a risarcire la sorella con 182mila euro. Il tribunale di Milano, infine, ha condannato il ministero della Giustizia a risarcire con 150mila euro la madre e le due sorelle di un ragazzo che il 26 maggio del 2002 era stato arrestato per il furto di uno scooter, e si era ucciso nel carcere di Pavia. La vita di un detenuto tunisino vale 100mila euro, se si è italiani 82mila euro in più; ma se si è italiani e tossicodipendente, come nel caso del ragazzo di Pavia, allora vale 50mila euro in più. Stano tariffario.



Al di là di questo, il fatto che merita di essere valutato è che si sta affermando una giurisprudenza che riconosce la responsabilità delle istituzioni statali, non foss’altro per omessa custodia. Ho fatto tre esempi, ma probabilmente se ne possono fare altri; ma anche se fossero solo tre, sarebbero sufficienti. In un paese anglosassone, questi precedenti farebbero legge per tutti i casi simili successivi. Siamo in Italia, sono precedenti importanti. Per quel che riguarda il carcere, insomma, si può fare quello che ancora non si è riusciti a fare sul fronte dell’informazione, e cioè portare in tribunale e far condannare i responsabili della confisca e della manipolazione dell’informazione, chi sfregia e massacra la nostra immagine e identità.



Si riconosce infatti che la detenzione presuppone che ci si prenda cura della persona custodita, e questa responsabilità viene riconosciuta e sanzionata quando non c’è o non è sufficiente. Dunque, grazie a questa giurisprudenza in via di formazione, è possibile anche giudiziariamente chiamare il ministero della Giustizia alle sue responsabilità. Non è importante la cifra che riconosciuta, figuriamoci se la vita di una persona vale 100mila euro. Conta però l’ammissione, il riconoscimento di una colpa, di una responsabilità.



Bene. Oggi e domani – grazie alla ostinazione, alla determinazione di Rita Bernardini e degli altri deputati radicali – la questione carcere giustizia verrà discussa dal Parlamento, la mozione radicale sarà dibattuta e votata. Vedremo se il ministro della Giustizia finalmente renderà noto il famoso, annunciato più volte, piano carceri.



Se è vero che sono i dettagli che spesso spiegano e descrivono le situazioni, la confusione deve essere notevole. L’altro giorno veniva diffuso un comunicato con questo titolo: “Ionta: mercoledì riunione ad hoc per i suicidi”. Seguiva la dichiarazione dello stesso Ionta: “Già la prossima settimana, lunedì o martedì, terrò una riunione per vedere come fronteggiare il problema dei suicidi in carcere”. Lunedì, martedì, mercoledì… Quel comunicato è lo specchio di come si affrontano le questioni.



Prima di chiudere, una presa di posizione importante e interessante: secondo Fabio Federico, responsabile dell’area medica del supercarcere di Sulmona ci sono "troppi detenuti che si trovano in un carcere che rischia di scoppiare, dove manca sia il personale di vigilanza sia quello di assistenza medico e sociale e dove è sempre più difficile per i reclusi accedere al servizio sanitario nazionale". Ed Eugenio Sarno, segretario della UIL-Polizia penitenziaria rivela che “la grave situazione del carcere di Sulmona, era stata comunicata al dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria dieci mesi fa, ma senza sortire effetti".

Questa la situazione, questi i fatti.

il Gengis
05-02-10, 20:55
Quanti volti ha la giustizia!

di Guido Biancardi

La Giustizia è il frutto dell'applicazione del principio di legalità? O va oltre? Oppure, addirittura, ne è una precondizione? Un partito politico che si nomina nonviolento e mira all'affermazione della democrazia, come il (transnazionale e transpartito) Partito Radicale si trova a dover dirimere questa questione, che costituisce per molte ideologie un'aporìa, un'impossibilità intrinseca derivante da una contraddizione.



Ciò che non è mai aporia per le ideologie “pure” (spesso monoreferenziate, vedi “i diversi, Libri” ed autoreferenziate quanto al possesso dell'unica Verità per il soccorso e la necessarietà di un atto di fede, un atto non necessariamente ed esclusivamente razionale cioè, è, per un approccio laico e religioso ma non clericale, come il nostro, un ripido passaggio necessario, un nodo da sciogliere razionalmente facendo ricorso solamente al Logos/Ragione ed a tutti i suoi contributi nella storia.



E' “giusto” solo ciò che viene confermato tale a mezzo di un giudizio legittimo,quindi? I Principi dello Stato di diritto sembrano assumere questa accezione, questo “volto” della giustizia; in cui è convenzionalmente definito da una serie di procedure basate sul diritto ciò che non può essere condannato, distinguendolo da ogni atto che tale sanzione di condanna pretende per la regolazione della convivenza più pacifica di una popolazione. Così è giusta ogni differenza possibile fra i suoi componenti, se giustificata dalla testimoniata assenza di pratiche illecite per conseguirla e mantenerla. Il liberismo politico ed economico, il mercato, si basano su quest'idea di giustizia.



Per altri è invece giusto od ingiusto solo ciò che risponde a Principi di fondo di un sistema di valori e di credenze, inalterabile per mezzo di un atto d'intervento umano, perchè originantisi in una morale che trascende l'umano. Nel Divino, che può essere rappresentato da una legge universale piuttosto che da una rivelazione.



Ratzinger, oggi, lancia la sua critica sostanziale all'economia ed al liberismo, oltre che al mercato: unisce tutto in una critica al Relativismo Nichilista, cui contrappone una verità assoluta sottratta ad ogni disconferma, schermo totale, ribattuto con i dogmi, contro ogni “assalto al Cielo”, ogni nuova “Hybris”.



C'è un punto di contatto, uno snodo, un cardine comune che collega il mondo della Fede a quello della Ragione, esile, mite ma tenacissimo: la nonviolenza. Essa trae la sua stessa essenza di dottrina civile dalle tradizioni religiose, ma le trascende poi in termini di conquistata legittimità ad assumere per l'uomo la totale responsabilità del proprio destino di persona, di popolo, e di specie.



Gandhi, e soprattutto Tolstoj che, da cristiano ne ha inizialmente sollecitato le riflessioni di erede di una cultura antichissima e non cristiana, affermano non contro una verità religiosa, ma contro ogni menzogna coperta di sacralità dalle gerarchie sociali dominanti, il primato della verità ricercabile e raggiungibile mediante uno sforzo umanamente non impossibile.



Hanno chiamato nonviolenza il percorso, la via per conseguire il risultato di basare sulla verità accettata da tutti la condizione stabile della pace fra gli uomini (non come “non guerra” così come lo presumerebbe una semplice sospensione della e dalla violenza, ma come qualcosa che è intrinsecamente sottratto alla violenza come ad un possibile e necessario ricorso). Dal riscoperto comandamento Tolstojano di “non resistenza al malvagio (al Male)”, deriva anche l'Ahimsa gandhiana con tutte le sue prassi.



Comune ad entrambi è il concetto base del doveroso astenersi dall'uso della violenza contro chiunque, innocente o colpevole, si ponga in opposizione a sé, ai propri bisogni, anche ai propri diritti; “Innocente o colpevole“, mosso, quindi, giustamente od ingiustamente, da motivazioni che si esprimano in violenza rivolta verso chiunque altro.



Il grande russo, giunge a riconoscere la verità nella non resistenza al Male pur riconosciuto come tale. Gandhi, anch'egli, vieta di opporre violenza ad ogni violenza perpetrata su di noi, rivolgendo piuttosto le conseguenze dolorose dell'aggressione ingiusta verso di sé come modo di rendere palese all'aggressore l'ingiustizia del suo agire dopo aver fatto leva sulla verità indelebilmente iscritta nell'animo umano.



Tolstoj porta all'estremo il suo concetto di giustizia deprivando di credibilità ogni forma sovrastrutturale della sua “amministrazione “in nome dell'interesse della società. E' radicale quando nega che un uomo costituito dalle stesse passioni e motivazioni di un altro possa ergersi a suo giudice (il non giudicare, e non condannare, costituisce quasi una delle porte bronzee su cui si dà accesso alla verità fatta per essere la prassi dell'umanità. Con il conseguente divieto morale, fra altri, di essere, oltre che giudice, anche semplice giurato o partecipe qualsiasi del rito processuale in ogni sua variante).



E' questa la giustizia compatibile con le conquiste del processo di sviluppo civile dell'umanità, con la stessa forma della Democrazia liberale di cui il Giudiziario costituisce un Ordine o un Potere indispensabile? E' doveroso dubitarne. Al posto di questa giustizia starebbe piuttosto quel senso sepolto nella coscienza umana e pian piano affinato in diverse, sempre più attuali, sensibilità che è più corretto individuare come “coscienza”. Sembrerebbe una regressione verso la visione Creazionista e quindi verso una relazione creatore/ creatura, in cui alla seconda non spetterebbe che seguire gli indirizzi e le sollecitazioni del Primo, unico, inappellabile giudice, purtroppo attivo solo a mezzo di suoi rappresentanti.



Tolstoj, ed è questo forse il nocciolo del tormento che ha accompagnato la sua lunga e magnifica esistenza, sembra quasi restituire a monte ciò che contestava a valle, ovvero l'autorità morale dell'accertamento della verità nel giudizio da riservare alla Gerarchia.



Ma , è, forse, più profondo il livello su cui si muove la scoperta del principio- guida per la pace della non resistenza. Esso risiede nel tentativo di restituire del tutto all'individuo la libertà di giudicare e distinguere il suo bene dal suo male; che se esteso e condiviso da tutti renderebbe superfluo il ricorso stesso ad un giudice che non avrebbe nulla da dirimere fra persone autoregolate e soddisfatte (quindi, davvero beate).



Se il malvagio non incontra resistenza ma riceve in cambio della propria cattiva azione una testimonianza di bene dalla sua vittima, egli non sarà portato (se non come perversione del bene riconosciuto) a reiterare meccanicamente azioni di aggressione per lo spossessamento di altri a proprio favore (riguardi questo beni, salute, felicità...); il suo limite di malvagità sarà prima o poi raggiunto, al punto in cui all'azione non corrisponderebbe più una risposta che valga anche per lui come automatica sua giustificazione.



Al momento in cui il dolore inflitto non producesse più piacere, diverrebbe un non senso, infatti. Ma, soprattutto, il nuovo precetto, renderebbe possibile il convivere e l'intersecarsi di piani di motivazioni, bisogni e desideri, altrettanto potenzialmente “diversi”, almeno quantitativamente per ciascuno, quanto uguali qualitativamente poiché espressione dei comuni identità e destino di essere umano. La violenza si esaurisce quando perde il proprio bersaglio da colpire e non ritrova barriere da rovesciare. Come l'onda non si riavvolge rovinosamente su di sé ma si quieta con tanta maggiore dolcezza tanto è poco ripido il declivio che deve risalire E' il modo di rendere l'universale esigenza di giustizia nella non discriminazione di alcun eccesso, nell'infinita eterogeneità dei suoi volti possibili, multipli, mutevoli, cangianti. Non esiste un protocollo del valore prestabilito di ogni cosa per ciascun uomo, anche se, ed è questa la menzogna, ogni sforzo viene compiuto strumentalmente dai “soliti, poveri violenti” per convincerci del contrario.



Solo così si rendono compatibili un volto della giustizia democratica, progressiva e moderna, che pretende una libertà convenzionalmente garantita regolata da leggi, con l'altro, archetipo, ortodosso, millenarista che pretende da ciascuno la rinunzia ad ogni “vero”confronto con sé da sostituire con l'accettazione del “Vero”, in un'attesa che sarà necessariamente disperata per tutti.



La statua dell'isola di Elephanta di fronte a Mumbay conserva in una grotta la gigantesca testa della Trimurti Hindu scolpita in tre volti, coesistenti . Sembra un concetto complesso (quello trinitario, comune a molte fedi) reso con semplicità, addirittura con apparente ingenuità.

Ma non è nulla l'espressione di tale complessità, se messa a confronto con la possibile, pur se irriconoscibile dall'esterno, quasi illimitatamente estensibile, poliedrica identità umana.

A mezzo del comune tramite, non potremmo tendere a riconoscere una giustizia meglio condivisibile, Vostra Santità?

il Gengis
05-02-10, 20:56
Fu un libertario a creare in Italia quella prima Dc

• da "Il Secolo d'Italia" del 12/01/10

di Pier Paolo Segneri

A proposito di ossimori: a fondare la Democrazia Cristiana in Italia fu a suo tempo un libertario. Cento anni fa, nel 1910, Papa san Pio X scrisse una solenne lettera agli arcivescovi e ai vescovi francesi, intitolata Notre charge apostolique. Si trattò di un chiaro testo di condanna nei confronti del modernismo e di tutte quelle correnti di pensiero che avrebbero potuto mettere a rischio il cosiddetto non expedit, cioè l’ordine categorico impartito dal pontefice a tutti i cattolici affinché si mantenessero rigorosamente fuori dall’attività politica ed elettorale. Insomma, a quanto pare, il modernismo apparve a Pio X come una grave minaccia per la linea intransigente assunta dal papato, con la caduta del potere temporale, nel 1870. La lettera in questione, infatti, tra le altre cose, colpì anche il celebre Sillon: il movimento politico francese di Marc Sangnier.

Esattamente dieci anni prima, il 3 settembre 1900, a Roma, lo stesso Marc Sangnier era stato tra i cento giovani, insieme a Luigi Sturzo, che parteciparono all’assemblea fondativa della Democrazia Cristiana Italiana. L’incontro fu voluto e preparato da un riformatore e sacerdote marchigiano: don Romolo Murri. La storia organizzata dei democratici-cristiani cominciò da lì. Molto tempo prima della Dc di De Gasperi.

Nato a Gualdo, vicino Macerata, proprio nel fatidico 1870, Romolo Murri è una delle figure più carismatiche, intelligenti e coraggiose del suo tempo. Fu un libertario convinto, tanto che tutta la sua biografia testimonia concretamente questa scelta di libertà, vista non come uno scopo, ma come uno stile di vita.

La sua colpa? L’aver voluto portare il vento della libertà dentro la Chiesa di allora. E pagò di persona. Infatti, venne sospeso a divinis nel 1907 e scomunicato nel 1909. Romolo Murri ha avuto la colpa, se così si può chiamare, di aver letto il suo presente fino al punto di comprendere il futuro. E’ stato un anticipatore. E lo fu in ogni suo gesto, in ogni pensiero, in ogni scelta. Dentro ciascuna parola, azione, possibilità. Fu soprattutto un radicale, un socialista, un credente, un libertario, un innovatore. Ha fondato la Democrazia Cristiana, anche se molti non lo sanno, quasi mezzo secolo prima di Alcide De Gasperi. A lui si ispirò don Luigi Sturzo nel 1919 per costituire il Partito Popolare Italiano: “Fu Murri a spingermi definitivamente verso la democrazia cristiana. Da allora vi sono rimasto fedele”, scrisse il sacerdote di Caltagirone nel 1946, in un messaggio inviato alla sezione della Dc di Gualdo. Romolo Murri fondò anche la Lega Democratica Nazionale in piena autonomia rispetto alle imposizioni, ai veti e ai divieti della gerarchia ecclesiastica. Nella pienezza delle proprie consapevoli responsabilità, Romolo Murri divenne deputato radicale nel 1909. Insomma, come nessun altro riuscì a fare, aprì un varco verso il futuro, ma non per se stesso quanto piuttosto per gli altri che lungo quel solco si sarebbero mossi. Spesso rinnegandolo.

L’ideatore della prima Democrazia Cristiana, con la forza delle sue idee di libertà, rappresentò lo spartiacque tra il periodo teocratico dell’ottocento e la nuova società civile emergente e secolarizzata. In altri termini, la democrazia e la libertà divennero, anche grazie a Romolo Murri, i due principali ideali che avrebbero liberato i cattolici dal vecchio potere clericale e offerto un abito nuovo di religiosità e di fede.

Nel suo celebre discorso di San Marino, pronunciato nel 1902, Murri dichiarò: “E la libertà noi chiediamo anche per il Cristianesimo: e il Cristianesimo cerchiamo nella libertà”. La prospettiva democratica e politica di Romolo Murri fu la visione che anticipò il futuro. Una visione di riforma politica e di riforma della Chiesa.

Il sacerdote marchigiano, insomma, contribuì a rendere consapevoli i credenti di quel mutamento culturale e antropologico che si realizzò proprio nel primo novecento e che investì trasversalmente la coscienza di tutti quei cattolici rivolti, con animo aperto, al cambiamento e verso l’avvenire.

il Gengis
05-02-10, 20:56
La situazione. Carcere, giustizia. Due “piccole” notizie da Rebibbia-Roma e San Cataldo

di Valter Vecellio

La nota di oggi comincia con due piccole notizie, che però sono paradigmatiche di una situazione. La prima notizia la fornisce don Sandro Spriano, cappellano del carcere romano di Rebibbia. Ha presentato un documento sul sovraffollamento carcerario, il quadro che ne emerge è decisamente sconcertante: “Persino a Rebibbia, che è un carcere modello”, dice don Sandro, “mancano i soldi per tutto. Non ci sono fondi per la manutenzione, anche solo per comprare una lampadina, piove dappertutto. I direttori fanno i salti mortali per riuscire a tenere in piedi il carcere, ma fanno quello possono”. E poi la “piccola” notizia, che ha letteralmente dell’incredibile: ogni detenuto riceve un rotolo di carta igienica che gli deve bastare per dieci settimane, due mesi e mezzo”; e commenta: “Ditemi se questa è dignità”. Dice don Sandro: “Noi facciamo assistenza religiosa, ma prima ancora, in coscienza, non possiamo non fare assistenza umanitaria: portiamo calzini, mutande, canottiere. Il sovraffollamento, poi, rende tutto impossibile: il diritto alla salute, all’affettività, alla sessualità. Salta tutto. Molti colloqui non si possono fare perché il sovraffollamento non lo consente, così i detenuti rimangono senza vedere i loro cari".

Rebibbia, carcere di Roma.



L’altra notizia arriva dalla Sicilia, da San Cataldo, un paese vicino Caltanissetta. Della persona protagonista-vittima di questa vicenda diamo solo le iniziali, D.G. Ha ventisei anni è stato coinvolto in una inchiesta antidroga, ha scontato tre mesi di carcere, poi lo hanno prosciolto su richiesta dello stesso Pubblico Ministero. Qualcuno si era sbagliato, mettendolo in mezzo senza che fosse responsabile di nulla. D.G. lavorava presso una ditta, è tornato al suo posto di lavoro, niente da fare: era stato licenziato, e nonostante fosse stato prosciolto non lo hanno voluto riassumere. Così oltre a essere stato incarcerato per tre mesi per errore, ora ha anche perso il lavoro.



Ogni giorno sono arrestate almeno cinque persone innocenti. Si tratta di cifre ufficiali, fornite dal ministero della Giustizia, calibrati sulle cause di risarcimento che tali ingiustizie hanno poi originato negli ultimi cinque anni. Sono poco meno di diecimila i procedimenti di questo genere arrivati nelle corti di appello italiane, e dunque è da credere che gli innocenti finiti in galera siano molti di più, perché ce ne saranno senz’altro che non se la sentono di affrontare una causa risarcitoria.



E’ interessante dare uno sguardo ai numeri delle singole Corti d’Appello: in testa alla classifica dei provvedimenti di riparazione per ingiusta detenzione, Napoli, quasi quattrocento le cause del genere pendenti. Poi vengono Roma, Milano, Bologna, Brescia, Bari.



E’ l’ennesima conferma di come la giustizia in Italia sia da anni la vera, grande emergenza del paese. Una situazione che dovrebbe inquietare senatori e deputati, a prescindere dal loro colore politico; e in particolare il ministro della Giustizia: perché c’è il dramma patito ingiustamente da migliaia di persone e dalle loro famiglie; e c’è un consistente danno per le casse dello Stato: tra il 2003 e il 2007 sono stati pagati 206 milioni di euro per ingiusta detenzione. In media ogni giorno di arresto domiciliare viene risarcito con 118 euro; un giorno di detenzione 235 euro. Questo quando va bene. Perché può capitare quello che è accaduto a un giudice, si chiamava Bruno Flammia: accusato di concussione, viene arrestato; ne subisce un trauma anche fisico: prima un infarto, poi un tumore. Quindici anni dopo l’inizio del suo calvario viene assolto, e con formula piena. Assolti anche tutti gli altri arrestati con lui. Peccato solo che al giudice Flammia di questa assoluzione non importi più nulla: era già morto.



Il ministro della Giustizia Alfano chiederà al consiglio dei Ministri lo stato di emergenza per quel che riguarda la situazione delle carceri. Promette un piano di edilizia carceraria, accompagnato a norme di accompagnamento che attenuino quello che viene definito il “regime sanzionatorio”; e infine si promette l’assunzione di duemila nuovi agenti di polizia penitenziaria. Come si possa realizzare tutto ciò con i 500 milioni stanziati dall’ultima finanziaria non è ben chiaro. Visto che i posti regolamentari in carcere sono 43mila, per arrivare agli 80mila promessi dal ministro, se ne dovranno creare 37mila. Dal momento che un carcere con duecento posti costa circa venti milioni di euro, anche a voler utilizzare tutti gli stanziamenti nella costruzione di nuove carceri, si arriva a cinquemila nuovi posti. Gli altri 32mila? Si prospetta un intervento dei privati. Va benissimo, solo che i privati di regola non fanno beneficenza. Lo stato di emergenza può significare la secretazione delle procedure delle di appalto. E allora bisognerà fare molta attenzione.

Questa la situazione, questi i fatti.

il Gengis
05-02-10, 20:57
Carceri-Giustizia: Governo, bene le decisioni del Consiglio dei Ministri. Per i radicali sono la prima tappa del Satyagraha che prosegue

di Rita Bernardini

Le decisioni prese oggi in Consiglio dei Ministri sulle carceri costituiscono il primo successo del Satyagraha radicale su questo fronte.



Stando al comunicato stampa che leggiamo sul sito Governo Italiano: Home page (http://www.governo.it), il Governo ha deciso non di costruire nuove carceri, ma di ampliare quelle esistenti utilizzando i fondi già previsti in finanziaria; ha deciso di incrementare -seppure parzialmente- l’organico degli agenti di polizia penitenziaria e – cosa veramente importante – di invertire la rotta fin qui seguita prevedendo la possibilità di scontare l’ultimo anno di detenzione presso il proprio domicilio e, per i reati sotto i tre anni, la possibilità di sospendere il processo e impiego alternativo al carcere in lavoro di pubblica utilità. Abbiamo scritto “stando al comunicato stampa” del Governo: ora si tratta di vedere quando e come questi obiettivi saranno confermati nei fatti e nei tempi. A ciò vigileremo e dovremo mobilitare il massimo di controllo, di collaborazione, di lotta dell’intera comunità penitenziaria, se si rivelasse necessaria.



