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Baltik
10-05-06, 20:04
LA VIA DEL VERBO

Attilio Mordini




Dall'unità di Dio muove il molteplice nello spazio e nel tempo per tornare all'uno nell'atto della Sua eternità; e nell'uno soltanto può realizzarsi pienamente ogni essenza, poiché "...Omnia essentia derivantur ab essentia divina..." (Tommaso d'Aquino, De Veritate III, 5).

In Dio, causa efficiente e causa finale sono una cosa sola, sono Carità. Creare è evocare dal nulla; l'atto di Dio che dona vita è lo stesso atto che chiama la vita al suo unico fine. Il comando all'abisso vuoto ed informe, e l'appello amoroso alle creature è una sola parola, il Verbo del Figlio; e ascoltare questa parola è contemplare.

Il simbolo della croce è costituito dall'irradiarsi da un punto, ma lo stesso irradiarsi è anche abbraccio e amore d'unità. È per questo che tutte le creature sono collegate tra loro per la legge dell'analogia e le cose tutte si simboleggiano l'un l'altra rispecchiando in tal modo l'unità del Creatore e del Redentore. Vivere questa analogia è dunque congiungere il Paradiso terrestre alla Gerusalemme celeste, opposti e complementari tra loro. II primo è un giardino, la seconda una città; il primo è ambiente vegetale, il secondo petroso e minerale; e il vegetale ha l'appellativo di terrestre, mentre la salda rocca quadrata ha l'appellativo di celeste. La via che unisce l'uno all'altra è Gesù, e su questa via tutte le analogie del cosmo si ordinano nella verità che è una, poiché Cristo medesimo è via, verità e vita, è la stessa alfa dell'Eden e la stessa omega della Gerusalemme celeste. L 'Eden da cui si diramano i quattro fiumi di vita a mo' di croce per il mondo è il principio da cui la storia dell'umanità si è mossa; la Gerusalemme celeste che abbraccia nelle sue quattro mura l'umanità redenta è il secondo aspetto della croce e della creazione, quello dell'appello amoroso. E qui, nel tempo, quasi calata dalle potenti braccia del Padre, la croce del Figlio, di Gesù; croce sulla quale deve morire l'uomo del secolo perché risorga l'uomo dell'eternità, che del secolo sia padrone e signore, l'uomo veramente libero.

La legge dell'analogia che ci mostra le creature come simbo1i, non in un convenzionale e rigido allegorismo, bensì come la vita stessa delle cose veramente amate, è il linguaggio di Dio nella creazione; e non vi sarebbe il linguaggio dell'uomo se la legge del simbolo fosse soltanto un'astrazione. Infatti la parola umana è proprio un simbolo, il primo e l'ultimo simbolo dell'uomo, il simbolo da cui muove tutta l'esperienza del mondo esteriore, e il simbolo a cui l'esperienza stessa torna per farsi giudizio, preghiera, linguaggio d'amore.

La legge che ci mosse dall'Eden fu per noi legge dolorosa dal ventre della donna colpevole; la legge che trae tutte le cose all'esistenza nel tempo muove dalla causa all'effetto; ma la stessa legge, in quanto trae al Creatore come causa finale ultima, si rivela nel tempo come legge del simbolo, come analogia. L 'incarnazione e la morte di Gesù, della Parola di Dio, sono l'atto Sacro in cui il Verbo si mostra nella natura fisica a proclamare dalla croce che il simbolo non è solo un'astrazione dell'uomo, bensì una realtà adempientesi in ogni giorno vissuto per amore di Dio. La Messa si apre con gesti e con parole rituali e simboliche per culminare nella reale transubstanziazione. Il sostituirsi del sacerdote alla persona di Gesù davanti all'altare è indubbiamente un fatto simbolico, ed è soltanto simbolicamente che egli può dire Hoc est enim Corpus meum; proprio a quelle parole il simbolo si fa realtà sostanziale nelle specie; o, meglio, nelle specie, realtà e simbolo si incontrano come la retta verticale incontra l'orizzontale al centro della croce. La Messa, dopo la purificazione, torna ancora ai gesti ed alle parole simboliche per restituirci ogni simbolismo all'esperienza quotidiana vivificato dalla Grazia di Dio; e infine, quando tutto è consumato, la liturgia ci ripete che in principio era il Verbo, la Parola, e la Parola era presso Dio. Creazione e redenzione, Eden e Gerusalemme celeste ritrovano ancora la loro unità nel Cristo che è via, verità e vita.

Tutta l'azione dei secoli è assunta nell'eternità per le mani di un sacerdote su un pezzo di pane e su un calice di vino alla pietra dell'altare. La contemplazione di chi crede e adora, e l'azione di chi celebra e sacrifica, sono una cosa sola nel rito della Messa, affinché la contemplazione e l'azione quotidiana siano una cosa sola nell'uomo che vive e non vuol morire.

Non v'ha dubbio alcuno che il nostro sia un tempo estremamente pratico nel senso letterale del termine, tempo cioè in cui a gran voce, ed anche a fatti, ci si proclama propensi soprattutto ad agire, ad esprimersi nel movimento e quindi nella provvisorietà. "Ciò in questo momento è pratico, ciò in questo momento non è pratico"; ecco i giudizi che il più delle volte decidono il successo o meno di nuove creazioni o invenzioni, e persino di idee, scritti e opere di cultura.

