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Visualizza Versione Completa : Contributi alla conoscenza del sardismo.... Marzo 1982



Su Componidori
30-12-05, 02:16
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Marzo 1982

PREMESSA

In questo secondo numero dei “Quaderni Sardisti” abbiamo voluto affrontare alcuni temi, di pressante attualità sia nella discussione interna al Partito che più in generale nel dibattito politico sardo, ove ci si richiede da più parti una maggiore chiarezza soprattutto sulle questioni ideologiche di fondo.
Per quanto ci concerne non abbiamo fatto altro che tentare di precisare ancor più quanto scaturito dal XX Congresso di Porto Torres, i cui importantissimi deliberati sono di per sé già abbastanza chiari. Affrontando temi come il nazionalismo, la teoria della dipendenza, l'indipendentismo e il socialismo sardista, abbiamo cercato di non fornire schemi fissi e né tantomeno pretendiamo di dire cose definitive ed immutabili, ma è stato nostro intendimento tentare di stimolare un dibattito soprattutto interno al Partito, dibattito che purtroppo, ed a tutti i livelli, stenta a decollare. E questo fatto non è di sicuro un bene, perché mai come in questo momento il Partito ha avuto bisogno di tutti i suoi uomini per definire gli aspetti strategici e tattici della propria battaglia indipendentista e socialista.
Ci siamo trovati di fronte a notevoli problemi di ordine terminologico, nel senso che da una parte vi era la preoccupazione di essere sufficientemente chiari e semplici, dall'altra la necessità di dire le cose con precisione. Ne è venuto fuori ciò che avrete modo di leggere nelle prossime pagine, e ci scusiamo con gli « addetti ai favorì » se spesso siamo stati un po' troppo superficiali, e con i « non addetti ai lavori » se alcuni passaggi, speriamo di no, dovessero risultare intricati e di incerta comprensione.
Desideriamo infine, a conclusione di questa breve premessa, informare i Sardisti e i simpatizzanti che dal prossimo numero in poi i "Quaderni Sardisti" cominceranno a trattare di problemi settoriali, specifici. t in attesa di varcare le soglie della tipografia un quaderno sulla lingua, e ve ne sono in allestimento altri su energia, pesca, pastorizia e agricoltura, turismo, servitù militari. - inoltre ricordiamo che il gruppo che lavora alla preparazione dei « Quaderni » intende procedere con l'apporto di tutti i militanti e simpatizzanti sardisti. Per cui tutti coloro che intendessero collaborare o spedire materiale, e speriamo che siano tanti, sono invitati a prendere contatto con noi, magari inviando documenti, scritti e fotografie per posta alla Federazione Distrettuale di Sassari del Partito Sardo d'Azione, via Roma 16, 07100 Sassari.


FORZA PARIS

Capitolo l.
IL POPOLO SARDO ED IL SARDISMO

Forse è ancora prematuro formulare un giudizio il più sereno ed imparziale possibile sul ruolo svolto dal Sardismo e sul contributo fornito dal Partito Sardo d'Azione agli sviluppi della storia sarda contemporanea. Sarà questo un arduo compito riservato, nei prossimi anni, alla storiografia moderna.
E’ grande merito del Sardismo in ogni caso, l'aver risvegliato nel popolo sardo l'antica coscienza autonomista, lo spirito contestativo e combattivo.
Il tentativo di scoprire la vera genesi dei Sardismo, si perde certamente nell'immensità e nell'oscurità dei tempi più antichi. Si potrebbe affermare che sia stato un sardista potenziale il primo nuragico che ha scagliato la prima freccia contro i primi cartaginesi bellicosi nel momento in cui alla collaborazione commerciale vollero sostituire la colonizzazione politico-militare; come altresì può essere definito un altro sardista potenziale colui che contesta e insorge contro il fallimento della politica economica finora seguita dal governi italiani, colui che contesta e insorge contro un rapporto di dipendenza che ci imprigiona all'interno di un contesto statale dove vengono costantemente disattesi i nostri problemi, i nostri impellenti bisogni di progresso e di giustizia sociale.


1.1. Dalla Sardità di ieri, al Sardismo di oggi.

Il Sardismo che è l'ansia di riscatto e di redenzione da un avvilente abisso storico che ci opprime si identifica moralmente in un idealistico rapporto di continuità della perenne azione combattiva e della costante ribellione popolare che si è attivata, nel plurimillenario spazio della nostra storia.
Il Sardismo dunque ha radici tenaci, penetrate profondamente nei cuore e nell'anima dei popolo sardo. La spinta concreta volta a dare un moderno senso teorico e pratico allo stesso tempo, alle finalità di lotta -popolari tendenti alla riaffermazione dei principio di autogoverno della Sardegna, si ebbe subito dopo la fine della prima guerra mondiale. Quelle sollecitazioni idealistiche, germogliate e maturate nella coscienza delle masse giovanili, che avevano partecipato, alle vicende più rischiose dei conflitto, esplosero violentemente in tutta la Sardegna, e, divenendo cultura e dottrina politica, assumevano un nome glorioso e altamente significativo: Sardismo. E Sardismo divenne rapidamente sinonimo di lotta, di sacrificio, di volontà di riscossa e di rinnovamento sociale, di rinascita economica, coscienza e difesa allo stesso tempo, dei più elevati valori umani, spirituali, culturali, etnici dei popolo sardo, rivendicazione insomma, dei diritto di autogestione della politica economica e sociale in Sardegna. Quelle ansie sofferte, quelle aspirazioni largamente diffuse fra le masse popolari in continuo, e crescente fermento, sotto la spinta caratterizzante e vivificante della dottrina socialista furono raccolte in termini decisamente rivoluzionari dal costituendo P.S. d'A. Tutta l'azione contestativa popolare svolta in Sardegna prima e dopo l'infausto evento fascista, fu impersonata e guidata dal Sardismo; il P.S.d'A. fu ed è ancora il fiero depositario di quella ideologia innovatrice.


1.2. Sardismo come vuota enunciazione sentimentale o come realtà Sarda?

Sbagliano molti avversari quando si ostinano a far credere agli ingenui che il Sardismo altro non può essere che una enunciazione sentimentale, vuota, astratta e fuori dei tempo, come dicono il falso quando pretendono di considerare il P.S.d'A, che, quella ideologia ha rappresentato e crede di rappresentare ancora, un relitto storico. Il Sardismo, piaccia o meno, è più che mai un'intensa forza morale, è l'esaltazione dell'originale e profonda spiritualità dei popolo sardo, è l'interpretazione più autentica dei suoi supremi ideali di libertà, di redenzione sociale, di rinascita economica, di fratellanza, portati con la lotta politica democratica sul terreno dell'azione rivoluzionaria, per le più elevate conquiste politiche e sociali. Attraverso la lotta popolare e democratica, il Sardismo si propone di pervenire al riconoscimento dell'indipendenza della Sardegna, elevata nuovamente alla dignità di Nazione, nell'ampio disegno delle unioni federali e confederali dei popoli liberi dell'Europa mediterranea. E’ questa una legittima aspirazione che le è propria per una incontestabile vocazione storica e per la specifica condizione geografica.
Il Sardismo è il garante, il fedele custode di queste aspirazioni, tanto sublimi quanto irrinunciabili. Il travaglio storico del passato, il drammatico momento presente, le oscure ed incerte prospettive del divenire, ci richiamano purtroppo ad una severa responsabilità.
La rinascita della Sardegna, la redenzione del nostro popolo non possono realizzarsi attraverso mere soluzioni attendistiche o di compromesso politico che potrebbero derivare dall'accettazione di una dinamica di lotta indirizzata esclusivamente sul piano protestativo; quelle ipotesi - l'esperienza lo dimostra - conducono invariabilmente a risultati sterili ed inconcludenti, risultati che possono generare ancora opache illusioni, nella ormai sfiduciata sensibilità popolare. Il Sardismo intende affrontare il problema alle radici, nella convinzione che non vi possa essere altra via di salvezza per il nostro popolo, oltre a quella che ci riconduce all'indipendenza. Allo stesso tempo non possiamo rinunciare a difendere le nostre esiziali prerogative: territorio, cultura, etnia, religione, ordinamenti umani, sociali e giuridici, tradizioni e costumanze, se non vogliamo correre il rischio di essere sommersi dalla prevalenza di altri popoli egemoni ed essere condannati per sempre alla sudditanza. Ecco perché è indispensabile combattere costantemente per arrestare e respingere il processo di snazionalizzazione della Sardegna, messo in atto attraverso la tirannide politica, l’inganno ideologico e sentimentale, ecco perché è necessario resistere e respingere il tentativo di snaturare l'antica e singolare personalità dei popolo sardo, portato avanti con gli stessi metodi e sistemi.