Su queste misure – a parte i “pieni poteri” conferiti al Capo del DAP Franco Ionta sui quali non siamo d’accordo - non possiamo che plaudire all’azione del Ministro della Giustizia Angelino Alfano e al Governo Berlusconi che ha votato la sua proposta.



Restano in piedi, come obiettivi da perseguire subito, i 12 punti della mozione radicale approvati ieri dall’aula di Montecitorio e, per noi radicali, quelli sui quali dobbiamo convincere ancora, con un’operazione di verità, tutta la classe politica italiana di maggioranza e d’opposizione: 1) l’amnistia “legale” contro quella ignobile e di classe che si fa quotidianamente con i processi penali che cadono in prescrizione (200.000 all’anno su una mole di 5 milioni e mezzo di processi penali pendenti) e 2) la Riforma della Giustizia, sulla quale il Parlamento si è già impegnato un anno fa approvando la nostra Risoluzione “per una riforma strutturale e organica del sistema” che preveda la riforma dei criteri concernenti l’obbligatorietà dell’azione penale, la separazione delle carriere, la responsabilità civile, gli incarichi extragiudiziari e il collocamento fuori ruolo dei magistrati, la revisione dei criteri di elezione del CSM, la modernizzazione tecnologica degli uffici giudiziari e l'adeguamento degli organici del personale anche amministrativo. 3) la radicale modifica dell'articolo 41-bis della legge n. 394 del 1975, sull'ordinamento penitenziario perché per combattere la mafia lo Stato non può usare gli stessi metodi di tortura e di disumanità della criminalità organizzata.



Insomma, la lotta nonviolenta prosegue, alla ricerca e per l’affermazione della e delle verità, diradando la coltre lugubre di ingiustizia e di sofferenza attuale provocata dallo Stato quando non rispetta legalità e moralità umana e civile.

il Gengis
05-02-10, 20:57
La situazione. Carcere-giustizia. Il monito di Filippo Turati, le denunce di don Rigodi e di Bruno

di Valter Vecellio

Dobbiamo a Paolo Pillitteri, che ne ha scritto sul quotidiano di cui è condirettore, “L’Opinione”, una citazione che dovrebbe essere scolpita su tutti gli scranni dei parlamentari. La citazione è di Filippo Turati, che rivolto al presidente del Consiglio di allora, Giovanni Giolitti, ricordava come le carceri costituiscano l’onore di un paese che voglia dirsi civile: “Le attuali carceri”, diceva Turati, “rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma forse più atroce che si abbia mai avuta. Noi crediamo di aver abolita la tortura, e invece i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura…Non è scritto nel libro del destino che le nostre carceri debbano essere dei luoghi di tortura e dei semenzai di criminalità. Qui, basterebbe fortemente volere”. Conclude Pillitteri: “Parole sante. Parole attuali. Correva l’anno 1904”.



Forse, rispetto allora, è perfino peggio. Ieri la piccola, incredibile notizia data dal cappellano del carcere romano di Rebibbia don Sandro Spriano, ogni detenuto riceve un rotolo di carta igienica che gli deve bastare per dieci settimane, due mesi e mezzo. Oggi il racconto di un altro sacerdote da sempre impegnato nelle carceri, don Gino Rigoldi: racconta di aver incontrato, nel carcere milanese di San Vittore un detenuto di trentacinque anni che sta scontando una pena di due anni e alcuni mesi perché in maniera recidiva – due o tre volte, insomma – aveva rubato, facendo la spesa – uova, mozzarelle e una busta di prosciutto in un supermercato. Racconta ancora che è stato detenuto al minorile Beccaria per più di tre mesi un ragazzo rom, colpevole di aver rubato un paio di scarpe; altri due fratelli, italiani, erano in carcere da sei mesi perché quattro anni prima, quando avevano cercato di rubare una bicicletta. “Va da sé”, dice don Rigoldi, “che dopo i sei mesi, quei due ragazzi avevano perso il lavoro, vissuto la loro povertà in maniera molto depressiva e alla fine avevano imparato mille modi per far soldi. Questi due non solo episodi isolati: potrei citare centinaia di casi simili”.



Puntare sulle misure alternative, suggeriscono un po’ tutti gli operatori e chi si trova a operare nel vivo della realtà carceraria. Per esempio il garante dei detenuti di Bologna Desi Bruno: “Piuttosto che costruire nuove carceri sarebbe meglio investire le risorse sull’aspetto sanitario, ad esempio per i tossicodipendenti che oggi rappresentano il 30 per cento dei detenuti e non dovrebbero stare in carcere”. E non senza ragione si giudica “aberrante” l’idea del ministro della Giustizia Alfano, di applicare all’emergenza carcere il cosiddetto “modello L’Aquila”: cioè spostare i detenuti in eccesso in strutture temporanee: “Significa considerare i detenuti solo come persone da rinchiudere in una scatola, dimenticando del tutto le attività di recupero”.

In Libia, la Libia del caro amico Gheddafi, un sistema per svuotare le carceri l’hanno trovato: il Consiglio Supremo di Giustizia, l’organo che esercita il potere giudiziario in Libia, sta esaminando la proposta di concedere l’amnistia a tutti quei detenuti che avranno accettato di imparare a memoria i versetti del Corano. Lo hanno chiamato “programma di riabilitazione attraverso lo studio del testo sacro”.



Scherzi a parte. Il 25 per cento della popolazione carceraria è costituito da tossicodipendenti, queste persone devono essere affidate alle comunità terapeutiche, non al carcere; non solo è giusto, è anche conveniente: ogni detenuto costa circa duecento euro al giorno; in una comunità la spesa costa due terzi di meno. Il 50 per cento dei detenuti è in attesa di processo, di questo 50 per cento il 30 per cento viene poi dichiarato innocente. A parte la vicenda umana, è un colossale spreco di risorse, di posti e di denaro, perché per l’ingiusta detenzione paga lo Stato, cioè tutti noi.



C’è a quanto pare una parola innominabile, che viene nominata solo dai radicali: la parola è amnistia. Sono degli ipocriti: ogni anno duecentomila reati cadono in prescrizione. Ma è un’amnistia di classe, che si può permettere solo chi può pagarsi un bravo avvocato capace, con la sua scienza e le sue amicizie, di guadagnar tempo. In cella ci finiscono, alla fine, solo i poveri diavoli.



Ha ragione Rita Bernardini quando dice che anche su questo e per questo, il Satyagraha continua. Questa la situazione, questi i fatti.

il Gengis
05-02-10, 20:58
La situazione. “Emergenze”, giustizia, inchiesta virus H1N1…

di Valter Vecellio

Marco Pannella, durante il dibattito sul potere della nonviolenza al teatro Eliseo di Roma sabato scorso, ha sinteticamente esposto gli obiettivi del Grande Satyagraha per la verità, la giustizia e la libertà: che si affermi la verità sulle ragioni che hanno portato alla guerra in Irak, e perché George W. Bush, Tony Blair, Silvio Berlusconi e il dittatore libico Muhammar Gheddafi hanno boicottato l’iniziativa “Esilio per Saddam”; iniziativa che avrebbe consentito di liberare quel paese con la nonviolenza. Poi la verità sullo stato delle trattative sulla questione Tibet, tra il governo cinese e i tibetani; e la giustizia: vera grande emergenza del paese. Giustizia, con la sua enorme mole di processi che non si celebrano, tribunali intasati, magistrati e giudici che volenti o nolenti non riescono a garantire al cittadino la giustizia di cui ha diritto; non solo, insomma, la situazione esplosiva e disperante delle carceri. Carceri che, come sappiamo, sono al collasso.



Di cosa debba occuparsi la giustizia, che tipo di persone vengono stipate nelle celle, emerge da una storia che ci segnala un nostro compagno, Pietro Migliorati, grazie al quale questa newsletter viene quotidianamente recapitata. Racconta dell’arresto a Borgo Quinzio, un paese della Sabina, di una donna di quarant’anni, incensurata, di professione sceneggiatrice teatrale. Hanno scoperto che coltivava nel giardino di casa delle piantine di marijuana; le coltivava per uso personale, al massimo avrà allungato uno spinello a qualche amico, e che sia così lo si ricava dal verbale dei carabinieri: si parla di coltivazione di sostanze stupefacenti, non di spaccio: “La donna”, si legge, “è stata immediatamente tratta in arresto e trasferita nel carcere romano di Rebibbia in attesa di comparire davanti al giudice per rispondere dell’accusa di coltivazione e sostanze stupefacenti”.



Ora qui non c’entra nulla essere o no antiproibizionisti. Qui è una donna, ripeto, incensurata, sbattuta in carcere colpevole di un reato senza vittime; anzi, a dirla tutta, coltivare piantine per uso personale vuol dire che ci si sottrae agli ambienti tradizionali dello spaccio. Ma evidentemente per la legge Fini-Giovanardi, la “roba” è meglio procurarsela alimentando i mercati mafiosi, piuttosto che prodursela autonomamente in casa. Fatto è che questa donna, evidentemente ritenuta pericolosissima dal punto di vista sociale, o nel timore che fugga chissà dove, è stata arrestata.



Segnalazione interessante; e mossi da curiosità abbiamo passato in rassegna le agenzie delle ultime ore; ed ecco altre brillanti operazioni. A Napoli è stata arrestata una famiglia, sei persone, avevano organizzato nella loro abitazione “una vera e propria piazza di spaccio”. Sequestrati ben cinquanta grammi di hashish, venti di marijuana e 1200 euro.



Un altro decisivo colpo alle mafie che controllano il traffico delle sostanze stupefacenti, alla periferia di Roma: arrestata una persona, accusata di detenzione e spaccio. In casa gli hanno trovato cinquanta grammi di hashish, dodici grammi di marijuana, un coltello da cucina con evidenti tracce di hashish sulla lama, nonché materiale da confezionamento.



In poche ore otto persone arrestate, un centinaio di grammi di hashish, meno di cinquanta grammi di marijuana, e qualche piantina. Quanto costano operazioni di questo tipo, quanti poliziotti, carabinieri, magistrati, tengono impegnati distogliendoli da operazioni assai più serie, necessarie e urgenti? Credo sia cosa non inutile, domandarselo. Ha ragione, insomma, Migliorati: “Vorremmo far riflettere i responsabili dell’ordine pubblico ed i cittadini su quante risorse pubbliche si spendono in questo inutile, ingiusto, assurdo, onanistico proibizionismo: soffiate, informatori, indagini rapporti, e poi, finalmente, “giorni di controllo”. Tutto come nei film. E poi, il blitz, il trasferimento in carcere, la schedatura, a seguire l’istruttoria, il processo… ma davvero il nostro sistema di ordine pubblico, e quello carcerario e quello giudiziario, non hanno niente di più importante da fare, tra criminalità comune, micro-criminalità, criminalità organizzata, criminalità finanziaria, emergenze ambientali, morti per traffico? Sono proprio sicuri coloro che professano per convinzione, per convenienza o per mestiere il proibizionismo, che sia questa la lotta alla droga? Quanti cittadini si sentono adesso più tranquilli, dopo questo specifico e professionale sforzo profuso dalle forze di polizia?”.


Prima di chiudere: “Il fatto quotidiano” di ieri ha pubblicato una bella, puntuale inchiesta su quello che non è azzardato definire il grande imbroglio del vaccino H1N1, i costi, le lobby farmaceutiche che ne hanno beneficiato, i 23 milioni di dosi inutilizzate…Inchiesta, ripeto, molto ben fatta, puntuale, precisa. Da manuale. Su questa vicenda Maria Antonietta Farina Coscioni competente della Commissione Affari Sociali della Camera, e gli altri parlamentari radicali hanno presentato un’interrogazione al ministro della Sanità il 16 dicembre; altre due interrogazioni l’11 gennaio; una quarta il 12 gennaio. In quelle interrogazioni c’è tutto quello che poi si legge su “Il Fatto quotidiano”, e anche qualcosa di più. Gli ascoltatori indovinino qual è l’unica cosa che in quella bella inchiesta non viene citata, non viene raccontata. Ci si tornerà.

il Gengis
05-02-10, 20:58
La candidatura centrale di Emma Bonino

di Pier Paolo Segneri

“Chi cerca di realizzare il paradiso in terra, sta in effetti preparando per gli altri un molto rispettabile inferno”, asseriva Paul Claudel con laica lucidità. Questa frase è, forse, una delle sintesi più suggestive e raffinate con cui si è soliti spiegare, in modo semplice, la complessità del pensiero e del metodo liberale. Vi aderisco, perciò, convintamente. Tanto più che ben si adatta alla consapevolezza dei limiti umani di ciascuno di noi. Ma andiamo per ordine: l’aforisma di Claudel ci fa comprende, innanzitutto, che la pretesa umana di realizzare astratti paradisi terrestri porta sempre a conflitti e rigidità tali da provocare disastri. Le imperfezioni e i difetti, invece, appartengono al mondo liberale. Nel senso che trovano cittadinanza proprio in una visione liberale della società e sono riconosciuti come possibili, a volte addirittura probabili, dalla pratica e dalla politica liberale. Perché il pensiero liberale è una filosofia, non un’ideologia né, tanto meno, un dogma.



A tal proposito, Pier Luigi Bersani ha giustamente dichiarato nei giorni scorsi che Emma Bonino “è una fuoriclasse” e che, perciò, bisogna guardarla fuori da quegli stereotipi con cui viene sistematicamente attaccata dagli avversari politici: anticlericale, laicista, abortista, femminista. Stavolta, però, Giuliano Ferrara deve aver preso alla lettera la dichiarazione del segretario del Pd e, rispondendo a una missiva del senatore Lucio d’Ubaldo, il direttore ha risposto, sul Foglio di giovedì 14 gennaio, che Emma è sì “abortista”, ma lo stereotipo non basta: è anche “una prepotente, vittimista, innamorata di sé”. Insomma, Ferrara ha voluto farne un ritratto che evitasse, almeno un po’, i vecchi stereotipi di cui sopra. Anzi, è andato oltre: ha evitato sia gli stereotipi elogiativi espressi dagli estimatori della Bonino sia quelli propinati dai soliti detrattori. E l’ha resa simpatica. Tanto che anche lunedì 18, sempre dalle pagine de il Foglio, il direttore è ritornato sull’argomento. Un successo!



Il pensiero liberale si fonda - da sempre - sulla capacità di ciascuno di migliorare, sulla possibilità di correggere gli errori superando i vecchi limiti o imparando a rispettarli. E’ proprio questo ciò che mi ha sempre colpito di Emma Bonino, come donna e come politico: la forza di comprendere i propri limiti e di saperli superare. Anzi, di più: Emma non conosce limiti, ma li rispetta. E’ una donna di governo. Sembra nata apposta per fare questo. E’ pragmatica, concreta, risolutiva. E non le mancano certo i difetti. La perfezione appartiene agli assolutismi. Ma Emma ha anche il pregio o il difetto di parlare con franchezza e non si nasconde mai dietro all’ipocrisia. Qualità rarissima tra i politici nazionali. E’ così.



Insomma, da Emma Bonino ho imparato che dentro una concezione liberale del mondo - sempre nel rispetto della persona e dello Stato di diritto - possono trovare cittadinanza i difetti, le imperfezioni e gli errori. Invece, in una visione ideologica, totalitaria, integralista, fanatica, dogmatica o assolutista, questo non è possibile: la condanna cala non sull’errore, ma sulla persona. E il peccato diventa reato. La differenza sta nel fatto che, in un sistema liberale, i difetti e gli errori si correggono o almeno si tende e si tenta di correggerli mentre, in un sistema assoluto o autoritario o illiberale, i giudizi affibbiati restano addosso alle persone come un pregiudizio. E sono definitivi. Mi vengono in mente, allora, le sue mille battaglie contro ogni tipo di violenza sulle donne, la lotta senza quartiere nei confronti di tutte le pratiche illiberali dettate dai fondamentalismi religiosi o politici, l’ostinazione di Emma nel tentativo concreto di debellare l’orrenda pratica delle mutilazioni genitali femminili, l’impegno con e per le donne africane, l’attenzione per le questioni legate al clima e all’ambiente, il suo lavoro per le imprese italiane oltre i confini nazionali per rafforzare il commercio con l’estero. E poi, la mano tesa ai detenuti, agli ultimi, ai diseredati, ai malati. Laicamente.



E’ come se, in ogni nuova battaglia politica, Emma dicesse: non c’è libertà senza legalità. I diritti umani e civili, come pure i doveri di ciascuno, vanno conosciuti e conquistati. Quindi, rispettati. Poi, ci sono anche i limiti umani, che però si superano. E’ come se Emma esclamasse: “Guardate me! Sono nata a Bra, sono una persona comune e non mi sono arresa. Ho visto i limiti dentro cui il Potere ci voleva confinare e ho i visto anche i limiti del Potere. Ho sempre creduto che i limiti si potessero cambiare: millimetro per millimetro, giorno per giorno. Ma senza Marco Pannella e i compagni Radicali sarei finita a fare l’insegnante di inglese a Cuneo e, invece, testarda come sono… Ora mi candido pure alla presidenza della regione Lazio!”.



Emma Bonino è una delle figure centrali dell’attuale panorama politico italiano ed europeo, riesce a conquistare l’interesse e il plauso oltre i confini di appartenenza perché è liberale. Si pone al centro della scena, ma non è centrista. E’ centrale.

il Gengis
05-02-10, 20:59
La Situazione. Il collasso delle carceri, detenzioni illegali, la strage dell’amianto

di Valter Vecellio

Anche oggi problemi della giustizia, delle carceri, e della salute. Sono stati diffusi dei dati che confermano la puntualità e l’esattezza delle analisi e delle denunce radicali. E i dati sono questi: oltre il 50 per cento di persone incarcerate per motivi legati alla droga, l’attuale infame legge sulla droga; almeno un detenuto su 4 è tossicodipendente; in carcere dunque non ci dovrebbe stare; la presenza di Hiv/Aids oscilla intorno al 5 per cento, il 60 per cento dei detenuti è malato di una forma di epatite, il tutto aggravato dal sovraffollamento. Questa è la fotografia dello stato della salute nelle carceri italiane. Una situazione che evidentemente oltre a una migliore e più diffusa applicazione di misure alternative alla pena detentiva, il ripensamento degli interventi di riduzione del danno.



E sempre per quanto riguarda le carceri. In attesa di vedere le nuove carceri promesse dal Governo, modello L’Aquila, o galleggianti o che, vediamo quelle esistenti. La Sicilia, secondo il garante dei detenuti di quella regione Salvo Fleres, ha il primato della fatiscenza delle strutture e delle condizioni detentive. "Le carceri siciliane stanno scoppiando, i detenuti vengono continuamente tradotti da una struttura all’altra spesso disattendendo l’articolo 42 dell’Ordinamento penitenziario che prevede la territorialità della pena ed è impossibile gestire nuovi accessi, come è accaduto nei giorni scorsi a Catania nel corso della retata che ha portato all’arresto di 79 persone".



Mentre il sovraffollamento carcerario ha raggiunto livelli di emergenza, ci sono 40 istituti penitenziari già costruiti, spesso ultimati, a volte anche arredati e vigilati, che però sono inutilizzati e versano in uno stato d’abbandono totale. I casi più clamorosi sono quello di Gela: esiste un penitenziario enorme, nuovissimo e mai aperto; a Morcone, vicino Benevento: un istituto costruito, abbandonato, ristrutturato, arredato e poi nuovamente lasciato a se stesso dopo un periodo di costante vigilanza. Ad Arghillà, vicino Reggio Calabria: è inutilizzato un carcere dotato persino di accorgimenti tecnici d’avanguardia, e che sarebbe pronto se venisse completato con la strada di accesso, le fogne e l’allacciamento idrico. Vicino Mantova c’è una struttura abbandonata da ben 22 anni. Potrebbe ospitare 90 detenuti, è costato fior di miliardi, i lavori sono ormai fermi da una decina d’anni.



L’agenzia “AdN-Kronos” riferisce di una campagna che merita di essere sostenuta. L’Associazione Antigone e “Il Manifesto” chiedono al ministro della Giustizia, che sia riconosciuto ai giornalisti il diritto di entrare nelle carceri", così da avere la possibilità di informare su quanto accade negli istituti di pena italiani. Tra le prime adesioni Rita Levi Montalcini, Stefano Rodotà, Valerio Onida, Gian Antonio Stella, Bianca Berlinguer, Lucia Annunziata, Maria Rosaria Capacchione.



Salute. Ne abbiamo già parlato, il problema dell’amianto – per inciso, negli ultimi mesi sono state presentate almeno una trentina di interrogazioni radicali – gli esperti dicono che provoca la morte di circa 4mila persone ogni anno e che sono oltre 27mila i siti da bonificare. I più colpiti da questo cancerogeno, sono i lavoratori: dal 1992 al 2006 almeno 600mila lavoratori hanno fatto richiesta di indennizzo, e 145mila lo hanno effettivamente ottenuto. I 4mila decessi sono solo la punta di un iceberg. Si prevede che il picco massimo di morti si avrà tra il 2015 e il 2018.

Questa la situazione, questi i fatti.

il Gengis
05-02-10, 20:59
La situazione. Ancora un suicidio in carcere, il settimo. Il digiuno di Marco Pannella. Il Satyagraha entra nel vivo

di Valter Vecellio

E siamo arrivati a sette detenuti che si sono tolti la vita in ventun giorni. Questa volta a impiccarsi, nel reparto infermeria del carcere di Spoleto è un ragazzo di 29 anni. Era stato arrestato lo scorso 16 gennaio per reati di resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. Per quanto si può essere condannati, per reati del genere? E tuttavia per questo ragazzo la detenzione, anche se breve, è apparsa insopportabile, più insopportabile della stessa morte. Giusto due giorni fa presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si è tenuta una riunione, presieduta dal capo del Dap, Franco Ionta, con all’ordine del giorno il rischio suicidi nelle carceri italiane. Si è deciso di impartire a breve delle direttive affinché si possa offrire maggiore assistenza psicologica ai detenuti che ricevono in carcere notizie negative quali, ad esempio, malattie di familiari, separazioni matrimoniali, oppure condanne definitive. Già, ma per attuare queste direttive, occorrerebbe personale competente e adeguato; mentre invece i già scarsi organici vengono ulteriormente ridotti.