Convinti della validità della parola nonostante gli errori degli uomini e la confusione del linguaggio nell'uso comune, moveremo da una vera e propria indagine verbale al termine pratico e del termine teoria, d'altronde già troppe volte contrapposti tra loro come antitetici benché in realtà si tratti soltanto di due correlativi. L'etimologia dal greco della parola pratica è ormai alla portata comune e non riteniamo necessario soffermarvisi; bensì avvicineremo il nostro termine in esame alla parola sanscrita Prakriti. Dalla radice KR, che significa fare, produrre, effettuare (da cui, sebbene con diverso senso semantico, anche il nostro creare), e quindi da KR nel senso di spandere, profondere, con il prefisso pra (confronta latino pro), Prakriti vuol dire forza natale, causa, forse più letteralmente pro-fonditrice, pro-creatrice. Anche la tradizione upanishadica è concorde sul significato e sui vari sensi di Prakriti. Tanto nella cosmogonia quanto nella mistica sta ad indicare il principio femminile plastico e fluido, ed è in un certo senso correlativo di Purusha, il principio virile e quindi veramente attivo ed immobile. Prakriti può esser considerata come spazialità indefinita e come sostanza; Purusha essenza e puntualità dalla quale lo spazio stesso procede in quanto virtualmente contenuto nel punto in tutte le sue possibilità. Nella mistica Indù Purusha è simbolicamente rappresentato da un punto che ha sede nel cuore, centro di ogni intuizione pura (e non del sentimento, affettivo come è stato considerato in tempi più recenti ); Prakriti è l'anima nel suo aspetto passivo e recettivo, è la madre di qualsiasi sensazione e di qualsiasi movimento.(1) Purusha, che significa uomo, sul piano cosmico è l'âtmá quale realtà suprema. "Quest'âtmá, che sta nel cuore, è anche più grande della terra più grande dell'atmosfera, più grande del cielo, più grande di tutti questi mondi insieme... " (Chhândogya Upanishad, III Prapâthaka, 14° Khanda, shruti 3). Prakriti in senso cosmico è il principio fluido simboleggiato dall'acqua, il mare del divenire continuo ed indeterminato; Purusha quale âtmá è l'essere, il motore immobile, fermo in sé per quanto ogni movimento di Prakriti non sia che espressione della sua stessa quiete. Prakriti genera il movimento ed è la radice di qualsiasi manifestazione, ma è Purusha che la feconda. Un'immagine della Aranyaka Upanishad nel mito della creazione rende ben chiaro il rapporto tra questi due principi: "L'âtmá, ecco ciò che era questo all'inizio, in foggia di Purusha.(2) Esso, avendo rivolto i suoi sguardi in ogni senso, non vide altro all'infuori del proprio essere...ora, nell'insieme, esso era così come un uomo e una donna che si abbracciano. Esso fece cadere in due questo suo âtmá. Da ciò ebbero origine lo sposo e la sposa. È perciò che Yâjnavalkya ha detto così: 'Noi siamo, noi due, ciascuno come una metà'. Ecco perché questo vuoto viene colmato dalla donna. Esso la possedette, e da questo nacquero gli uomini. Esso, che era anche essa, considerò; 'In qual modo mi possiede avendomi partorita dal suo âtmá? Ah, bisogna che io mi trasformi.' Essa diventò vacca, l'altro toro. Egli la possedette. Da ciò nacquero le vacche. L 'una divenne giumenta e l'altro stallone; l'una asina e l'altro asino. Egli la possedette. Da ciò nacquero i solipedi. L 'una divenne capra, l'altro montone; l'una pecora, l'altro ariete. Egli la possedette. Da ciò nacquero capre e :montoni. Così propriamente tutto ciò che si propaga per coppie, sino alle formiche, esso ,emanò tutto ciò. " (Aranyaka Up. I, 4, Brahmana, 1-9.).

Tutti gli esseri viventi sono dunque generati, secondo il saggio Aranyaka, dalle successive trasformazioni di Prakriti e per differenziarsi da Purusha senza peraltro riuscirvi dato che ogni manifestazione possibile è già presente in lui; non solo, ma le metamorfosi di Prakriti hanno effetto validamente creativo solo in quanto fecondate da Purusha medesimo.

Possiamo ora avvicinare il testo citato alla Genesi e vedremo come Eva sia tratta da Adamo quale possibilità già implicita in lui, e ciò corrisponde anche all'impossibilità di Prakriti di differenziarsi realmente da Purusha; il principio dinamico femminile non può sfuggire al principio virile e puntuale come la carne stessa dell'uomo non può sfuggire dal corpo; "et erunt duo in carne una" (Genesi II, 24). Un antico mito ebraico considera il peccato di Eva come un adulterio con Satana, quindi come un rendersi indipendente da Adamo; eppure l'atto di Eva non sarà colpito da Dio sino a quando Adamo non avrà gustato del frutto proibito; è allora, e soltanto allora, che i progenitori si accorgono d'essere nudi. Eva tentata tenta a sua volta, ma è Adamo che in realtà pecca; e in Adamo pecca anche Eva, come nel nuovo Adamo, in Cristo, Eva sarà salva; e ancora in Cristo Maria è immacolata. Essa è concepita esente da peccato ab aeterno, ma concepita sempre nel Verbo che è presso il Padre, la sua purezza e la sua innocenza sono purezza e innocenza del Figlio.