1.3. L'evoluzione della cultura e della dottrina sardista.

Spesso sentiamo levarsi certe affermazioni che accusano il Sardismo di voler condurre il popolo sardo all'odio e alla lotta contro i fratelli (non sardi) accusati di essere, in Sardegna, gli esecutori materiali di un disegno di dipendenza di stampo coloniale. Non si potrebbe esprimere affermazione più falsa. Il Sardismo non combatte i colonialisti in quanto preposti all'attuazione di un ordinamento oppressivo ma combatte il colonialismo in tutte le sue espressioni e manifestazioni, in quanto rappresenta uno strumento mostruoso di sfruttamento del popolo e di sovvertimento delle sue libertà.
Gli stessi sardisti sono accusati di essere dei visionari, degli esaltati e di rappresentare un'esigua minoranza; non ci mortifica questa accusa gratuita e ingenerosa, né ci scoraggia o ci fa vergognare; le azioni più efficaci, più incisive negli innumerevoli contesti o confronti rivoluzionari, sono state iniziate e condotte da minoranze.
Una cosa pare estremamente importante in ogni caso: avere nella coscienza la certezza della giusta causa e della verità, sorretta dalla fede inflessibile nei valori delle idealità in cui si crede e per le quali si lotta.
Nel campo delle riforme da apportare alle strutture sociali, economiche, culturali, amministrative etc. il Sardismo si muove nel solco degli insegnamenti del Socialismo e della democrazia. Il Sardismo non potrà essere in grado di esprimere una chiara e risolutiva azione rivoluzionaria veramente riformatrice, tesa appunto alla elevazione della condizione economica e sociale del Popolo sardo, ove non si tenga conto dei grandi valori della cultura e della dottrina dei Socialismo moderno. Né tantomeno il Socialismo potrà essere in grado di incidere positivamente nel contesto riformatore della società sarda, ove non si voglia accettare la superba realtà del Sardismo accesa intensamente nella nuova cultura politica del Popolo sardo. In questa visione, che deve rappresentare il punto di riferimento delle battaglie che si combattono e si combatteranno per il conseguimento dell'Autonomia Politica della Sardegna, si può identificare la via sarda al Socialismo.

1.4. Popolo Sardo: il diritto di chiamarsi così.

Il Sardismo combatte questa battaglia appellandosi alla chiarezza della propria ideologia, -alla volontà, alla forza morale e materiale dei figli di Sardegna, alla solidarietà dei popoli liberi, alla garanzia degli Statuti supernazionali per la difesa dei diritti dell'uomo e delle nazioni e comunità etniche oppresse.
E’ assolutamente necessario che il popolo sardo rifletta serenamente sulla triste condizione nella quale è stata trascinata la Sardegna, affinché si renda conto che esiste oggi un solo modo di intendere e concepire l'autonomia a cui ha diritto; ed è appunto quello che prevede il ritorno alla sovranità nazionale; quella stessa sovranità e indipendenza che, nel 1847 ci fu sottratta dalla sottile diplomazia piemontese con la complicità della asservita aristocrazia locale.
Il momento storico è estremamente grave e drammatico: o il popolo riesce a ritrovare il coraggio, la compattezza, la forza per affrontare e portare a soluzione i problemi in chiave sardista, o dovrà rinunciare alla prerogativa di essere chiamato « Popolo Sardo ». Pesa su ciascuno di noi una enorme responsabilità storica. Il riscatto della Sardegna è sempre possibile, ma c'è una sola via certa da percorrere, ed è quella che il Sardismo va indicando con veemenza, determinazione e chiarezza. Se il popolo si muoverà su questa via, si muoverà certamente sulla via giusta, sulla via della verità e dei riscatto. O quella via, o il rischio di essere definitivamente travolti dagli eventi più oscuri, cancellati e dimenticati per sempre dalla storia.


Capitolo 2.NAZIONALITA E NAZIONALISMO

« ... Se un uomo non è stabilmente inserito in una nicchia sociale, è obbligato a portare con sé la propria identità in tutto il suo stile di comportamento e di espressione; in altre parole la sua "cultura" diventa la sua identità. E classificare gli uomini per "cultura,' significa naturalmente classificarli per "nazionalità". Questo è il motivo per cui sembra ormai insito nella stessa natura delle cose che essere uomini significhi avere una nazionalità... ».
(E. GELLNER)

2.1. Premessa.

Nonostante gli innumerevoli tentativi storici di integrazione politica, economica, culturale e sociale che tutti gli stati dominanti hanno perseguito in Sardegna da secoli, il popolo sardo continua ad essere un gruppo a sé stante, un'entità sociale che non si può assolutamente confondere con altre; e questo nonostante che la Sardegna sia stata suo malgrado dominata da una miriade di stati e governi i più disparati. Tutti sappiamo come i governi calati in Sardegna abbiano sempre perseguito una linea ed una prassi politica che si accordassero non con le esigenze locali ma con gli scopi politici e soprattutto economici che si prefiggeva il governo della popolazione dominante. L'esempio più lampante si può vedere in quei provvedimenti legislativi, sempre di attualità, che non riconoscono una vera esigenza della base e che incontrano in Sardegna una costante resistenza popolare.
Il popolo si chiude attorno ai propri valori tradizionali che assumono la tendenza a cristallizzare ed aumenta così il divario sociale con il resto dello stato.
Questo processo tende ad allargarsi sempre più coi passare dei tempo nonostante i poderosi tentativi di accentrazione ed integrazione operati dal popolo dominante.
Se in Sardegna è sempre avvenuto ed avviene questo fenomeno è perché i Sardi sentono, spesso inconsciamente, di appartenere ad una nazionalità diversa.
E’ bene sgombrare subito il campo dai falsi termini. Molti, soprattutto in Italia, identificano lo stato con la nazione. E’questa un'eredità della Rivoluzione francese e delle grandi rivoluzioni nazionali dell'Ottocento europeo, quando non ci si preoccupava granché di inglobare nel costituendo stato altre piccole nazionalità in genere periferiche. E’ evidente però che i termini indicano due concetti differenti. Se è facile intuire quello di Stato come una struttura fatta dagli uomini e tesa alla gestione dei potere, è più difficile definire la Nazione, anche se questa rappresenta un fenomeno del tutto naturale.
Che i concetti siano diversi, però, lo si può vedere facilmente in pratica, perché esistono nazioni formate da più stati, ad esempio quella araba e quella tedesca, e stati formati da più nazioni, ad esempio l'U.R.S.S., la Jugoslavia etc.