I termini della questione sono di una evidenza che solo chi decide di chiudere gli occhi non vede. Le nostre carceri ospitano oltre 66mila persone a fronte di una capienza massima di 43mila. Il numero dei suicidi e dei tentati suicidi aumenta proporzionalmente alla crescita del sovraffollamento. Le strutture penitenziarie sono degradate e fatiscenti. Non per un caso la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per le condizioni di detenzione inumane e degradanti.



L’articolo 580 del codice penale dice che va ritenuto responsabile di istigazione al suicidio chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio; ovvero chi ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione. Se il suicidio avviene, chi viene ritenuto responsabile di questa istigazione va condannato con una pena dai cinque ai dodici anni. Lo Stato italiano, il ministero della Giustizia, dovrebbero essere condannati a vita…



Dai nostri cugini d’oltralpe, da quel presidente francese Nicholas Sarkozy che non è certo né radicale né di sinistra, arriva un’indicazione che non sarebbe male venisse raccolta anche da noi. Parigi infatti ha scelto un ex detenuto per guidare una missione che renda più umane le sue prigioni. Si tratta di Pierre Botton, ex uomo d’affari che, negli anni Novanta, fu uno dei detenuti più mediatici di Francia, finito in prigione per ricettazione.



Botton è stato condannato due volte per aver finanziato illegalmente la campagna elettorale del suocero, l’ex sindaco di Lione, Michel Noir, e ha trascorso 20 mesi dietro le sbarre, in ben sette prigioni diverse. Nel 1992, mentre era detenuto alla prigione di Nanterre, nei pressi di Parigi, aveva tentato di togliersi la vita.



Botton comincia proprio dal carcere di Nanterre, come responsabile di uno studio contro lo shock vissuto dai detenuti nei primi giorni di carcere. Secondo l’INED, un istituto di studi francese, un quarto dei suicidi in prigione avviene nei primi due mesi di detenzione. Anche in Francia il fenomeno dei suicidi in carcere è drammatico, addirittura più che in Italia: nel 2009 si sono uccisi 115 detenuti, 109 nel 2008. Una situazione, dice Botton, provocata da sovraffollamento, mancanza di personale (di sorveglianza, ma anche medici e lavoratori sociali),e l’eccesso di misure "controproducenti": per esempio, ormai ai carcerati francesi viene consegnato un "kit di protezione" che dovrebbe rendere più difficile il passare all’atto suicida, come materassi anti-fuoco, lenzuola che non si strappano, pigiama di carta. Ma non si fa nulla, dice sempre Botton, per ridare "la voglia di vivere" a chi si trova messo a confronto con la violenza dell’incarcerazione. Un quarto dei suicidi è concentrato nei primi due mesi di imprigionamento.



Forse dovremmo trovare un Botton anche in Italia.



Da ieri sera Marco Pannella ha iniziato uno sciopero della fame, tre in sostanza gli obiettivi: far emergere la verità sulla scelta assunta da George W. Bush, Tony Blair, Silvio Berlusconi, con la complicità del dittatore libico Gheddafi, di scatenare la guerra in Irak, impedendo che quel paese venisse liberato con la nonviolenza, e facendo fallire le iniziative per costringere Saddam ad accettare l’esilio; l’accertamento, da parte della Comunità internazionale della verità sulle trattative da Cina e tibetani; la disastrosa situazione non solo delle carceri, ma dell’intero pianeta giustizia.



Il Grande Satyagraha Mondiale per la giustizia, la verità, la democrazia, entra insomma nel vivo. C’è innanzitutto da conquistare il fondamentale diritto di conoscere e di essere conosciuti. Non sarà una lotta facile, non sarà una lotta breve.

Questa la situazione, questi i fatti.

il Gengis
05-02-10, 21:00
Attualità del Risorgimento

di Pier Paolo Segneri

Siamo già in un altro ciclo politico. Si è ormai aperto un nuovo quindicennio e bisogna prenderne atto. Comincia, con il 2010, un altro quindicennio: stavolta di riforme. Anzi, come direbbero Giuliano Amato, Claudio Signorile, Rino Formica, Claudio Martelli e il vecchio gruppo dirigente socialista, della “Grande Riforma”. Quella che si sarebbe dovuta fare nel 1992 e che, invece, non si compì. Motivo per cui l’intero sistema dei partiti storici si sgretolò permettendo alla partitocrazia, all’epoca sull’orlo della sconfitta, di sopravvivere e di continuare a dominare. Insomma, oggi, abbiamo bisogno di un “Progetto riformatore”, che sappia guardare al presente e, al medesimo tempo, ai prossimi quindici anni. Ma non è un auspicio, si tratta piuttosto di una prefigurazione, un presentimento, una possibilità concreta.



Non a caso, dopo dieci anni dalla prematura scomparsa di Bettino Craxi, si ritorna a parlare del leader socialista, si riprende a discutere con maggiore serenità del suo ruolo politico e della sua visione innovatrice. Il giro di boa è avvenuto. Siamo nel futuro. Il ciclo politico precedente, infatti, si è concluso. Si è aperto un altro capitolo della nostra transizione repubblicana. E’ necessario scriverlo, ammetterlo, riconoscere che il naturale bioritmo dell’infinita transizione italiana, ha ripreso a girare. Comincia una nuova fase che durerà altri quindici anni, una fase in cui il Risorgimento sembra davvero ritornare d’attualità per potersi finalmente compiere. Anche se le forze secessioniste e xenofobe avanzano.



La prima luce del nuovo ciclo sembra rischiarare e chiarire le idee. La stagione iniziata nel 1994 è terminata con le elezioni europee del 2009 e ha posto il suo sigillo conclusivo con il risultato del voto referendario del giugno scorso, cioè con il referendum per la modifica del “porcellum”. E quando dico “porcellum”, premetto, non lo intendo in senso dispregiativo, anche se la tentazione è davvero forte, ma uso semplicemente l’appellativo con cui si è soliti definire l’attuale legge elettorale. Ribadisco: la legge “porcata” è quella tuttora in vigore. Ci vorrebbe l’uninominale.



Il voto referendario del giugno 2009, è bene ricordarlo, è stato reso vano dal mancato raggiungimento del quorum necessario per convalidare l’esito della consultazione. Un risultato, quindi, non privo di conseguenze politiche e sull’attuale sistema. Un esito disastroso, che segna profondamente la fine di una stagione e che chiude, con gli ultimi strascichi dei sei mesi appena trascorsi, l’intero ciclo iniziato nel 1994.



Intanto, lunedì 18 gennaio, ci sono stati due interventi che, a mio parere, segnano l’avvio di un nuovo ciclo politico. Mi riferisco alla lettera indirizzata ad Anna Craxi da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e all’articolo di Sergio Romano pubblicato dal Corriere della Sera e intitolato “Il ritratto di un leader”.



La lettera in memoria di Bettino Craxi, scritta dal Capo dello Stato, dimostra come i tempi siano cambiati e come, gradualmente, sia stato possibile affrontare certi temi - assai spinosi e controversi - con toni, parole e argomenti fino a ieri impensabili e, soprattutto, impronunciabili da parte delle più alte cariche dello Stato. Perché si trattava di temi considerati sconvenienti, prematuri, impopolari o addirittura vietati.



L’altro importante intervento, che non va sottovalutato e che anzi andrebbe riletto con maggiore attenzione, è l’articolo di fondo del Corriere della Sera, firmato da Sergio Romano. E’ un editoriale che preannuncia il futuro.



L’ambasciatore Romano afferma nel suo pezzo: “Non possiamo ridurre la vita di Craxi al suo epilogo giudiziario senza rinunciare a comprendere un intero periodo della storia nazionale”. Ma non basta, l’ambasciatore precisa: “Il suo principale obiettivo fu quello di rompere l’asse fra democristiani e comunisti che si era formato dopo le elezioni del 1976”. E qui si apre uno scenario storico-politico che è necessario rileggere attentamente per capire quali siano le sfide culturali che si stanno giocando in queste elezioni regionali. Quale sarà il nodo culturale dei prossimi mesi?



A mio parere, si va delineando l’ennesima prospettiva partitocratica che tenterà di chiudere i conti con il Risorgimento italiano spazzandolo definitivamente via dalla memoria. Dunque, i poteri illiberali e corporativi proveranno ad annientare qualsiasi lascito risorgimentale sopravvissuto nel presente. In particolare, la non-democrazia italiana punterà a imbavagliare i liberali, i laici, i riformatori, i libertari e gli eredi della destra storica di Cavour, Minghetti e Quintino Sella. E’ questa la sfida.



Per comprendere l’estrema attualità di un tale discorso, allora, bisogna fissare nella mente una data: il 1976. Come ha ben ricordato Sergio Romano nel suo editoriale, infatti, Craxi “tentò di dare al partito socialista, grazie al culto di Garibaldi, un’ascendenza risorgimentale”. Eppure, proprio il 1976, è l’anno della cocente sconfitta dei socialisti ed è giustamente ricordato da Sergio Romano, nel suo libro “Storia d’Italia”, come l’anno in cui il 73,1% degli italiani diede il proprio voto alla Democrazia cristiana e al Partito comunista. Fu il risultato che aprì la strada alla stagione del “compromesso storico” e al successivo governo di solidarietà nazionale. Nel 1976, ricordiamolo, Giulio Andreotti divenne presidente del Consiglio, Amintore Fanfani salì sullo scranno più alto del Senato e Pietro Ingrao assunse la presidenza della Camera dei deputati. Mentre le forze politiche ritenute eredi delle idee e degli ideali risorgimentali uscirono pesantemente sconfitte dalle urne e toccarono il fondo racimolando soltanto uno scarso 25%.

Sempre nel 1976, però, avvennero anche altre due novità inattese che permisero alle forze risorgimentali, date ormai per morte, di arrivare fino a noi e di essere vive ancora nel 2010 come una memoria pulsante, ovviamente proiettata verso il futuro. Per la prima volta, infatti, proprio nel 1976, ci fu l’ingresso in Parlamento dei Radicali di Marco Pannella, che costituirono il gruppo Federalista europeo. Inoltre, nello stesso anno, all’hotel Midas di Roma, alla fine del Congresso del Partito socialista italiano, venne eletto segretario l’allora quarantenne Bettino Craxi. Tanto che, forse proprio grazie a questi due eventi, qualche anno dopo, per la prima volta nella storia repubblicana, un laico andò alla guida di un governo nazionale. E lo fece proprio sulla scia delle idee risorgimentali. Infatti, l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, socialista, diede l’incarico a Giovanni Spadolini di formare il nuovo governo. E Spadolini fu il più risorgimentale dei politici italiani.



In virtù di tale analisi, nel suo articolo del 18 gennaio, Sergio Romano - giustamente - asserisce che “esiste una evidente contraddizione tra le ambizioni riformatrici di Craxi e un sistema che antepone la clientela al merito, il pagamento di una tangente alla qualità dell’opera… Gli storici non potranno riconoscere i suoi meriti senza constatare al tempo stesso i suoi errori”. E’ proprio dagli errori, secondo il pensiero liberale di Luigi Einaudi, che si può ripartire: per correggersi e riformare.

il Gengis
05-02-10, 21:00
La situazione. Il ministro conferma: giustizia allo sfascio. Pannella ha ragione

di Valter Vecellio

Tra gli obiettivi del Satyagraha, che tra le altre iniziative vede impegnato Marco Pannella in uno sciopero della fame, oltre alla verità sulla guerra in Irak e sullo stato delle trattative tra da Cina e tibetani, la disastrosa situazione non solo delle carceri, ma dell’intero pianeta giustizia.



La conferma di quanto la situazione sia drammatica e di quanto abbiano ragione i radicali adagiare e sollevare la questione, viene dal ministro della Giustizia Alfano. Il ministro è intervenuto ieri alla Camera, e il quadro che ha fornito è desolante.



Il ministro ha riferito che a oggi risultano pendenti 5.625.057 procedimenti civili, con un aumento del 3 per cento rispetto al 2008; 3.270.979 procedimenti penali, con una riduzione modesta rispetto all'anno precedente; 65.067 detenuti reclusi in 204 strutture penitenziarie; 20.959 minorenni sono segnalati dall'autorità giudiziaria minorile agli uffici di servizio sociale per i minorenni. Pensate ogni anno si effettuano 28 milioni di notifiche manuali ogni anno, 112 mila al giorno. Ogni anno vengono spesi 80 milioni di euro ogni anno per dichiarare prescritti 170 mila processi, 465 al giorno, festivi compresi. Oltre 30 mila cittadini hanno chiesto di essere indennizzati a causa dell'irragionevole durata del processo, ottenendo decine di milioni di euro di risarcimenti, con un trend di crescita delle richieste pari al 40 per cento l'anno. La giustizia costa 8 miliardi di euro l'anno, cioè circa 30 milioni di euro per ogni giornata lavorativa.

Cifre che documentano un letterale fallimento. Una situazione cronica, una metastasi che necessita provvedimenti urgenti e coraggiosi. Tra le varie cifre di questo sfascio, Alfano ha riferito quelle relative alla prescrizione: 170mila processi che – letteralmente, ogni anno, vanno a puttane, 465 ogni giorno domeniche e feste comprese. E hanno il coraggio, il Governo, il ministro della Giustizia, la maggioranza di centro-destra, demagoghi e forcaioli di destra, di centro e di sinistra di dire che la proposta di studiare un’amnistia che sgomberi le scrivanie dei magistrati di migliaia di fascicoli di reati minori, destinati comunque ad andare al macero, è una proposta che offende la coscienza e la civiltà giuridica. E non offendono invece i 170mila processi prescritti ogni anno, 465 ogni giorno domeniche e feste comprese.



C’è da giurare che quei 170mila processi prescritti, 465 processi ogni giorno, non sono quelli che vedono imputato un tossicodipendente o un extracomunitario. C’è da giurare che tanti di quei 170mila processi vedono imputati che si possono permettere avvocati con buone amicizie e capaci di escogitare sistemi e scappatoie, per cui il processo si blocca fino alla prescrizione. La quotidiana amnistia, insomma, di massa e di classe. Lo dice il ministro della Giustizia: 170mila processi prescritti, 465 processi ogni giorno, domeniche e feste comprese.



Ha ragione Marco Pannella, in sciopero della fame anche per affermare e far conoscere questa verità. E dovremmo trovare il modo di sostenere questa giusta lotta, farla conoscere, affermarne i contenuti; in una parola c’è innanzitutto da conquistare il fondamentale diritto di conoscere e di essere conosciuti. Non sarà una lotta facile, non sarà una lotta breve.

il Gengis
05-02-10, 21:01
Para qué sirve Europa. “Europa tiene que empezar a pedalear porque el mundo no se detiene”

• da “El Pais”, a cura di Juan Cruz

di Emma Bonino

Ahora tiene Emma Bonino 61 años y sigue siendo aquella mujer fibrosa que se autoinculpó de un aborto y lideró una campaña del Partido Radical de Marco Panella para lograr la legalización del aborto en Italia, su país. Esa campaña le puso en la geografía de la política europea, y desde entonces es una militante de las causas sociales más avanzadas y es, asimismo, una europeísta convencida cuyo entusiasmo ahora no conoce las cotas más altas. Es vicepresidenta del Senado de su país, y en ese despacho espartano que ocupa allí nos recibió un día de enero, cuando acababa de aceptar el reto de competir por la presidencia de la región del Lazio en las elecciones próximas.

Sigue teniendo el carácter fibroso con el que lidió, como comisaria europea, con la pesca, el comercio, la ayuda humanitaria, los asuntos sociales y todo aquello que cayó en la red de esta persona que irradia energía. Ella fue la que le preguntó a Felipe González, presidente del comité de sabios sobre el futuro europeo, para qué sirve Europa. Ella tiene una experiencia que le permite elaborar una respuesta.

Pregunta. Usted ha estado en la idea y en la lucha. ¿Qué ha significado Europa para usted?

Respuesta. Para mí, Europa empezó en 1979, cuando me eligieron para el Parlamento Europeo. Había llegado también muy joven al Parlamento italiano, después de mi campaña sobre la legalización del aborto. Hice una campaña no violenta de desobediencia civil, y fui a la cárcel porque ésa era mi intención: el que desobedece va a la cárcel.

P. Fue una decisión.

R. Lo provoqué amenazando a las instituciones con este argumento: queridas instituciones, ustedes tienen que aplicar la ley. La ley dice que el aborto es un crimen; yo no sólo he abortado, sino que he ayudado a otras a hacerlo. Por tanto, ustedes me tienen que meter en la cárcel... Tres años después tuvimos una ley sobre el aborto. El Parlamento fue una escuela para mí.

P. Y luego vino el Parlamento Europeo.

R. 1979, las primeras elecciones directas al Parlamento Europeo. Es un momento de entusiasmo fantástico. Ahí estaban Mitterrand, Kohl... Yo era de un pueblecito milanés y ahí me encuentro con un mundo que no conocía... Marco Panella me impuso vivir en Europa. No era una cosa de ir y venir. Con nosotros estaba también, como eurodiputado, Leonardo Sciascia...

P. ¿Cómo era trabajar con Sciascia?

R. Era un siciliano muy diferente de los sicilianos; era introvertido, sutil, hablaba muy poco y con una selección muy rigurosa de las palabras. Yo no sé escribir, y siempre me ha dado envidia la facilidad para hacerlo. Me decía: "No se trata de escribir; se trata de atender al proceso mental; eso es otra cosa". Fue una relación muy profunda, sin muchos alardes públicos, pero muy intensa. Me quería mucho. Era de carácter difícil. Pero yo estoy acostumbrada: mi padre, Sciascia, Panella..., tanta gente con un carácter así... Leonardo no viajaba en avión, así que para ir a Estrasburgo salía de Palermo el domingo y yo lo esperaba en la estación a las seis y media de la mañana... A él eso le encantaba, porque podía leer todo el tiempo... Dimitió al cabo de casi dos años porque en Italia se abrió la comisión que investigó el caso Moro y él quería estar ahí.

P. Ahí empezó a conocer Europa.

R. Y fue muy bueno que empezara en el Parlamento. Allí escuchaba diferentes intervenciones que representaban sensibilidades distintas sobre un mismo asunto... Ahí es donde se advierte de veras las diferencias que hay, lo complicado que es hablar de una cultura europea...

P. Hans Magnus Enzensberger nos decía [en esta misma serie, Domingo 17 de enero de 2010] que no es necesario hablar de una cultura europea, sino conjuntar las culturas que existen...

R. La diferencia es riqueza. Cuando comenzamos la campaña sobre el euro -aún era comisaria de Pesca, entre otras cosas- la idea era hacer una campaña de información. Recuerdo muy bien que les decía a mis compañeros: "No puede ser la misma campaña en Lisboa que en Oslo porque son distintas las sensibilidades"... Pasé mucho tiempo en los plenos. Los colegas me decían que perdía el tiempo, pero para mí era fundamental escuchar. Y ahí entendí la diversidad europea; sin conocer eso la maquinaria no sirve.

P. Escuchar es hacer política.

R. Y te permite hacer calar mensajes en función de la procedencia y la sensibilidad de los que están sentados ahí o en el Consejo... Cualquier directiva a nivel europeo la votan los ministros, ellos saben de qué va la cosa. Pero luego van a sus países a decir que en la Comisión Europea son unos brutos. Ellos no vienen diciendo que ellos votaron esas directivas. Cuando tienen que contar algo bueno a los ciudadanos, siempre son ellos los que lo han conseguido, y si no es bueno, la culpa es de Bruselas. Es la propia clase política la que pasa el mensaje de que lo bueno es de Madrid, Roma, Londres o París..., y lo malo, o lo más duro, viene de Bruselas.

P. Es un mensaje fatal para Europa.

R. Exactamente. Es una especie de cáncer que se extiende a algo aún más peligroso: que las campañas electorales europeas nunca hablen de la Unión Europea sino de las cuestiones nacionales...

P. Europa no se explica.

R. Y es gravísimo. Por ejemplo, ¿quién le explicó a los electores qué podría pasar si Turquía entraba en la Unión? Nadie lo explica, entonces, ¿por qué nos extrañamos de que la gente no quiera a Europa? Hablamos de Europa tan sólo por la crisis económica, y el mensaje es siempre negativo: la culpa es de Europa. Entonces, ¿por qué la gente tendría que querer a Europa cincuenta años después de su formación?

P. ¿Cuál es ahora para usted la esencia de Europa?

R. Sigue siendo el mensaje de los fundadores: el Estado-Nación y el nacionalismo no sólo no son adecuados frente a los desafíos, sino que son un peligro. El nacionalismo siempre es portador de guerras, de tensiones. La superación del Estado-Nación -con reglas, no estoy hablando de anexiones-, con competencias delegadas, es la esencia de Europa.

P. ¿Y por qué Europa es motivo de reflexión pero no de comunicación?

R. No lo transmiten porque no lo piensan o no lo elaboran. Los ciudadanos reciben Europa como una obligación, no como una elección. La superación del Estado-Nación está obligada por el Mercado Común, por la economía. Y tampoco aplicamos el Mercado Común con entusiasmo; en el momento en que hay una crisis económica, cada uno hace su propia política presupuestaria, de subvenciones a empresas nacionales... Todo eso es lo que hemos visto desgraciadamente durante estos dos últimos años. Así lo viven mis colegas ahora; y es distinto de cómo lo vivían Monet, Spinelli, Delors o Mitterrand... Fíjese lo que fue para Alemania renunciar al marco... Creo que eso no lo haría ningún líder de hoy, pero fue espectacular como visión. Y mire lo que sucedió con el Este europeo. El Este tenía la esperanza de Europa. Allí la transición se hizo con dificultades, pero sin violencia, sin sangre, porque había una esperanza. Si con el fracaso del Muro y de una ideología esta gente no hubiera tenido una esperanza de ser parte de algo, se habrían producido revoluciones internas como en Yugoslavia, con sangre, genocidios.

P. ¿Cree que los políticos que tomaron esas decisiones fueron especiales?

R. Tenían una visión. Y eso se acabó. Cuando era canciller, Kohl tenía la costumbre de venir a la reunión de los comisarios, los martes. Un día vino y se sentó, miró alrededor de la mesa y dijo: "Todos son demasiado jóvenes para saber qué es la guerra". Yo nací en 1948, después de la guerra, en una situación total de pobreza, antes del boom económico. Mis padres eran campesinos pobres. Aquella atmósfera de dureza fue lo que me caló, y eso es lo que impulsa mi interés por una Europa en la que aquello no sea posible otra vez. Puede ser que, como deducía Kohl, muchos de los más jóvenes perdieran esa motivación inicial. Europa existe, por descontado; ahora es aburrida y distinta, es la primera vez que no tenemos guerras internas en este espacio geográfico en cincuenta años. En este espacio hubo dos guerras mundiales, un genocidio y muchas guerras civiles nacionales. Y ésta es la primera vez que dos generaciones viven en el espacio geográfico europeo sin guerras.