La Sacra Scrittura ci mostra Adamo creato per ultimo, mentre la Aranyaka Upanishad pone l'uomo al primo posto nella successione delle creature; ma la differenza sta nel fatto che il testo indù vuole proclamare l'uomo, quale microcosmo, sintesi di tutto il creato virtualmente contenuto in lui, la Sacra Scrittura, invece, vuol stabilire l'ordine, per così dire, storico della creazione, poiché, come avremo modo di considerare, la tradizione ebraico-cristiana è l'unica a fondarsi su di un testo che sia simbolico e storico al tempo stesso; infatti la Torah, la legge, è anche e prima di tutto vita. Del resto nella genesi "Il Signore Dio disse ancora: 'Non è bene che l'uomo stia solo: io gli farò un aiuto convenevole a lui'. E il Signore Iddio, avendo formate dalla terra tutte le bestie della campagna e tutti gli ucceI1i del cielo, li menò ad Adamo, che vedesse qual nome porre a ciascuno di essi, e qualunque nome Adamo avesse posto a ciascun animale fosse il suo vero nome. Ed Adamo pose nome ad ogni animale domestico, ed agli uccelli del cielo e ad ogni fiera della campagna; ma non si trovava ad Adamo aiuto convenevole a lui" (Genesi II, 19-20). Adamo cerca l'aiuto, il principio pratico, e lo cerca in tutti gli animali sottoponendoli quasi ad una seconda creazione, quella del linguaggio. Erano stati creati tutti per il Verbo di Dio, e l'uomo, ad immagine e somiglianza di Dio, ha il dono del verbo.

Dio aveva già pronunciato su ciascun animale il suo vero nome all'atto della creazione; Adamo alla vista dell'animale creato sente quel nome nella sua stessa anima e lo pronuncia con voce umana per la prima volta.

E può farlo, perché tutto il creato sente presente in sé come immagine di Dio da un lato e del cosmo dall'altra. Ma non può trovare il suo aiuto, il suo principio pratico, fuori di sé stesso alla stregua degli altri animali creati a coppie; il principio pratico di Adamo ha da essere principio pratico universale, già implicito quindi nella sua stessa pienezza spirituale. Solo una proiezione di se stesso può essergli aiuto adeguato in quanto espressione della sua unità ad attuarsi nel molteplice; ed è così che Eva è tratta dal suo fianco pur rimanendo sempre una con lui, e a lui porgendo sempre presente tutta la molteplicità delle creature.

In quanto al termine teoria, dal greco theôría che a sua volta deriva da theôréo e questo da théo, significa contemplazione, considerazione; e théôrós è lo spettatore, colui cioè che non agisce, benché ogni azione sulla scena venga svolta per lui ed in lui si compia; e sempre nello spettatore il dramma ha da trovare il suo vero senso se effettivamente è opera d'arte. Spesso, per molti scrittori tra i quali Sofocle, ha soprattutto il significato di spettatore al riti sacri; dunque il senso di contemplazione ne risulta ancor più evidente. Theôrís è invece la nave sacra sulla quale viaggiavano gli ambasciatori, ed è anche la via che gli ambasciatori percorrono; in Eschilo è addirittura la via che porta attraverso Acheronte.

Potrebbe sembrare a prima vista che tanto il termine theôrís quanto il termine theôría debbano più riferirsi all'idea della pratica e dell'azione intesa come movimento, dato che il verbo théô (da cui appunto theôrís) significa corro, tanto detto di uomini quanto di veicoli; ma a ben considerare théô è da avvicinarsi a thyô che significa alito con forza, e quindi rende l'idea del soffio dello spirito esprimente il principio virile. È il senso del raptus della contemplazione, l'attimo del fulmine di Giove simboleggia l'eternità. Infatti la contemplazione è l'atto più alto dell'anima, là dove memoria, volontà e intelletto sono un sol punto, e a quel punto è assunto e salvato l'universo; il contemplante è ambasciatore tra Dio e la creazione, ambasciatore di un divino commercio che è quello della redenzione, cioè del riacquisto dell'universo nell'uomo ricomprato alla Grazia a prezzo del sangue di Gesù. È la via, la scala di Giacobbe per la quale gli angioli discendono sulla terra e risalgono al cielo; e la contemplazione è anche la strada che passa per Acheronte e conduce nell'abisso dell'anima, in interiore homine, dove ha sede la verità.

Il macrocosmo e il microcosmo, la creazione e l'uomo, possono entrambi paragonarsi alla ruota. Nella tradizione cristiana il paragone è di Boezio, ma è presente in ogni tradizione spirituale come nel buddismo, nell'induismo e nella mitologia classica. È il rosone che si apre sulla facciata delle nostre chiese, il loto su cui siede il Buddha, la ruota del Sole e del tempo che dalla romanità antica è passata alle meridiane dei nostri monasteri. Se percorriamo nella sua lunghezza, movendo dalla periferia al centro il raggio di una ruota in azione, possiamo constatare che la velocità dei giri diminuisce sempre più in ragione proporzionale al nostro avvicinarci al centro stesso, benché immutata rimanga .la velocità del moto di rotazione dell'intera ruota. E ciò perché più angusta è la circonferenza percorsa da un punto del raggio in ragione della minor distanza che la separa dal centro; e il centro è un unico punto, un punto fermo girante solo su se stesso; da questo punto, percorrendo l'asse, l'uomo si trascende. Il centro è d'altronde il punto che determina i giri di tutta la ruota, è il Purusha contemplante, mentre il resto della ruota è Prakriti, il mondo della prassi, quello che i buddisti chiamano mare del Sâmsâra. Ancora una volta il simbolo dell'acqua è collegato alla pratica e al divenire.

Se trasferiamo il simbolismo della ruota dall'uomo alla creazione intera, quel punto fermo è l'eternità dalla quale si snodano gli evi, si squadernano i secoli, si riversano i giorni a piene mani sulla faccia della Terra. La periferia della ruota, il mondo pratico nella sua manifestazione estrema, è il mondo fluido delle sensazioni e dei sensi; quello che Pascal chiamerebbe mondo del divertimento, da de-vèrtere, allontanarsi dal punto centrale. Per Agostino e per Boezio entrare in interiorem hominem significa trascendere i sensi nel sentimento, quindi nella ragione, ed infine nell'intuito, nel cuore dello spirito, nell'amore vero che nel poema di Dante "...muove il Sole e le altre stelle" (Paradiso, XXXIII, 145). E infatti quel punto è, come abbiamo detto, la via dell'asse, la via del cielo, la via sacra di Isaia, il theôrós ("osservatore", ambasciatore) che unisce l'uomo a Dio. I termini theôría e theós muovono dalla stessa radice.