2.2. Definizione di Nazione.

Una definizione universale di nazione non esiste, perché cambia col tempo, col luogo, e la situazione storica. Così tutti coloro che si sono cimentati nell'argomento, hanno forgiato definizioni legate sempre a fatti contingenti. Marx, ad esempio, sosteneva che le nazioni erano comunità umane formatesi in Europa da un crogiuolo di popoli a partire dall'Alto Medio Evo. Come spiegare allora,le nazioni extraeuropee che non hanno conosciuto il nostro Medio Evo, ad esempio quelle africane?
Tralasciando il concetto medioevale e rinascimentale di nazione (la nazione dei calzolai, la nazione fiorentina etc.) le prime definizioni moderne della,nazione nascono così sul finire del Settecento e nei primi anni dell'Ottocento. Carlo Pisacane, ad esempio, considerava la nazionalità come la libera manifestazione della volontà collettiva; ovviamente si tratta di una affermazione astratta e senza riscontri concreti. Tuttavia è proprio nell'Ottocento che trionfa il concetto borghese di Nazione con la triade « Lingua, Sangue, Suolo ». Ma già Rousseau sosteneva che a questi caratteri bisognava aggiungere la « volontà generale » dei suoi componenti. Pur essendo esatto, questo è un dato che ci può sviare, poiché si presta a manipolazione. C'è infatti chi sostiene che la Nazione è « il plebiscito di tutti i giorni » ma dimentica evidentemente che il plebiscito ratifica il valore della maggioranza e non la volontà generale. A questo proposito è invece interessante,notare come anche fra i ceti proletari l’istinto nazionale è sempre molto più forte di quello di classe.
Tralasciando la definizione di Engels, che secondo una logica quasi nazista, distingueva nazioni vitali e non vitali, è solo all’inizio di questo secolo che la definizione di nazione assume maggiore concretezza e universalità. Essa venne definita come « una comunità stabile, storicamente formatasi, di lingua, di territorio, di vita economica e di conformazione psichica che si manifestano nella comune cultura. Mancando una di queste caratteristiche la Nazione cessa di essere tale ». Weber aggiungeva anche e soprattutto la possibilità dei prodursi all'interno di questi gruppi umani di un sentimento di solidarietà che li oppone ad altri gruppi. In tal modo la cultura nazionale diventa « coscienza collettiva, e cioè l'insieme dei valori, di norme e orientamenti all'azione accettati comunemente e che sarebbero alla base di ogni ordine sociale. Infatti, quando un popolo vive sempre unito nelle generazioni, con una storia comune, tende a crearsi istituzioni caratteristiche modi di vita particolari, adeguati all'ambiente fisico ed al livello tecnologico da esso raggiunto. Dì fronte a nuove circostanze adatterà a queste la propria cultura, ma questo adattamento muoverà dalle vecchie tradizioni, di cui sarà sempre riconoscibile la continuità.


2.3. La Nazione come confine sociale.

In termini moderni possiamo dire che la Nazione è un fenomeno di differenziazione di tipo dinamico. Ciò che differenzia un gruppo etnico da un altro è il fatto che « chi ne fa parte si identifica e viene identificato dagli altri, come appartenente ad una categoria distinguibile dalle altre categorie dello stesso ordine ».
La Nazionalità è dunque, in ultima analisi, legata al mantenimento di un confine sociale rispetto ad altri gruppi.


2.4. La Nazione Sarda.

Riportando questo discorso alla Sardegna, è indubbio che l'isola costituisce una Nazione a sé stante. Siamo una comunità storicamente formatasi che niente ha da vedere con la storia e la cultura italiana, con una nostra lingua, un territorio ben determinato, una vita economica, sia pure di tipo arcaico, che sfociano in una comune cultura.
Noi non accettiamo il discorso di chi sostiene che la Sardegna perse l'occasione di diventare nazione con la « fusione perfetta » con il Piemonte voluta dalla borghesia compradora isolana nel 1847. La nazione semmai esisteva già da prima e si è sempre mantenuta fino ad oggi perché continuano ad esistere i presupposti per la sua esistenza. Non è la carta bollata infatti che fa scomparire le nazioni ma solo la volontà popolare di volersi integrare. Non manca ai Sardi neppure la « solidarietà nazionale », come ben sanno soprattutto i nostri emigrati. L'emigrazione è infatti un potente stimolo nell'acquisizione della propria identità etnica. I Sardi emigrati sono gli unici emigrati dello stato italiano che non fanno lega con altri ma si associano per conto proprio, e questo avviene sia all'estero che nella stessa Italia.
Questo aspetto « dinamico » della nazione tende a svilupparsi ulteriormente. Infatti l'esistenza di una divisione territoriale, o se vogliamo, culturale, del lavoro contribuisce e contribuirà in futuro allo sviluppo della nostra identità etnica.


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2.5. Nazionalità oppresse e dipendenza economica.

L'Italia è caratterizzata da una struttura industriale e produttiva diversificata, mentre i parametri di sviluppo della Sardegna sono dipendenti e complementari a quelli italiani. La nostra industria, basti pensare al settore petrolchimico, è altamente specializzata e destinata al l'esportazione. Perciò la nostra economia è più sensibile alle fluttuazioni dei prezzi sul mercato internazionale. A causa della dipendenza economica il nostro reddito è sempre minore di quello italiano.
Ecco spiegato perché il contrasto generato da questa situazione non porti affatto ad alcun tipo di sviluppo sociale ed economico simile a quello delle metropoli. Il frutto della colonizzazione è lo « sviluppo del sottosviluppo ». Questo porta inesorabilmente ad una sempre maggiore differenziazione fra i Sardi e gli Italiani. Perciò i Sardi tendono e tenderanno maggiormente in futuro a ricercare le radici della propria diversità, in altre parole dell'identità.
Rompere con il rapporto di dipendenza coloniale e rendersi stato sovrano è l'unico modo per bloccare questa spirale di assoggettamento. In tal modo lo sviluppo sociale, culturale ed economico sarà di sicuro più confacente ai nostri bisogni.
Oggi nel mondo altre numerose piccole nazioni, intrappolate in altri stati e relegate alla periferia del loro sistema economico, cercano, talvolta disperatamente, di far valere i propri diritti. In questo senso la lotta politica indicata dal nostro partito è attuale, moderna, veramente internazionalista ed il P.S.d’A.. si configura come un modernissimo movimento di liberazione nazionale che persegue in Sardegna, con metodi democratici e pacifici, un'autentica rivoluzione: quella di toglierci di dosso la dipendenza; politica, economica, sociale, culturale e, perché no, anche psicologica, che spinge molti sardi a non rivelarsi come tali, a causa dei complesso di inferiorità inculcatoci dai dominatori tramite l'acculturazione, forzata o sottile.



2.6. L'indipendentismo.

E’ ingiusto e denigratorio accusare noi Sardisti di « separatismo », questo termine, negativo, sottintende il desiderio di « separarsi » da un corpo omogeneo per motivi, in genere egoistici. Ma noi Sardi non siamo omogenei né con gli Italiani né con altri. Preferiamo invece parlare di indipendentismo. Lungi dal chiuderei verso l'esterno, questa soluzione ci aprirebbe invece a rapporti da pari a pari con gli altri popoli, assicurandoci maggior dignità e rispetto. Le nostre rivendicazioni non sono isolazioniste. Semmai è proprio il rapporto di dipendenza attuale dall'Italia che ci isola dagli altri popoli. Noi siamo per l'Europa unita, ma questa unione deve avvenire fra le Nazioni e non fra gli stati. Partecipare all'Europa unita delegati dall'Italia significa cancellare la nostra peculiarità e sancire la nostra scomparsa. Invece intendiamo parteciparvi in prima persona, senza delegare nessuno. Non dobbiamo dimenticare inoltre che la Sardegna come stato indipendente, può svolgere un ruolo estremamente importante nel Mediterraneo, sfruttando la sua posizione centrale come punto di incontro di tre continenti (Europa, Africa, Medio Oriente).
Appare dunque chiaro, da quanto si è più sopra esposto, il senso della proposta di Confederazione mediterranea ed europea delle Etnie, contenuta nell'art. 1 dello statuto del Partito.
Uno degli obiettivi tattici prioritari dei P.S.d'A. nei prossimi anni dovrebbe essere quello del riconoscimento della Sardegna come « minoranza nazionale », sull'esempio della costituzione spagnola. Questa ultima, che è la più recente e moderna apparsa in Europa, riconosce e distingue nello stato spagnolo le nazioni dalle regioni; al contrario l'Italia, che ha creato le regioni ordinarie e le regioni a statuto speciale, le quali ultime, però, sono in pratica meno speciali di quelle ordinarie.