P. Hubo la guerra de los Balcanes...

R. Pero ésa no lo consideramos espacio institucional europeo. Europa es un espacio político de ciudadanía, no es tan sólo un espacio geográfico. La gente se emocionó por Sarajevo porque estaba cerca, no lo vivía como un fenómeno europeo. Dentro de la Europa institucional, es la primera vez en la historia que pasamos sesenta años sin guerras. En mi opinión, los jóvenes se han olvidado de esto.

P. Felipe González dijo una vez, al volver de un Consejo Europeo, que la cosa había ido regular para España y bien para Europa...

R. Es España, es Felipe, es después de una dictadura, ocurre en los inicios de un proceso democrático, en un periodo de tensión interior. No creo que hoy sea así. España es una democracia, Europa tiene esta imagen aburrida, distante, burocrática, porque cuando no hay política sólo se ve la maquinaria... Y no tenemos líderes activos con esta empatía europea hacia una posibilidad de superación del Estado Nacional, del nacionalismo, que siempre va unido al racismo, a la xenofobia, a la autarquía... Por eso, al Tratado de Lisboa, aprobado por fin porque después de siete años de discusiones la náusea era total, le falta el espíritu de aplicación. Los últimos nombramientos demuestran, por otra parte, que en Europa no existen ni el ánimo ni el coraje para ello.

P. No le gustaron los nombramientos.

R. No es por las personas, no las conozco. Sólo que en el mundo global en el que estamos, en el que la tarea de Europa no es solamente externa, sino que también requiere responsabilidad internacional, parece difícil que alguien pierda el tiempo aprendiendo quién es Rumpuy o Ashton. Imagino que Obama seguirá llamando a Gordon Brown y el chino hará lo propio...

P. Dice mucho que Europa es aburrida. Pero ¿por qué tendría que ser divertida?

R. Quiero decir apasionante, que despierte en los europeos un sentimiento de pertenencia, que me parece que está disminuyendo. La gente se siente cada día menos europea, más de su nación.

P. Es un grave riesgo para Europa.

R. Sí, absolutamente. Europa no se hace algo apasionante. Y no se comunica. Es un círculo vicioso: hacen sondeos para saber por qué Europa no es popular o apasionante. ¡Una pasión debe ser comunicada, transmitida!

P. Parece un fracaso emocional.

R. Que desemboca de nuevo en los nacionalismos, en los localismos, que debilitan la idea de Europa.

P. Y desde esa debilidad, ¿cómo ve el diálogo europeo con los Estados Unidos de Obama?

R. ¡Pobre Obama! Llega este señor y la gente cree que lo va a resolver todo: la política interior, la política exterior... Estados Unidos es como los padres que nos dan o nos quitan la paga semanal. Somos antiamericanos cuando nos interesa a condición de que ellos existan, que se ocupen de nosotros, ¡como si Obama fuera el presidente de Europa! Le queremos a condición de que él haga lo que queremos sin que nosotros nos impliquemos. Es la misma actitud que los adolescentes mantienen con sus padres. Igual. Pero el mundo ha cambiado. Obama, por generación, por su vida, no tiene una relación especial con Europa. No es Kennedy, no estamos en 1964. Por cultura, tiene otros referentes. Por necesidad, también, el Pacífico, para él, es más importante que el Atlántico... Timothy Garton Ash publicó un artículo en el que decía que Europa tiene que elegir si quiere ser una gran Suiza o si quiere ser otra cosa. Es una metáfora clara, aunque no sé si completamente cierta porque, por ejemplo, nuestro bienestar económico como una gran Suiza no es sostenible en las próximas décadas si no afrontamos la responsabilidad de las relaciones mundiales.

P. ¿Qué quiere decir, Emma?

R. Que si no somos uno de los cuatro o cinco grandes actores del mundo en los próximos años, tampoco creo que nuestro nivel de bienestar se pueda sostener. El mundo va tan rápido que no nos podemos permitir el lujo de parar. Delors decía: "Europa es como una bicicleta: o pedaleas o te caes". Y en esas estamos, en la bicicleta.

P. ¿Qué hacer?

R. Encontrar la fuerza del impulso. Spinelli ya lo advirtió: "Llegará un momento en que nuestros valores serán los sentimientos menos importantes". Y estamos en ese momento.

P. Ésa es la raíz del desencanto.

R. En gran medida. Mi ilusión ahora, como europea, es que nos convenza la fuerza de la necesidad, que empecemos a pedalear, porque el mundo no se detiene. Nadie nos va a esperar como nos ha esperado ¡siete años para un tratado!

il Gengis
05-02-10, 21:01
Appello carceri. I penitenziari sono in uno stato di illegalità

• da "il manifesto"

di Rita Bernardini

Avete ragione da vendere quando, con il vostro appello rivendicate il diritto/dovere dei mezzi di informazione di accedere nei luoghi di detenzione per informare i cittadini di quanto accade nei penitenziari italiani. Vi dirò di più: sono convinta che se le carceri divenissero istituzioni «trasparenti» quali noi tutti le vogliamo, nel giro di poco tempo sarebbe definitivamente rimosso lo stato di illegalità in cui oggi è costretta a vivere tutta la comunità penitenziaria: detenuti, agenti, educatori, psicologi, assistenti sociali, personale sanitario e amministrativo.

La stessa iniziativa del «ferragosto in carcere», che ha portato 165 parlamentari a visitare i 205 istituti penitenziari italiani, sono convinta che abbia aperto una breccia nel muro di omertà e di opacità che purtroppo contraddistingue le nostre galere. Molti deputati, senatori e consiglieri regionali hanno varcato per la prima volta i 205 portoni blindati dove sono ristretti in condizioni indecenti di sovraffollamento e di degrado civile e umano ben sessantaseimila persone. Molti di loro hanno continuato a farlo dando seguito a quella «prima volta» responsabilizzandosi rispetto a quei luoghi e a chi ci vive (e ci muore) dentro. Luoghi che sono il termometro del grado di civiltà di un Paese e che proprio per questo i rappresentanti del popolo dovrebbero seguire con particolare dedizione per rimuovere le sacche di illegalità, sia con interventi diretti, sia approntando nuove e riformatrici proposte di legge.


Non vorrei essere troppo ottimista, ma rilevo che questa cresciuta consapevolezza, aiutata da siti online come “Ristretti Orizzonti” o “Innocenti evasioni”, sta portando un numero sempre maggiore di vittime di abusi e di, ingiustizie a trovare il coraggio di parlare: la famiglia di Stefano Cucchi e quel che rimane, ahinoi, della famiglia di Aldo Bianzino sono la punta di un iceberg che sta via via emergendo con tutta l’imponenza delle tante denunce di morti sospette che fino a poco tempo fa erano destinate a finire nel dimenticatoio.


Per comprendere quanto mi stia a cuore (e stia a cuore dei radicali) l’appello lanciato dal “Manifesto” e da “Antigone” che ho sottoscritto di slancio appena ne sono venuta a conoscenza, vi invito a dare un’occhiata alla proposta di legge redatta in collaborazione con l’Associazione Il Detenuto Ignoto che la delegazione radicale nel Gruppo parlamentare del Pd alla Camera ha depositato lo scorso anno sull’Istituzione dell’Anagrafe digitale pubblica delle carceri.



Cosa chiediamo? Che il Ministero della Giustizia metta online, aggiornandoli costantemente, i dati riguardanti ciascun istituto: dai bilanci gestionali alle informazioni sulla struttura; dalle informazioni relative agli interventi di edilizia penitenziaria con particolare riguardo alla trasparenza negli appalti (compensi, amministratori, estremi dei contratti d’appalto, consulenze eccetera) ai curriculum e compensi dei quadri dirigenti operanti all’interno degli istituti; dal numero e grado degli agenti in servizio, al numero di educatori, psicologi, assistenti sociali, medici, personale infermieristico, tutti dati da confrontare con le piante organiche previste; dal regolamento penitenziario alle informazioni relative al calcolo delle spese di sopravitto; dalla capienza regolamentare e numero dei detenuti presenti nell’istituto alla mappa dettagliata dei detenuti e della loro composizione indicizzata per tipologie di reato, nazionalità, stato del provvedimento, permanenza residua e passata, sesso, religione ecc.

Vorremmo anche sapere il numero dei reclusi dichiarati assolti in seguito a carcerazione preventiva, il numero dei detenuti aventi diritto al voto; quanti lavorano e quanti sono fuori della regione di residenza; l’elenco dei progetti e dei corsi professionali svolti nell’istituto, gli enti referenti, il numero e tipologia dei partecipanti. E ancora, l’incidenza di patologie anche psichiche, il numero dei tossicodipendenti, dei sieropositivi e dei malati di Aids nonché degli affetti da altre malattie quali epatiti, tubercolosi, scabbia; gli atti di autolesionismo il numero e le modalità dei decessi. Chiediamo troppo? Non credo, se solo pensiamo che lo Stato spende 6 miliardi e mezzo di Euro per tenere nel modo che conosciamo le patrie galere. Un rendiconto costante di come questa spesa immensa si consumi nella direzione o meno di quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione è doveroso tanto quanto è giusto ed opportuno che i giornalisti entrino negli istituti per documentarne la realtà quotidiana.

il Gengis
05-02-10, 21:01
La situazione. Tra “memoria inutile” e “sono della memoria”

di Valter Vecellio

E’ una considerazione apparentemente semplice, in realtà profonda, quella di Amartya Sen, premio Nobel, filosofo ed economista considerato un maestro del pensiero contemporaneo, quella contenuta in un suo prezioso libro di qualche anno fa, “Identità e violenza”. Sen ci ricorda che “la democrazia non è fatta solo di urne e di votazioni, ma anche di deliberazioni e dibattito pubblico, quello che viene definito, per usare una vecchia espressione “governare e discutere”. E’ quello che, in altri termini, sostiene nelle sue non meno preziose “Prediche inutili” Luigi Einaudi: “Non sappiamo nulla e alle nostre deliberazioni manca il fondamento primo: conoscere”. Insomma: “conoscere per deliberare”, come appunto si intitola il primo capitolo delle “Prediche inutili”. Senza conoscenza, senza dibattito pubblico, senza confronto e anche scontro di opinioni, non si ha democrazia. Si ha un’altra cosa: appunto la “peste italiana”, che è un ulteriore regalo che l’Italia sta facendo all’Europa e forse al mondo, dopo avergli regalato il fascismo; il regime, che non è uno stato totalitario, nessuno di noi viene rapito da squadracce e rinchiuso in uno stadio o tradotto in un carcere come nel Cile di Pinochet, nell’Argentina di Videla o Cuba di Fidel Castro; al tempo stesso, essendo privati della conoscenza, del “sapere”, non possiamo dire di vivere in un regime democratico.



Ne abbiamo una prova nell’articolo pubblicato ieri da Barbara Spinelli su “La Stampa”, “La memoria inutile”. E’ un articolo dove si accredita una menzogna ormai diffusa: quella relativa ai famosi discorsi di Bettino Craxi del 3 e del 9 aprile 1993, quando a Montecitorio si discusse di “Mani Pulite” e di quello che in quei giorni accadeva, del modo di finanziarsi dei partiti e della politica; Craxi tra l’altro disse: “Tutti sanno che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale”; e alla sfida: chi non ne ha beneficiato si alzi in piedi, tutti restarono seduti, chiosa Barbara Spinelli. Così non è, Pannella si alzò; ma lo si nega e lo si cancella.



Non è la “memoria inutile”, come si intitola l’articolo della Spinelli. E’ la memoria pericolosa. E’ il “sonno della memoria”, per dirla con il titolo di un libro della stessa Spinelli. Un libro dove si evocano fatti – il nazismo, il comunismo – che, dice, sembrano caratterizzati da un vizio ricorrente: “l’inattitudine delle menti a ingenerare una memoria viva, non solo discorsiva o, peggio, performativa; l’inattitudine alla fusione tra il dire delle belle frasi e il fare buone azioni; l’inutilità del sapere, del rammentare”. Ed è un bell’alibi: prima si impedisce di conoscere, poi si stabilisce che la conoscenza è inutile. La Spinelli, per inciso, è recidiva: proprio nel “sonno della memoria”, si vada alla pagina 204, scrive quello che ha sostenuto oggi su “La Stampa”: “Difficile dimenticare il silenzio che cadde sull’emiciclo: nessuno si alzò all’ingiunzione, e ancor oggi la storia italiana aspetta un chiarimento. Ancor oggi si vorrebbe sapere perché gli eletti della Repubblica non si levarono subito in piedi, come tornarono a casa quella sera, quel che raccontarono ai figli, con che faccia si presentarono alle successive elezioni, se si presentarono…”.



Il sonno della memoria produce le Barbare Spinelli, cui si può perfino concedere l’attenuante dell’ignoranza (ma sarebbe questa ignoranza cosa ancora più grave della malafede); ma certo non può ignorare che in tutti i cinquant’anni e passa della vita del Partito Radicale, non c’è uno solo dei suoi dirigenti, iscritti o militanti che sia stato condannato, processato, inquisito, indagato per reati di tangenti, concussione, frode e utilizzo a fini privati del denaro pubblico. E allora dire che sono tutti uguali, quando non è vero, significa voler premiare il peggiore.



Tutto questo per dire che sono mesi, anni, che Pannella e i radicali si battono perché sia possibile arrivare alla verità sulla guerra in Irak del 2003; chiarezza sullo stato delle trattative tra governo cinese e tibetani da parte della comunità internazionale; e contro la letterale e sostanziale tortura causata dalla pessima giustizia – e dunque non solo il carcere – in Italia. Ed è per questo che Pannella è impegnato in queste ore in uno sciopero della fame. Ignorato, di cui nessuno sembra accorgersi, nessuno parla. Chissà se domani ci sarà una Barbara Spinelli che scriverà di una memoria inutile, e sosterrà che nessuno si è posto il problema della verità sulla guerra in Irak, della questione tibetana e della giustizia. Nella Bibbia a un certo punto il profeta Isaia chiede alla sentinella a che punto è la notte; e la sentinella risponde: “Viene il mattino, e anche la notte. Se volete domandare: domandate, insistete ancora, venite!”.



Anni fa, era il 1974 e Pannella anche allora era impegnato in un lungo sciopero della fame, il poeta premio Nobel per la letteratura Eugenio Montale scrisse sulla prima pagina del “Corriere della Sera” – era un altro “Corriere della Sera” – che “dove il potere nega, in forme palesi ma anche con mezzi occulti, la vera libertà spuntano ogni tanto uomini ispirati come Andrei Sacharov e Marco Pannella che seguono la posizione spirituale più difficile che una vittima possa assumere di fronte al suo oppressore: il rifiuto passivo. Soli e inermi, essi parlano anche per noi”. Dire che Pannella ha ragione, per quel che riguarda gli obiettivi e per quel che riguarda lo strumento per affermarli, la nonviolenza, rischia a questo punto di essere poco, inadeguato. Pannella spesso ci ricorda quella che può essere definita “religiosità anglosassone”, per la quale “nessuna professione di fede viene ritenuta duratura e credibile se non è accompagnata almeno dall’obolo di uno scellino al giorno”.



E’ dunque giunto il momento di cominciare a versarlo, questo obolo. Il recente congresso radicale di Chianciano si è svolto all’insegna della “rivolta”. Appunto. Questa la situazione, questi i fatti.

il Gengis
05-02-10, 21:02
Emma è un’occasione storica per il paese, non un’auto-candidatura

di Marco Pannella

“Anche Ilvo Diamanti, che stimo molto, parla di ‘auto-candidaura’ di Emma Bonino; e questa è la conferma che anche per lui la storia radicale non esiste”, Marco Pannella inizia con una notazione indirizzata alla firma di Repubblica la consueta conversazione settimanale ai microfoni di “Radio Radicale”: “Nessuna auto-candidatura nel Lazio, perché noi almeno da sette mesi confermiamo una precisa analisi della società, e un certo obiettivo politico, che – come stabilito a Congresso – passa anche per la candidatura della Lista Bonino-Pannella alle prossime elezioni regionali”. Pannella accoglie piuttosto con piacere la “accettazione dei radicali in alcune situazioni, accettazione che non ci fu alle Europee, quando l’imperativo era di fare fuori i radicali dal Parlamento europeo. Questo - spiega il leader radicale - lo si deve molto a qualche cambiamento avvenuto in questi sei mesi in Bersani. Che era il Bersani del governo Prodi, il Bersani più liberale, che spesso oggi sento rivivere nelle osservazioni argute, serie, responsabili, sul piano della politica economica che lui predilige. E’ stato questo Bersani, non quello che chiamo ‘il Pd del Loft’, che a un certo punto ha troncato il dibattito dicendo: ‘Questa Emma Bonino, che conosciamo nella sua capacità di dialogo, di tolleranza e nella sua intransigenza, è una fuoriclasse’”.


Nel Lazio e non solo, secondo Pannella, “al Pd occorre rendersi conto, al di là delle contingenze, che si presenta un’occasione storica per il nostro Paese, quella di un incontro su una naturale, profonda, storica confluenza delle forze democratiche tutte – a cominciare da quelle già comuniste – nella vera alternativa che può far venire fuori dalla crisi le sinistre europee. E proprio in questo consiste la scelta profondamente liberale, laica e nonviolenta, con tutto il patrimonio storico del Partito radicale, da Ernesto Rossi a Luigi Einaudi, dal Partito d’Azione alla forza organizzata del Pli. E noi oggi siamo una realtà popolare – ha concluso - e come tutte le realtà popolari siamo i soli anti-populisti nelle viscere”. Quanto alla campagna ‘anti-Bonino’ dei quotidiani “Libero” e “Il Riformista”, Pannella ha detto: “Si teme l’onestà e la capacità di Emma su questa roba. E non credo che si sbaglino”, ha ironizzato.

il Gengis
05-02-10, 21:02
La situazione. Le tante, troppe, violazioni dei diritti umani di cui non si sa nulla. Ecco perché il format per i diritti umani

di Valter Vecellio

Marco Pannella spesso lo ricorda: Satyagraha significa ricerca, affermazione della verità. E’ un esercizio faticoso, presuppone conoscenza, che spesso non c’è, viene negata, confiscata. Da tempo si propone per esempio, che il servizio pubblico radio-televisivo si doti, istituisca una struttura, un format che si occupi specificatamente e continuativamente, dei diritti umani. Sulla carta un po’ tutti sono d’accordo, nei fatti non si fa nulla perché questa struttura prenda corpo e nasca. In un certo senso, si può anche capire.



Se questa struttura fosse operativa, con l’aiuto di organizzazioni indipendenti e autorevoli come i “Medici senza frontiere”o “Amnesty International”, si darebbe conto di notizie che sono completamente ignorate: per esempio che due giornali libici considerati “riformisti” hanno annunciato di essere stati costretti a sospendere le pubblicazioni. Questi due giornali si chiamano “Oea” e “Curina”, appartengono al gruppo editoriale “Al Ghad”, e nonostante li si ritenga legati a Seif al Islam, uno dei figli di Gheddafi, hanno denunciato di aver subito forti pressioni dalla società editrice, una azienda di stato e da alcuni dirigenti libici. “Oea”, in particolare, è noto per aver pubblicato inchieste su argomenti delicati, e si è occupato di giustizia e riforma del sistema giudiziario, diritti umani, immigrazione clandestina, corruzione legata ai traffici di esseri umani.



Si sarebbe potuto conoscere un rapporto di “Human Rights Watch”, anche questa ignorato: e dove si parla di almeno 330 detenuti libici che hanno già scontato la pena o sono stati assolti, e che tuttavia continuano a restare in carcere, a partire da due dissidenti tra i più noti – non in Italia, beninteso – Adbelnasse al-Rabbasi, e Jamal el Haji.



Si sarebbe potuto parlare e sapere del vicino Egitto, dove – sempre secondo “Human Rights Watch” – si consumano una quantità incredibile di abusi, torture e persecuzioni: le autorità del Cairo non hanno mai reso noto quanti siano i detenuti in carcere senza mandato di arresto o dopo processi di fronte alle Corti speciali dello Stato, ma le organizzazioni egiziane per i diritti dell’uomo hanno calcolato che siano tra i cinque e i diecimila; emblematica la vicenda di due blogger, Kareem Amer eHany Nazer, in carcere il primo dal 2006, l’altro dal 2008.



Dopo le manifestazioni in Iran di qualche mese fa, ci siamo dimenticati di quel che accade in quel paese. Il regime di Ahmadinejad reprime e condanna. Uno studente, si chiama Majid Tavakoli, arrestato il 7 dicembre scorso, è stato condannato a otto anni e mezzo di carcere, colpevole di minacce alla sicurezza e offese alle autorità della repubblica islamica. Nei giorni scorsi, tra l’indifferenza generale, circa un centinaio di altri studenti sono stati condannati a pene fino a 15 anni, e cinque sono stati condannati a morte. Joe Stark, responsabile di “Human Rigths Watch” per il Medio Oriente ha detto che “lo show del sistema giudiziario iraniano sui processi di centinaia di dimostranti e dissidenti è tra le più assurde dimostrazioni di abusi che io abbia visto da anni”.



E si sarebbe potuto far sapere anche del caso di un avvocato cattolico che si batte per i diritti umani e di altri tre noi attivisti democratici condannati in Vietnam a pene tra i cinque e i sedici anni di carcere. Secondo l’accusa, avrebbero cercato di rovesciare nientemeno che il regime. L’avvocato si chiama Paol Le Cong Dinh, e da anni difende gli attivisti per i diritti umani, ed è autore di pubblicazioni dove si critica il sistema economico, sociale e politico del suo paese. Nel fascicolo depositato dall’accusa si legge che Le Cong Dinh, in collegamento con “organizzazioni politiche reazionarie” avrebbe tentato di “minare la leadership politica attraverso una lotta nonviolenta, nel tentativo di realizzare la loro evoluzione in modo pacifico”. Gli altri condannati sono un blogger, un imprenditore e un esperto informatico. Infine solo per la denuncia della benemerita agenzia “Asianews” sappiamo che in Uzbekistan si consumano sistematiche e gravi violazioni dei diritti dell’uomo, torture e arresti arbitrari da parte della polizia e delle autorità di quel paese: si pratica l’uso sistematico della tortura per estorcere confessioni e per punire gli osservatori, denuncia “Asianews”.