L'azione è il passaggio dalla potenza all'atto. Per San Tommaso Dio è atto puro; e nell'uomo, immagine di Dio, l'atto puro è contemplazione, quindi atto di Dio e dell'uomo al tempo stesso, o meglio presenza di Dio nell'uomo, che l'uomo in quanto creatura non potrebbe essere capace da solo di atto puro. La pratica è la forza, l'aiuto ad attuare ciò che nell'uomo è potenziale; non vi può essere vera azione efficace che non proceda dalla teoria, dalla contemplazione, dall'atto sacro della Grazia e della libera volontà che aduna, unifica e assume in Dio il mondo della pratica, del divenire e della dynamis. Per passare efficacemente dalla potenza all'atto, quindi, è indispensabile ispirarsi all'atto già realizzato quale modello anteriore ad ogni azione e quale causa finale di ogni divenire; e quest'atto è appunto la presenza di Dio nell'uomo che si fa esperienza operante proprio nella contemplazione.

L'uomo esteriore diviene sempre, e col divenire quasi si identifica, ma l'atto interiore con la sua presenza puntualizza ogni azione nell'identità del Sé. L'io psichico e sensoriale è mutamento continuo, alternarsi incessante di gioia e di dolore, di pianto e di riso, di godimento e di sofferenza; il se spirituale ed interiore è atto della presenza, è continuità di ciò che diviene o sembra divenire, che non potrebbe divenire, né constatare alcun mutamento, se non fosse sempre lo stesso, come Prakriti non genererebbe se Purusha non la fecondasse rimanendo in sé inalterato malgrado ogni trasformazione. E in questa presenza a sé stesso e a Dio sta la memoria, l'intelletto e la volontà dell'uomo, che per San Bonaventura è immagine della Trinità nell'anima umana; sta la sua responsabilità tra il bene e il male; la responsabilità della scelta sul piano della dialettica, mentre sul piano dell'unità, della sintesi, dell'abbraccio con Dio, sta la piena realizzazione della personalità, il conseguimento del fine eterno; del fine che è principio, perché è ben quel Fine che crea l'uomo evocandolo dal nulla.

Una pratica che non muova dalla teoria, un agire che non muova dalla contemplazione, è un assurdo, perché non v'è azione che non abbia il suo principio e il suo fine nell'atto pur muovendo dalla potenza, nel Verbo che è parola di Dio e dà vita e voce all'uomo. Una pratica che non è vera azione non crea, perché è priva di atto, cioè della parola che ha creato l'universo. Adamo può dar nome agli animali perché contempla Dio, e Dio glieli indica uno per uno davanti ai suoi occhi ancora casti ed innocenti.

Quando si nega la contemplazione per la cosiddetta azione pura in una vita soltanto pratica, in realtà si continua a contemplare e si contempla male. L'uomo si ribella così al suo primo Fattore e al tempo stesso alla puntualità del proprio essere che è immagine di Dio, alla radice della personalità che è il nome dell'uomo pronunciato dal Creatore nel fondo di ogni anima. La mistica della pratica è mistica del subcosciente, del caotico fluttuare di immagini e di impressioni incontrollate dalla volontà; e la scelta dell'uomo tende allora a deturparsi in bestiale riflesso condizionato; ogni vera libertà viene negata dall'arbitrio della libido in quello che per San Tommaso d'Aquino è il mondo dell'irascibile e del concupiscibile. È la mistica del nostro tempo; al Verbo si sostituisce lo slogan; la distrazione o l'ossessione alla redenzione.

Dobbiamo render conto d'ogni parola oziosa, d'ogni parola cioè che non sia libera e consapevole adesione alla parola di Dio; e sono parole oziose tutte le azioni che non muovono dall'atto interiore della Grazia per elezione veramente libera, cioè per elezione nel bene. Se le parole che non procedono dalla parola divina sono parole oziose, le azioni che non procedono dall'atto interiore della contemplazione sono dissipazione nel mondo della pura pratica, dell'illusione. E pertanto questa illusione acquista di giorno in giorno, per l'insipiente, una sua realtà, copia scimmiesca della realtà creata da Dio; e l'uomo, che nonostante tutto è immagine della divinità, crea il suo mondo demoniaco, l'inferno dell'angoscia.

Per San Bernardo di Chiaravalle l'immagine di Dio nell'uomo è la libertas a necessitate, libertà dalla necessità per la quale l'elezione dell'uomo è sempre libera. "La libertà dalla necessità conviene ugualmente e indifferentemente a Dio e ad ogni creatura ragionevole in generale, tanto buona che cattiva; non la si perde ne per il peccato ne per la miseria; non è più grande per il giusto che per il peccatore, ne più piena per l'angelo che per l'uomo". (De Gratia et libero arbitrio IV, 9). Si può coartare l'azione esteriore, non l'elezione della libera scelta; si può forzare qualcuno a fare qualcos'altro da quanto ha scelto, ma non lo si può obbligare a scegliere diversamente dalla sua volontà.(3) Questa libertà è dunque lasciata intatta dal peccato originale.

Non cosi, sempre per San Bernardo, le due somiglianze che sono la libertas a peccato e la libertas a miseria.

