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09-04-06, 23:42
L'UNIONE SARDA
ARTISTI SARDI ALLO SPECCHIO
“Oggi impera la balentìa del nulla”
Piero Marras, cantautore di nicchia e sardista a prescindere
di MARIA PAOLA MASALA
Da piccolo giocava sempre da solo. E nell'andito di casa, a Nuoro, era insieme calciatore e cronista. «Urlavo gol, naturalmente, ma ero così pignolo che se non segnavo, se sbagliavo, ripetevo la cronaca, fino a far corrispondere ai calci le parole». Pignolo lo è rimasto, anche se non gioca più col pallone. Ma c'è la musica, l'altra grande passione infantile. «Un pianoforte, una chitarra, possono essere grandi amici di un ragazzino che gioca da solo».
Cinquantasette anni il prossimo settembre, Piero Marras ha sostituito la barba con un pizzetto. «Mi fa sentire meno vecchio». A suo dire, è in letargo, anche se è difficile crederlo. «Mi spiego: io lavoro moltissimo durante l'estate, faccio anche quaranta concerti da una piazza all'altra. Non riuscirei a non suonare a non cantare. E’ faticoso, ma ho un pubblico che mi segue. Cosi mi porto dietro la mia carovana (cinque musicisti, cinque danzatrici, più un service di tecnici). Siamo insieme da trent'anni. Dopo le vacanze estive, entro in letargo. E allora studio, leggo, scrivo, suono, passeggio. Faccio un sacco di cose ma non mi espongo».
Un ozio altamente creativo, il suo, se è vero che dopo Pasqua uscirà un suo Dvd, il primo, Piero Marras, con tutte le sue canzoni (una quindicina di dischi) e molti brani live, come il concerto con Dionne Warwick davanti a Giovanni Paolo II. «lo amo molto il live. E il Dvd è un mezzo interattivo che ti consente di fare cose impensabili qualche anno fa».
Tra le tante copertine dei suoi album ci sarà anche la prima, quando era ancora Piersalis?
«La ricorda? Fra il '74 e stavo nella stessa casa discografica di Aurelio e Marisa Fierro. Dovevo andare a Sanremo con un pezzo sui nonni in ospizio che piaceva molto ai Fierro. Lo censurarono perché era troppo triste. Ci avrebbero pensato Modugno e Renato Zero, anni dopo, a sdoganare l'argomento».
Dove ha prodotto il Dvd?
«A Cagliari, nello studio Enneelle di Massimo Pinna. Ci abbiamo messo cinque mesi, ma ormai è pronto. Un lavoro certosino, di grande livello. Ci sono settanta link».
Se Piero Marras non fosse nato in Sardegna?
«Avrebbe perso molto. lo sono venuto fuori come cantautore italiano, e non lo rinnego. Vorrei che il mio prossimo lavoro fosse una sintesi tra questi due mondi. Ma essere sardo è importante. Ho rischiato e ho vinto. In un mondo dove l'omologazione è latente è un fatto di fortuna avere una nicchia culturale di identità e di qualità che ti protegge. Purché venga conosciuta, purché ci si apra al mondo. Internet aiuta, e io comunque ritengo che il momento importante per me è stato quando ho deciso, obbedendo a un istinto: voglio rimanere qua».
Ha rinunciato a molte opportunità....
«II mio traguardo era fare un lavoro che significasse qualcosa, che rispettasse la mia vita e mi permettesse di lasciare una impronta. lo credo molto nel dovere della testimonianza. Anche in Gigi Riva, sardo d'adozione, deve essere scattato questo meccanismo. Anche in Antonio Marras, la cui forza è continuare ad essere tenacemente legato alla sua terra».
Niffoi da ragazzo era un suo fan…
«Sì, a sedici anni mi veniva a sentire nei club nuoresi, me lo ha detto di recente, mi ha chiamato proprio il giorno in cui avevo appena finito di leggere la sua Redenta Tiria. Lui sta cercando un modo di scrivere completamente diverso, dove recupera i sardo, crea neologismi che hanno un senso. Ma bisogna stare attenti. lo sono molto severo, credo che noi sardi abbiamo un'enorme responsabilità, siamo testimonianza di un popolo. Questo Limita un po' la libertà, ma spinge a fare sempre meglio».