C’entra tutto questo con le iniziative radicali, con il Satyagraha che vede impegnato attualmente Marco Pannella in uno sciopero della fame? C’entra, visto che oggi Sstyagraha è lotta per l’affermazione – come si diceva all’inizio – della verità e per la conoscenza. Verità negata, conoscenza confiscata. Questa la situazione, questi i fatti.

il Gengis
05-02-10, 21:03
La situazione. Sull’immigrazione, irresponsabili parole in libertà. Notizie dal pianeta carcere

di Valter Vecellio

La riflessione di oggi parte dalle affermazioni del presidente del Consiglio Berlusconi, secondo il quale meno immigrati significa meno criminalità. Berlusconi si riferiva agli immigrati clandestini, ma anche con questa distinzione si tratta di un’affermazione inaccettabile e irresponsabile. Inaccettabile perché infondata, si basa si una sensazione che viene alimentata in modo interessato dai mezzi di comunicazione che hanno sempre cura di sottolineare la nazionalità di un criminale o presunto tale quando è rumeno, marocchino, albanese o rom; ma sorvolano elegantemente quando si tratta di un criminale o presunto tale, quando si tratta di un italiano. Molti, quando Berlusconi è stato vittima della deprecabilissima aggressione a Milano da parte di uno squilibrato, hanno parlato di un clima di odio e di intolleranza che avrebbe fomentato e in qualche modo ispirato quel gesto. Bene: se giusto ieri una ragazzina di 13 anni si butta dalla finestra della scuola a Padova, sconvolta dai continui insulti dei compagni, il più gentile era “Puzzi di Romania”, “Fai schifo”, “Zingara di merda”; se un ragazzo colpevole di avere la pelle scura viene pestato a sangue a Parma dai vigili che lo hanno scambiato per uno spacciatore, e ora il padre dice che quel ragazzo è talmente traumatizzato che non esce più di casa e ha paura di tutto; se tutto questo e molto altro ancora accade ed è accaduto, non si può parlare anche qui di un clima di odio e di intolleranza che ispira questi gesti? E’ davvero avvilente questa continua rincorsa di Berlusconi a essere più leghista degli stessi leghisti.



Ed è paradossale che debba essere un laico quale si onora di essere chi parla a ricordare a quanti si dicono e professano cattolici e assicurano di essere in piena sintonia con le gerarchie vaticane – e ogni riferimento a Berlusconi è assolutamente voluto – ricordare quello che ha detto Benedetto XVI durante l’Angelus del 10 gennaio scorso: “Un immigrato è un essere umano, differente per provenienza, cultura e tradizioni, ma è una persona da rispettare e con diritti e doveri”. I fatti di Rosarno erano di qualche giorno prima; una posizione poi ribadita nel messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato: “Il migrante è una persona umana, con diritti fondamentali inalienabili da rispettare sempre e da tutti”.



Chi dice che i credenti possono essere imbarazzati dalla compagnia di Emma Bonino, di Marco Pannella, dei radicali, dovrebbe riflettere se non sia più imbarazzante la compagnia di un Berlusconi, di un Bossi, di un Castelli, che non perdono sì occasione per professare la loro fede, e i loro comportamenti sono poi quelli che sappiamo.



Avvilente e masochista, dal momento che una discreta fetta del PIL viene proprio dal lavoro degli immigrati. Qualche giorno fa “Il Gazzettino”, giornale che certo non è estremista, ha pubblicato i dati significativi di una ricerca curata da Demos e dall’Osservatorio sul Nord-Est. Se ne ricava che il 77 per cento degli interpellati è favorevole alla possibilità di accesso alle case popolari anche agli immigrati; il 67 per cento trova giusto che gli immigrati possano votare per le elezioni amministrative del comune dove abitano. Perfino gli elettori della Lega si dicono d’accordo. E’ la risposta migliore a chi fa una campagna elettorale che punta sulla paura e indica il diverso come perverso da combattere e punire non per quello che può aver fatto, ma per il semplice fatto di essere.



Notizie dal carcere, ora. A Cremona il carcere scoppia, secondo i dati dell’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone, il numero dei detenuti è del 146 per cento, 4 educatori, un agente di rete, uno psicologo (per 28 ore mensili). Per quanto riguarda la polizia penitenziaria, vece 129 agenti in servizio, mentre 66 gli agenti mancanti rispetto alle necessità della struttura. Otto casi accertati di HIV, sei di Epatite C, sette di diabete, 15 cardiopatici.



Secondo Antigone nel 2009 si sono registrati tre tentati suicidi, tre atti di autolesionismo, sei scioperi della fame, cinque aggressioni, un decesso per cause naturali e un danneggiamento.

A Gorizia: Coperte per non congelare. Fa freddo nelle celle del carcere, i detenuti devono farsi mandare le coperte da casa, se possono. Coperte che devono essere spedite, non le si può portare di persona, e vai a capire perché.



A Cagliari c’è un detenuto di 38 anni, è stato dichiarato incompatibile con lo stato di detenzione dallo stesso tribunale; sono tre mesi che resta ugualmente in carcere. Per inciso: è invalido all’80 per cento, a problemi psichici, è stato dichiarato incompatibile anche all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Continua a restare in cella. Questa la situazione, questi i fatti.

il Gengis
05-02-10, 21:03
Radicali e Partito Democratico

• Interventi di Luigi Manconi, Angiolo Bandinelli, Rina Gagliardi

Su “l’Unità” in questi giorni è in corso un dibattito su radicali, Partito Democratico, sinistra. Sono intervenuti, finora, Luigi Manconi, Angiolo Bandinelli e Rina Gagliardi. Ecco le loro riflessioni.



Vendola e Bonino subito nel PD

Di Luigi Manconi

Condivido all`80% (poco più, poco meno) il programma politico di Nichi Vendola. Analogamente devono pensarla quei tantissimi elettori del Partito democratico che hanno votato per lui alle primarie di domenica scorsa. Ne consegue una domanda: ma cosa
aspetta Vendola a entrare nel Pd? A pieno titolo, con pari dignità e con quanti, oggi in Sinistra Ecologia e Libertà, vorranno seguirlo (la stragrande maggioranza, immagino). E, infatti, che senso ha voler preservare ancora, e a tutti i costi, l’autonomia organizzativa di un partitino del 2-3%? Tanto più in presenza di uno scarto così ampio tra la capacità di attrazione delle
tematiche che lo connotano e del leader che lo rappresenta, quel partitino, e l’esiguità dei consensi elettorali.



Da tempo, pongo lo stesso quesito ai Radicali, dei quali – come si dice - mi onoro di essere un
militante e un dirigente, senza ottenere risposte che mi soddisfino. Le vicende più recenti - ovvero proprio la cosiddetta "imposizione" al Pd di due candidati esterni, come Emma Bonino e
Vendola - hanno rafforzato la mia convinzione, inducendomi a dare una lettura di quanto accaduto esattamente opposta a quella corrente.

Sia chiaro. Non mi sfuggono i moltissimi limiti di un partito come il Pd, "costretto" a candidare
leader di altre formazioni: ma ritengo prevalente la novità positiva che questa vicenda segnala. Ovvero quella di un Partito democratico aperto, permeabile, in movimento. E capace di trasformarsi. Qualcuno tradurrà tutto ciò nell’allarme per la debolezza di un Pd che si rivelerebbe "infiltrabile" e "conquistabile", ma a parte l’ovvia battuta (chi vuoi che se lo pigli, un partito così sciamannato?), c’è da riflettere su quale sia oggi la posta in gioco: l’oggetto del contendere, in senso proprio (ovvero l’oggetto della conquista). Le primarie pugliesi e i consensi raccolti dalla Bonino dicono che l’elettorato non è rigidamente ripartito per nicchie
più o meno ampie, puntualmente corrispondenti ad altrettanti coerenti e compatte visioni del mondo e conseguenti programmi politici. E tutte le analisi dei flussi elettorali confermano che una quota assai estesa di elettorato indirizza il proprio consenso, di volta in volta, verso l’una o l’altra formazione del centro sinistra (Pd, SeL, Federazione della sinistra, IdV e, non stupitevi,
Udc). Perfino io, che vedo l`IdV come il fumo negli occhi (e un po’ peggio), devo riconoscere che a questo partito vanno voti di elettori che pure considero a me affini. E questo vale per l’intero campo del centro sinistra. Esemplifico in termini un po’ brutali: c’è tanta "destra" in Sinistra Ecologia e Libertà quanta "sinistra" nel Pd. (Se volete vi preparo degli appositi test per verificarlo). Se questo è vero, non riesco a vedere il successo delle "autocandidature" di quei
due leader, all’interno di coalizioni guidate dal Pd, come un atto di "prepotenza" della Bonino e di Vendola e nemmeno di subalternità dei democratici nei confronti di quest’ultimi. Mi piace immaginarlo, invece, come l’esito del ricorso, al "paradigma del judo" da parte del Pd, magari per necessità. La natura del judo è come quella dell’acqua: si adatta al terreno, scivola e si ritrae per poter di nuovo avanzare; è una tecnica di azione che - diversamente da altre arti marziali - non si affida alla forza propria, ma all’iniziativa altrui; ne asseconda le mosse e lo slancio (della Bonino e di Vendola); non oppone resistenza irriducibile al gesto dell’altro, ma fa di esso una leva per la propria azione. Nel nostro caso, il Pd piuttosto che respingere l’iniziativa
dei due leader in questione, rivendicando la propria indipendenza, ha ceduto - sia pure riottosamente - alla pressione proveniente dall’esterno, l’ha accolta, fino a farla propria e ora se ne può giovare come di una risorsa comune.

Mi rendo conto che questa mia è una versione estremamente benevola e ottimista di un processo che può essere presentato in termini esattamente opposti (e così viene fatto, in modo ossessivo da tutti i media, non solo quelli ostili). Ma questa mia interpretazione non nasce
- vi prego di credermi – dall’ingenuità: è vero, piuttosto, che talvolta in politica (e non solo in politica) il realismo può essere la più innocente e saggia delle astuzie.
P.S.
Ho detto di condividere all`80% il programma di Vendola ma devo dire che trovo insopportabile il suo linguaggio (e, poi, quella gramsciana «connessione sentimentale col popolo», evocata a “Ballarò” e ai telegiornali, in piazza e, immagino, in taxi e all’Upim, sul
lungomare Araldo di Crollalanza e in pizzeria...). Ma, considerato come scrivo e parlo io, pazienterò. In nome della Causa.



Bonino nel PD? Meglio la doppia tessera

di Angiolo Bandinelli



Luigi Manconi ha sollevato, su questo giornale, un tema di grande importanza e senz’altro urgente, vale a dire quale debba e possa essere il rapporto tra il Pd e i due “candidati esterni”, Vendola e Bonino, piombati, con le loro “autocandidature”, a sparigliare le carte elettorali di quel partito. Secondo autorevoli ma non sempre disinteressati commentatori, la vicenda sarebbe la spia di una organica debolezza del Pd o della sua dirigenza - diciamo meglio, di Bersani - incapace di imporre le proprie decisioni ad una periferia riottosa e disarticolata. Su tale (malevola) interpretazione si fondano le perplessità, le previsioni o insinuazioni negative, di quanti si chiedono “cosa c’è, cosa dovrebbe esserci dopo il PD”.



Io credo che la vicenda vada affrontata, al di là della sua rilevanza immediata ed “elettorale”, in più ampia prospettiva. A mio avviso, le due “autocandidature” (ma almeno per la Bonino il termine è improprio) non sono un atto di “prepotenza” né, necessariamente, un segno di strutturale debolezza o insufficienza della dirigenza del Pd. Manconi ha ragione, credo: esse sono, o potrebbero essere, il segno che il PD è, o può essere, un “partito aperto, permeabile, in movimento, capace di trasformarsi”. Per rafforzare e dare organicità a questo suo auspicio, però, Manconi chiede a Vendola e alla Bonino (anzi ai radicali) di “entrare nel PD, a pieno titolo e con pari dignità”. Vorrei fargli osservare che, con le attuali strutture di quel partito, entrare nel Pd significherebbe per loro solo farsi schiacciare o emarginare. Nella prospettiva della nascita di una sinistra organicamente rinnovata e meno burocratica, un modo per dare subito un senso, una direzione di marcia unitaria alle diverse sue presenze potrebbe piuttosto essere la via della “doppia tessera”, una via che del resto proprio l’amico Manconi sta sperimentando con soddisfazione, credo, sua e sicuramente di tutti i radicali. Senza obbligare nessuno, senza imporre vincoli di sorta, la via della doppia tessera sarebbe un grande segnale - persino in termini elettorali - di superamento del partito-chiesa chiuso e monolitico: una immagine che il Pd sostiene di voler superare senza però riuscirvi, forse anche per sue interne resistenze ad ogni cambiamento vero.



Anche osservando il percorso difficile di Barack Obama, coraggioso e non condizionato dall’ossessione dei sondaggi, ho l’impressione che, su scala mondiale, si sia avviato un laboratorio politico nuovo, dagli esiti ancora poco visibili ma forse aperti alla speranza di una rifondazione profonda della e delle democrazie. Qualche piccolo esperimento (la doppia tessera, appunto) potrebbe condurre, anche in Italia, in quella direzione.





Ma se piacciono proprio perché restano fuori...
di Rina Gagliardi


“Vendola e Bonino nel Pd”, propone Luigi Manconi. Non condivido (allo stato dell’arte) questa prospettiva, ma la riflessione di Manconi mi è parsa comunque molto interessante. La riassumo con parole mie: poiché i confini tra le forze politiche del campo democratico e progressista si son fatti molto fluidi, e poiché queste stesse forze a loro volta si son fatte quasi "liquide", che senso ha tenere in vita raggruppamenti che al momento non vanno oltre il 3 per cento? Perché dunque la gente della sinistra non sceglie l’ingresso organico nel "Partitone", magari anche per farlo diventare una sorta di "casa comune", appunto, dei progressisti e di tutti coloro che vogliono cambiare (in meglio) l’ordine delle cose? Ripeto: una tesi non convincente, ma
plausibile. Essa però si presta, prima di ogni altra considerazione, ad almeno due obiezioni analitiche.



La prima è la (relativa) improprietà della coppia Bonino-Vendola. È vero che c’è un filo comune, anche rilevante, tra la leader radicale e il presidente della Puglia: entrambi sono candidati esterni al Pd, entrambi sono fortemente caratterizzati, ed assai spiazzanti. Ma qui cominciano differenze non lievi: nel metodo (il consenso alla Bonino non è passato attraverso le primarie) e soprattutto nella personalità politica. Nichi Vendola incarna una sinistra radicale e nuova, anzi "innovata", ricca di un legame non reciso con la storia del movimento operaio.
Emma Bonino rappresenta, nell’immaginario, il valore della laicità e delle battaglie per i diritti civili ad essa connesse, ma non è agevolmente definibile come una personalità della sinistra
- perla sua cultura liberista e marcatamente anglosassone. Non vorrei dilungarmi più di tanto: mi sento di poter dire con una certa sicurezza che la percezione che l’elettorato di centro-sinistra ha di "Vendola & Bonino" non è la stessa. Non mi pare, insomma, che la condizione "extra-Pd" configuri, di per sé, quasi una nuova identità, come sembra di capire dall’articolo di Luigi Manconi.


La seconda obiezione riguarda, ancor più radicalmente, la lettura della dinamica concreta di queste candidature. Qui ragiono soprattutto sulle primarie pugliesi. Siamo così sicuri che nello straordinario successo ottenuto da Nichi Vendola non sia intervenuta anche la sua condizione
di autonomia dal Pd? Che il consenso di cui gode, anche presso l’elettorato del Pd, non sia legato anche alle garanzie di indipendenza e radicalità che egli può dare? Io credo proprio
che sia così. E non mi riferisco, naturalmente, al fatto che Vendola sia il portavoce di "Sinistra ecologia e libertà" - mi riferisco, piuttosto, alla connessione virtuosa che si è stabilita tra il "Governatore" pugliese e il popolo di sinistra anche in virtù del fatto che egli è percepito come un politico autonomo e unitario. Libero nel senso di non "impastoiato" nei complessi e duri equilibri interni di un pur grande partito. Faccio un’affermazione che pure non sono in grado
di dimostrare: se Vendola si fosse presentato a queste primarie come componente del Pd non avrebbe ottenuto lo stesso consenso. Né avrebbe mobilitato (nelle stesse dimensioni) proprio quell’ampia porzione di elettorato (di cui parla Manconi) di centro-sinistra che sta, se così si può dire, "in mezzo" - un po’ fluttuante tra voti utili (di testa) e voti di cuore. Mi sbaglio? Ma questo ragionamento vale anche perla candidatura di Emma Bonino: il fascino che lei è in grado di esercitare (qui tornano le somiglianze) sull’elettorato di centro-sinistra (ma anche su quello moderato) è anch’esso legato alla sua condizione di "esternità" al Pd. E anche, certo, alla sua (più che fondata) immagine di coerenza e "irriducibilità" extracastale.

E dunque? Dunque, finché il Pd resta quel che oggi è (e non è), al Pd stesso non sarebbe, nient’affatto, di giovamento quella sorta di "imbarcata" generale prospettata da Manconi. lo credo anche, s’intende, che l’esistenza di una forza di sinistra - semplicemente di sinistra - resti un obiettivo (quasi) irrinunciabile. Ma questo è un altro discorso. Intanto, teniamoci strette queste esperienze di "autonomia e unità" (dal Pd e con il Pd) che forse il 28 marzo ci consentiranno qualche bella soddisfazione - come diceva il compianto Mike Bongiono.

P.S.: Possibile che un analista acuto come Luigi Manconi non si sia accorto che il linguaggio di Nichi Vendola è anch’esso parte essenziale, oltre che della persona, della sua invidiabile
capacità di comunicazione?

il Gengis
05-02-10, 21:04
La situazione. Il digiuno di Pannella, le censure, le omertà. Giustizia, il tumore che corrode il paese

di Valter Vecellio

Anche oggi questa sorta di “taccuino” comincia ricordando che Marco Pannella da circa un paio di settimane sta conducendo uno sciopero della fame che si pone tre obiettivi. Li riassumo molto schematicamente: verità sulla guerra in Irak del 2003; che la comunità internazionale accerti ufficialmente lo stato delle trattative tra governo cinese e tibetani; e basta alla letterale e sostanziale tortura causata dalla pessima giustizia – e dunque non solo il carcere – in Italia.



Ora non c’è dubbio che è innanzitutto Pannella che scandisce i tempi e le modalità di questa sua e nostra iniziativa nonviolenta e gandhiana; ma riguarda un po’ tutti noi come cercare di sostenerla cercando innanzitutto di infrangere questo muro di silenzio e di vera e propria omertà su questa lotta e sugli obiettivi che si pone. L’altro giorno per esempio a Londra è stato interrogato dalla commissione d’inchiesta britannica l’ex premier Tony Blair; è sconcertante che quella lunga deposizione sia stata liquidata con sbrigativi e svogliati resoconti, non ci sia stata nessuna analisi, commento e riflessione; nessuno che abbia avuto neppure il guizzo di fantasia di ascoltare Pannella e chiedergli una valutazione; neppure si è detto del vero e proprio servizio pubblico fornito in modo esemplare da questa emittente, che ha trasmesso la deposizione integrale con relativa traduzione.



Non bisogna fare l’abitudine a queste cose. E questo vale anche per le questioni relative alla giustizia, questo vero e proprio tumore che corrode il paese. E le presunte cure non fanno che peggiorare la situazione. Si prenda il cosiddetto “processo breve”. L’unico effetto che produrrebbe sarebbe l’estinzione dei procedimenti che vedono imputati i cosiddetti "colletti bianchi", come quello che vede imputata la cosiddetta Lady Asl o quello delle Coop Casa Lazio. Nessuna conseguenza, invece, per i cosiddetti reati minori. C’è insomma il concreto pericolo di una giustizia sommaria e di classe. Per inciso: le recenti relazioni alle aperture degli Anni Giudiziari nei vari distretti hanno tutte posto l’accento sul fatto che è aumentato l’arretrato, favorito in buona parte da ricorsi spediti per posta (solo a Roma ne vengono inviati 500-600 al giorno); le risorse a disposizione sono sempre di meno, il personale di cancelleria è ridotto all’osso, mancano computer e fotocopiatrici e quelli in funzione sono vecchi e lenti. Per limitarsi al tribunale di Roma – ma la situazione è simile in tutti gli altri distretti – nei prossimi mesi perderà circa 40 addetti del personale amministrativo: un numero enorme. Processi delicati come quello per il crac Cirio sono a rischio.



La mancanza di personale amministrativo è alla base della paralisi della sezione Lavoro del tribunale Civile dove sono bloccate le iscrizioni dei nuovi ricorsi. Ma lo sbando della giustizia si registra a tutti i livelli ed è evidente anche dalla emergenza-carceri. Non solo la costituzionale funzione rieducativa del carcere è fallita, ma anche il livello di vivibilità è inqualificabile. L’aumento dei suicidi, avvenuti negli ultimi mesi, ne sono la dimostrazione. Giova ripetere le cifre di questo sfascio: 5.625.057 procedimenti civili pendenti, con un aumento del 3% rispetto al 2008; 3.270.979 quelli penali, con una riduzione modesta rispetto all’anno precedente. Il risultato concreto sono circa 170mila processi prescritti ogni anno, 465 al giorno, festivi compresi. Un’amnistia di classe di cui beneficia solo chi si può permettere un buon avvocato, che conosce modi e trucchi per allungare i tempi del processo.



Trieste detiene il record italiano di produttività tra le Sezioni penali della Corti d’appello: 210 sentenze per magistrato nel corso di un anno contro le 140 a livello nazionale; nonostante ciò, i limiti di tempo che saranno imposti con il cosiddetto processo breve vengono valutati irrealistici, utopici, lontani dalla realtà di chi opera nei palazzi di Giustizia; non si potranno mai rispettare i due anni previsti per i processi di secondo grado, spesso trascorrono sette mesi prima che il fascicolo sia trasmesso dai Tribunali alla Corte; e nessun procedimento può concludersi in 15-16 mesi, quando vi sono otto giudici nell’organico della Corte d’Appello. Questa la situazione, questi i fatti.

il Gengis
05-02-10, 21:05
Riccardo Lombardi, per rendergli giustizia e verità

di Marco Pannella
“Lombardi e il fenicottero”: così si intitola il volume che Carlo Patrignani dedica alla figura di un leader storico del Partito Socialista, Riccardo Lombardi (Edizioni “L’asino d’oro”, pagg.203, 18 euro). Il libro è arricchito da interviste a Marco Pannella, Michele Ciliberto, Giorgio Ruffolo, Tullia Carrettoni. Oggi pubblichiamo la prefazione, di Pannella. Nell’edizione di domani l’intervista.