Se l'immagine è rimasta, la somiglianza è perduta con la colpa di Adamo; l'uomo può disporre di libero arbitrio e di libero consiglio, ma non del libero complacito. L 'uomo, dice San Bernardo, è curvo e le sue brame come il suo sguardo son rivolti verso la terra; e il suo raddrizzamento è appunto l'adempimento della legge con l'aiuto della Grazia; e attraverso alla penitenza sotto la legge, l'uomo si raddrizza a guardare il cielo nella contemplazione.

Tra i moderni autori di teologia mistica molti hanno definito San Bernardo un mistico pratico, e come lui mistici pratici sono stati chiamati tutti quei santi che non hanno trattato della mistica il senso metafisico, o meglio che non hanno dedotto teorie metafisiche dalla contemplazione. A nostro avviso si tratta di un equivoco alla base del quale v'è la solita confusione di linguaggio, che è la causa prima d'ogni equivoco del genere. San Bernardo ammonisce, alludendo ad Abelardo e agli aristotelici del suo tempo (aristotelici pretomisti, d'altronde), che Gesù e gli apostoli non ci hanno insegnato a filosofare, bensì a vivere cristianamente. È appunto questa affermazione la bandiera che unisce tutti coloro che vedono nell'abate di Chiaravalle il mistico della pratica.(4) Ma in realtà teoria, come abbiamo visto, significa contemplazione, e non vi può essere mistica che non sia contemplativa e quindi teorica. Procedere altrimenti, e cioè contemplare senza basi teoriche, porta prima o poi ad equivocare tra il mondo psichico delle sensazioni e il mondo spirituale delle immagini e delle intuizioni, tra il mondo delle affettività e il mondo della carità; come troppo spesso avviene. Del resto è tanto vero che San Bernardo è stato un grande teorico, che quasi non si può parlare o scrivere di mistica cristiana senza citare i suoi testi; non solo, ma fu, durante la sua vita terrena e nei suoi scritti, in affinità con la scuola di San Vittore che è stata scuola di mistica speculativa per eccellenza. D'altronde il pratico nel vero significato della parola fu proprio Abelardo, che sul piano dialettico si svolse tutta l'opera sua; piano dialettico che non essendo ben ancorato, nel caso di Abelardo, all'unità puntuale dell'atto contemplativo, può ben dirsi pratico anziché teorico. La vera metafisica è anche meta-razionale, poiché razionalità e dialettica fanno anch'esse parte della physis; tanto che Aristotile aveva chiamati afisici i discepoli della scuola eleatica in quanto si trovavano nell'impossibilità di spiegare il movimento del divenire rispetto all'essere puro. San Tommaso d'Aquino è un metafisico non certo per la veste dialettica della sua Somma quanto per il contenuto di essa che addirittura la trascende. La Somma in sé è logica, ed è metafisica in quanto procede da meditazione e da contemplazione interiore. Metafisica è necessariamente l'unità della sua opera, ma la parola di quest'unità invano la cercheremmo tra quelle righe stupende, ché solo Dio la pronunciò in Tommaso; e solo Cristo, il Verbo, la confermò al Dottore Angelico: "Bene de me dixisti, Thoma".

San Bernardo c'insegna che il simile può conoscere solo il simile, e l'anima può conoscere Dio perché di Dio è immagine; per la penitenza e la conoscenza si può, con l'aiuto della Grazia, raddrizzare l'uomo, finalmente integro nella sua unità interiore, a guardare il cielo.

Questa immagine da cui la pratica è fecondata all'azione consacrante il reale, si manifesta nella parola interiore che si profila a sua volta nella parola espressa e nell'opera umana.

Per quanto sfigurata dall'uso errato nel linguaggio comune e deturpata in conseguenza del peccato, la parola dell'uomo nella sua più intima essenza è divina; solo che questa divinità va sentita e gustata nella sapienza, nel sapore più intimo d'ogni sillaba alla luce della rivelazione. Già i sapienti delle Upanishad cercavano il senso profondo delle parole nella relazione del suono di esse con l'essenza della cosa significata. Tali interpretazioni verbali erano molto simili all'apparenza (e all'apparenza soltanto) a dei giuochi di parole, e venivano chiamate nirukta.

Siamo di fronte ad un'altra parola composta della lingua sanscrita; dalla radice VAC, nel senso di parlare, dire; uktí significa tanto detto quanto interpellato, ed anche parola. Preceduto dalla particella negativa o intensiva nih- (nir- davanti a sonora), significa letteralmente non detto, non esplicito di per sé, e quindi espresso, spiegato, manifestato da qualcuno o, più generalmente, dalla Tradizione. Il termine nirukta vuol dire insomma spiegazione del senso occulto delle parole, di quanto cioè non è detto chiaramente ed esplicitamente, ma già presente in modo implicito nel senso delle parole in esame. E in tale accezione l'aspetto intensivo del prefisso nih- si mostra quanto mai evidente. Per venire alla tradizione occidentale, Platone amava spesso considerare le parole in modo molto simile a quello dei saggi indù. Più tardi si è voluto dire che il fondatore dell'Accademia aveva commesso degli errori nel darci l'etimologia di alcune parole greche, ma in realtà in ciò non commise errore alcuno per il fatto che non ebbe la minima intenzione di fare dell'etimologia almeno nel senso corrente del termine.

I Padri della Chiesa non potevano non assaporare anch'essi le parole, che il Cristianesimo è appunto religione del Verbo, e nelle loro opere furono larghi di interpretazioni in tutto simili ai nirukta.