Essere un artista sardo è diverso che essere un artista piemontese?
«Sì. Qui in Sardegna il concetto di popolo, di appartenenza, è molto più forte. Se vai all'estero c'è maggiore riconoscibilità. Trovi sempre un sardo che ti ricorda chi sei. Con i torinesi funziona meno».
Parliamo di identità, non le sembra un concetto abusato?
«Direi proprio di sì. Sembra un distintivo che uno si appiccica. L’identità è qualcosa che si è, non che si ha. E non è statica ma dinamica. Se uno la testimonia con la sua vita non ha bisogno di parlarne».
Che cosa non le piace della sua terra?
«Questa banalizzazione identitaria. E i falsi sardismi. Ubriacatura delle proprie radici che non corrisponde a un percorso coerente, anche dal punto di vista etico. Trovo sia scandaloso che ci sia chi si professa sardista ed è invece interprete di un liberismo sfrenato».
Con chi ce l'ha?
«Col vento che sposta troppe canne, dovremmo essere meno canna e più roccia».
Essere come le canne può essere un modo saggio di prendere la vita...
«Ma non sul fronte politico. Mi sto riferendo naturalmente alle ultime novità sardiste. L’ho detto pubblicamente e lo ripeto. Questo nuovo modo di intendere il partito non mi appartiene, non è più il partito di Bellieni, Mossa, Mario Melis. Sul piano delle regole, poi, è un congresso che stabilisce la linea del partito. Io comunque, sono sardista a prescindere».
E quanto è italiano?
«Ho la doppia cittadinanza dell'anima, ma sono prima sardo e poi italiano.
Parto dalle mie radici: Nuoro, dove sono nato, Sassari, la città di mia madre, che mi piace sempre di più per quel senso di sana pavesiana provincia che ancora resiste».
E Cagliari?
«Cagliari ha ancora le radici sul l'acqua. Ha sacrificato la sua identità in nome del suo grande senso di accoglienza. I cagliaritani mi piacciono molto. Mi piace il loro umorismo, il senso messicano del vivere, mi piace la Marina».
Lei ha un'esperienza di consigliere regionale dall'89 al '94. Non fa più politica?
«Io ritengo di fare politica attraverso le mie canzoni, sono un'anima scomoda e libera, mi piace la politica come servizio, non come opportunità personale».
La presunta invidia dei sardi: abusata come l'identità?
«L'invidia esiste, e viene storicamente dalla povertà, dal non avere mai avuto la possibilità di spaziare con lo sguardo. La povertà ha con sé anche una concezione troppo severa della vita. Una sorta di religione dell'esistenza che ci porta ad essere poco disinvolti, a non cogliere il gusto del
momento, a non avere la capacità imprenditoriale di se stessi.. E se qualcuno interrompe questo
ritmo guai! Credo che solo la cultura possa scardinare questa impalcatura che ci imprigiona».
Qual è oggi lo stato di salute della musica sarda?
«Distinguiamo. Tenores a parte, e è quella che ha tra i suoi nomi Elena Ledda, Simonetta Soro, Clara Murtas, ma anche Andrea Parodi, le Balentes, molti altri rappresentanti seri di una tradizione che sa coniugarsi alla innovazione. C'è gente che ha fatto la gavetta, che ha toccato la polvere del palco. E c'è la burrumballa, i modelli del nulla che ci vengono offerti dalla televisione. Questo emergere senza meriti e requisiti, è insopportabile. E le emittenti locali imitano. Così la musica sarda diventa come quelle cosacce artigianali che i turisti si portano via per pochi euro. Niente a che vedere con la Sardegna, e con la qualità. C'è troppa approssimazione, dischi disinvolti, repertori annacquati, nel ballo e nella musica. Scrivere in sardo sta diventando un modo per non dire nulla. Le belle voci non bastano. Ci vuole più rigore. Ho visto spettacoli in piazza di canzoni sarde in playback».
Oltre agli spunti polemici, quali spunti creativi le dà la Sardegna?
«Uno ha solo da guardarsi intorno. Questo mondo non si esaurisce, anche la storia è accattivante. Prendiamo Atlantide. Mi ha stimolato talmente l'ipotesi di Sergio Frau. che ci sto scrivendo intorno. Anche H bronzetto nuragico può diventare di una modernità incredibile se lo circondi di suoni nuovi, sintetici, non necessariamente launeddas. Il nostro mondo è arcaico nella stessa misura in cui è futuro. E la teoria di Frau è accattivante, ti fa sentire privilegiato, parte di questa isola baciata da Dio».
Un'isola con molti problemi..
«Creati dagli uomini, e in quanto tali superabili. Ma la nebbia, la pioggia, il gelo, chi te lo toghe? Mi avessero messo a scegliere tra un luogo ricco e la Sardegna avrei scelto la Sardegna..».
E’ ottimista?
«Che sardo sarei? No, però credo nell'ottimismo della volontà, Gramsci non a caso era sardo. E credo che la vita sia l'arte dell'incontro. Io dò il meglio quando scopro la solidarietà. Il pessimismo, della ragione ci rovina, ed pur sempre un retaggio di povertà. Di una piccola comunità chiusa».
Quali incontri hanno segnato la sua vita professionale?
«Più di tutto, quelli con i fonici. Quando fai un disco entri in simbiosi col fonico. E lui diventa talmente pieno dei tuoi testi, della tua musica, che è più intransigente di te. Sono rimasto amico di Luciano Torani (Fuoricampo), di Primo Bravin che considera Abbardente il primo album della World Music italiana. Poi c'è Alberto Erre che spesso mi segue. Sono loro a calibrare il suono, a renderlo chiaro e scuro. Come i colori di un pittore».
Oggi un ragazzo che si vuol fare musica cosa fa?
«Rischia. Purtroppo la meritocrazia non basta. La musica è un mondo che ti lascia a terra, se non ti
omologhi. Quando ho cominciato io c'era il concetto che fare musica era un hobby, un rischio sicuro. Oggi è tutto precario. Noi comunque abbiamo grandi musicisti, Paolo Fresu, Antonello Salis, Massimo Ferra, e Gavino Murgia, Massimo Carboni ... ».
I suoi cantautori preferiti?
«Ancora De André, Paolo Conte, De Gregori quando non fa Dylan».
Che cosa è, la balentìa?
«Il mio atto di coraggio nell'affrontare la vita. Purtroppo stiamo andando verso la balentìa del nulla».
ARTISTI SARDI ALLO SPECCHIO
“Oggi impera la balentìa del nulla”
Piero Marras, cantautore di nicchia e sardista a prescindere
di MARIA PAOLA MASALA
Da piccolo giocava sempre da solo. E nell'andito di casa, a Nuoro, era insieme calciatore e cronista. «Urlavo gol, naturalmente, ma ero così pignolo che se non segnavo, se sbagliavo, ripetevo la cronaca, fino a far corrispondere ai calci le parole». Pignolo lo è rimasto, anche se non gioca più col pallone. Ma c'è la musica, l'altra grande passione infantile. «Un pianoforte, una chitarra, possono essere grandi amici di un ragazzino che gioca da solo».
Cinquantasette anni il prossimo settembre, Piero Marras ha sostituito la barba con un pizzetto. «Mi fa sentire meno vecchio». A suo dire, è in letargo, anche se è difficile crederlo. «Mi spiego: io lavoro moltissimo durante l'estate, faccio anche quaranta concerti da una piazza all'altra. Non riuscirei a non suonare a non cantare. E’ faticoso, ma ho un pubblico che mi segue. Cosi mi porto dietro la mia carovana (cinque musicisti, cinque danzatrici, più un service di tecnici). Siamo insieme da trent'anni. Dopo le vacanze estive, entro in letargo. E allora studio, leggo, scrivo, suono, passeggio. Faccio un sacco di cose ma non mi espongo».
Un ozio altamente creativo, il suo, se è vero che dopo Pasqua uscirà un suo Dvd, il primo, Piero Marras, con tutte le sue canzoni (una quindicina di dischi) e molti brani live, come il concerto con Dionne Warwick davanti a Giovanni Paolo II. «lo amo molto il live. E il Dvd è un mezzo interattivo che ti consente di fare cose impensabili qualche anno fa».
Tra le tante copertine dei suoi album ci sarà anche la prima, quando era ancora Piersalis?
«La ricorda? Fra il '74 e stavo nella stessa casa discografica di Aurelio e Marisa Fierro. Dovevo andare a Sanremo con un pezzo sui nonni in ospizio che piaceva molto ai Fierro. Lo censurarono perché era troppo triste. Ci avrebbero pensato Modugno e Renato Zero, anni dopo, a sdoganare l'argomento».
Dove ha prodotto il Dvd?
«A Cagliari, nello studio Enneelle di Massimo Pinna. Ci abbiamo messo cinque mesi, ma ormai è pronto. Un lavoro certosino, di grande livello. Ci sono settanta link».
Se Piero Marras non fosse nato in Sardegna?
«Avrebbe perso molto. lo sono venuto fuori come cantautore italiano, e non lo rinnego. Vorrei che il mio prossimo lavoro fosse una sintesi tra questi due mondi. Ma essere sardo è importante. Ho rischiato e ho vinto. In un mondo dove l'omologazione è latente è un fatto di fortuna avere una nicchia culturale di identità e di qualità che ti protegge. Purché venga conosciuta, purché ci si apra al mondo. Internet aiuta, e io comunque ritengo che il momento importante per me è stato quando ho deciso, obbedendo a un istinto: voglio rimanere qua».
Ha rinunciato a molte opportunità....
«II mio traguardo era fare un lavoro che significasse qualcosa, che rispettasse la mia vita e mi permettesse di lasciare una impronta. lo credo molto nel dovere della testimonianza. Anche in Gigi Riva, sardo d'adozione, deve essere scattato questo meccanismo. Anche in Antonio Marras, la cui forza è continuare ad essere tenacemente legato alla sua terra».
Niffoi da ragazzo era un suo fan…
«Sì, a sedici anni mi veniva a sentire nei club nuoresi, me lo ha detto di recente, mi ha chiamato proprio il giorno in cui avevo appena finito di leggere la sua Redenta Tiria. Lui sta cercando un modo di scrivere completamente diverso, dove recupera i sardo, crea neologismi che hanno un senso. Ma bisogna stare attenti. lo sono molto severo, credo che noi sardi abbiamo un'enorme responsabilità, siamo testimonianza di un popolo. Questo Limita un po' la libertà, ma spinge a fare sempre meglio».
Essere un artista sardo è diverso che essere un artista piemontese?
«Sì. Qui in Sardegna il concetto di popolo, di appartenenza, è molto più forte. Se vai all'estero c'è maggiore riconoscibilità. Trovi sempre un sardo che ti ricorda chi sei. Con i torinesi funziona meno».
Parliamo di identità, non le sembra un concetto abusato?
«Direi proprio di sì. Sembra un distintivo che uno si appiccica. L’identità è qualcosa che si è, non che si ha. E non è statica ma dinamica. Se uno la testimonia con la sua vita non ha bisogno di parlarne».
Che cosa non le piace della sua terra?
«Questa banalizzazione identitaria. E i falsi sardismi. Ubriacatura delle proprie radici che non corrisponde a un percorso coerente, anche dal punto di vista etico. Trovo sia scandaloso che ci sia chi si professa sardista ed è invece interprete di un liberismo sfrenato».
Con chi ce l'ha?
«Col vento che sposta troppe canne, dovremmo essere meno canna e più roccia».
Essere come le canne può essere un modo saggio di prendere la vita...
«Ma non sul fronte politico. Mi sto riferendo naturalmente alle ultime novità sardiste. L’ho detto pubblicamente e lo ripeto. Questo nuovo modo di intendere il partito non mi appartiene, non è più il partito di Bellieni, Mossa, Mario Melis. Sul piano delle regole, poi, è un congresso che stabilisce la linea del partito. Io comunque, sono sardista a prescindere».
E quanto è italiano?
«Ho la doppia cittadinanza dell'anima, ma sono prima sardo e poi italiano.
Parto dalle mie radici: Nuoro, dove sono nato, Sassari, la città di mia madre, che mi piace sempre di più per quel senso di sana pavesiana provincia che ancora resiste».
E Cagliari?
«Cagliari ha ancora le radici sul l'acqua. Ha sacrificato la sua identità in nome del suo grande senso di accoglienza. I cagliaritani mi piacciono molto. Mi piace il loro umorismo, il senso messicano del vivere, mi piace la Marina».
Lei ha un'esperienza di consigliere regionale dall'89 al '94. Non fa più politica?
«Io ritengo di fare politica attraverso le mie canzoni, sono un'anima scomoda e libera, mi piace la politica come servizio, non come opportunità personale».
La presunta invidia dei sardi: abusata come l'identità?
«L'invidia esiste, e viene storicamente dalla povertà, dal non avere mai avuto la possibilità di spaziare con lo sguardo. La povertà ha con sé anche una concezione troppo severa della vita. Una sorta di religione dell'esistenza che ci porta ad essere poco disinvolti, a non cogliere il gusto del
momento, a non avere la capacità imprenditoriale di se stessi.. E se qualcuno interrompe questo
ritmo guai! Credo che solo la cultura possa scardinare questa impalcatura che ci imprigiona».
Qual è oggi lo stato di salute della musica sarda?
«Distinguiamo. Tenores a parte, e è quella che ha tra i suoi nomi Elena Ledda, Simonetta Soro, Clara Murtas, ma anche Andrea Parodi, le Balentes, molti altri rappresentanti seri di una tradizione che sa coniugarsi alla innovazione. C'è gente che ha fatto la gavetta, che ha toccato la polvere del palco. E c'è la burrumballa, i modelli del nulla che ci vengono offerti dalla televisione. Questo emergere senza meriti e requisiti, è insopportabile. E le emittenti locali imitano. Così la musica sarda diventa come quelle cosacce artigianali che i turisti si portano via per pochi euro. Niente a che vedere con la Sardegna, e con la qualità. C'è troppa approssimazione, dischi disinvolti, repertori annacquati, nel ballo e nella musica. Scrivere in sardo sta diventando un modo per non dire nulla. Le belle voci non bastano. Ci vuole più rigore. Ho visto spettacoli in piazza di canzoni sarde in playback».
Oltre agli spunti polemici, quali spunti creativi le dà la Sardegna?
«Uno ha solo da guardarsi intorno. Questo mondo non si esaurisce, anche la storia è accattivante. Prendiamo Atlantide. Mi ha stimolato talmente l'ipotesi di Sergio Frau. che ci sto scrivendo intorno. Anche H bronzetto nuragico può diventare di una modernità incredibile se lo circondi di suoni nuovi, sintetici, non necessariamente launeddas. Il nostro mondo è arcaico nella stessa misura in cui è futuro. E la teoria di Frau è accattivante, ti fa sentire privilegiato, parte di questa isola baciata da Dio».
Un'isola con molti problemi..
«Creati dagli uomini, e in quanto tali superabili. Ma la nebbia, la pioggia, il gelo, chi te lo toghe? Mi avessero messo a scegliere tra un luogo ricco e la Sardegna avrei scelto la Sardegna..».
E’ ottimista?
«Che sardo sarei? No, però credo nell'ottimismo della volontà, Gramsci non a caso era sardo. E credo che la vita sia l'arte dell'incontro. Io dò il meglio quando scopro la solidarietà. Il pessimismo, della ragione ci rovina, ed pur sempre un retaggio di povertà. Di una piccola comunità chiusa».
Quali incontri hanno segnato la sua vita professionale?
«Più di tutto, quelli con i fonici. Quando fai un disco entri in simbiosi col fonico. E lui diventa talmente pieno dei tuoi testi, della tua musica, che è più intransigente di te. Sono rimasto amico di Luciano Torani (Fuoricampo), di Primo Bravin che considera Abbardente il primo album della World Music italiana. Poi c'è Alberto Erre che spesso mi segue. Sono loro a calibrare il suono, a renderlo chiaro e scuro. Come i colori di un pittore».
Oggi un ragazzo che si vuol fare musica cosa fa?
«Rischia. Purtroppo la meritocrazia non basta. La musica è un mondo che ti lascia a terra, se non ti
omologhi. Quando ho cominciato io c'era il concetto che fare musica era un hobby, un rischio sicuro. Oggi è tutto precario. Noi comunque abbiamo grandi musicisti, Paolo Fresu, Antonello Salis, Massimo Ferra, e Gavino Murgia, Massimo Carboni ... ».
I suoi cantautori preferiti?
«Ancora De André, Paolo Conte, De Gregori quando non fa Dylan».
Che cosa è, la balentìa?
«Il mio atto di coraggio nell'affrontare la vita. Purtroppo stiamo andando verso la balentìa del nulla».