Tornare a onorare in questo nostro tempo, in questa nostra società, la vita, le opere, le speranze e le delusioni, le idee e gli ideali di Riccardo Lombardi, molti altri, ben più di me, possono farlo, l’hanno fatto e lo faranno. Ma grazie a Carlo Patrignani e a questa sua bella iniziativa, accade, incombe anche a me, la possibilità di provare ad assolvere al dovere della riconoscenza verso (e di) un grande compagno, membro di diritto di quella “capitiniana” nostra comunione/comunità di viventi e di morti, nella quale scopro sempre più di credere e di vivere anch’io. E’ un impegno che assumo: che cercherò in ogni modo di onorare entro breve tempo; purtroppo non immediatamente, se non attraverso questa improvvisata conversazione avuta con Carlo; a suo intero carico dunque trarne il poco che ritenga contributo adeguato. Succede. Per me oggi (forse) minora premunt…



Per quanto io ricordi, con Riccardo ho avuto due soli effettivi, veri, colloqui diretti e personali. Del dialogo politico mi occorrerebbe concentrazione, che non ho, per scriverne: credo che sia stato tutt’altro che marginale, tanto quanto oggettivamente implicito; ma, attraverso due o tre decenni, denso di profonde e comuni radici e anche di obiettivi comuni (fatte le debite differenze, di valore e di statura). Uno dei due incontri avvenne a casa sua a Milano, nel1961, qualche giorno dopo il Congresso del PSI. Passammo a un giro di orizzonte, un tentativo di bilancio sulla situazione politica generale: dapprima quella europea, quella francese, la situazione sul fronte “algerino”, sul dominio gollista e la situazione di quella Sinistra sempre più spaccata fra i comunisti di Marchais, i socialisti di Mollet, il PSUG, i radicali di Servan Schreiber. Tornati all’Italia, a un certo punto interruppe e disse: “Guarda, devo dirti che spesso penso che, alla fine, se non mi dimetto dal Parlamento non trovo motivo più valido di accampare di quello di arrivare al massimo della pensione…”. Trasecolai. Compresi subito che in quel modo voleva trasmettermi ben altro e aveva trovato questo modo per farlo. Sapevamo benissimo tutti e due, ne sono certo, che quella proclamazione, fatta con il tono di una confidenza, prenderla alla lettera era di per sé improbabile, perché non era, non poteva essere vera. Continuammo, mi sembra, per un’altra mezz’ora prima di accomiatarci. Ma, in quel lasso di tempo, era come se l’atmosfera, lo stesso rapporto fra di noi si fosse d’un tratto trasformato; i ruoli si erano cancellati fra quel grande compagno, “corpo” di una storia drammatica e gloriosa da una parte, e dall’altra, solo un poco più che trentenne, singolare, forse ancora promettente, e quindi ambiguo. In quel momento, per destinazione e valore, quei ruoli s‘erano superati, trasformati. Come se in quell’occasione non si fosse più solo conoscenti, ma ci fossimo anche, l’un l’altro, “ri-conosciuti”. E divenne in quel periodo inme, sempre più viva, più drammatica, la coscienza del valore assolutamente straordinario di una forma del conoscerci, della necessaria durata detta “ri-conoscenza”.



In quel periodo della mia vita (personale-politica: non privata, quindi del pubblico) in quella sera milanese, grazie a quel monito di Riccardo, sgorgato così improvviso, cominciò forse ad illuminarsi di una maggior luce, diffusa e insistente, una verità che mi veniva trasmessa anche da altri compagni di quella generazione che la fortuna aveva voluto darmi l’opportunità di conoscere: Italo Pietra (che vidi qualche ora più tardi), Ernesto Rossi, Mario Pannunzio, Loris Fortuna, Ugo La Malfa, Mario Paggi, Mario Ferrara, Mario Boneschi, Altiero Spinelli, Indro Montanelli, Carlo Antoni, Guido Calogero. Oggi mi sembra chiaro che, per tutta quella generazione, cui debbo tanto del mio amore per la vita dei viventi, ben presto scoprivo che nella storia repubblicana, cioè fin dagli anni Settanta, per qualcuno fra loro subito dopo, dagli anni Settanta, la presenza in essi, non di rado pressante come un “pre-sentimento”, o già la constatazione, il timore inradicato che la banalità del male antidemocratico tornasse a prevalere. Che questo male, in uno stato creduto vinto e cancellato, tornasse in vita assumendo tramite una metamorfosi le sembianze, perfino i simboli e il linguaggio dei suoi vincitori.



L’altro incontro avvenne, per sua iniziativa, in una stanza della direzione del PSI, in via del Corso, nella primavera del 1976. Grazie alla serietà e lealtà di Francesco De Martino era stata infatti convocata una Direzione del PSI per discutere la possibile alleanza politico-elettorle tra socialisti e radicali, anche se De Martino stesso non la riteneva opportuna. Poche ore prima Riccardo Lombardi volle vedermi. Ne aveva infatti già parlato con Bettino Craxi, Pietro Nenni Loris Fortuna e temeva che la decisione fosse immatura e il voto comunque non opportuno, forse controproducente.



Oggi mi rendo conto che rendere giustizia e verità a Riccardo, consente e impone probabilmente l’emersione di ricordi e di interpretazioni del tutto diversi da quelli che i suoi più stretti amici e compagni socialisti certamente gli hanno già reso, gli renderanno, gli riconfermeranno e arricchiranno. In realtà la storia privata e politica di Riccardo, se compiutamente approfondita, dà effettivo conto delle sue interpretazioni, permette un migliore e più importante “ri-conoscimento” di quanto gli dobbiamo. E non solo a lui. Mi riferisco ai diversi compagni di quella generazione appartenente a quella storia azionista. Per ciascuno di loro fu una drammatica, lunga constatazione, che il venir meno del proprio passato politico azionista non si manifestò tanto con la fine di quel partito, quanto soprattutto con la presa d’atto che le sue scelte, le sue proposte politiche per la nuova Italia e la nuova Europa, finirono sempre, tragicamente, col mancare l’obiettivo di assicurare al nostro paese un minimo di certezza, di durata, di forza, di quella scelta democratica, socialista, di rivoluzione liberale e federalista. Ed è su questo che resterò debitore dell’impegno preso, spero, per non più di qualche mese: l’attualità della nostra società e di questo nostro tempo, mi aiuteranno a farlo, e farlo in modo di quanto più possibile adeguato.

il Gengis
05-02-10, 21:05
Riccardo Lombardi, l’amarezza dell’azionista

• Intervista a Marco Pannella
“Lombardi e il fenicottero”: così si intitola il volume che Carlo Patrignani dedica alla figura di un leader storico del Partito Socialista, Riccardo Lombardi (Edizioni “L’asino d’oro”, pagg.203, 18 euro). Marco Pannella firma la prefazione al libro, che in appendice pubblica interviste allo stesso Pannella, a Michele Ciliberto, Giorgio Ruffolo, Tullia Carettoni. Su “Notizie Radicali” di ieri abbiamo pubblicato la prefazione al libro. Oggi pubblichiamo la prima parte della lunga intervista.



Quando ho chiesto a Marco Pannella si parlarmi dei suoi ricordi di Riccardo Lombardi, che molte delle battaglie civili e di libertà democratiche dei radicali – l’abrogazione del Concordato, il divorzio, l’obiezione di coscienza, le norme fasciste del codice Rocco, meno decisamente l’aborto – aveva condiviso e sostenuto, ha accettato subito, di buon grado. Poi, man mano che l’intervista procedeva e, per effetto di una citazione o affermazione di Riccardo, riaffioravano in Marco ricordi passati, veniva fuori, si materializzava un comune sentire, un intrecciarsi di posizioni, di analisi simili e comunque non antitetiche: l’emersione di quella matrice e anima “giallina” propria del socialismo liberale e libertario dei fratelli Rosselli, e poi azionista, laica ed eretica, ribelle ai conformismi e radicale, lontana dai meschini calcoli di potere, che immediatamente si è scontrata e si scontra con la cultura catto-comunista che ha impedito la agognata rivoluzione liberale del nostro paese dopo il ventennio fascista. Tanto l’ho tempestato di citazioni, quanto lui ha sempre risposto con misura ed accortezza, segno di signorilità, attentissimo a ogni parola, anche una virgola: ho capito che non ha voluto, neanche per un istante, approfittare di una ricorrenza per unirsi al prevedibile coro delle commemorazioni. Tutto è accaduto nella sua scarna stanza di Torre Argentina.

“La prima volta che incontrai Riccardo per un lungo colloquio davvero anche personale, fu nel 1961, a Milano, a casa sua: parlammo intensamente per un paio d’ore, anche delle sue valutazioni e stati d’animo personali, di quel che stava facendo, e ricordo bene di come mi ascoltava attentamente e appuntava. C’era stato, giorni prima, il Congresso del PSI di Milano dove aveva rilanciato ancora la sua linea di lotta democratica e nonviolenta per la conquista democratica, finalizzata dall’interno dello stato, alla programmazione economica e pianificazione delle riforme. Io venivo da Parigi, dove stavo per “Il Giorno” e lì avevo fondato un giornalino, “Sinistra Radicale”, che editavo grazie a Gianfranco Spadaccia,ai fratelli Aloisio e Giuliano Rendi e Angiolo Bandinelli, e che lo aveva interessato. In quel periodo si discuteva e si stava alla stretta finale per la nazionalizzazione dell’energia elettrica, il suo cavallo di battaglia. Che era appoggiata dal gruppo degli “Amici del Mondo” (il settimanale di Mario Pannunzio, che raccoglieva intellettuali liberali come Ernesto Rossi, Eugenio Scalfari e lo stesso Pannella, ndr), teorici di una politica antimonopolistica. Gli feci notare che se la sua tesi era quella che occorresse aggredire il blocco storico-economico, l’incontrollabile situazione di ferocia dei centri di rendita parassitaria, per lui in quel momento quasi ossessiva, e di andare quindi fino in fondo – e io ero d’accordo – pur tuttavia restava drammaticamente aperta la questione di come difendersi, una volta saldato il conto, l’indennizzo con quel blocco storico-economico, soprattutto dai loro successivi reinvestimenti che sarebbero stati ancor più pericolosi. Su tal punto si restava scoperti. Capii della sua reazione, non direi proprio di depressione, comunque di serena tristezza, che la questione se l’era posta e che in quel momento la sua posizione non trovava il pieno e totale consenso. C’era in quell’atteggiamento l’umanità di Riccardo che mi confessò: “Guarda, devo dirti che penso che alla fine se non mi dimetto dal Parlamento non trovo motivo più valido da accampare di quello di arrivare alla pensione”.



Ecco l’anima azionista che non accetta e non soggiace ai compromessi quando siano tali da dover rinunciare alle proprie idee e prerogative: o si passa o si torna a fare il proprio lavoro, l’age rem ruam. Però nella seduta del 21 settembre 1962 Lombardi – faccio presente a Pannella- approvò a nome del PSI l’istituzione dell’ENEL e assicurò: “Noi socialisti non poniamo alcuna candidatura e difendiamo l’ente contro noi stessi, contro i tentativi di interferenza e di clientelizzazione: se sapremo fare uno sforzo di questo genere, avremo fatto nascere qualcosa di nuovo nel paese, qualcosa di serio, non per questo o quell’altro partito, ma per l’avvenire e lo sviluppo della democrazia in Italia” (1). Il leader dei radicali acconsente e condivide.

“L’dea di Riccardo, di matrice liberal-socialista, era che fosse necessario far saltare, in un punto nevralgico, il vecchio sistema di potere, la vecchia struttura italiana che si manteneva inalterata da Giolitti a Mussolini: e tal punto lo aveva individuato nei grandi potentati, nei “nani”, dell’energia elettrica. Lì, pur non passando in toto, s’innescò però un cuneo importante, che aprì la strada per il primo centro-sinistra”.



E da quel momento, 1962, Lombardi si confermò come il più temuto degli avversari di tutti gli industriali conservatori, delle lobbies di potere.

“Sì, certamente,lì si sarebbe potuta aprire una strada ben più larga e sicura per la rivoluzione liberale: purtroppo alle opposizioni della destra conservatrice si aggiungevano le feroci resistenze di gran parte della DC e del PCI, e lui in quell’incontro di Milano ne era pienamente consapevole, e ciò pesava sul suo stato d’animo. Ancora oggi, ripensandoci e rievocando quei momenti, mi colpisce la sua apparentemente serena, pacata constatazione, fino a chiedersi e a lanciarmi il monito di cui ho già parlato sulla limitatezza quasi ormai congiunturale del suo impegno politico e civile, messo a confronto con la realtà istituzionale cui si era giunti”.



Infatti, al primo centro-sinistra, contrassegnato da importanti riforme, seguì ben presto il degrado verso il centro-sinistra organico, all’insegna non più della politique d’abord ma del gouvernement d’abord di Pietro Nenni, per il quale prima delle riforme veniva la tenuta del quadro democratico, il paventato (1964) colpo di Stato del SIFAR del generale De Lorenzo, quindi la scissione del PSIUP e poi nel 1966 del gruppo (Carettoni, Anderlini, Gatto) contrario all’unificazione con il PSDI, mentre lui resta sempre lì nel PSI.

“Non mi pare che chi ha minato il PSI e se ne è andato, e ci sarebbe da discutere perché e per quali fini, abbia avuto miglior fortuna di Riccardo! E’ la cosa che più ammiravo di lui, la testardaggine a non mollare, a vivere e a intendere la politica, come viene sempre sottolineato per lui e per altri grandi compagni, una missione non un mestiere: e ho motivo di credere che quei movimenti, come la scissione del PSIUP, li avesse previsti ben prima del loro compiersi: del resto le sue analisi e progetti anticipavano di decenni gli avvenimenti. Il suo grande rovello, che è stato anche di Piero Calamandrei, e che poi è il mio, il nostro di radicali, stava e sta nell’impossibilità di cambiare quella struttura, quella macchina statale, quel sistema dei partiti parastatali insopportabile, quella partitocrazia che ha impedito compiutamente la discontinuità rispetto al vecchio modo di amministrazione del vecchio ventennio fascista”.



Quel passaggio, insomma, del ventennio della Repubblica che doveva mettere in piedi un nuovo Stato, un nuovo apparato, nuove istituzioni, ricevette un grosso colpo d’arresto da una politica compromissoria e di natura conservatrice tra DC e PCI, tanto da pagarne oggi i prezzi?

“E’ del tutto evidente che lì si giocò il futuro dell’Italia repubblicana e di quelli che i costituenti, i grandi costituenti scrissero nella Costituzione: il fatto storico è che subito, all’indomani della vittoria sofferta della Repubblica sulla monarchia, lo stato di diritto che doveva prender corpo è stato ammazzato dalla partitocrazia. E noi radicali lo abbiamo recentemente denunciato nel nostro libretto “La peste italiana” e mostrato come le regole e gli obiettivi democratici che i padri costituenti intesero porre alla base della Carta fondamentale dello stato sono statim da subito e in maniera ampia, disattesi dai partiti che si sono impadroniti del sistema politico-istituzionale del nostro paese. Nei decessi successivi il processo degenerativo ha investito tutti gli organi e le istituzioni repubblicane, via via erodendo lo stato di diritto, per finire ai giorni nostri, dove il processo di svuotamento della Costituzione viene a compimento in maniera così eclatante, oltre che condivisa”.

il Gengis
05-02-10, 21:06
L’assassinio di Pippo Callipo sarebbe iscritto nelle cose, calabresi e romane

di Marco Pannella

È bene non commettere l’enorme errore di sottovalutare le minacce di morte a Pippo Callipo. Il problema ci appare semplice: la partitocrazia calabrese, come quella romana, non può permettersi di far gestire ad una personalità come Pippo Callipo le documentazioni, almeno ventennali, di una classe dirigente corrotta e corruttrice che, per l’essenziale, non ha mai visto contrapposte e in lotta la componente di sinistra e quella di destra di questo letale Regime. Se si convincerà il Pd a subire il ricatto della cosca Loiero e connessi, occorre immediatamente, di questo, fare un discriminante fatto nazionale, al di là delle soggettive “buone fedi” individuali di Loiero, e compagni e camerati di Regime.



Si tratta, infatti, di uno scontro ormai di vero e proprio carattere antropologico, più ancora che culturale. Credo che anche coloro ai quali faccio queste imputazioni gravi, politiche, sappiano in cuor loro che la di là di incapacità e limiti personali, quanto denuncio è fondato e non settario. Vorrei sentire magari dire qualcosa di più, politicamente, da compagni come , uno e fra i migliori fra tutti, Marco Minniti. Auguri e grazie a Pippo Callipo; la sua impresa, la sua determinazione sono rischiosissime, ma con lui e al suo sostegno riteniamo necessario giocare il suo “possibile”, che l’immonda voragine del “probabile” calabrese e romano.

il Gengis
14-02-10, 16:04
Eluana: continuano le ciniche e volgari speculazioni di sedicenti difensori della vita

di Maria Antonietta Farina Coscioni

A un anno dalla morte di Eluana Englaro, continua il cinico e volgare spettacolo di chi, in nome di una malintesa difesa della vita, in realtà vuole condannare ad agonie e sofferenze senza speranza anche chi chiede dignità e rivendica di poter decidere come e quando porre fine alla propria esistenza.



Costoro, proprio in nome del loro rinnovato cinismo e della strumentalità che li caratterizza, non meritano risposta o replica. Gli italiani, come tutti i sondaggi demoscopici unanimi certificano, hanno detto in modo inequivocabile e netto con chi sono in sintonia, se con Beppino Englaro, Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, i radicali, o con questi penosi epigoni degli zuavi pontifici.



Qui e ora sia sufficiente ricordare (e riconoscersi) nelle parole caritatevoli e misericordiose di persone di fede, non a caso silenziate. Monsignor Giuseppe Casale, vescovo emerito di Foggia: «Non si è voluto dare la morte ad Eluana, si è soltanto posto fine al suo calvario e questo è un atto di misericordia, non un assassinio…parlare di omicidio è un’accusa gratuita, volgare e ingiusta. Non si è voluto dare la morte a questa giovane, L’alimentazione e l’idratazione artificiali sono assimilabili a trattamenti medici. E se una cura non porta a nessun beneficio, può essere legittimamente interrotta, questo non è omicidio».



Arcivescovo Giancarlo Maria Bragantini, già impegnatissimo nella denuncia della 'ndrangheta quand’era a Locri, e spedito, contro la sua volontà, a guidare l’arcidiocesi di Campobasso: «Sono vicino a Peppino Englaro, che invece di ricorrere a sotterfugi è sempre stato corretto e ha creduto nella giustizia. Bisogna apprezzare la sua rettitudine… È stato grande nell’aver voluto una soluzione legale senza mai cercare scorciatoie sotto banco… Avremmo dovuto camminare più insieme alla famiglia Englaro, accompagnarla di più in questi anni…».

il Gengis
14-02-10, 16:05
Qualcuno dica a Berlusconi che i “posti di lavoro” la partitocrazia li difende da sempre, contro i lavoratori

di Michele De Lucia

L’onorevole Silvio Berlusconi, ha forse pensato di intervenire in modo risolutivo e molto originale sulla vicenda Fiat, annunciando – con toni da fare celoduristicamente invidia finanche a un Umberto Bossi – di voler difendere i “posti di lavoro” alla Fiat.



Ma come li vuole difendere? Mantenendo in vita ad ogni costo posti esistenti solo sulla carta? Utilizzando per questo altro denaro pubblico? Ponendo se stesso alla guida dell’azienda più assistita (a spese dei contribuenti) della storia d’Italia? Perché – qualcuno lo dica al Presidente del Consiglio – questo è quanto la partitocrazia fa da sempre, contro il mercato, contro la concorrenza e, soprattutto, contro i lavoratori: parcheggiati in cassa integrazione, poi messi in mobilità, poi espulsi dal mercato (legale) del lavoro con i prepensionamenti.



E Luca Cordero di Montezemolo e Sergio Marchionne, che oggi dicono di non aver ricevuto aiuti, non ricordano l’assalto a Prodi del gennaio 2007 per avere la mobilità lunga (“il governo si deve dare una mossa per aiutarci”, dissero)? E se già sapevano – come sapevano - che Termini Imerese andava chiusa perché fuori mercato, per quale ragione questi signori hanno siglato l’accordo di programma dell’aprile 2008, che prevedeva la produzione di un nuovo modello di auto nello stabilimento siciliano (per il quale sono stati predisposti ulteriori generosi aiuti pubblici)? Accordo in seguito al quale i lavoratori di Termini svolsero nel luglio dello stesso anno un corso di formazione di tre settimane, pagato anche con denaro pubblico, per poi non fare… niente.



Mentre tutti fanno i finti tonti e molti proclami, suggeriamo di riflettere su una ricetta semplice semplice (in Gran Bretagna l’hanno applicata alla Rover, lasciando fallire un’azienda decotta e aiutando direttamente i lavoratori): l’impresa che si deve ristrutturare, sia libera di farlo, e stia sul mercato – se ne è capace – giocando secondo le regole del mercato e della concorrenza. Lo Stato difenda non i posti di lavoro in astratto (ossia le grandi imprese!), ma i lavoratori, con riforme strutturali che prevedano ammortizzatori sociali universali e politiche di welfare to work.



Il resto, è solo una gigantesca pantomima tra padroni del vapore, a vantaggio dei soliti (i più forti) e a danno dei soliti (i più deboli).

il Gengis
14-02-10, 16:05
PD-Radicali. Un dibattito da proseguire e da sviluppare

di Valter Vecellio

Un dibattito, un confronto prezioso quello avviato da Luigi Manconi, e via via arricchito dai successivi interventi di Angiolo Bandinelli e Rina Gagliardi (li si possono ritrovare su “Notizie Radicali” del 1 febbraio ). La discussione prosegue oggi con una replica di Manconi e un articolo di Stefano Menichini; Manconi ne ha scritto su “L’Unità”, Menichini su “Europa” di cui è direttore. Pongono entrambi questioni su cui è utile riflettere, e c’è da augurarsi che presto altri interventi seguano. Subito però, nel rapporto tra PD e radicali è opportuno chiarire alcuni aspetti da cui non si può prescindere.