In un certo senso potremmo dire che se l'etimologia delle parole ne è la storia, il senso simbolico ne è l'anima. Ma qui ci sia permessa una considerazione: abbiamo più volte, nel corso di questo capitolo, avvicinate le esperienze e le tradizioni indù, buddhista, greco-romana all'esperienza e alla tradizione cristiana come a trovare in quest'ultima la loro unità e, perché no?, anche in parte la loro conferma. Porremo ora ben netta una distinzione per la quale, ben lungi dal negare le altre vie tradizionali, si renderà, sotto certi aspetti, più palese quell'adempimento nel Cristianesimo che già Clemente alessandrino ed Origene avevano proclamato nei riguardi dei misteri. Nella tradizione indù, Krishna scende ad incarnarsi sulla Terra per portare la salvezza agli uomini; ma Krishna, per gli stessi Brahmani, è un mito, un simbolo in cui d'altra parte è pienamente racchiuso il profondo mistero dell'Incarnazione e quindi della Verità rivelata.

Figlio di Giapeto, Prometeo, che dopo aver creato il primo uomo porta il fuoco della tradizione spirituale all'umanità (anche il Paracleto nella Pentecoste scenderà sotto forma di lingue di fuoco) e paga il riscatto incatenato dal Padre alla roccia, è anch'esso un mito; nessun pontefice romano, che si sappia, lo ha mai ritenuto una persona storica. Non così per Cristo. Egli è la Parola dei Padre che si incarna misticamente nell'umanità per Noè, nei semiti per Abramo; e nel popolo di Israele per Giacobbe. Si incarna misticamente ancora in Giuda, e quindi storicamente in grembo a Maria nell'anno 753 dell'era romana sotto Augusto imperatore; ed è censito in Bethlem, città di David. È per questo che, come abbiamo poco prima osservato, la Sacra Scrittura ebraico-cristiana è l'unica che sia al tempo stesso testo sacro e testo storico. È infatti il Verbo, il Figlio che, secondo Origene, prima di farsi persona umana si fa verbo grammatico nella scrittura. Se storia e contenuto spirituale sono per il cristiano una cosa- sola nelle Scritture, ne consegue necessariamente che senso simbolico delle parole ed etimologia debbano quasi coincidere.

Sant'lsidoro di Siviglia, a cui Dante ricorrerà per il suo De vulgari eloquentia e per l'interpretazione del nome di Dio nella Commedia, sembra essere stato il primo nell'intuire la forza creatrice che si rivela anche nella storia della parola umana. Etymologiae è appunto il titolo della sua opera principale; un'enciclopedia di venti libri. Secondo Isidoro l'essenza delle cose si riconosce dall'etimologia dei nomi che le designano. Infatti il nome pronunciato da Adamo su ciascun animale era il suo vero nome; era un modo di manifestarsi del Verbo di Dio, dell'uno sulla molteplicità delle cose create. Ricorrere all'etimo è in un certo qual modo avvicinarsi all'unità da cui le parole si diramano, è risalire la via dalla creatura al Creatore passando per la natura della stessa cosa creata.

È vero che Sant'lsidoro ritiene lecito, laddove sia difficile trovare la vera etimologia di un sostantivo, ricorrere ad una etimologia fittizia; ma ciò non deve essere, nemmeno in questo caso, inteso come un mero giuoco di fantasia (che d'altronde mal converrebbe alla serietà del grande dotto sivigliano), bensì ad un impegno di assaporare nel suono e nel modo di articolarsi di ogni parola il significato di essa in analogia al termine che più le assomiglia o sembra convenirle. Dove non può giungere l'umano studio dell'etimologia, dunque, Isidoro ritiene giusto e lecito tornare al simbolismo verbale.

Per il cristiano, se il Salvatore è il Verbo è, in un certo senso, anche l'etimo degli etimi, il senso che dà voce ad ogni parola come è la Luce che illumina ogni uomo veniente al mondo. Scoto Eriugena, pur considerando, e diremmo, quasi soppesando le parole nel loro senso letterale, ci pone in guardia di fronte ad un linguaggio insufficiente ed inadeguato alla sapienza perché di invenzione umana e convenzionale. Ci sia permesso dimostrare, e cercheremo di farlo nel prossimo capitolo, che il linguaggio in se non sembra potersi ritenere inventato dall'uomo. Si può tuttavia parlare di corruzione dovuta appunto all'aver considerato il linguaggio pura e semplice convenzione dall'uomo stesso stabilita. È in sostanza effetto del peccato originale commesso da Adamo proprio per sostituirsi a Dio, e coloro che al peccato di Adamo aderirono si ritennero inventori di ciò che Dio aveva donato all'uomo. Questo è, a nostro avviso, uno dei molti significati (tutti d'altronde complementari tra loro) dell'episodio genesiaco della Torre di Babele costruita alla conquista del cielo. L 'uomo, infatti, che per primo ha preteso esser creatore del linguaggio ha con ciò stesso preteso di creare la propria salvezza e di poter contemplare veramente senza la Grazia di Dio. Restano vere, d'altra parte, le parole di Scoto al riguardo in quanto il linguaggio si è reso quasi inefficace alla evocazione del reale. Nell'evocazione sta infatti il vero valore della parola, ma è necessaria a ciò la consapevolezza primordiale del linguaggio. Per la potenza evocatrice della parola il linguaggio dell'uomo è ben adeguato a parlare di Dio. Il nome stesso dell'Altissimo pronunciato da Adamo in stato di Grazia doveva avere la forza di imporlo al mondo creato, all'Eden ovunque avesse voluto; parimenti il sacerdote del Nuovo Testamento ha il potere di portare Cristo, in corpo, anima e divinità, ovunque voglia portarlo. Come il peccato, secondo San Tommaso, ha macchiato la natura dell'uomo, la quale tuttavia è rimasta buona nella Sua essenza, così la parola umana in sé non ha perduto nulla della sua potenza evocatrice per il fatto stesso che è rimasta tradizionale malgrado ogni degenerescenza. Il potere di evocare è stato perduto dall'uomo perché considerandosi creatore del linguaggio come atto convenzionale ha usato ed usa delle parole soltanto quali termini dialettici a determinare cose e concetti. Ma in realtà la parola in quanto nome è un centro prima d'essere un termine; come vedremo più oltre, nominare una cosa è esprimerne quasi l'essenza; e solo in un secondo aspetto, inferiore al primo, è determinare, cioè distinguere una cosa dalle altre. Se il processo discorsivo consiste nell'uso dialettico della parola sul piano razionale, l'atto evocativo consiste nel pronunciare la parola come simbolo adeguato ed efficace ad esprimere l'intuizione manifestantesi sul piano superrazionale ove soggetto ed oggetti si incontrano nell'atto della conoscenza, o meglio nell'atto in cui la conoscenza si fa possesso nel superamento del processo discorsivo medesimo.