2.7. Il Colonialismo interno.

Oggi l'isola è sottoposta ad un vero regime coloniale. L'imposizione della lingua dominante nell'uso pubblico e la negazione di quella dominata; il disprezzo e l'oblio assegnato nella scuola pubblica alla nostra storia, alle nostre tradizioni e alla nostra cultura; lo sfruttamento delle risorse locali (minerarie, agricole etc.),da parte di gruppi economici stranieri senza una minima trasformazione in loco; lo spopolamento forzato dell'Isola verso le metropoli del continente europeo per costruire il progresso altrui; l'arrivo in loro vece di membri del popolo dominante ai posti dirigenziali (uffici amministrativi, giudiziari, banche, scuole etc.); l'emarginazione sociale ed il razzismo; l'offensivo trattamento differenziale nei trasporti; le servitù militari, il turismo per pochi, le industrie inquinanti ma soprattutto le monoculture economiche, funzionali allo sviluppo delle metropoli ma non certo a quello dell'isola; tutto ciò ci legittima a dire che la Sardegna è una colonia dello stato italiano. Anzi, è la prima ed ultima sua colonia. Non si tratta ovviamente del colonialismo europeo tipico del secolo scorso, né tantomeno dei neocolonialismo tipo Commonwealth, ma del « colonialismo interno », che ridurre al ruolo di colonia una parte periferica dei corpo dello stato, parte abitata in genere da una minoranza etnica.


2.8. Un Nazionalismo nuovo.

E’ compito del Partito Sardo d'Azione portare avanti una rivendicazione nazionalista di tipo nuovo. Spessissimo il nazionalismo è stato qualcosa di conservatore, o addirittura reazionario, che serviva proprio a legittimare il predominio di una Nazione sull'altra. Il nostro deve invece essere un nazionalismo rivoluzionario e progressista.
Dobbiamo rivendicare, con i nostri, anche i diritti di tutti i popoli, siano essi grandi o piccoli, contro qualsiasi prevaricazione, alla ricerca dei progresso civile ed economico.
In sostanza la vera rinascita della Sardegna, ma preferiamo dire semplicemente la « nascita », può avvenire solo quando, spezzato il vincolo coloniale, noi Sardi potremo gestirci politicamente e potremo gestire le nostre risorse economiche secondo i bisogni effettivi del nostro popolo. Ma ciò significa, che la nostra Nazione deve conseguire la trasformazione in Stato.


Capitolo 3.
LA DIPENDENZA ECONOMICA ED IL COLONIALISMO IN SARDEGNA

3.1. Impostazione del problema.

La Sardegna è una colonia od una semicolonia? Oppure è più semplicemente arretrata e sottosviluppata come tutto il Meridione? I sardi si mantengono grazie all'aiuto che gli dà lo stato italiano o sono da questo defraudati?
Per analizzare la situazione della Sardegna si usano i più svariati termini, spesso contrastanti, e le affermazioni più disparate che, in genere, non colgono certo la nostra situazione. E’ bene fare chiarezza e battere le concezioni errate in quanto noi stessi spesso cadiamo in affermazioni generiche o non riusciamo ad inquadrare appieno la nostra situazione.
Dato per certo che la Sardegna è una nazionalità oppressa, si pone il problema di valutare la sua situazione economica, infatti esistono nazionalità oppresse che sono pure sfruttate economicamente (come la Corsica e l'Irlanda), altre che hanno un'economia avanzata pur restando nazioni proibite (come i Paesi Baschi e la Catalogna).
La Sardegna rientra fra le prime: le viene negato il diritto alla sua piena espressione nazionale ed è stata presa e continua ad essere usata come colonia. Cerchiamo di giustificare e chiarire questa teoria e verificare come il colonialismo è andato evolvendosi in Sardegna. Prima però è bene eliminare alcuni metodi devianti di affrontare il problema.
Fra le concezioni sbagliate, vi è quella di considerare il sottosviluppo come fenomeno frutto di soli fattori interni alle aree interessate; la sovra o sottopopolazione, l'insufficiente sfruttamento o la scarsità delle risorse naturali, le caratteristiche sociali e culturali dei popoli interessati (come la mancanza di imprenditorialità, di coesione interna ecc.).
Simili impostazioni, oltreché basarsi sulla concezione razzista della esistenza di culture inferiori che devono evolversi sino ad arrivare ai livelli di cultura considerati superiori, confondono le cause con gli effetti ed affrontano il problema come se si trattasse di una situazione isolata in se stessa.
Una migliore impostazione si ha quando si pone il problema in termini di comparazione; infatti attuando dei confronti e delle relazioni internazionali, si può osservare che bastano lievi squilibri iniziali di ruoli o di scambio per far sì che i meccanismi di mercato accentuino il divario fra le aree sino a creare diversi livelli produttivi.
Al rigido economicismo di questa impostazione si oppone un approccio al problema basato non solo sui meccanismi di mercato ma anche su fattori politici, sociali e culturali così come sono andati evolvendosi nel processo storico.


3.2. Il colonialismo classico.

Sino al XVI secolo il commercio europeo in certe aree era attuato come una pura rapina di risorse che sconvolgeva la crescita delle economie locali; in certe altre regioni isolate esisteva un minor sviluppo, o meglio un particolare sviluppo, dovuto a cause prettamente,interne, infatti, in queste aree, non vi era, per cause geografiche e storiche, un rapporto fondamentale con le potenze coloniali.
La Sardegna si trovò in periodi diversi in entrambe le situazioni che vanno dal saccheggio della dominazione romana all'indipendenza giudicale per finire nella completa stasi feudale con gli spagnoli. Nel XVII secolo la Sardegna divenne merce di scambio commerciale e pertanto considerata anche dai piemontesi come territorio da depredare nelle sue risorse.
Questo succedeva mentre in altre regioni dell'Europa iniziava il grande processo di sviluppo della rivoluzione industriale.
In questa fase tutte le aree geografiche diventano oggetto di intenso prelevamento di materie prime e vengono usate come mercato per i manufatti industriali; nelle colonie si completa, con questo intervento, lo scardinamento delle economie preesistenti.
In Sardegna questa tendenza all'inserimento sulle nuove economie si esprime con le leggi dei XIX secolo che se da un lato mirano a far uscire dal feudalesimo e dalla sussistenza la nostra economia (in quanto occorre creare produzione e mercato), dall'altro continuano a favorire gli antichi privilegi e avvantaggiano i mediatori locali e soprattutto le società straniere.
E’ in questo periodo infatti che si organizzano ed intensificano i prelevamenti di sughero (esportato dai Piemontesi sino in Germania e negli Stati Uniti), di granito (si ampliò il porto di Genova e s costruì il canale di Suez), ed ancora sale, tonno, formaggi, pelli, vini, carne, carbone.
Inoltre il regno prelevava liquidi con le imposte più di quanto era possibile, per cui ì sardi dovevano versare le stesse aliquote di imposte fondiarie spettanti alle regioni più ricche come quella Torinese.
In cinque anni, dal '73 al '78, secondo il Tuveri 20.000 agricoltori Sardi abbandonarono al fisco case e terreni, si ebbero comuni intieri senza alcun proprietario; su 37.000 immobili espropriati nel regno, 21.000 riguardavano la sola Sardegna. La tassa sui fabbricati equivaleva ad una pigione, in certi casi si raggiunge l'estremo pensabile, come a Sanluri, dove sì imposero imposte fondiarie pari al 65,5 per cento dei reddito imponibile; senza tralasciare che fra i tributi vi erano ancora imposte di marca feudale come lo spillatico per comprare i fermagli d'oro alla regina.
Un accenno particolare merita l'opera di distribuzione dei boschi secolari. Il patrimonio boschivo del nord era soggetto a protezione da leggi speciali; anche in Sardegna esistevano vincoli e divieti che arrivavano persino a vietare ai Sardi il diritto di legnatico, a questo scopo era stato istituito già dal 1844 il corpo forestale. Ma queste leggi e questi divieti, applicati severamente sui Sardi, servivano per riservare alle imprese straniere Francesi e Livornesi l'uso dei nostro patrimonio boschivo che, sino ad allora, era stato risparmiato persino dai Vandali e dagli Aragonesi.
In 50 anni si calcola che furono distrutti 193.000 ettari di foreste pari al 10 per cento della superficie agraria. Speculatori continentali come la società del Beltrami o dei Modigliani, con il benestare dei Cavour, riuscivano a pagarsi, solo dalle scorze concianti, l'acquisto, il taglio e il trasporto all'imbarco dei legname.
Ciò che rimaneva alla Sardegna era la terra spoglia e la miseria accentuata dalle invasioni barbaresche, dalle carestie e dalle pestilenze. Questa situazione non permise certo un'accumulazione di capitali e il conseguente reinvestimento produttivo da parte dei Sardi. Tentativi, come quello dei Falqui-Massidda, di allestire un cantiere navale, a capitale sardo, dovettero soccombere al monopolio delle società Rubattino e Florio; stessa sorte spettò ad alcune banche locali che crearono per un breve periodo una certa liquidità.
Il trattato commerciale del '51 con la Francia dette un certo slancio alla nostra economia e si arrivò ad esportare sino a 120.000 capi di soli bovini all'anno, ma il protezionismo Sabaudo, a favore delle industrie dei nord, con l'elevazione dei dazi doganali, riportò al collasso la nostra economia.
Gli interessi economici dei nord ebbero sempre facile gioco sui tentativi della nascente borghesia sarda di portare avanti un certo sviluppo, nonostante quest'ultima avesse rinunciato, nel 1847, alla sua autonomia per le mire ambiziose di arrivare alla parità con il continente.
Era questa la tipica situazione del colonialismo classico: i centri di potere politico ed economico Piemontesi reprimevano qualsiasi forma di sviluppo autonomo, mantenendo in subordine la piccola borghesia locale, prelevavano il possibile e impedivano, anche con le armi, tutte le opposizioni e rivolte che vi furono nel periodo.


3.3. Il Meridione e la Sardegna.

Nello stesso periodo la ricca borghesia latifondista meridionale trovò, al contrario di quella sarda, un ruolo ben definito che si espresse con una vera e propria spartizione-alleanza con il centro politico e industriale dei settentrione.
Il Meridione, al contrario di quanto si è lasciato spesso intendere, non era, prima dell'unificazione, arretrato o precapitalistico: infatti, a cavallo tra il '700 e l'800, si verifica un processo di scardinamento delle strutture economiche e sociali dei feudalesimo e c,i si avvia ad una impostazione borghese della produzione.
Nel regno borbonico i settori cantieristici, estrattivi, cartari, tessili, metalmeccanici, alimentari, erano sviluppati certamente quanto lo erano :quelli dei nord; prodotti come lo zolfo o gli agrumi erano ampiamente esportati ed il saldo della bilancia commerciale non era sicuramente in continuo passivo.
Il declino dei potere austriaco portò la borghesia meridionale ad accettare l'alleanza con la borghesia settentrionale; alleanza non paritetica in quanto quest'ultima aveva una struttura statale a lei organica. La politica dello stato unitario che seguì vide la graduale imposizione della superiorità dei settentrione sul meridione. L'abolizione delle barriere doganali e l'estensione delle tariffe piemontesi, comportò il blocco delle industrie meridionali tessili (cotone, lana), manifatturiere (ceramiche), della cartaria e metalmeccanica. H capitale straniero iniziò la sua penetrazione in settori come quelli dei trasporti o dell'estrattivo. Con la legge sul corso forzoso, iniziò la subordinazione dei sistema bancario meridionale (del Banco di Napoli in particolare) a vantaggio della Banca Nazionale che raccoglieva al sud per investire al nord. Con la recessione economica le industrie senza agevolazioni e crediti erano destinate a chiudere e lo stato, anche in questo caso, aiutò le sole industrie dei settentrione.
Questo assoggettamento fu possibile in quanto la borghesia bancaria-industriale aveva in mano il potere legislativo ed amministrativo, inoltre, nel primo periodo con la politica della destra, si ebbe un appoggio all'incremento delle produzioni agricole meridionali (olio, agrumi, vino). In seguito, con la politica protezionistca svantaggiosa per le industrie meridionali, vennero agevolate allo stesso tempo altre produzioni, in particolare, quelle granarie. L'alleanza tra la borghesia latifondista dei meridione e la borghesia industriale dei settentrione, per quanto creasse le condizioni di subordinazione dei sud, fu possibile in quanto permise il perpetuarsi del controllo latifondista sulle classi subalterne, controllo basato sul clientelismo, su sistemi di sfruttamento di origine feudale o su quelli degli intermediari parassitari come i gabellotti. Niente di tutto questo è avvenuto per le stesse classi sociali in Sardegna. La borghesia sarda è stata proprietaria terriera o nobiliare cittadina ma non è stata mai latifondista nei termini di quella meridionale.
I suoi tentativi di elevarsi contro il sistema feudale fallirono; le sue iniziative produttive, di accumulazione e quindi di reinvestimento non decollarono o videro il tracollo sotto il monopolio delle società continentali e la politica fiscale piemontese.
Una parte della borghesia sarda si mise spesso alla testa di rivolte popolari; infatti proprio a causa di questa sua condizione di subalternità, ha sempre tenuto maggiori legami con le classi popolari; si pensi ad esempio al diverso ruolo svolto dagli intellettuali in Sardegna e nel Meridione.
Un'altra parte della borghesia sarda intravvide una soluzione ai suoi problemi con l’accettazione passiva dello stato di fatto e con l'asservimento ai dominatori esterni e così, accontentandosi delle briciole lasciate loro dai dominatori, svolsero il ruolo tipico della borghesia compradora.
Le considerazioni che sono state fatte sull'evoluzione delle strutture produttive e sui diversi ruoli svolti dalle classi sociali ci inducono a constatare la diversificazione storica e economica della Sardegna dal Meridione nel suo rapporto con lo stato unitario.
Infatti se esistono in comune situazioni di arretratezza, carenze più o meno simili nelle strutture produttive, la borghesia Sarda, nei riguardi dello stato unitario, non solo non è riuscita ad imporre un minimo vantaggio ma non ha mai avuto un potere contrattuale che gli permettesse di porsi, nei confronti dello stato Piemontese, in un rapporto di forza che fosse favorevole in qualche modo.

3.4. Lo sviluppo dipendente, nuova formazione del colonialismo.

Nella fase monopolistica il capitale assume un aspetto multinazionale ed il suo intervento dalle centrali metropolitane si dirige anche verso zone periferiche le quali garantiscono costi minori. Questi movimenti di capitali negli ultimi decenni sono stati condizionati e limitati dagli innumerevoli processi di decolonizzazione condotti dai popoli oppressi. Una conseguenza di questa nuova situazione è un ulteriore impiego di capitali in tutte quelle aree marginali dell'Europa stessa. Il caso più evidente è quello dei pieds noirs che, scacciati dall'Algeria, hanno ottenuto vaste zone della Corsica dove vi hanno impiantato la monocoltura vitivinicola.
Un simile intervento esterno non innesca in genere un processo complessivo di sviluppo, sia perché i surplus sono sempre drenati verso la metropoli, e quindi non creano investimenti indotti, sia perché l'intervento si limita ad esaltare quei comparti che sono confacenti solo ad esigenze esterne.
Si creano così le monocolture estrattive o agricole, industriali di prima trasformazione o turistiche, completamente slegate dalle attività locali. In particolare, viene gonfiato il settore terziario (commercio e servitù) che funge da valvola di sfogo alla disoccupazione e fornisce un buon mercato per lo smercio dei manufatti metropolitani.
L'intervento del capitale esterno nelle colonie interne all'Europa manifesta degli elementi di dipendenza comuni a tutte le altre aree, e quindi tipici della fase imperialista, ma si diversifica e assume degli aspetti particolari sia in relazione alla situazione socioeconomica preesistente sia alle diverse modalità del suo intervento.
Queste particolarità possono essere sintetizzate in quattro punti:
1) L'intervento, rispondendo a sole esigenze esterne, penetra violentemente senza creare un dinamismo di crescita complessivo nei diversi settori: si limita infatti ad operare in alcuni comparti, disgregando e sconvolgendo quei processo di crescita che è insito nell'economia preesistente. Il drenaggio di surplus avviene mediante il prelievo di materie prime, di forza lavoro o più semplicemente con i massimi profitti.
2) Si ha una compenetrazione tra le attività produttive imposte dall'esterno con quelle preesistenti; le prime usano, sfruttano e mantengono in subalternità le seconde. In ogni caso il modo di produzione e il mercato hanno i caratteri tipici della fase capitalista.
3) le diseconomie e la dipendenza nello scambio sono destinati ad accrescersi per cui il divario tra centro e periferia aumenta con l'integrazione stessa. Questo senza negare il fatto che si possono creare delle situazioni particolari di sviluppo.
4) L'intervento esterno investe anche la sfera sociale e culturale e i modelli importati creano contrapposizione e sopraffazione nei riguardi delle espressioni socio-culturali indigene.
Per questi fattori noi consideriamo queste regioni periferiche dell'Europa come colonie interne; aree che subiscono uno sviluppo dipendente quale evoluta e nuova espressione dei colonialismo che rientra nei complessi rapporti imperialistici in campo mondiale. Appare così errata la tesi di chi sostiene che con l'industrializzazione e con l’inserimento, in un mercato di scambio. mondiale viene a cessare il rapporto di sudditanza coloniale; mentre è vero che sono cambiati i termini del colonialismo.


3.5. I nuovi termini della dipendenza coloniale in Sardegna.

In Sardegna, sino agli anni '50, vi era, in genere, una micro-economia di sussistenza, e, la maggior parte dei reddito era prodotta dalle industrie estrattive e dall'agricoltura (il 50 per cento) i cui prodotti erano esportati in cambio di manufatti. Il nostro prodotto manifatturiero produceva un reddito dei 12 per cento che era dato essenzialmente dall'artigianato.
Nel 1954 importiamo per 122 miliardi di lire, con oltre il 90 per cento di manufatti; ed esportiamo per 56 miliardi di lire.
Mentre le esportazioni sono costituite da prodotti di prima lavorazione, i cui produttori hanno un basso potere contrattuale nella formazione del prezzo; le importazioni, al contrario, riguardano prodotti finiti con prezzi di monopolio.
Infatti, sempre nel 1954, il valore delle merci importate era di circa 15.600 lire al quintale contro le 3.000 di quelle esportate. Con l'industrializzazione petrolchimica, e, in seguito, anche con il turismo, la situazione viene profondamente modificata e si ha la rottura di un equilibrio preesistente. Crollano le attività economiche tradizionali, si gonfia il terziario, calano in Sardegna affaristi di ogni sorta, mentre ai sardi non rimane che l'emigrazione.
Quindi, negli anni '60, si instaura una diversa dinamica nello sfruttamento della Sardegna.
Mentre al nord si sviluppano le industrie meccaniche, siderurgiche, manifatturiere, in Sardegna si imposta una politica per poli con la monocoltura petrolchimica, che, come è noto, è stata fatta con fondi pubblici . Queste hanno un alto rapporto capitale/ addetto, pertanto creano scarsa occupazione e l'unico valore aggiunto che lasciano in loco sono i salari. Riguardo a questo ultimo punto, è da rilevare che tutte le industrie con sede sociale esterna (chimiche, turistiche, bancarie, assicurazioni), attuano dei prelevamenti, o, in altri termini, drenano dei surplus verso l'esterno che non figurano nei nostro reddito e non attuano, in questo caso, attività indotte.

D'altro canto l'entrata in organismi europei con gli orientamenti che impongono e con la conseguente liberazione degli scambi (la CECA per l'estrattivo, il MEC per l'agricoltura), accentuano l'abbandono del settore primario. Lo sfogo è nell'immigrazione, nella disoccupazione e nell'urbanizzazione con l'accentuarsi di tutti i problemi connessi. Il condizionamento dei mass-media, l'imposizione di modelli esterni, il rapporto con il mondo turistico ci immettono in una sfera consumistica tipica delle aree più evolute, per cui richiediamo prodotti che non riusciamo a produrre in gioco sia per la disgregazione delle strutture che per la concorrenza esterna (questo vale anche per le produzioni di nostra tradizione come l'artigianato o la zootecnia). Pertanto i redditi creati dal terziario, dall’industria o dalle varie forme assistenziali vengono prevalentemente assorbiti da questa spirale consumistica.
E’ questa la nuova situazione del colonialismo in Sardegna riscontrabile nelle sue peculiarità in tutte le economie dipendenti.


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3.6. Considerazioni sui grafici e su altri dati di contabilità regionale.

1) Il valore delle esportazioni dei comparti agricolo, alimentare, metallurgico e meccanico, registrano, negli anni in esame un calo rilevante nella foro incidenza percentuale sul totale.
Questo calo è dovuto essenzialmente al forte aumento dei prodotti chimici. Infatti in valori assoluti, dal '60 al '73, diversi comparti registrano sempre nelle esportazioni, aumenti di valore rilevanti: l'alimentare passa da 19,7 a 41,3 miliardi; l'industria del legno e del sughero da 3 a 6,2 miliardi; le industrie tessili da 0,7 a 33,1 miliardi.
2) Il calo e la dinamica maggiore si ha nelle esportazioni delle produzioni estrattive che hanno una incidenza percentuale sul totale di 16,35 per cento nel '60 e di 2,1 per cento nel '73.
Interi comparti vengono a crollare come il carbone (esportato nel '60 per 430.000 tonnellate), lo zinco, il piombo, la calamina; altri comparti registrano uno sfruttamento vertiginoso come il caolino, il talco, la bentonite, la fluorina, la beritina.
3) L'aumento caratteristico nelle esportazioni è quello dei prodotti chimici che passano da 1,37 per cento del '60 a 59,16 per cento del '73. Se poi ci riferiamo, anziché al valore monetario all'incidenza del peso sul totale della merce esportata, si ha un aumento dell'1,0 per cento del '60 all'85,2 per cento dei '73.
4) Per le importazioni la dinamica maggiore si ha fra i prodotti estrattivi, dove il valore dei minerali non metalliferi è dell'1,22 per cento ne,1 '60 e dei 22,95 per cento nel '73. Tale incremento è dato dalla voce olii greggi del petrolio che rappresenta il 98,1 per cento del comparto.
5) Le importazioni di manufatti, di prodotti alimentari, agricoli, chimici, meccanici si mantengono pressoché costanti come rapporto percentuale; in valori assoluti tutti questi prodotti hanno degli aumenti notevoli giungendo in media a quadruplicarsi.
Più marcata è la situazione delle industrie metallurgiche che da un valore inferiore ai 6 miliardi nel '60 oltrepassa i 49 nel '73.
6) Il volume globale delle importazioni di beni di consumo passa da 172,7 miliardi nel '60 a 659,5 miliardi dei '73.
L’incidenza delle stesse importazioni di beni di consumo diretti (alimentari e non alimentari) sul totale dei consumi regionali aumenta dal 37,07 per cento dei '63 al 53,81 per cento dei '73. Oltre la metà dei beni di consumo risultano importati, questo rivela la nostra totale dipendenza dall'esterno per questo settore.
7) Il reddito sardo è di 534,102 miliardi nel '63 e di 1.639,149 miliardi nel '73. Il valore complessivo delle importazioni passa negli stessi anni da 332,440 miliardi a 1.228,610 miliardi
La crescita non è certo proporzionale infatti si ha un'incidenza delle importazioni rispetto al reddito regionale dei 62,24 per cento nel '63 e di 74,95 per cento nel '73. Pertanto una quota sempre maggiore del nostro reddito deve andare a coprire le importazioni. Allo stesso tempo il divario tra esportazioni ed importazioni si accresce sempre più registrando un saldo negativo di -212,477 miliardi nel '63 e di -606,211 miliardi nel '73.
8) Riguardo alla composizione percentuale del reddito regionale si verifica la sempre minor influenza dei settore agricolo, un aumento lieve del settore industriale e un forte aumento del settore terziario (commercio, trasporti, credito).
L'assistenzialismo (le pensioni ecc.) assume un peso sempre maggiore nella composizione dei reddito. La stessa dinamica accennata, viene confermata e rimarcata dall'andamento occupazionale così come è espresso nella tabella.


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Capitolo 4.
SPUNTI PER IL DIBATTITO
4.1. Il XX Congresso Nazionale del Partito.

Così recita il l° articolo dello Statuto del Partito Sardo d'Azione approvato al XX Congresso:
«Il Partito Sardo d'Azione è una libera associazione di coloro i quali vogliono costituire una forza politica allo scopo di realizzare il progresso sociale ed economico dei Popolo sardo e si propongono di condurre la Sardegna all'indipendenza, condizione per un patto federativo con la repubblica italiana e con altri stati europei o mediterranei su base di parità e di interesse reciproco ».
E così afferma la mozione congressuale unificata elaborata al XX Congresso:
« ... Il P.S.d'A., in questo suo primo Congresso Nazionale, il ventesimo da quando è nato, si propone al popolo sardo come guida e avanguardia dello lotta di liberazione nazionale per la conquista dell’indipendenza e del socialismo e per la costituzione della Repubblica di Sardegna... ».
« Solo l'indipendenza e lo stato sardo potranno risolvere i gravi problemi politici, economici, culturali della Sardegna. Solo essi potranno trasformare la nostra terra in un'isola di benessere, di pace, aperta alla collaborazione internazionale, da isola, quale essa è oggi, colonizzata, rapinata, dilaniata dalla disoccupazione e dal l'emigrazione, sottosviluppata e occupata da eserciti che ne fanno un'arma puntata contro popoli e nazioni con cui i Sardi non hanno alcun contenzioso aperto... Pur rispettandole forme di lotta diverse che altri popoli oppressi hanno ritenuto di dare alla
battaglia per la propria liberazione nazionale e sociale, il Partito Sardo riafferma l'originalità e la fondatezza della propria via pacifica all'indipendenza e al socialismo. La liberazione nazionale e sociale della Sardegna è obiettivo di una lotta che deve coinvolgere le grandi masse popolari sarde. Ed è obiettivo del Partito Sardo organizzare la maggioranza dei popolo sardo intorno a questo progetto storico... »
ed inoltre:
« ... Per diventare un progetto credibile, la liberazione nazionale della Sardegna deve abbandonare le ambigue pastoie della retorica e diventare scienza politica. Una nuova cultura politica, rigorosa ma non dogmatica ha necessità di studio e di elaborazione, oltre che, va da sè, di pratica concreta... Scienza politica significa, fra l'altro, aver la capacità di collegare i due momenti dell'obiettivo storico e della pratica concreta, quotidiana. Di modo che, sempre, qualsiasi iniziativa politica, operativa o di altra natura, sia improntata al raggiungimento dell'obiettivo storico: la Repubblica di Sardegna... ».
« L'Alternativa Sardista che proponiamo in questa fase storica contempla l'unità nazionale dei popolo sardo e delle sue organizzazioni democratiche che esprimono il governo della Sardegna, ma che si schierino all'opposizione del governo centrale, inteso come controparte ( ... ) ed espressione organizzata dei colonialismo italiano ».

4.2. Calare nella realtà le scelte strategiche.

L'opzione indipendentista e socialista fatta dal Partito ai Congresso di Porto Torres è indubbiamente un fatto storico di portata eccezionale. Si corre, però, il pericolo che l'assioma congressuale «alternativa sardista via sarda all'indipendenza e al socialismo » resti lettera morta, se il Partito Sardo non sarà in grado di elaborare, a cominciare da subito una strategia politica,a breve e a medio termine puntuale e rigorosa, che gli consenta di trasformarsi in tempi brevi nel Partito nazionale dei Sardi. Una strategia che consenta al Partito di esprimersi al meglio ed al di sopra delle attuali potenzialità in tutti i settori della vita civile e che trasformi i sentimenti di rivincita dei Sardi in prassi politica democratica.
Anche questo si è detto al Congresso: la via sarda al socialismo e all'indipendenza nazionale è una strada nuova, originale e pacifica; non perché in questo momento convenga essere pacifici, ma perché della democrazia e confronto civile abbiamo sempre fatto una bandiera; pacifica perché aborriamo la violenza e perché valutiamo che gli obiettivi dei nostro Partito, -che sono poi gli obiettivi storici dei popolo sardo, siano raggiungibili semplicemente con l'accrescimento e [a conquista della maggioranza dei consensi elettorali, considerata anche l'intrinseca debolezza politica e sociale dello stato italiano.
Chi oggi va in giro a dire che i problemi della Sardegna si risolvono con le armi in pugno, è, come afferma il presidente Columbu, un ostaggio in mano ai nostri nemici di sempre.
Forse siamo come Partito ad un bivio: una Nazione come la Sardegna, oppressa per millenni e per millenni costretta alla rabbia impotente, quando rialza la testa, pretende sempre più ciò che è suo ed in qualche modo, per logica storica, tenta di riaverlo. Se noi non saremo in grado dì riempire di contenuti e gestire in maniera vincente la via pacifica e democratica ai socialismo e all'indipendenza nazionale, se tergiverseremo, se i Sardisti, dopo gli slogan e gli entusiasmi dei Congresso torneranno a sonnecchiare, se ci saranno marce indietro, tradimenti e corruzioni, sarà, senza ombra di dubbio, la disfatta; il nostro popolo, sentendoci incapaci di guidarlo, ci scaricherà sicuramente, e cosa ancora peggiore, non vi sarà altra forza politica, almeno nell'immediato, capace di raccogliere la nostra eredità ideologica.

4.3. La necessità del dibattito nel partito.

Sui grandi appuntamenti storici e sulla prassi quotidiana del Sardismo occorre dire che il Partito non è monolitico, almeno nel senso di un forzoso umanismo, ma il dibattito, in considerazione dei compiti e delle mete che ci siamo prefissi, è ancora insufficiente come estensione ed innegabilmente superficiale come qualità.
E’ necessario che tutto il Partito, discuta; con calma, con serietà, con spirito di collaborazione, affinché la nostra strategia politica possa essere precisata ed affinata. Asse portante del l'elaborazione debbono essere le sezioni territoriali; alle Federazioni Distrettuali ed al Comitato Centrale spetta il compito di razionalizzare gli intendimenti della base e non di divenire organismi accentratori e verticistici. In un momento così importante della vita dei Partito e della Sardegna, pretendere d,i fare a meno dei contributo fattivo e decisivo della base e più in generale dei nostro popolo, sarebbe un errore destinato ad essere pagato a caro prezzo.

4.4. La questione sociale.

Argomento sul quale non vi è al nostro interno completa convergenza di vedute è ad esempio la questione sociale. E a riprova di quanto si è detto più sopra a proposito della necessità di discussione e di confronto razionale, sul Socialismo sardista i Sardisti dibattono in maniera asfittica, arretrata e talvolta clandestina, forse perché inebriati dalla cometa « indipendenza».
A questo proposito deve essere chiarissimo in tutti noi che il binomio indipendenza-socialismo è inscindibile, e che la questione sociale non si pone né prima né dopo la questione istituzionale; essa si pone contemporaneamente e la transizione istituzionale, che viene proposta dalle articolazioni della nostra linea politica è anche transizione sociale, transizione al socialismo. Un socialismo che trae la sua ragion d'essere e i suoi aspetti caratterizzanti dalla nostra storia e dal nostro presente. Un socialismo né filosovietico, né mitteleuropeo, né, terzomondista, né arabo. Semplicemente un socialismo sardo, costruito giorno per giorno dai lavoratori sardi e dalle foro organizzazioni. Socialismo capace di puntare il suo dito accusatore contro la politica imperiale delle grandi potenze e contro chi delle grandi potenze orientali e occidentali fa oggi nel Mediterraneo il mediatore d'affari (ve, ne sono tanti, inutile ricordarli tutti, basta citare per i due campi solo Libia e Israele con relativi servizi segreti).
Ma sbaglieremmo di grosso se pensassimo che il nostro deve essere un socialismo che, inorridito dalle cose del mondo, si rinchiude in un autarchico e superbo isolazionismo, indisponibile al dialogo con quanti combattono affinché ogni popolo abbia la libertà di esprimere, nella democrazia e nella pace, il diritto alla giustizia sociale. Non possiamo, ad esempio, restare indifferenti al vento socialista che oggi percorre l'Europa e che è sfociato nella vittoria di Mitterand in Francia e di Papandreu in Grecia. né possiamo restare indifferenti al nuovo corso del Partito Comunista Italiano, che dopo la clamorosa rottura con Mosca, si propone come promotore di una terza via, italiana ed europea, al socialismo.
Il Partito Sardo, espressione dei lavoratori dei campi, delle industrie, delle miniere, dei mare e dell'intelletto non deve assolutamente rinunziare ad avere un rapporto dialettico ed organico con la sinistra in quanto tale e nel suo complesso, pur restando ferme divisioni e divergenze soprattutto sugli aspetti istituzionali del futuro dell'isola.
Il dibattito a sinistra sui grandi temi dello sviluppo politico e sociale della Sardegna va dunque necessariamente razionalizzato, e questo è soprattutto compito nostro, se vogliamo che là dove affermiamo di volere la solidarietà e l'unità con i lavoratori italiani, e quindi con le forze politiche che in qualche modo li rappresentano, non si faccia semplice retorica.
Afferma il presidente del Partito Michele Columbu nella sua « lettera ai Sardisti »:
“ ... Non siamo né anticomunisti né antisocialisti perché da una simile posizione oggi non si può che passare al fascismo, la forza più pericolosamente nemica della pace, e della giustizia fra gli uomini e perché il socialísmo, comunque si presenti, storicamente imperfetto e ancora lontano dalle generose mete che si propone, necessariamente è anche un'aspirazione sardista “.
Quali sono, dunque, o quali dovrebbero essere i rapporti fra il nostro partito e la borghesia sarda?
Se è vero che quella sarda è oggi una borghesia stracciona, privata della possibilità di affacciarsi sui mercati e contare, o relegata al ruolo di « cane sotto il tavolo » (e altrimenti non potrebbe essere, visto che in tutte le colonie esiste una borghesia compradora), è altrettanto vero, e dobbiamo essere chiarissimi su questo punto, che Sardismo e indipendenza non significano offrire agli aspiranti capitalisti locali, la possibilità storica di mettersi al passo, con tutto ciò che ne consegue, con la borghesia d'oltremare.
Se è vero che nel cammino economico e sociale proposto dal nostro Partito trovano una loro collocazione in senso progressivo anche quei ceti imprenditoriali in qualche modo impossibilitati ad espandersi a causa della situazione coloniale vissuta dalla Sardegna, altrettanto vero è che noi non siamo e non aspiriamo a diventare il partito della futura borghesia isolana.
La società alla quale guardiamo con favore che, lo ripetiamo, non riconosce altrove modelli validi e da imitare, è un regime di uguaglianza, di diritto e di fatto; esso, lo ribadiamo, non significa appiattimento delle menti, non significa frustrazione delle capacità individuali, e non contempla lo sfruttamento di una classe su un'altra, di un uomo su un altro uomo.
Per noi la lotta delle classi più immiserite, più emarginate dal colonialismo non è la lotta per sostituirsi allo stato italiano e alla borghesia nel malgoverno la cosa pubblica, ma è la lotta per costruire una società dove tutti gli uomini abbiano gli stessi diritti e gli stessi doveri. Ecco perché il nostro Patto, espressione politica della concezione dei mondo e delle aspirazioni dei lavoratori sardi, non deve esaurire i suoi sforzi nella lotta per il raggiungimento dell'obiettivo-indipendenza, ma deve battersi con tutte le sue forze e con tutte le sue capacità affinché, secondo quanto postulato dall'art. 4 dello Statuto del Partito, la produzione tutta sia nelle mani dei lavoratori, e questi, oltre che controllarla, la possano gestire in prima persona.


BIBLIOGRAFIA DEI « QUADERNI SARDISTI »

AA. VV. Quaderni dell'economia sarda, U. S. Banco di Sardegna.

AA. VV. Quaderni sardi di economia, U.S. Banco di Sardegna.

AA. VV. La programmazione in Sardegna, Centro regionale programmazione.

AA. VV. I Rapporti della dipendenza, Editr. Dessì.

AA. VV. I nuovi termini della questione meridionale, Ed. Savelli.

M. COLUMBU. Lettera ai sardisti, P. S. d'A.

CIEMEN. Minoranze, (rivista).

F. CHERCHI PABA. Evoluzione storica dell'attività industriale agricola - caccia e pesca in
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M. HECHTER. Il colonialismo interno, Rosemberg & Sellier.

H. JAFFE. Il colonialismo oggi: economia e ideologia, Ed. Jaca Book.

M. LELLI. Proletariato e ceti medi in Sardegna: una società dipendente, De Donato.

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M. SABATINI. La crisi delle attività minerarie regionali ed il ruolo dei settore pubblico, Sarda
Press.

M. SABATINI. Il sistema economico della Sardegna, Sarda Press.

S. SALVI. Le nazioni proibite, Vallecchi.

S. SALVI. Patria e Matria, Vallecchi.



HANNO COLLABORATO:

Antonio Mura
Agostino Columbano
Basilio Floris
Silvana Floris
Franco Piretta
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Ennio Sanna

FOTO DI: Salvatore Pirisìnu


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