Autocritica è una pessima parola che evoca processi e percorsi che non ci appartengono e che non invochiamo. Però si può parlare di “riconoscimento” e di “risarcimento”. Una premessa, prima. Tutti noi ricordiamo – e abbiamo salutato come evento positivo – la presenza e la partecipazione, il saluto non formale, del segretario del PD Pierluigi Bersani ai radicali riuniti a congresso a Chianciano del novembre scorso. Il solo fatto che sia venuto a dirci le cose che ci ha detto è stato importante: un varco, un’apertura che poi si è allargata fino alla situazione di oggi. Questo dopo le ostilità evidenti e rivendicate del passato anche recente: dalle indifferenze sostanziali di Walter Veltroni ai ceffoni di Dario Franceschini, fino alle arroganze meschine e miopi di un Goffredo Bettini: che sarà anche una delle menti migliori del centro-sinistra come assicura Menichini (e se così è, la cosa è ancora più grave), ma che senza colpo ferire, via intervista (al “Riformista”, lo ricordiamo?), liquida “tranquillamente” una possibile candidatura di Marco Pannella nelle liste del PD per le elezioni al Parlamento Europeo. E non è per rinfocolare in modo sterile vecchie polemiche e incomprensioni, se si ricorda “l’umiliazione” che Veltroni e il PD ha voluto infliggere ai radicali in occasione delle elezioni politiche: quando si sono letteralmente imposte, sillabandole, delle esclusioni che bruciano ancora (Pannella, Sergio D’Elia, Silvio Viale, colpevoli non tanto di aver fatto, ma “semplicemente” d’essere quello che sono); e quella mossa stupida anche sotto solo il profilo della politica politicante: aver consentito all’Italia dei Valori di diventare quello che è diventato, e nel contempo l’aver cercato di annullare, annichilire i radicali.



Gravi errori del passato, che si sommano a quelli di sempre; ogni volta che i radicali hanno proposto e offerto terreno di dialogo e confronto, questo e quello venivano spocchiosamente respinti. Se ne potrebbe e dovrebbe fare, un giorno, un catalogo di quegli errori e di quelle arroganze, e che poi hanno contribuito a creare la situazione che è sotto gli occhi di tutti. Quel dialogo da tempo auspicato e cercato, forse – se ne scorge finalmente un embrione – prende corpo e sostanza. Per questo si è lavorato e si lavora. Fin da quando Marco Pannella “sfidò” Palmiro Togliatti dalle colonne del “Paese”; allora non venne compreso; o, piuttosto, lo si comprese benissimo, e per questo si cercò di stroncarlo. Si trattava di qualcosa – rubo la felice espressione coniata da Franco Roccella – di proporre in luogo dell’unità delle sinistre laiche, l’unità laica delle sinistre. Da allora – e si parla di più di cinquant’anni fa! – la situazione non è che sia cambiata molto, nell’essenza; semmai è ulteriormente degenerata, grazie al potente contributo di Silvio Berlusconi, che di questo regime è figlio ed erede legittimo. Bersani a Chianciano ha detto di parlare da “riformista”. Era, evidentemente, sincero. Non è una questione semantica: ma non per un caso i radicali preferiscono definirsi come “riformatori”. Un discorso che viene da lontano, e che non bisogna stancarsi di continuare a fare, e il terreno è proprio quello individuato e proposto da Bandinelli. Serve a noi, serve al PD, serve a tutti.

il Gengis
14-02-10, 16:06
Su Emma e Nichi volevo dire…

di Luigi Manconi

L’ipotesi che all’origine dell’inchiesta “Mani pulite” vi sia un complotto internazionale ispirato dagli USA, è né più né meno che risibile. E credo che tutte le circostanze emerse sulle frequentazioni di Antonio Di Pietro, 18 anni fa, siano insignificanti. Ma il problema è un altro: ed è letterario e politico. Il copione allestito contro l’ex PM è – nelle coincidenze, negli incroci, nei dettagli, ma anche nella narrazione complessiva che ne risulta – esattamente quello cui hanno fatto ricorso, per anni, Di Pietro e i dipietristi nei confronti dei propri avversari. Per dirla in modo impettito, è la nemesi storica: in altre parole (e senza alcun compiacimento), chi la fa, l’aspetti.



“Io credo che l’esistenza di una forza di sinistra – semplicemente di sinistra – resti un obiettivo (quasi) “irrinunciabile”. Così Rina Gagliardi sull’“Unità” del 31 gennaio, replicando al mio “Lavoro ai fianchi” di due giorni prima. Io e la Gagliardi siamo pressoché coetanei: e da lunga pezza, attraverso travagliate esperienze, ci diamo da fare – distanti, ma non lontanissimi – per costruire una forza “semplicemente di sinistra”. Io fino al 2005 (e oggi nel PD), lei tuttora. Ma la Gagliardi è troppo avveduta per non sapere che quel progetto, pur incontrando ancora oggi adesioni e sentimenti diffusi sul piano sociale, resta fermo a un 2-3 per cento sul piano elettorale (E’ la stessa percentuale che mi indusse a dimettermi da portavoce nazionale dei Verdi nel 1999). Attenzione: non ho alcun disprezzo e nemmeno un atteggiamento di sufficienza, per le idee minoritarie (tutte le questioni per le quali mi batto, dall’immigrazione al Testamento biologico, lo sono), ma ritengo un grave errore inchiodare tematiche controverse e battaglie radicali a un piccolo partito autosufficiente, che si riproduce all’infinito, perpetuando apparati e leadership. Insomma, penso che la probabilità di quelle tematiche e battaglie di ottenere consensi e conquistare la maggioranza sia più alta all’interno di un “partito grande” (Ne ho scritto diffusamente nl mio “Un’anima per il PD”). In ogni caso non chiedo ai vendoliani e ai radicali di abbandonare la propria autonomia di elaborazione e di mobilitazione. Questo sembra essere, e giustamente, la preoccupazione principale di Angiolo Bandinelli (“l’Unità” del 30 gennaio): secondo quest’ultimo, “le attuali strutture” del PD porterebbero inevitabilmente i radicali a “farsi schiacciare o emarginare”. Io penso al contrario che “le attuali strutture”, ossia la “felice anarchia” (Paolo Mieli) che rende il PD flessibile e liquido, possa costituire la migliore opportunità per un ingresso del PD di radicali e vendoliani, senza che la rispettiva autonomia risulti “schiacciata”. Certo, affinché casino non si aggiunga a casino (uso un francesismo come direbbe Paolo Hendel) è necessario che ciò avvenga contemporaneamente alla realizzazione di un quadro di maggiore stabilità e legalità, dove finalmente le regole regolino e i patti siano vincolanti. Dove viga il principio di maggioranza e, al contempo, si tutelino i diritti delle minoranze. Oggi palesemente, così non è: e questo rischia di costituire più che un’opportunità, un problema. Ma non si dimentichi che, se quella pur esile opportunità esiste, è perché i radicali sono presenti in Parlamento come delegazione all’interno del PD; e se Vendola ha buone chance di vittoria, è perché un PD, pur mal concio e rattoppato, esiste anche in Puglia. Insomma, l’aritmetica è politica.



Post scriptum 1) Per definire la Bonino, la Gagliardi usa due termini: “anglosassone” e “liberista”. Anglosassone vabbé, diciamo che c’è un taglio improvvido, che ha reso incomprensibile una definizione bizzarra e/o sbrigativa. Ma “liberista” è un termine che davvero non rende giustizia alla elaborazione dei radicali in materia economica. Insomma, è uno stereotipo.



Post scriptum 2) Non liberista sarebbe dunque chi si dice comunista? Sono così contrario a una “imbarcata generale” (ancora la Gagliardi) che non desidero l’ingresso nel PD dei comunisti di Oliviero Diliberto e Marco Rizzo. E proprio perché di “destra” (autoritari, antigarantisti, sovietici, filocastristi…).



Post scriptum 3) Ho scritto di condividere l’80 per cento dei programmi di Vendola, ma di non apprezzarne il linguaggio; e la Gagliardi mi spiega che quell’oratoria “è parte essenziale della sua invidiabile capacità di comunicazione”. Ma io non discuto l’efficacia del linguaggio vendoliano: dico che è demagogico in senso tecnico-linguistico. Afflitto, cioè, da un sovraccarico di retorica: attraente, ma non formativo.

il Gengis
14-02-10, 16:06
La situazione. Un anno fa moriva Eluana Englaro. Ancora speculazioni e demagogie

di Valter Vecellio

Per una elementare regola di educazione, e anche per non incorrere in una possibile querela ci si astiene dal qualificare – come pure sarebbe giusto e necessario – le affermazioni che esponenti del centro-destra hanno ritenuto di fare a un anno dalla morte di Eluana Englaro. Del resto, sono da una parte incommentabili; dall’altra si commentano da sole.



La sottosegretaria alla Salute Eugenia Roccella che ogni giorno scaglia i suoi fulmini contro qualcuno o qualcosa – recentemente ha trovato da ridire anche su una storia di Dylan Dog – dice che “nel corso dei mesi in cui ci siamo accostati alla sua storia, il nostro rapporto con Eluana è diventato affettuoso e familiare. Insieme con chi, nel mondo politico, a partire dal presidente del Consiglio, ha seguito la vicenda, la ricordano tutti coloro che hanno sperato e lottato perché non si mettesse fine alla sua esistenza”. Il presidente del Consiglio, sia detto per inciso, è lo stesso che se ne uscì dicendo che Eluana poteva anche restare incinta e partorire.



Non ha voluto rinunciare a dire la sua il presidente dei senatori del PdL Maurizio Gasparri: “A un anno di tragedia e di cinismo in cui fu spenta la vita di Eluana, la celebrazione della giornata della vita ci impegna a contrastare ovunque la cultura della morte, contro l’eutanasia, la banalizzazione dell’aborto con l’abuso di veleni chimici. Auspichiamo il varo di una buona legge sul fine vita, ci opporremo in ogni sede anche giudiziaria all’uso contra legem della RU 486, facciamo delle questioni etiche il banco di prova prioritario per il PdL”. Ed ha parlato anche il vice-presidente dei senatori del PdL Gaetano Quagliariello, lo stesso che – ricorderete – un anno fa si mise a strillare come un ossesso in Senato che Eluana era stata assassinata e scandì la parola “assassini” rivolto ai banchi del centro-sinistra. Questo per ricordare che in quanto a campagne d’odio, c’è chi sa il fatto suo. Per Quagliariello occorre fare una legge sul testamento biologico lasciando fermi i capisaldi che sono stati fissati al Senato, per esempio il divieto di sospendere idratazione e alimentazione artificiali perché non vengono considerate terapie. E quelli che il senatore Quagliariello chiama capisaldi sono né più né meno che l’annullamento di quanto prescrive la Costituzione e la nessuna presa in considerazione della volontà del paziente.



Una notizia positiva viene da Firenze. La giunta comunale ha approvato all’unanimità la delibera che attiva e stabilisce le modalità operative per l’attivazione del registro dei testamenti biologici. La novità è che il servizio verrà erogato in forma gratuita.



C’è un sondaggio i cui risultati sono inequivocabili. E’ uno studio di Observa, l’Osservatorio di Scienza e Società. In caso di grave malattia senza speranza di guarigione e perdita di coscienza del soggetto il 51 per cento degli interpellati ritiene che spetti a ciascun individuo dare indicazioni preventive sulle proprie cure. Il 31 per cento ritiene che spetti al parente prossimo; il 13 per cento al personale medico. Quel 51 per cento che ritiene che spetti alla volontà dell’individuo decidere dice anche che tra le cose che una persona può indicare nel suo testamento biologico, c’è anche il non ricevere alimentazione e idratazione artificiale. Da questo come da altre ricerche e indagini, si ricava che la maggioranza degli italiani è favorevole alla libertà di scelta. Del resto, già nel 2006 un sondaggio EURISPES, a proposito dell’eutanasia ha rivelato che il 38 per cento dei cattolici praticanti e il 69 per cento dei laici era favorevole; e un sondaggio IPSOS del 2007 rilevava che il 74 per cento dei cattolici praticanti ritiene che la voce della Chiesa vada ascoltata, ma che alla fine “decide la coscienza individuale”. E questo nonostante che di queste cose nelle televisioni e sui giornali se ne parli poco e male. Questa la situazione, questi i fatti.

il Gengis
14-02-10, 16:07
Oggi, domenica 7 febbraio...

di Alessandro Litta Modignani
Chi si rivede: Bertinotti in Tv

Ieri sera Fausto Bertinotti è stato ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”. Chi si rivede: Bertinotti, padre nobile della sinistra “vera”, quella non incline ai compromessi con il potere capitalistico, quella dei movimenti giovanili e delle lotte operaie. Il Grande Rifondatore è stato per 15 anni uno dei massimi protagonisti della politica italiana, in particolare nei mezzi di comunicazione televisiva. Ospite fisso dei telegiornali e dei dibattiti, insomma uno degli uomini più intervistati d’Italia, come dimostrano i dati statistici che solo i Radicali si sono incaricati di fornire. Dalle elezioni politiche del 2008 era praticamente scomparso: cancellato il suo partito dalla rappresentanza parlamentare, poi messo in minoranza al congresso, era un uomo caduto nel dimenticatoio, al pari di Alfonso Pecoraro Scanio, altro grande e antagonista da salotto del “regime berlusconiano”, del quale in realtà era parte integrante e complementare. Adesso, si sa, l’avversario di comodo è Antonio Di Pietro.

Bertinotti, ospite di Fazio, racconta la contestazione giovanile del ’68, l’autunno caldo del ‘69, le lotte studentesche e operaie, i mille cortei e le conquiste degli anni ’70. I diritti civili ? Neanche per sogno. Divorzio aborto obiezione di coscienza giustizia informazione referendum per Bertinotti semplicemente non esistono, perché se dovesse citarli, sarebbe costretto a fare alcuni nomi. Parla poi dell’antagonismo più recente, del movimento “per la Pace”, di quello no-global, dei precari, persino dei centri sociali convertiti alla nonviolenza, ma evita accuratamente di menzionare chi ha introdotto la prassi e le tecniche della nonviolenza nella lotta politica italiana.



Infine il Sub-Comandante Fausto getto uno sguardo al futuro della sinistra e in questo caso è magnanimo: non parla solo della “sua” componente alternativa, ma anche dell’altra, quella burocratico-riformista che lo ha sconfitto e marginalizzato. Dice che per ricostruire una grande alleanza fra il centro e la sinistra bisogna dare vita a una nuova coalizione, della quale siano chiamati a far parte tutti, ma proprio tutti: comunisti vari e democratici veri, socialisti sparsi e ambientalisti persi, cattolici adulti e giovani gay, i tristi dipietristi e gli allegri grillini. Insomma, un elenco interminabile. Tutte le forze democratiche ufficiali e ufficiose, in tutte le declinazioni possibili e immaginabili. Tutte ? No, tutte tranne una.



Farina Coscioni ? Mai sentita



Emma Bonino ha partecipato ieri pomeriggio a Orvieto a una manifestazione pubblica che ufficialmente sancisce la nascita, all’interno del PD, della componente di Ignazio Marino. Il medico-senatore ha riscossso un buon risultato nelle primarie per la segreteria e ora consolida i consensi, dando vita a una sua corrente organizzata. Niente di male. Alla manifestazione – inizio previsto ore 15 - partecipa anche il segretario del partito Pierluigi Bersani, legittimando con la sua presenza l’iniziativa del “laico” Marino. Quando arriva Emma, “la candidata del centro-sinistra alla presidenza della Regione Lazio” (si dice così, no?) è un tripudio. Standing ovation interminabile, tutti in piedi ad applaudire la nostra beniamina, che Bersani ha definito una fuoriclasse e che tutti corrono ad abbracciare davanti a fotografi e telecamere. Gli elogi si sprecano, l’entusiasmo è alle stelle.



La cronaca è sui giornali di stamane. Nemmeno il più piccolo accenno, su nessuna testata, viene dedicato a un piccolo particolare. Appena mezz’ora prima, alle 14.30, Emma ha presentato a Perugia la candidatura della deputata radicale di Maria Antonietta Farina Coscioni alla presidenza della Regione Umbria, per la lista Bonino-Pannella. Maria Antonietta corre dunque in alternativa sia al centro-destra che al candidato del Pd, che verrà scelto con le primarie previste per oggi. Questa notizia non può e non deve passare, a qualsiasi costo.



Dunque se Emma Bonino si presenta, autonomamente e con il suo simbolo, alla presidenza della Regione Lazio, e se il Pd e le altre forze di centro-sinistra decidono di appoggiarla, il fatto politico deve essere accortamente e accuratamente “corretto”. Così Emma diventa “la candidata del Pd” oppure “la candidata del centro-sinistra”, facendo ricorso a un espediente lessicale che nasconde un artificio politico. Se però in Umbria il trucco non si può fare, se non funziona perchè - in questa come in altre regioni - i Radicali corrono da soli, allora non resta che tornare ai vecchi metodi di sempre: cancellare, censurare, oscurare i Radicali.


Recensioni, citazioni e omissioni



Infine un episodio minore, perchè la qualità è nei dettagli. Al TG1 delle 13.30 nella consueta rubrica settimanale di recensioni, vengono presentati vari libri, fra cui due recenti biografie di Riccardo Lombardi: una è “Lombardi e il fenicottero” di Carlo Patrignani, con prefazione di Marco Pannella; l’altra “Riccardo Lombardi – L’alternativa socialista” di Carlo Vallauri, con introduzione di Fausto Bertinotti. Delle due prefazioni, però, una viene citata e l’altra no. Indovinate quale ?


I Radicali a “Petibonum”



Nella fantasia del fumettista Uderzo, tutta la Gallia è occupata dai Romani di Cesare, tranne il piccolo villaggio di Petibonum, dove resistono isolati ma felici gli ultimi celti rimasti liberi. Così, nell’ormai conclamata non-democrazia italiana, sopravvive e resiste la tenace formazione partigiana dei Radicali, che prepara la rivolta sociale e la liberazione politica dalla partitocrazia, con gli strumenti della nonviolenza gandhiana. La minuta e combattiva Emma Bonino, se fosse un uomo e portasse i mustacchi, si potrebbe forse accostare al piccolo e gagliardo Asterix; chi sia invece Obelix è chiaro a tutti, sempre per ragioni di stazza. Asterix ogni tanto ha bisogno di un sorso di Pozione Magica per moltiplicare le forze. A Obelix invece non serve: ci è caduto dentro da piccolo. La metafora finisce qui.

il Gengis
14-02-10, 16:08
La situazione. Il rischio di assuefarci ai quotidiani veleni , alle quotidiane violenze…

di Valter Vecellio

Ci sono cose, situazioni che sono letteralmente abnormi, scandalose, terrificanti: per quello che comportano, e soprattutto perché ormai vengono percepite, accettate perfino, come normali. Paradigma di quanto si sta dicendo, quello che è accaduto l’altra sera a “Ballarò”, dove i radicali sono stati vittime di un attacco freddo, perpetrato con scientifica determinazione; si è consentita, anzi si è favorita, alimentata un’aggressione senza possibilità di difesa, di replica, di poter spiegare. Un qualcosa che lascia sgomento anche chi in questi anni credeva di averne viste e sentite di tutti i colori. E questo è il segno dell’offensiva che ci aspetta, dell’inverno duro evocato da Marco Pannella in tante occasioni.



Giorni fa, un po’ per celia, ma anche seriamente, abbiamo compilato una lista di dieci domande che riguardavano l’iniziativa di Satyagraha condotta in prima persona da Marco Pannella. Non si starà qui a ripetere quelle dieci domande, chi ne avesse curiosità le trova su “Notizie Radicali” del 5 febbraio. Queste domande sono state mandate a più d’un giornale e a molti giornalisti. Finora silenzio, evidentemente sono impegnati con altro. L’eccezione – c’è sempre un’eccezione – è stato “Il Riformista”. Nella rubrica delle lettere ha pubblicato con una certa evidenza le domande che venivano poste. Con un effetto un po’ comico: i lettori del “Riformista” hanno potuto leggere le domande; ma ignorano completamente le risposte.



Insisteremo, al modo radicale: facendo altre domande. La domanda di oggi è questa: ma è davvero normale, che ci siano delle persone che si chiamano Marco Pannella, Sergio Stanzani, Rita Bernardini e molte altre che a queste come alle altre elezioni, andranno regolarmente a votare; che possono essere eletti al Parlamento Europeo e a quello nazionale; anzi, qualcuno di loro, come Rita Bernardini è parlamentare, e dunque – come Costituzione prescrive – rappresentante del popolo; e al tempo stesso – a causa delle condanne riportate per via delle loro azioni di disobbedienza civile (disobbedienza civile, non per aver rubato, preso tangenti, essersi trovati implicati in giri di appalti illeciti), non siano degni di potersi candidare al Comune, alla Provincia, alla Regione? Non è ridicolo tutto ciò? E il ridicolo, non fa spazio all’inquietudine, se si pensa e osserva che questo ridicolo viene considerato assolutamente normale, nessuno tra i commentatori, i giuristi, tra coloro che fanno opinione e informazione, trovi tutto ciò ridicolo, abnorme, stupido, ma anche segno di quella protervia e di quell’arroganza che è la caratteristica del regime in cui ci tocca vivere? E la cosa, non riguarda forse un po’ anche noi, che rischiamo di assuefarci, di accettare queste violenze, queste arroganze, queste prepotenze? Questa la situazione, questi i fatti.

il Gengis
14-02-10, 16:08
Medioriente. Una sponda sunnita per Israele. Riad e Il Cairo frenano l’avanzata sciita

di Massimo Bordin

Quest’intervento è stato pubblicato sul primo numero de “Interprete internazionale”, rivista mensile diretta da Francesco Di Leo



Per provare a capire cosa può succedere sul fronte israeliano nell’anno che si apre, occorre partire da eventi lontani dal problema israelo-palestinese, e poi occuparsi di temi che agitano nel profondo l’opinione pubblica israeliana, senza necessariamente toccare gli aspetti che caratterizzano la stretta attualità della fine del 2009. Prima di occuparsi delle trattative per la liberazione del caporale Shalit (che sono ferme) o della dichiarazione di 27 ministri degli Esteri dell’Unione Europea su Gerusalemme, occorre guardare altrove. Innanzitutto a Teheran, dove il ministro degli Esteri Mottaki ha formalmente protestato contro gli USA e l’Arabia Saudita per il rapimento dello scienziato iraniano Amiri. Secondo il governo iraniano il professor Amiri si era recato, da buon musulmano, alla Mecca dove i sauditi l’avrebbero sequestrato e poi consegnato agli americani. Si aggiunge così ai contorni classici di una spy-story un aspetto religioso che connota sia la narrazione khomeinista sia quella quaedista, ovvero l’empietà frgli attuali custodi dei luoghi santi. Ma da sé che il professore può anche aver saggiamente deciso di fuggire dal regime degli ayatollah, ma in ogni caso il passo diplomatico iraniano fotografa lo stato dei rapporti fra la teocrazia di Teheran e la monarchia saudita.



Non sono migliori di quelli fra Iran e Israele, anzi, nei fatti sono peggiori. A riprova c’è da considerare la vera e propria guerra locale che impegna l’esercito saudita e le forze regolari yemenite nella repressione della rivolta della minoranza sciita nella regione dello Yemen, Saada, che confina con l’Arabia Saudita. L’esercito dei Saud è intervenuto con elicotteri Apache e caccia Tornado contro le forze ribelli che a loro volta mettono in campo dai 4 ai 5mila armati. I sauditi hanno segnalato la presenza fra i ribelli di istruttori iraniani ed Hezbollah. Gli scontri hanno prodotto l’esodo di ben 150mila profughi, che danno la dimensione di questa guerra iraniano-saudita per interposti yemeniti. Questo mostra come il programma atomico iraniano non possa essere considerato monodirezionato contro Israele quanto piuttosto utilizzato per dare forza di deterrenza alla politica iraniana su tutto il quadrante mediorientale. Non a caso l’Egitto ha deciso di costruire un muro di confine con Gaza, considerati gli stretti rapporti fra Hamas e il regime di Teheran. Da tempo i giornali egiziani scrivono in chiave nazionalista panaraba, che grazie ad Hamas i persiani si sono riaffacciati dopo secoli nel Mediterraneo. E oltre a sauditi ed egiziani, anche la Giordania guarda da tempo con preoccupazione a quello che re Abdallah per primo definì “il crescente sciita”. Tutto ciò sicuramente non tranquillizza Israele sulla bomba iraniana, ma certo lo spinge a considerare un contesto con inedite possibilità di gioco diplomatico nei confronti dei paesi arabi. Quanto alla questione della risoluzione europea sulla spartizione di Gerusalemme è innegabile che tocchi un nervo scoperto nel ceto politico e anche nell’opinione pubblica israeliana. I partiti dell’attuale governo sono sempre stati fieramente contrari alla cessione di Gerusalemme est e Netaniahu ritiene di essersi spinto al limite massimo accettando il congelamento degli insediamenti che già sta creando seri problemi al governo non solo con i coloni ma anche con i giovani militari religiosi delle “yeshivas esder” che rifiutano di obbedire agli ordini di rimozioni degli insediamenti illegali. Gli israeliani sanno benissimo che il problema di Gerusalemme dovrà essere affrontato, come peraltro gli chiedono non solo gli europei ma anche gli USA, da prima di Obama. Ma perfino a Oslo, dove un governo ben diverso dall’attuale offrì all’OLP il massimo che poteva, la questione della città sacra venne accantonata. Tutto deve essere definito e perfino sperimentato prima di porre mano alla divisione della capitale, questa rimane la posizione israeliana, tanto più con questo governo. Ma la divisione di Gerusalemme evoca il problema dei problemi: la praticabilità della politica dei “due popoli, due Stati”.



Netaniahu ci è arrivato da pochissimo, forse troppo tardi, quando anche a sinistra il dubbio si è ormai fatto largo fino a porre interrogativi laceranti sulla logica della “ebraicità” dello Stato d’Israele. Qualche articolo, apparso su “Ha’Aretz” ha ammesso in discussione quello che anche a sinistra è da sempre ritenuto un carattere fondativi e irrinunciabile. E infine, quel che più conta, non è senza significato – come recentemente ha notato Giuliano Amato in un suo articolo sull “Sole 24 Ore” – che sia stato a lungo in classifica fra i più venduti in Israele il libro di uno storico, Shlomo Sand, secondo cui “il popolo d’Israele” e i regni di Davide e Salomone sono in gran oarte invenzioni. Ma se l’ebraicità in forma statuale non avesse senso cosa rimarrebbe a fondare la teoria dei due Stati?

il Gengis
14-02-10, 16:08
RAI: Quante bugie!

di Marco Beltrandi

Una delle bugie più clamorose che ho letto è che la Rai sarebbe obbligata a trasmettere tribune con la presenza contemporanea di decine di candidati. Non è affatto così: non solo non esiste nessun obbligo di questo tipo, ma addirittura il regolamento prevede che si possano usare per le tribune anche spazi di ascolto equivalente a quello degli approfondimenti, qualora, ma non lo credo, questi ultimi non bastassero.

Leggo poi che si vorrebbe mettere il bavaglio ai talk show, o addirittura chiuderli. Invito chi lo scrive a citare articolo e comma del regolamento in cui ciò sarebbe previsto. Penso che costoro scambino le regole della par condicio dei dibattiti nei paesi anglosassoni e normali con un “bavaglio”.

Leggo infine che l’UDC non sarebbe responsabile di un regolamento di cui sarei responsabile io e il centro destra, mentre l’UDC sarebbe stata ferocemente contraria in commissione. Perché allora l’On. Rao non solo ha assicurato il numero legale in commissione, non solo si è solo astenuta alla votazione finale, ma ha anche condiviso la soluzione adottata, solo proponendone una durata minore? Comunque ringrazio l’onorevole Rao di questa attribuzione.

Infine leggo di autorevoli componenti della Vigilanza che scrivono oggi di regole che sarebbero da rivedere. Evidentemente, avendo essi abbandonato i lavori della Commissione prima del termine, non si sono resi conto che la Commissione ha approvato in via definitiva regole chiarissime e non soggette ad interpretazioni politiche.”

NOTE

L'autore è deputato radicale, relatore della par condicio in Commissione di Vigilanza Rai

il Gengis
14-02-10, 16:09
La “manomorta” istituzionale italiana

di Guido Biancardi

Usato in termini non trivial-popolari, alla moda del film comico “di Natale”, la manomorta è un concetto di antica dignità giuridica e socioeconomica, molto in voga nei secoli scorsi nelle dispute fra liberismo e conservazione, fra società aperta e mercato e società legata a canoni più medioevali.



Come istituto giuridico, abolito dalla rivoluzione francese, esso indicava la stuazione per cui, “nel medioevo, ai vassalli veniva lasciato il godimento di proprietà (soprattutto agrarie ed immobiliari, ndr.) di cui non potevano disporre per testamento e che tornavano, alla loro morte, al sovrano. Analogamente anche i beni delle corporazioni religiose e dei sacerdoti”, da Universale Garzantina) Questo blocco proprietario esercitato dal sovrano su un'estensione di beni assolutamente dominante, rendeva la mobilità della ricchezza, e dei ceti da essa caratterizzati, praticamente nulla. Gli scambi economici erano limitati ai prodotti, ma non ai mezzi di produzione fondamentali quali le terre ed altre parti produttive essenziali del territorio, sia naturali che frutto di trasformazione umana.



L'effetto cui tale istituto doveva contribuire a determinare e difendere è stata l' irriformabilità delle gerarchie dei ceti e delle principali istituzioni sociali, consentendo lente, e spesso solo temporanee modificazioni degli assetti sociali. Stabilità e conservazione sotto l'egida di un'autorità assoluta, divinamente garantita come legittima.



Perchè, oggi, riscoprire un istituto ormai quasi totalmente desueto? Solo come riferimento storico?



La realtà in cui l'Italia si è trovata dal tempo almeno del post-fascismo sino ad oggi, nell'ultimo sessantennio, circa, è denunciato dai Radicali come il Regime della partitocrazia (ovvero lo Stato dei Partiti che sostituisce all'apparenza il Regime del Partito/Stato fascista, o comunista, ma nella realtà la continuazione del Monopartitismo in un “nuovo monopartitismo” non dichiarato come tale ma dissimulato, mascherato da bipolarismo; e ciò a mezzo della sistematica distruzione dello Stato di Diritto e del principio di legalità in tutte le sue applicazioni). Il principale effetto che discende da questo stravolgimento di un sistema che ormai si pretende solo democratico è la parastatalizzazione di tutte le istituzioni statuali, di quelle ad esse equiparate dal Concordato (il Clero organizzato in Curia ed in altre Corporazioni Religiose e parareligiose con la Santa Sede e della cosiddetta “società civile”), i sindacati dei lavoratori e degli imprenditori, tutti “elevati” e nel contempo “declassati” democraticamente ad un estesissimo parastato istituzionale non regolamentato come tale ma come tale gestito, composto da tutte le nomine, cariche ed incarichi pubblici e parapubblici più o meno distinguibili dai primi. Ogni “privatizzazione” non ha fatto, poi, che allargarlo ulteriormante.



Essa è, tutta, “manomorta partitocratico/istituzionale”, nel senso che non può essere riassegnata attraverso il democratico rito dell'elezionein veste di sostituto dell'atto testamentario di cessione. La mobilità istuituzionale ne risulta assolutamente e patologicamente rallentata, la circolazione sociale diviene trombotica; composta di realtà sempre più “varicose” prodotte da un ristagno circolatorio prodromico di cancrena (si sprecano gli appelli alla mobilità sociale ed al ricambio generazionale, mentre si stringono dei veri e propri lacci emostattici. In effetti il sistema di selezione e nomina è un apparente ordinato sistema di sostituzione regolato, alle scadenze, dalla volontà degli elettori, mentre in realtà è costituito in un altro circuito, sottratto da quello democratico, che provvede ad alimentarsi al suo interno e dal suo interno con semplici spostamenti, spesso reciproci, fra i detentori delle cariche pubbliche (e dei vari consigli d'amministrazione o d'istituto, etc.). Tutto quel che è “dato per nomina” viene “restituito” prima o poi, ma ai Partiti, che si sono introdotti, spesso sostituituendolo, fra lo Stato ed i cittadini.



Il soffocamento determinato da questa carenza d'alimentazione democratica sta, letteralmente portando l'Italia alla paralisi ed al disastro politico sociale ed economico.



L'immagine che preferisco per dare maggior riconoscibilità al concetto di Regime in azione, è quello dell'immagine della battigia di una parte di costa: su di essa, per l'effetto continuo del movimento delle onde del mare si accumulano in un processo di selezione fra elementi più o meno in grado di galleggiare, anche una serie di detriti, di piccoli relitti naturali come le conchiglie vuote pietruzze o pezzi di madrepora, o, sempre più, artificiali (dai contenitori di plastica dopo quelli di vetro, ai rifiuti degli arnesi di pesca...) dei materiali gettati in mare e da esso rigettati, prima o poi, a riva. Dove capita sovente di vedere salire qualcosa sul declivio della spiaggia scivolando sull'onda, arrestarsi un attimo all'esaurimento della spinta, e poi rotolare di nuovo in basso seguendo il riflusso e diventando poco a poco una componente mobile di un festone artificiale che finisce per ingombrare la parte più vicina alla distesa d'acqua, contigua alla spiaggia. A lungo andare, se troppi di questi detriti si accumulano e non vengono raccolti o sostituiti si forma un'onda nerastra di rifiuti che ondeggia solo su e giù come una discarica liquida. Ecco l'immagine che si forma emblematicamente man mano sotto i nostri occhi, pur senza rilevarlo con la consapevolezza minima che innesca un processo di cambiamento, il necessario ravvedimento operoso. Ma solo a proporsi come nuova normalità , o semplice abitudine da subire...



Se la nuova manomorta partitocratica con i suoi complici che ha sottratto parti sempre più significative del mare delle opzioni democratiche a disposizione dei cittadini non viene prima riconosciuta per poter essere poi denunciata e combattuta, ne periremo ,“inavvertitamente”.

il Gengis
14-02-10, 16:12
Partito Democratico e contaminazioni radicali, ieri e oggi

di Angiolo Bandinelli

Prosegue il dibattito e la riflessione sulla questione PD-radicali. Nei giorni scorsi sono intervenuti Luigi Manconi, Angiolo Bandinelli, Rina Gagliardi, Stefano Menichini, Mario Pirani. Un dibattito che si articola dalle colonne di “Europa”, dell’ “Unità”, di “Repubblica”. Oggi pubblichiamo un altro intervento di Bandinelli, ospitato da “Europa”.



E’ più che possibile, e forse urgente e necessario, che dopo le elezioni regionali il panorama partitico italiano si modifichi, anche profondamente. “Dopo le regionali si spalancano tre anni senza elezioni, destinati a un grande lavoro di riassetto del sistema”, ha scritto Stefano Menichini, il direttore di “Europa”. Sia a destra, dove la centralità di Berlusconi appare compromessa, sia a sinistra, dove il paesaggio appare solcato da sollecitazioni consapevoli ma anche da pulsioni incontrollabili, che dovranno trovare una sintesi efficace e solida pena la fine della prospettiva riformatrice che storicamente le sue forze intendono esprimere. In teoria, i due poli dovrebbero riorganizzarsi ciascuno nel suo ambito, ma c’è chi prevede o anche (come noi) auspica che il processo avvenga in un più ampio rimescolamento trasversale.



Nella sinistra, questa necessità di chiarificazione e/o ricomposizione è stata messa in evidenza - il giudizio è unanime - dalla scesa in campo di Emma Bonino o di Nichi Vendola. Addirittura, su “La Repubblica”, Mario Pirani si chiede se, in prospettiva, ad Emma Bonino non spetti il compito di “dare una sveglia” al Partito democratico. Per spiegarsi, porta due esempi di rilievo: quello del Mitterrand che si presentò come salvatore al partito socialista francese, “ridotto al lumicino”, e lo riportò al governo, e quello di Altiero Spinelli, inserito da Giorgio Amendola nelle liste del PCI per divenirne l’alfiere europeo ed europeista che tutti ricordiamo. I due esempi, osserva Pirani, valgono non sul piano “storico” ma su quello della “chimica”. In sostanza, Pirani auspica che l’innesto, anzi la “contaminazione” di Bonino, possa essere il catalizzatore di una rivoluzione interna a quel partito, che ne rinnovi “la linfa” vitale impedendo che esso chiuda bottega per fine esercizio.



Un auspicio? Solo un “wishful thinking”? Non sapremmo dirlo. Quel che sappiamo per certo è che la tesi di Pirani ha radici assai lunghe: da tempo i radicali, con Marco Pannella in primo luogo, lavorano per il rinnovamento della sinistra, suggerendole il modello “Partito democratico” fin da anni lontani, quelli della crisi della prima repubblica e del fallito tentativo di rinnovamento del vecchio e logoro PCI. Nel 2007, poi, il leader radicale si è presentato a concorrere come segretario del PD. Come tutti ricordiamo, la sua candidatura non venne accettata. Che oggi sia l’irruzione alle regionali di Emma Bonino a riproporre il problema è l’ovvia prosecuzione di una lunga, meditata attenzione. E ha ragione Pirani di sottolinearne l’importanza, il significato implicito. Sono possibilità, scenari che potranno, forse dovranno, svilupparsi solo dopo le regionali. Ma intanto, insistiamo noi, perché non fare un pensiero al tema della doppia tessera, un gradino già possibile ed utile per dare all’elettore democratico una prospettiva che ne scuota l’apatia, lo scoraggiamento, la sfiducia?

il Gengis
14-02-10, 16:12
«Silvio Putin e Massimo Medvedev»

• Intervista a Marco Pannella

di Antonio Pitoni

Partiamo dal Lazio: l`ultimo sondaggio di Crespi Ricerche dà la Polverini in rimonta dal 37 al 38%, mentre la Bonino scende dal 40,5 al 39,5% in poco più di 15 giorni. Dati sui quali, Marco Pannella ha un`interpretazione personale ma circostanziata.


Non sarà che i toni da gentleman agreement di questa campagna elettorale, con la Bonino che loda la Polverini e viceversa, stiano penalizzando la candidata dei centrosinistra?


«Non sarà, piuttosto che la candidata Radicale - sostenuta da poco - dal "centrosinistra" continua ad esser più forte dello schieramento di referenza mentre la Polverini è ad almeno 1o punti in meno del suo "schieramento"? Questo malgrado da un punto di vista elettorale lei sia stata letteralmente inventata dalla componente di "sinistra" del regime Raiset, Ballarò e dintorni? Oltre a venir presentata come la candidata unica - lei!- di Berlusconi, Fini, Casini e anche della potente componente radicale dei Popolo della libertà? La verità è che il regime deve combattere l`alternativa radicale, come nei referendum, deve tentare di inventarsi e smerciare qualcuno di più radicale dei Radicali... ».

Magari gli elettori si sono abituati troppo alle polemiche dei salotti televisivi e questo
tipo di campagna elettorale li sta disorientando...


«Diciamola tutta: questa storia dei "salotti televisivi" e di "campagna elettorale" è balla e bolla che non si regge più. Quello che viene mobilitato non sono più, semmai ci sono stati, i "salotti televisivi" ma sono ormai dei veri e propri Colossei agogò: sei milioni della partita iva dell`imprenditore
Santoro, cinque milioni della partita iva, o giù di fi, di Floris e dei telegiornali per un totale di venti, venticinque milioni di convocati. Tutti in attesa che l`imperatore Silvio manifesti il suo "pollice verso" contro la Emma. In queste "elezioni" putiniane, cioè in questo scontro fra russi e noi ceceni, giochiamo, ma davvero l`appena possibile, contro il massimamente probabile. Con una differenza: che il popolo "russo-italiano" è contro Mosca e noi non ci rassegniamo a che l`antidemocrazia chiamata Repubblica italiana continui ad essere impunemente detestata dal popolo. E se dico "putinina" intendo Silvio Putin e Massimo Medvedev».


Emma Bonino ha usato termini come «illegalità» parlando delle regionali...


«Errore! Avantieri Emma Bonino si è pubblicamente rivolta con la franchezza, l`amicizia, il rispetto reciproci che ci onoriamo di avere con il Presidente della Repubblica, sottolineando, ripetendo come e sempre più dalle scorse elezioni europee, illegale, antidemocratica, la realtà di regime in Italia, non solamente nel Lazio».


Non pensa che la scelta di correre nel e con il centro-sinistra nel Lazio, ma di andare da soli altrove, possa in qualche modo danneggiare il Pd da un lato, erodendone il consenso dove correte con un vostro candidato, e voi, in termini di voti di lista, dove l`intesa con tutta la
coalizione potrebbe invece ridimensionarvi?

«Riuscendo ad emergere dalla clandestinità cui siamo manifestamente condannati, come e non meno che nelle realtà partitocratico-totalitarie dello scorso secolo, 750mila italiane e italiani del centrodestra e del centrosinistra ci hanno allora votato sentendosi da noi intimamente rappresentati. Ed è da allora, giugno 2009, che noi abbiamo deciso e pubblicamente, reiteratamente, senza sosta, annunciato che ci saremmo candidati in quanto tali Liste Emma Bonino Marco Pannella a queste elezioni regionali. E` quanto stiamo tentando di fare, da forza partigiana, nonviolenta. Per questo siamo candidati con nostri Governatori Presidenti in Lombardia, in Emilia Romagna, in Toscana, nelle Marche, in Umbria, in Basilicata, in Liguria e in coalizioni, a partire da quella nostra decisione in Piemonte, in Veneto, nel Lazio, in Campania, speriamo ancora in Puglia, in Calabria... Vorrei notare che in Campania abbiamo scelto di appoggiare De Luca quando non era ancora candidato democratico e contro di lui sembrava esserci il veto dell`Idv. Assieme all`Idv appoggiamo in Calabria la candidatura della società civile di Pippo Callipo».


Quindi si è trattato di scelte meditate?

«C`è da aggiungere subito un... piccolo problemino. Sembra assolutamente e tecnicamente impossibile presentarsi liberamente e legalmente a "queste elezioni Ragionali". Non evoco nemmeno la mostruosa casistica di illegalità quotidiane, pubbliche, con "leggi elettorali" tuttora in corso di emanazione, mentre da tempo i termini perentori per la raccolta delle firme sulle liste sono resi impossibili, ripeto materialmente impossibili, per materiale inesistente di moduli di raccolta, di prestazioni di autentica di dette firme da parte degli oltre centonovantamila pubblici funzionari per legge a ciò delegati (oltre a molte altre decine di migliaia "delegabili" a questa funzione. La smetto qui. L`elenco sarebbe ancora lungo e sono personalmente sicuro che a cominciare dal Presidente della Repubblica non se ne sa, finora, nulla! Come accadde - e non lo sapeva il Presidente - che adue settimane dalle elezioni europee solo il 3 per cento dei suoi cittadini conosceva quali fossero le liste che erano candidate. Allora il Presidente esercitò la sua straordinaria funzione di "moral suasion" ed il risultato fu che in Italia il Pd, il Pdl e soci ottennero che dopo vent`anni noi uscissimo dal Parlamento europeo ma l`Italia invece della quart`ultima, come previsto, fu il primo dei 27 statidell`Unione europea per numero di votanti».

La commissione di Vigilanza sulla Rai ha approvato con i voti dei Pdl e del Radicale Beltrandi un regolamento che blocca i programmi di approfondimento politico sulle reti pubbliche un mese prima delle Regionali e fino alla chiusura delle urne. Considerate le vostre battaglie sulla libertà di informazione, qualcosa non torna: com`è andata veramente?

«Mentre rispondo attendo una riunione degli organi dirigenti della galassia radicale a cominciare a Emma Bonino, che alle 21 (di ieri, ndr) discuterà sul da farsi. Per quanto mi riguarda so solo che non ci rassegneremo a subire, e nemmeno ad accettare la patente di indegnità civile e umana del nostro Stato da sessant`anni oppresso, sfibrato ma non ancora domo. Con serenità e severità nonviolenta noi onoreremo la vita, se necessario come ho già dichiarato "sino all`ultimo respiro". Con la nonviolenza infatti è in gioco, contro la morte e lo sterminio dei popoli, non rischiando le proprie morti ma rischiando le proprie vite. Presidente Giorgio Napolitano non la invidiamo, certo! Le diamo fiducia consapevoli che anche lei non può che sentirsi personalmente, drammaticamente in causa. Per il resto le nostre storie sono state profondamente diverse e non di rado vicine. Fin dove il probabile non ce lo indica. Nel possibile e la speranza per tutto il nostro popolo. E non solo».

NOTE

Da Il Clandestino