Proprio per il valore evocativo della parola in se, le parole oziose son da considerarsi segni di dissipazione. Ci sarà chiesto conto di esse quando le vedremo tutte sul volto del Verbo, unica parola creatrice e salvatrice di Dio tornata sul mondo per giudicarlo.

Contemplare è dunque anche ricercare, e con la Grazia di Dio riacquistare, il senso delle nostre parole nella Parola Sua, per la restaurazione effettiva del Regno dei Cieli in noi e sul mondo. La parola di Adamo, aveva dato il vero nome agli animali, la parola dell'uomo caduto nella colpa ha turbato l'universo intero, perché la parola gli fu data per creare in Dio e per Dio, ed egli invece creò e crea soltanto per se. Il suo creato stride così davanti all'ordine che il Verbo ha dato al mondo, e il mondo stesso ci appare guasto. Stride prima di tutto nella anima umana, che, nella ribellione addirittura istintiva della colpa alla voce di Dio che lo crea ad ogni istante, è spontanea senza essere sincera; la personalità si disintegra, l'io si fa legione come i demoni che fuggivano all'ingiunzione di Gesù. E la salvezza che Cristo ci ha indicata sta invece nell'unità; ha fondato la Chiesa, ha istituito l'Eucarestia ut unum sint, affinché siano uno. Sono tre parole rigurgitanti di pace e di casto riposo; uno l'uomo nella sua personalità reintegrata dalla Grazia, una l'umanità sotto un solo pastore, uno l'universo nel Verbo, uni i secoli gravidi di giorni, uni gli evi della Sua eternità, uno lo spazio immenso nel punto eterno di Dio. Uno come uno è il Verbo col Padre, come è una la Trinità nell'uguaglianza della distinzione che è legge d'armonia.

Ci ha lasciata l'Eucarestia Gesù, per rimanere con noi fino alla fine dei secoli, e ci ha mandato il Paracleto, le lingue di quel fuoco che già aveva bollato le labbra di Isaia, perché fino alla fine dei secoli, l'ha promesso, rimarrà nella parola della Chiesa col suo Spirito; non soltanto racchiuso come un punto segreto, ma vivificante come il Suo punto eterno sull'evo e sul tempo; non sepolto come il cadavere in disfacimento, ma fecondante come il seme che prima di germogliare già tutta contiene potenzialmente e puntualizza la spiga; come il primo seme di grano che già conteneva virtualmente tutti gli altri generati al mondo. Se nei sacramenti, e nell'Eucarestia in particolar modo, sta la salvezza dell'anima, nella parola sta la salvezza della civiltà; e non v'è contemplazione vera che sulla civiltà non riversi i suoi effetti e la sua luce. "Dai frutti li riconoscerete...". Una spiritualità che non dà frutti non è contemplazione, bensì astrazione, non è Carità, bensì egoismo, non è solitudine, ma diserzione, non è povertà, bensì miseria. Se agire senza contemplare è dissipazione della parola, contemplare senza fecondare l'azione umana è farsi sale scipito, sale inutile, sale gettato per terra ad essere calpestato dagli uomini.

Non a caso il termine antitetico a quello di civiltà è barbarie, e barbaro significa balbuziente. L'incivile infatti non parla chiaramente, perché i suoi gesti non sono azioni vere, non sono azioni fecondate dal Verbo. Il barbaro balbetta nelle sue opere, balbetta nel suo volto, nella somiglianza con Dio. Egli stesso ci appare come una parola detta male.

Salvezza dell'anima dalla dannazione e salvezza della civiltà non sono mai apparse tanto interdipendenti come ai nostri tempi. Proprio perché il nostro è il tempo della disintegrazione e dell'atomismo, il bisogno di unità si fa più palese. C'è una speranza di riportare il mondo all'unità e la pratica alla luce della teoria, sì che l'azione sia specchiarsi dell'atto interiore sul creato intero, e questa speranza riposa sul Vangelo come nuovo Testamento, nuovo patto e nuova promessa. In quanto alla possibilità di attuare questa speranza si può contare a nostro avviso proprio sulla parola. Il primo requisito chiesto dalle schiere angeliche agli uomini desiderosi di pace è la buona volontà; è l'apertura naturale dell'anima alla Grazia di Dio. La parola umana che non sia oziosa esprime appunto la volontà interiore di salvezza; il primo pensiero che l'uomo formula a se stesso nel segreto dell'anima sua è un desiderio di gioia e di pace, e volge subito la parola delle sue labbra ove crede di trovarla; senza saperlo comunica con la parola un immenso tesoro da riscoprire, il tesoro del suo stesso essere e della sua storia che è storia di Cristo nel cuore dell'uomo dal primo giorno della sua creazione.

Non si pensi con questo che ciascun uomo, o meglio ciascun cristiano debba diventare un glottologo; nulla potrebbe essere più grottesco di una simile pretesa. Chi è chiamato da Dio alla sapienza ed alla scienza ha da farlo per la Chiesa intera, poiché nella Chiesa siamo veramente uno; in quanto agli altri, alla maggioranza dei devoti, basta abbiano sempre davanti ai loro occhi la massima evangelica: "...Ovunque due o tre si uniranno in mio nome io sarò tra loro...". Vedremo più oltre molti sensi di queste parole, per ora basti ricordare come San Bernardino da Siena, il santo umanista che venerò, sulle orme di San Francesco, la Parola di Dio anche nelle parole umane, porse alla devozione di tutto il popolo il trigramma del nome di Gesù. Tutti i fedeli possono tener presente il sapore di quel nome in ogni parola da essi pronunciata; e quindi, con la Grazia di Dio e nella comunione dei santi, potranno valersi dell'opera dei dotti uniti sulla croce al sangue di tutti i martiri nella confessione della Fede e nella Carità. La via della contemplazione, del resto auspicata per tutti da San Francesco di Sales e dal Le Fevre S.I., è aperta anche per i più incolti; la parola scorrerà più limpida sulle loro labbra; ed ogni sì sarà sì, ed ogni no sarà no. A poco a poco l'integralità dell'uomo, della somiglianza di Dio, sarà operata sull'immagine, e la libertas a necessitate ritroverà il libero complacito.

L'uomo parla, e quando ha fame chiede pane, quando ha bisogno di gioia chiede vino, quando ha bisogno di conforto chiede amore; l'uomo parla, e qui, lo ripetiamo, è la possibilità della sua salvezza. L'uomo parla, quando vuole giustizia chiede sangue, senza saperlo pronuncia la verità grande del Golgota. L'uomo legge, e quando non sa leggere ascolta meravigliato. L'uomo scrive, e quando non sa scrivere nemmeno il suo nome fa un segno di croce.


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(1) I due principi della manifestazione Purusha e Prakriti si possono paragonare Yin e Yang della Tradizione cinese; di questi il primo indica la stabilità, il secondo il movimento; il primo la luce, il secondo l'ombra; il primo il positivo, il secondo il negativo. Resta pur tuttavia da osservare che questi due correlativi sono da considerarsi come agenti in tutto sul medesimo piano di relazione, laddove Purusha ci è presentato dalla Tradizione Upanishadica come superiore a Prakriti.


(2) Come si vede, âtmá in foggia di Purusha corrisponde già ad Adamo avente ancora in sé la donna che sarà poi formata dalla sua stessa costola. Come Prakriti non è che proiezione dello stesso Purusha, così Eva è proiezione ed alterità di Adamo.


(3) Naturalmente Bernardo di Chiaravalle scriveva in un tempo in cui nemmeno si sospettava la possibilità, mediante certi farmachi, di dirigere e di determinare dall'esterno proprio la volontà dell'individuo. Ciò è possibile ai nostri giorni in seguito agli ultimi ritrovati della scienza; ma in realtà la volontà del soggetto in tali casi è solo sospesa e non veramente diretta; tanto è vero che un uomo sotto l'azione di tali farmachi non è mai ritenuto responsabile delle proprie intenzioni. Ad ogni buon conto la dottrina di Bernardo resta, anche in tal punto, validissima, poiché non è in seguito al peccato originale in quanto tale che l'uomo potrebbe essere, mediante i farmachi suddetti, guidato da altri nell'uso della propria volontà. Certo è un fatto sintomatico che tali ritrovati siano stati scoperti dalla scienza proprio in un tempo in cui l'ateismo è particolarmente diffuso.


(4) Si potrà obbiettare come gli studiosi di mistica usino spesso, ad es. parlando di San Bernardo, il termine pratica in un senso tutto particolare per distinguere dagli altri il mistico che realizza, con la Grazia di Dio, una vita di vera contemplazione più che profondersi in dotte dissertazioni teologiche. Su ciò possiamo concordare pienamente; il guaio è che la forza di certi termini è tale che a poco a poco, usando spesso la voce pratica in riferimento alla mistica vera e propria, siamo pervenuti ai nostri giorni all'esaltazione di quelle forme di misticismo che sono di carattere pratico nel senso più letterale del termine. Oggi da troppi religiosi quasi si diffida delle vocazioni contemplative per volgersi compiaciuti solo sull'uomo che lavora nel mondo. È un fatto che ogni volta si usi un termine per designare, sia pure in modo meramente convenzionale, qualcosa di ordine superiore al significato che è proprio al termine stesso, gradatamente la cosa designata tende a degradarsi, nella mente di chi parla, fino a rispondere letteralmente al significato del vocabolo usato per determinarla. Al contrario, quando si usa un termine di significato superiore alla cosa designata, è sempre il termine usato che a poco a poco si degrada fino a scadere di significato. Ad esempio, la parola sacrificio, da sacrum-facere, mentre nel suo senso autentico significa far-che-sia-sacro attraverso l'atto rituale, oggi è preso quasi esclusivamente nel senso di privazione; e sacrificio è chiamata qualsiasi rinuncia anche nell'ordine più profano; solo nel linguaggio semidotto è ancora usato nel suo significato autentico.







Da: http://www.sacrofuoco.it/saggimordini.html

Ronnie
10-05-06, 20:20
preferivo Antonio Mordini. Massone.

Eymerich (POL)
10-05-06, 23:48
preferivo Antonio Mordini. Massone.

Non penso che il risorgimentale Mordini, compagnone dell'"eroe" dei due mondi, avrebbe qualcosa di interessante da dirci sulla "Via del Verbo" :rolleyes: