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stuart mill
20-05-06, 13:54
La caduta dell’idea di Stato
di Julius Evola

Per potere studiare non nei suoi aspetti esteriori e consequenziali, bensì nelle sue cause profonde e in tutta la sua portata, il processo di caduta che ha subito nei tempi ultimi l’idea di Stato, ci è d’uopo prender per punto di riferimento una Visione generale della storia che ha per centro la constatazione di un fenomeno fondamentale: il fenomeno della regressione delle caste. E’ una visione, questa, interessante, per la sua doppia caratteristica, di esser attuale da un lato, e simulta*neamente tradizionale. Essa è attuale, inquantoché sembra corrispondervi una sensazione più o meno precisa che oggi si è preannunciata significativamente per vie diverse e quasi con*temporaneamente in scrittori di diverse nazioni. Già la dottrina del Pareto circa la «circolazione delle élites» contiene in germe questa concezione. E mentre noi stessi l’accennavamo nello specifico riferimento allo schema delle caste antiche in un nostro libro di battaglia (Imperialismo Pagano), in forma più definitiva e sistematica essa è esposta in Francia da René Guénon ed in Germania, sia pure con esagerazioni estremistiche, dal Berl. Infine, è significativo che non diversa concezione oggi ha fornito ad un’opera animata da schietto spirito «squadrista» le premesse per denunciare le « vigliaccherie del secolo XX». Ma vi è un secondo e più generico titolo di attualità per il nostro argomento, dovuto al nuovo «clima» spirituale subentrato, in tema di filosofia della cultura, ai grevi miti positivistici di ieri. Come si intuisce facilmente, la nozione di una re*gressione delle caste ha presupposti nettamente antitetici rispetto a quelli delle ideo*logie progressistiche ed evoluzionistiche che la mentalità razionalistico-giacobina ha introdotti fin in sede di scienza e di metodologia storica, elevando a verità assoluta quella che, in fondo, solo saprebbe convenire ad un parvenu: la verità, che il superiore deriva dall’inferiore, la civiltà dalla barbarie, l’uomo dalla bestia, e così via, fino a sboccare nei miti dell’economia marxista e nei vangeli sovietici del «messianismo tecnico». In parte sotto la spinta di tragiche esperienze, che hanno dissipato i miraggi di un ingenuo ottimismo, in parte per un effettivo rivolgimento interiore, oggi fra le forze più consapevoli e rivoluzionarie simili superstizioni evo*luzionistiche, almeno nei loro aspetti più unilaterali e pretenziosi, possono consi*derarsi liquidate.

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Con il che si affaccia virtualmente la possibilità di riconoscere una diversa, opposta concezione della storia, che è nuova, ma ad un tempo remota, «tradizionale», e di cui la dottrina della regressione delle caste nelle sue relazioni con la caduta dell’idea di Stato è sicuramente una delle espressioni fondamentali. Sta invero di fatto che al luogo del mito recente, materialistico e «democrati*co», dell’evoluzione, le più grandi civiltà del passato avevano concordemente rico*nosciuto il diritto e la verità dell’opposta concezione, che analogicamente possia*mo chiamare «aristocratica», affermante invece la nobiltà delle origini e constatante, nello scorrere dei tempi ultimi, più una erosione, una alterazione ed una cadu*ta, che non una qualunque acquisizione di valori veramente superiori. Ma qui, per non avere l’aria di passare da una unilateralezza ad un’altra, bisogna anche rilevare che nelle concezioni tradizionali cui accenniamo il concetto di una involuzione quasi sempre figura solo come momento di una più vasta concezione «ciclica»; concezione, che, sia pure dilettantescamente ed in un orizzonte assai più ristretto e ipotetico, ha fatto oggi riapparizione nelle teorie circa le fasi aurorali ascendenti e le fasi crepuscolari discendenti del «ciclo» delle varie civiltà, come quelle di tino Spengler, di un Frobenius o di un Ligeti. Questa osservazione non è priva d’im*portanza anche in relazione all’intenzione stessa del presente scritto. Infatti noi qui non ti intendiamo affatto sottolineare tendenziosamente vedute, quali per caso converrebbero a «sinistri profeti del futuro»: intendiamo invece precisare oggetti*vamente alcuni degli aspetti della storia della politica, che si impongono non ap*pena ci si metta da un punto di vista superiore. E se per tal via avremo da consta*tare fenomeni negativi nella società e nelle formazioni politiche dei tempi ultimi, in ciò non intendiamo tanto riconoscere un destino, quanto individuare i tratti di quel che si deve anzitutto realisticamente e virilmente riconoscere per procede*re poi ad una eventuale, vera ricostruzione. Così il nostro studio si dividerà in tre parti. Anzitutto considereremo gli antecedenti «tradizionali» della dottrina in parola, consistenti essenzialmente nella «dot*trina delle quattro età». Passeremo poi ad esaminare lo schema dal quale trae il suo senso specifico l’idea della regressione delle caste, per poter individuare storica*mente tale idea sì da considerare in tutti i suoi gradi ed aspetti la progressiva caduta dell’idea di Stato. Infine, svolgeremo delle considerazioni in ordine agli elementi che la concezione precisata ci offrirà sia per la comprensione generale dei fenomeni politico-sociali più caratteristici ai nostri giorni, sia per la determinazio*ne delle vie atte a condurre verso un migliore avvenire europeo, verso la ricostru*zione dell’idea di Stato.

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20-05-06, 13:54
La sensazione tradizionale di un processo involutivo in atto di realizzarsi nei tempi ultimi, processo per il quale il termine più caratteristico è quello èddico di «ragna-ròkkr» (oscuramento del divino), lungi dal restare vaga ed incorporea, de*terminò una dottrina organicamente articolata, ritrovantesi un pò dappertutto con larghissimo e strano margine di uniformità: la dottrina delle quattro età. Un processo di decadenza spirituale graduale attraverso quattro cicli o «generazioni» -in questi termini fu tradizionalmente concepito il senso della storia. La forma più nota di tale dottrina è quella propria alla tradizione greco-roma*na. Esiodo parla appunto di quattro ere, contrassegnate simbolicamente dai quat*tro metalli, oro, argento, bronzo e ferro, lungo le quali da una vita “simile a quella degli dèi” l’umanità sarebbe passata a forme di una società sempre più dominata dall’empietà, dalla violenza e dall’ingiustizia. La tradizione indo-ariana ha la stessa dottrina nei termini di quattro cicli, l’ul*timo dei quali ha il nome significativo di «età oscura» - ka1ì-yuga - insieme all’im*magine del venir meno, in ciascuno di essi, via via di ciascuno dei quattro «piedi» o sostegni del Toro, simboleggiante il dharma, cioè la legge tradizionale d’origine non-umana, la quale in via particolare è quella da cui ciascun essere trae il suo giusto luogo nella gerarchia sociale definita dalle caste. La concezione iranica è affine a quella indo-ariana e ellenica, e lo stesso si dica per quella caldaica. Per quanto in una trasposizione particolare, la stessa idea trova eco nella tradi*zione ebraica, nel profetismo parlandosi di una statua splendente, la cui testa è d’oro, il cui petto e le cui braccia sono d’argento, il ventre di rame e i piedi di ferro e di argilla: statua, che nelle sue parti così divise (e tale divisione ha - come vedre*mo singolare corrispondenza con quella che nell’uomo primordiale, secondo la tradizione vèdica, determina le quattro principali caste) rappresenta quattro «regni» che si succederanno a partir da quello «aureo» del «re dei re ricevente dal dio del cielo, potenza, forza e gloria». Non solo in Egitto si riproduce un tale motivo con certe varianti che qui non è il caso di esaminare e spiegare, ma perfino oltre l’Oceano, nelle antiche tradizioni imperiali azteche. La relazione fra la dottrina delle quattro età - che in una certa misura si proiet*ta nel mito o fra le penombre della più alta preistoria- e la dottrina della regressione delle caste e della relativa caduta dell’idea di Stato si stabilisce per una doppia via. Anzitutto per questo: per la concezione stessa che del tempo e dello sviluppo degli eventi nel tempo aveva l’uomo tradizionale. Per l’uomo tradizionale il tempo non scorreva uniformemente e indefinitamente, ma si fratturava in cieli o periodi, ciascun punto dei quali aveva una sua individualità costituendo, insieme con gli altri, la completezza organica di un tutto. Per tal via, la durata cronologica di un ciclo poteva anche esser labile. Periodi quantitativamente diseguali potevano esser assimilati, una volta che ciascuno di essi riproducesse tutti i momenti tipici di un ciclo

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20-05-06, 13:55
Su questa base, valeva tradizionalmente una corrispondenza analogica fra grandi cicli e piccoli cicli, che permetteva di considerare uno stesso ritmo, per così dire, su ottave di diversa ampiezza. E così che esistono delle effettive corrispon*denze fra il ritmo «quattro» quale figura in universale a chiave della dottrina delle quattro età e il ritmo «quattro» quale figura in un ambito più ristretto, più concre*to e più storico, in relazione alla discesa progressiva dell’autorità politica dall’una all’altra delle quattro antiche caste. E i punti caratteristici che nella prima dottrina si presentano come miti, epperò superstoricamente, possono per ciò stesso in*trodurci nel senso di rivolgimenti storici concreti analogicamente corrispondenti. La seconda giustificazione del nostro metter in relazione le due dottrine sta in questo: che nella gerarchia delle quattro caste principali, quale fu tradizionalmen*te concepita, troviamo fissati, per così dire, in immobile coesistenza, come strati sovrapposti del tutto sociale, i valori e le forze che, attraverso la dinamica di un divenire storico, sia pure regressivo, avrebbero preso a dominare via via in ciascu*no dei quattro grandi periodi. Ci limiteremo a rilevare che nei riguardi della suprema delle caste, quella che cor*risponde alle stirpi dei Re Divini, e nel concetto stesso della funzione da questi incar*nata, dovunque essa si sia manifestata, sono ricorrenti espressioni, simboli e figurazioni che corrispondono sempre e in modo uniforme a quelle che, nel mito, vengono riferite alle generazioni del primo ciclo, dell’età aurea. Se noi abbiamo già visto che nella tradizione ebraica la prima epoca, aurea, entra direttamente in relazione coi concetto supremo della regalità - nelle tradizioni classiche è significativa la relazione leggendaria fra il dio di tale èra, e Giano, poiché questi in un suo aspetto valse come simbolo per una funzione simultaneamente regale e pontifìcale; nella tradizione indo-ariana l’età dell’oro è quella in cui la funzione regale, interamente desta, opera secondo verità e giustizia, mentre l’età oscura è quella in cui essa “dor*me”; nella tradizione egizia la prima dinastia è quella stessa che ha gli attributi dei Re Solari Osirificati, signori delle due corone, concepiti come esseri trascendenti - e fin nelle tradizioni dell’ellenismo iranizzato i sovrani assumevano non di rado le insegne simboliche di Apollo-Mithra, concepito come il Re Solare di “coloro dell’età aurea”. Per contro, sarebbe facile mostrare che nelle epoche ulti*me, nell’età oscura, o del ferro, o del «lupo», viene direttamente o indiretta*mente figurato un predominio di quelle forze «infere», promiscue, legate alla materia e al lavoro come ad un oscuro destino - ponos - alle quali nella gerarchia tradizionale corrispondeva la ultima delle caste (l’età oscura - viene detto esplicitamente - è quella contrassegnata dall’avvento al potere della casta dei servi, cioè del puro demos). Mentre, per una epoca intermedia, sia il suo riferimento all’epoca di semidei come eroi (Ellade), o a quella in cui il re ha per caratteristica solo l’azione energica (India), o in cui appaiono forze titaniche in rivolta (Edda, Bibbia) ci rimanda più o meno direttamente al principio proprio alla casta dei «guerrieri». E tanto basta per quel che concerne l’inquadramento «tradizionale» di quella veduta della storia, che adesso passeremo a considerare nei suoi tratti essenziali. quattro età e il ritmo «quattro» quale figura in un ambito più ristretto, più concre*to e più storico, in relazione alla discesa progressiva dell’autorità politica dall’una all’altra delle quattro antiche caste. E i punti caratteristici che nella prima dottrina si presentano come miti, epperò superstoricamente, possono per ciò stesso in*trodurci nel senso di rivolgimenti storici concreti analogicamente corrispondenti.

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20-05-06, 13:55
. La seconda giustificazione del nostro metter in relazione le due dottrine sta in questo: che nella gerarchia delle quattro caste principali, quale fu tradizionalmen*te concepita, troviamo fissati, per così dire, in immobile coesistenza, come strati sovrapposti del tutto sociale, i valori e le forze che, attraverso la dinamica di un divenire storico, sia pure regressivo, avrebbero preso a dominare via via in ciascu*no dei quattro grandi periodi. Ci limiteremo a rilevare che nei riguardi della suprema delle caste, quella che cor*risponde alle stirpi dei Re Divini, e nel concetto stesso della funzione da questi incar*nata, dovunque essa si sia manifestata, sono ricorrenti espressioni, simboli e figurazioni che corrispondono sempre e in modo uniforme a quelle che, nel mito, vengono riferite alle generazioni del primo ciclo, dell’età aurea. Se noi abbiamo già visto che nella tradizione ebraica la prima epoca, aurea, entra direttamente in relazione coi concetto supremo della regalità - nelle tradizioni classiche è significativa la relazione leggendaria fra il dio di tale èra, e Giano, poiché questi in un suo aspetto valse come simbolo per una funzione simultaneamente regale e pontifìcale; nella tradizione indo-ariana l’età dell’oro è quella in cui la funzione regale, interamente desta, opera secondo verità e giustizia, mentre l’età oscura è quella in cui essa “dor*me”; nella tradizione egizia la prima dinastia è quella stessa che ha gli attributi dei Re Solari Osirificati, signori delle due corone, concepiti come esseri trascendenti - e fin nelle tradizioni dell’ellenismo iranizzato i sovrani assumevano non di rado le insegne simboliche di Apollo-Mithra, concepito come il Re Solare di “coloro dell’età aurea”. Per contro, sarebbe facile mostrare che nelle epoche ulti*me, nell’età oscura, o del ferro, o del «lupo», viene direttamente o indiretta*mente figurato un predominio di quelle forze «infere», promiscue, legate alla materia e al lavoro come ad un oscuro destino - ponos - alle quali nella gerarchia tradizionale corrispondeva la ultima delle caste (l’età oscura - viene detto esplicitamente - è quella contrassegnata dall’avvento al potere della casta dei servi, cioè del puro demos). Mentre, per una epoca intermedia, sia il suo riferimento all’epoca di semidei come eroi (Ellade), o a quella in cui il re ha per caratteristica solo l’azione energica (India), o in cui appaiono forze titaniche in rivolta (Edda, Bibbia) ci rimanda più o meno direttamente al principio proprio alla casta dei «guerrieri». E tanto basta per quel che concerne l’inquadramento «tradizionale» di quella veduta della storia, che adesso passeremo a considerare nei suoi tratti essenziali. Come premessa, siamo naturalmente tenuti a precisare e a giustificare ciò che abbiamo chiamato «gerarchia tradizionale» e la nozione stessa di casta. L’idea-base, è quella di uno Stato non pure come organismo, ma altresì come organismo spiritualizzato, tale da innalzare per gradi il singolo da una vita naturalistica prepersonale ad una vita supernaturale e superpersonale attraverso un sistema di «partecipazioni» e di subordinazioni atte a ricondurre costantemente ogni classe di esseri cd ogni forma di attività ad un unico asse centrale. Si tratta dunque di una gerarchia politico-sociale con fondamento essenzialmente spirituale, nella quale ciascuna casta o classe corrispondeva ad una determinata forma tipica di attività e ad una funzione ben determinata nel tutto.

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20-05-06, 13:55
Questo significato prese particolare risalto nella concezione indo-ariana secondo la quale, di là delle quattro principali caste, quelle superiori di fronte a quelle servili erano concepite come l’elemento «divino» di “coloro che sono rinati” - dvija - culminante in “coloro che sono simili al sole”, di contro all’elemento «demonico» - asurya - degli esseri oscuri - krshna. Per tal via, come premessa uno degli autori moderni citati al principio, il Berl, parte da una concezione dinamico-antagonista della gerarchia tradizio*nale, quasi di lotta fra kosmos e chaos: l’aristocrazia sacrale incorporerebbe il «divi*no» nella sua funzione olimpica di ordine, e la massa il «demonico» (non nel senso morale cristiano, ma nel senso di puro elemento naturalistico): l’uno tenderebbe a trascinare con sé l’altro, e ciascuna delle forme intermedie corrisponderebbe ad una data mescolanza dei due opposti elementi. Quanto poi alla ragione della quadripartizione - quattro principali caste - essa procede dall’analogia con lo stesso organismo umano. Così per esempio nella tradi*zione vèdica le quattro caste sono fatte corrispondere a quattro parti fondamentali dcel «corpo» dell’uomo primordiale - e a tutti sono note le riprese di tali analogie per la giustificazione organica dello Stato, che si ebbero sia in Grecia (Platone) che a Roma. In realtà, ogni organismo superiore presenta in connessione gerarchica quat*tro funzioni distinte, seppure solidali: al limite inferiore vi sono le energie indif*ferenziate prepersonali della vitalità pura. Su di esse però già domina il sistema degli scambi vitali e dell’economia generale organica (sistema della vita vegetativa). A questo sistema, peraltro, è soprordinata la volontà, come ciò che muove e dirige il corpo come tutto nello spazio e nel tempo. Infine, al sommo, una potenza di libertà e di intelletto, lo spirito quale principio sovrannaturale dell’umana perso*nalità. Esattamente questa è, trasposta in termini di gerarchia sociale, la ragione analogica delle quattro antiche caste indo-ariane: in corrispondenza -- rispettiva*mente - a vitalità subpersonale, economia organica, volontà e spiritualità, vi erano dunque le quattro caste distinte dei servi - sudra - della borghesia abbiente, agri*cola, commerciante e (nei limiti antichi) industriale - vaicya - dell’aristocrazia guerriera - kshatriya - e, infine, di una aristocrazia puramente spirituale che forni*va i Re Divini, o le nature virilmente sacerdotali, gli «iniziati solari» i quali, conce*piti come «più che uomini», apparivano agli occhi di tutti come coloro che irrepugnabilmente e più di ogni altro avevano il diritto legittimo al comando e la dignità dei Capi: e di quest’ultima casta i brahmana, in un certo senso (diremo poi perché solo «Lfl un certo senso»), furono i rappresentanti nell’antica India ariana. Chiamiamo tradizionale, e non semplicemente indù, questa quadripartizione, perché essa effettivamente si lascia ritrovare, in forma più o meno completa, in varie altre civiltà: Egitto, Persia, Ellade (in una certa misura), Messico, fino a giun*gere al nostro Medioevo, che ci mostra parimenti la quadripartizione sociale supernazionale in servi, borghesia (Terzo stato), nobiltà, clero. Qui si tratta di applicazioni più o meno complete, ora in sede di classi, ora in sede di caste vere e proprie, di uno stesso principio, il cui valore è indipendente dalle sue realizzazioni storiche e che, in ogni modo, ci presentano uno schema ideale atto a farci com*prendere il vero senso dello sviluppo storico-politico dalle soglie dei cosiddetti tempi storici fino ai nostri giorni. In ordine al significato complessivo del sistema gerarchico, sarebbe inesatto, e condurrebbe all’equivoco, data l’accezione corrente della parola, il qualificarlo come «teocratico».

stuart mill
20-05-06, 13:56
Se in ciò si pensa al tipo di uno Stato retto da una casta sacerdotale, o clero, così come appare nelle forme più recenti di religione occidentale, non di questo è il caso nelle costituzioni in parola. Al vertice della gerarchia, nelle forme politiche veramente originarie troviamo invece una sintesi inscindibile dei due pote*ri, cioè del regale e del sacerdotale, del temporale e dello spirituale in un’unica perso*na, concepita quasi come incarnazione di una forza trascendente. Il Rex era simul*taneamente Deus et Pontifex, e qui, quest’ultima parola va presa nella trasposizione analogica del suo senso etimologico di «facitore di ponti» (Festo, S.Bernardo): il Re, come Pontifex, era il facitore di ponti fra naturale e sovrannaturale, ed eminentemente in lui era riconosciuta la presenza della forza dall’alto capace di animare i riti e i sacrifici, concepiti, questi, come azioni oggettive trascendenti atte a sorreggere invisibilmente lo Stato e a propiziare la «fortuna» e la «vittoria» dì una stirpe. Se dall’antica Cina e dall’antico Giappone ci portiamo all’antico Egitto, alle prime forme regali ellenico-achee e poi romane, ai ceppi nordici primordiali, alle dinastie degli Inca e così via, noi vediamo sempre ripresentarsi questo concetto; non troviamo al vertice una casta sacerdotale o chiesa; vediamo che la «regalità divina» non riceve da altro (come quando subentrerà il rito dell’investitura) la sua dignità e autorità: essa - come si diceva nell’antica Cina e come si ripeterà nell’ideo*logia ghibellina del Sacro Romano Impero ha direttamente il «mandato del Cielo» e si presenta come una specie di «superumanità» virile e spirituale ad un tempo. Fissar bene questo punto, è essenziale, per poter individuare dove, idealmente, si inizio il processo regressivo nei confronti dell’ideale politico tradizionalmente più alto. In tale ideale la gerarchia delle quattro classi o caste (qui non possiamo distin*guere le due nozioni, nè indicare le premesse metafisiche con le quali si giustificava la chiusura endogamica) sensibilizzava dunque i gradi progressivi di una ele*vazione della personalità in corrispondenza ad interessi e forme di attività sempre più libere dal vincolo del vivere immediato e naturalistico. Poiché, rispetto all’anonimato delle masse intente al mero vivere, già gli organizzatori del lavoro, i possessori patriarcali di una terra, rappresentavano l’abbozzo di un tipo, di una persona. Ma nell’ethos eroico del guerriero è già chiara una forma di superamento attivo dei vincoli umani, la forza di un «più che vita» - intronata poi come calma dominazione nel capo, lex animata in terris. L’ideale della fedeltà- bhakti, dicevano gli Indo-ariani, fides dicevano i Romani, fides, Treue, trust ripeterà nel Medioevo - nella doppia forma di fedeltà alla propria natura e di fedeltà alla casta superiore, faceva la saldezza della gerarchia ed era via per una partecipazione dignificante dell’in*feriore al superiore attraverso il servigio, la dedizione, l’obbedienza di fronte ad un principio di autorità eminentemente spirituale: giacché là dove il regime delle caste - come nell’india - ebbe il suo massimo rigore, proprio là vediamo le caste più alte imporsi né attraverso la violenza, né attraverso la ricchezza, ma appunto attraverso l’intima dignità della funzione che corrispondeva alla loro natura. Con ciò abbiamo tutti gli elementi per comprendere il corso dei tempi ultimi come una graduale discesa del potere, dell’autorità e dell’idea di Stato - come pure dei valori e degli ideali predominanti - dall’uno all’altro dei livelli corrispondenti alle quattro antiche caste.

stuart mill
20-05-06, 13:56
Infatti l’epoca del potere delle “regalità divine” retrocede già talmente fra le penombre della preistoria, che oggi ai più riesce estremamente difficile, se non impossibile, ricostruirne il giusto senso. O si crede di aver a che fare con miti e superstizioni, o ci si riduce all’accennata formuletta scolastica spicciativa: “teocrazia”. E quand’anche qualcuno ricordi ancora ciò che fino a ieri sussisté come residuo di siffatta concezione primordiale e sacrale - cioè la dottrina del diritto divino dei Re - quegli ne ignora del tutto le premesse effettive, né sa comunque reintegrarla nella visione complessiva della vita e del sacrum, da cui essa trasse originariamente la stia potenza e la sua «legittimità» in senso superiore e oggettivo. E naturale che voler precisare storicamente le cause del discendere dell’idea di Stato da quel su*premo livello sarebbe presuntuoso, tanto lontano retrocede tale fenomeno nel terreno malfermo della preistoria. Tuttavia, in sede ideale, qualcosa si lascia dire con sufficiente margine di probabilità attraverso le testimonianze concordanti che ci forniscono le tradizioni orali o scritte di tutti i popoli: noi troviamo gli indizi di frequente opposizione fra i rappresentanti dei due poteri, l’uno spirituale l’altro temporale, quali si siano le forme speciali rivestite dall’uno e dall’altro di questi due poteri per adattarsi alla diversità delle circostanze. Questo fenomeno che, peraltro, non saprebbe esser originario, segna idealmente l’inizio della deca*denza. Possiamo dire che alla sintesi primordiale, espressa dalla nozione della Regalità Divina, subentrò allora la separazione e poi l’antitesi appunto di autorità spirituale e di potere temporale e, a dir vero, nei termini di una spiritualità che non è più regale ma sacerdotale, e di una regalità che non è più spirituale e sacrale ma semplicemente e materialmente «politica» e laica: la tensione gerarchica si allenta, l’apice frana, si produce come una frattura, che fatalmente dovrà prolun*garsi fino ad intaccare dalle fondamenta l’integrità del tutto tradizionale. Sotto tale riguardo, l’avvento al potere di una casta semplicemente sacerdotale esprime o una rinuncia dall’alto, o una usurpazione dal basso, o l’una e l’altra cosa insieme, e caratterizza il primo tratto di un arco discendente. Inutile dire, che qui ci troviamo di fronte ad un fenomeno relativamcnte re*cente.

stuart mill
20-05-06, 13:56
Lo stesso primato che in India guadagnò la casta sacerdotale brahmana è probabilmente da considerarsi come l’effetto dell’importanza che sempre più assunse il purohita, il sacerdote originariamente al servizio del re concepito come «un gran dio sotto forma umana» allorché l’originaria unità delle razze ariane subì la dispersione. In Egitto sin verso la XXI dinastia il Re Solare solo eccezio*nalmente delegava un sacerdote per compiere i riti e l’autorità sacerdotale restò sempre un riflesso di quella regale - solo più tardi si costituì la dinastia sacerdotale di Tebe a detrimento di quella regale. E’ un rivolgimento che, peraltro, si affac*ciò anche nell’Iran, ma fu represso con la cacciata del sacerdote Gaumata, il quale aveva cercato di usurpare la dignità regale. A Roma, secondo la tradizione, il rex sacrorum non si sarebbe costituito che con la delega di un potere che, originaria*mente, fino a Numa, il re conservava per sé, e che il sovrano riprese per sé nel periodo imperiale - e fenomeni del genere si potrebbero certamente riscontrare anche altrove. In ogni modo, l’affermazione di Gelasio I, che “dopo il Cristo. nes*sun uomo può più esser ad un tempo re e sacerdote» e stigmatizzante come diabolica tentazione e creaturale superbia l’aspirazione dei re ad assumere dignità sacra, può valerci come conclusiva per lo sviluppo di detto fenomeno: allo stesso modo che, riconoscendo dietro alle rivendicazioni ghibelline degli imperatori medievali e al carattere stesso dei grandi Ordini cavallereschi crociati un tentativo ora palese, ora occulto, ma purtroppo in buona misura ormai anacronistico e incerto, di ricostituire la sintesi dei due poteri, del regale e del sacrale, dell’eroico e dell’ascetico - nella lotta fra Impero e Chiesa noi dobbiamo considerare l’ultimo episodio di una vicenda rifacentesi agli inizi stessi del processo di discesa ora esaminato. Ed è ben di un processo di discesa che qui si tratta, per questo: che dalla sepa*razione dei due poteri prese inizio il dualismo, doppiamente distruttivo, di una spiritualità che si rende sempre più astratta, «ideale», incorporea, sovramondana in senso cattivo e rinunciatario, da una parte - e dall’altra, di una realtà politica che si rende sempre più materiale, secolarizzata, laica, agnostica, dominata da interessi e da forze che sempre più appartengono non pure al mero «umano», ma infine allo stesso subumano, all’elemento prepersonale del puro collettivo. Franato l’apice, il primo fenomeno decisivo per questa discesa, con il quale il centro passa dalla prima alla seconda delle quattro caste, può definirsi come la “rivolta dei guerrieri”.

stuart mill
20-05-06, 13:57
Anche questo fenomeno ha tratti pressoché universali, e si esprime non solo nella storia, reale o leggendaria, ma anche nel mito: quasi tutti i popoli, in relazione spesso con la dottrina delle quattro età (la corrispondenza è sopra tutto con l’età del bronzo o del «lupo o dell’ascia» o degli «eroi» in senso ristretto) recando il ricordo di rivolte più o meno «luciferiche», di razze di «gigan*ti» - i nephelim biblici - o di titani, o di non-dèi - i raksasa e gli asura indo-ariani - che insorgono contro figure simboliche per una spiritualità divina, spesso ad affermare il principio della guerra e della mera violenza - ossia una distorsione del principio proprio appunto alla casta dei guerrieri - o ad usurpare un fuoco simbolico, che però si trasforma in motivo di prometeico tormento. E quando non si tratta appunto di usurpazione (ossia, in termini concreti: del tentativo del potere semplicemente temporale di subordinare e ridurre a instrumentum regni l’autorità spirituale, sia pur divenuta, questa, soltanto «sacerdotale») - qui si tratta in ogni caso di una rivolta che è sinonimo, semplicemente, di abdicazione e di mutilazione. Il Guénon assai giustamente rileva che ogni casta, mettendosi in rivolta e pretendendo di costituirsi come autonoma, si degrada in un certo qual modo inquantoché perde con ciò stesso la partecipazione e la facoltà di riconoscimento di un principio superiore, perde il suo carattere proprio quale l’aveva nell’insieme gerarchico per assumere quello della casta immediatamente inferiore. Ad ogni modo, a questo punto, per riferirei agli orizzonti storici a noi più prossimi, siamo all’avvento dell’epoca dei «re guerrieri», quale è visibile sopra tutto in Europa. Non più una aristocrazia virilmente spirituale, ma solo una nobiltà militare secolarizzata sta a capo degli Stati: fino alle ultime grandi monarchie europee. Qualità sopra tutto etiche vanno a definirla: quella certa nobiltà intima, quella certa grandezza e superiorità eroica connessa alla eredità di un sangue selezionato e anche a prestanza fisica e a naturale prestigio, che sono i contrassegni abituali del tipo più recente e già secolarizzato dell’aristocrate.

stuart mill
20-05-06, 13:57
E a tale livello il Guénon rileva giustamente che per lo Stato più che di autorità, è ormai il caso di parlare di potere, questa parola evocando quasi inevi*tabilmente l’idea di potenza o forza, e sopra tutto di una forza materiale, di una potenza che si manifesta visibilmente all’esterno e si afferma adoperando mezzi esteriori, mentre l’autorità spirituale, interiore per essenza, non si afferma che da se stessa, indipendentemente da ogni appoggio sensibile, e si esercita, in un certo senso, invisibilmente: sì che se si può ancora parlare qui di autorità, è solo in termini di analogia. Passando ora a considerare il secondo crollo, quello in forza del quale il centro dalla casta dei guerrieri si porta ancor più giù, fino alla casta dei mercanti, se ci riferiamo alla storia europea, esso si annuncia col tramonto del Sacro Romano Impero, anzi, già con l’opera iniziata da Filippo il Bello. L’autorità spirituale, tra*sformatasi in potere temporale, ha per sua caratteristica una ipertrofia materialisti*ca e devastatrice del principio di centralizzazione statale. Il sovrano teme di perde*re il suo prestigio di fronte a coloro che, in fondo, sono ormai suoi pari, cioè ai vari Principi feudali e, per consolidarlo, non si perìta ad avversare la stessa nobiltà, alleandosi col Terzo stato e non esitando ad appoggiare ie rivendicazioni di questo contro la nobiltà:”E così che vediamo la regalità, per centralizzarsi e assorbire in sé i poteri che appartenevano collettivamente alla nobiltà tutta intera, entrare in lotta con questa e lavorare alla distruzione della feudalità, dalla quale purtuttavia era sorta: essa d’altronde non poteva farlo che appoggiandosi al Terzo stato, che corrisponde ai vaicya (la casta indù dei mercanti), ed è per questo che noi vediamo anche, appunto a partir da Filippo il Bello, i re di Francia circondarsi quasi costantemente della borghesia, sopra tutto coloro che, come Luigi Xl e Luigi XIV hanno spinto più lontano il lavoro di “centralizzazione”, di cui del resto la borghesia doveva in seguito raccogliere il beneficio quando essa si impa*dronì del potere con la rivoluzione”(Guénon). A questo punto si inizia il processo di sostituzione del sistema nazionale a quello feudale. E nel XIV secolo che le nazionalità cominciano a costituirsi attra*verso il detto lavoro di centralizzazione. Si ha ragione di dire che la formazione della “nazione francese”, in particolare, fu l’opera dei re; questi, per ciò stesso, prepararono senza volerlo la loro rovina. E se la Francia fu il primo paese europeo in cui la regalità fu rovesciata, è perché fu in Francia che la “nazionalizzazione” ebbe il suo punto di partenza. D’altronde, occorre appena ricordare quanto ferocemente la Rivoluzione francese fu “nazionalista” e “centralizzatrice”, ed anche, quale uso propriamente rivoluzionario e sovvertitore si fece, durante tutto il corso del XIX secolo, e fin nella prima guerra mondiale, del cosiddetto «principio delle nazionalità». Perciò, se già nei costituirsi delle repubbliche mercantili e delle città libere se nella rivolta dei Comuni contro l’autorità imperiale e poi nelle guerre dei contadi*ni abbiamo i prodromi del gonfiarsi dal basso dell’onda sovvertitrice, l’assolutismo centralizzatore dei re guerrieri, in atto di costituire dei poteri pubblici in sostitu*zione materialistica del cemento puramente spirituale dato dal precedente ideale della fides, con abolizione di ogni privilegio e della stessa nozione dello jus singulare nel quale ancora si conservava qualcosa dell’antico principio delle caste - un tale assolutismo apre dall’alto le vie e va incontro a quell’onda dal basso, alla demago*gia: e i poteri pubblici saranno l’organo in cui, scalzata la monarchia, o ridottasi questa a vuoto simbolo con le costituzioni e con la famosa formula del Thiers: «Le roi règne, mais il ne gouverne pas», doveva incarnarsi il mero collettivo, la nazio*ne, dapprima sotto specie di Terzo stato. Attraverso la rivoluzione liberale abbassandosi l’idea della giustificazione dello Stato a quella mercantile e utilitaristica di un «contratto sociale», prende forma infatti il capitalismo moderno e, infine, l’oligarchia capitalistica, la plutocrazia, finisce col controllare e col dominare la realtà politica - il potere scende cioè a quel che in termini tradizionali corrisponde al livello della terza casta, all’antica casta dei mercanti. Con l’avvento della borghesia, l’economia viene a dominare su tutta la linea e la supremazia di essa viene apertamente proclamata nei riguardi di ogni sussistente resto dei principi non diciamo spirituali, ma semplicemente etici ancora vivi nel mondo politico occidentale.

stuart mill
20-05-06, 13:57
È la teoria paretiana dei «residui» e quella marxista delle «superstrutture». Per la forza di una logica piena di significa*to, la denominazione regale passa ai «re del dollaro», ai «re del carbone», ai «re dell’acciaio», e via dicendo. Ma come l’usurpazione chiama l’usurpazione, dopo i borghesi sono ora i servi che, a loro volta, aspirano al dominio. Lo pseudoliberalismo della borghesia dove*va richiamare fatalmente il «socialismo» in regime di masse e, questo, elementi ancor più inferiori, la pura «demonia» del collettivo. Fomentato dalle distruzioni internazionalistiche, antitradizionalistiche, illuministiche e democratiche inevitabilmente connesse al tipo moderno di ci*viltà e di cultura, con il marxismo, la terza internazionale, il manifesto del comunismo, la rivolta proletaria contro la borghesia capitalistica e, infine, con la rivoluzione russa e il nuovo ideale collettivistico bolscevico si assiste all’ultimo crollo, all’avvento della quarta casta: il potere passa nelle mani della mera massa priva di volto, la quale volge ad instaurare una nuova epoca universale dell’umanità sotto i rozzi segni di falce e martello. E qui il Berl forza le tinte: per lui con l’avvento del Quarto stato siamo al vestibolo del mondo subumano. Il Quarto stato è disanimato e il suo scopo è la disanimazione della vita, della società, della stessa interiorità umana: e tali, dopo lo standardismo e il taylorismo americano, sono i fini perseguiti dalla cosiddetta “purificazione proletaria» dai residui dell’Io borghese e dal cosiddetto messianismo tecnico sovietico. D’altronde, estraendo dalla forma mitica il contenuto reale, rivolgimenti del genere furono preveduti in più di un insegnamento tradizionale. Se l’Edda profetizza «giorni amari» in cui gli esseri della terra - gli Elementarwesen - proromperanno a travolgere le forze divine e i «figli di Muspell» spezzeranno l’arco Bifròst che unisce cielo a terra (si ricordi l’anzidetto simbolismo della funzio*ne pontiflcale della sovranità quale facitrice di ponti), un tema analogo si trova per esempio nella leggenda che, da tempi remoti, giunse nel Medioevo e vi costi*tuì una specie di leitmotiv: la leggenda delle genti «demoniche» di Gog e Magog che, spezzando la simbolica muraglia di ferro con cui una figura imperiale aveva loro sbarrata la via (simbolo per i limiti tradizionali e per l’ideale dello Stato quale kosmos vittorioso su chaos), proromperanno per cercar di vincere l’ultima battaglia impadronirsi di tutte le potenze della terra. D’altra parte, già accennammo che secondo la tradizione indo-ariana il kalì-yuga, o età oscura, sarebbe caratterizzato dal predominare della casta dei servi, dal prorompere di una razza di barbari senza fede, «intenti a apprezzare la terra solo per i tesori che essa contiene»(Vishnu-Purana).

stuart mill
20-05-06, 13:58
Togliendo a tutto ciò l’elemento coreografico-apocalittico, qui sarebbe difficile non riconosce*re la corrispondenza della nuova «civiltà» sovietica della bestia senza volto - senza volto perché composta da una moltitudine innumerevole - in atto di costru*irsi razionalmente i più moderni strumenti di meccanica potenza. Se il contemporaneo Julien Benda profetizza come epilogo del fenomeno, da lui precisato, della trahison des clercs:” l’umanità, e non più una certa frazione di essa, prenderà sé stessa per oggetto di religione. Si arriverà così ad una fratellanza universale che, lungi dall’aboli*re lo spirito di nazione con i suoi appetiti e i suoi orgogli, ne sarà la forma suprema, la nazione chiamandosi l’Uomo e il nemico Dio. E da quel momento, unificata in una armata immensa e in una immensa officina, non conoscendo più che discipline e invenzioni, infamando ogni attività libera e disinteressata e non avendo per Dio che sé stessa e i suoi voleri, l’umanità giungerà a grandi cose, cioè ad una presa veramente grandiosa sulla materia che la circonda” - se un Benda scrive ciò, qui vediamo proprio una specie di traduzione aggiornata dei termini dell’antica profezia tradizionale. In realtà, se si è giunti a pensare che non pure l’idea di casta, ma anche quella di classe è una idea superata e se si è affacciata la convinzione che la stessa famiglia e la stessa personalità sono dei pre*giudizi borghesi e, infine, che l’idea tradizionale di nazione non ha più un futuro, come più alto ideale ponendosi un conglomerato internazionale omogeneo, proletarizzato, avente per unico cemento il lavoro - è facile riconoscere che si sta facendo largo un concetto sociale conforme non più all’una o all’altra delle caste, ma addirittura al fuori casta, al paria: nel paria essendo stato considerato appunto chi è senza personalità, né culto: insomma, l’uomo libero. È dunque alla glorifi*cazione del paria e alla sua costituzione a modello universale presso ai miraggi di una potenza puramente arimanica, che sembra sbloccare il vantato progresso dell’Occidente, auspice prima la disgregazione individualistica e illuministica, poi il fermento barbarico connaturato nell’anima slava in connubio col materialismo storico dell’ebreo Carlo Marx. Così è evidente che come senso generale di questo processo della regressione delle caste e della caduta dell’idea di Stato si ha il trapasso involutivo della perso*nalità spirituale al collettivo prepersonale del quale, in forma mistica, era simbolo il totem delle società primitive.

stuart mill
20-05-06, 13:58
In realtà, solo aderendo ad una attività libera l’uo*mo può esser libero e sé stesso. Così nei due simboli dell’azione pura (eroismo, assunzione della vita a rito) e della conoscenza pura (contemplazione, ascesi) sostenuti da un regime di giusta diseguaglianza (suum cuique), le due caste supe*riori aprivano all’uomo vie di partecipazione a quell’ordine sovramondano, solo nel quale egli può appartenere a sé stesso e cogliere il senso integrale e universale della personalità. Nel distruggere ogni interesse per quell’ordine, nel concentrarsi sulla parte passionale e naturalistica del proprio essere, su scopi pratici e utilitari, su realizzazioni economiche e su ogni altro degli oggetti originariamente propri solo alle caste inferiori, l’uomo invece abdica, si discentra, si disintegra, si riapre a quelle forze irrazionali e prepersonali della vita collettiva, elevarsi al disopra delle quali costituì lo sforzo di ogni cultura veramente degna di questo nome. E così che, una volta avvenuta la disgregazione e la rivolta individualistica, nelle forme sociali dei tempi ultimi il collettivo acquista sempre più potenza, fino al punto di ridestare, in forma nuova, ma ancor più temibile, perché meccanizzata, razionalizzata, centralizzata e tradotta in termini di despotisrno sociale, economico o statale, il totemismo delle tribù primitive. La nazione giacobinamente concepita, il «popolo», la società, o l’umanità assurgono ora ad una personalità mistica e esigono dai singoli, che di essa sono parte, dedizione e subordinazione incondizio*nate, mentre in nome della «libertà» viene fomentato demagogicamente l’odio per quelle individualità superiori e dominatrici, solo di fronte alle quali il principio della subordinazione e dell’obbedienza dei singoli era sacro e giustificato. E questa tirannide del gruppo non si limita ad affermarsi in ciò che nella vita del singolo ha carattere «politico» e «sociale»: essa si arroga un diritto morale e spirituale, e pre*tendendo che cultura e spirito cessino di esser forme disinteressate di attività, vie per l’elevazione e la dignifìcazione della personalità e quindi per la realizzazione dei presupposti stessi di ogni gerarchia vera e virile, e divengano organi al servigio dell’ente temporale collettivo; dando l’ostracismo ad ogni «movente sovrannaturale o comunque estraneo agli interessi della classe» (Lenin) e scoprendo, per tal via, «in ogni intellettuale un nemico del potere sovietico» (Zinoviev), essa bandisce proprio la morale di chi afferma che mente e volontà solo hanno valore, quando si riducano a strumenti a servigio del corpo. D’altronde, la regressione quadripartita non ha solo carattere politico-sociale e psicologico, ma è anche quella di una data etica in una inferiore, di una data concezione della vita in una inferiore.

stuart mill
20-05-06, 13:58
Infatti mentre all’epoca «solare» era proprio l’ideale della spiritualità pura e l’etica della liberazione attiva dalla caducità uma*na; mentre all’epoca dei «guerrieri» era proprio ancora l’ideale dell’eroismo, della vittoria e della signoria e l’etica aristocratica dell’onore, della fedeltà e della caval*leria - nell’epoca dei «mercanti» l’ideale è la ricchezza (prosperity) , l’economia pura, il guadagno concepito - secondo la deviazione puritana derivata dall’eresia protestantica - come segno dell’approvazione divina, l’ascesi del capitalismo, la scienza come strumento di sfruttamento tecnico-industriale propiziatore di pro*duzione e di nuovo guadagno o di degradante razionalizzazione della vita - e infine con l’avvento dei «servi» sorge l’ideale del «servizio» anodino all’ente collet*tivo socializzato e l’etica universale proletaria del lavoro (“chi non lavora non man*gia”) con degradazione di ogni forma superiore di attività appunto in assunzioni sotto specie di «lavoro» e «servizio», cioè di quel che solo era il «dovere», il «modo d’essere», dell’ultima delle caste. E considerazioni analoghe, constatazioni di un ritmo quadripartito di caduta si potrebbero facilmente fare in ordine a molti altri domini: famiglia, arte, guerra, proprietà, ecc. La dottrina della regressione delle caste invero manifesta in ciò la sua fecondità: essa ci dà la possibilità di cogliere il senso complessivo di fenomeni vari, che di solito sono considerati separatamente, senza sospetto dell’intelligenza a cui obbediscono, e sono avversati confusamente dai più senza una sensazione nè delle linee nemiche vere nè delle posizioni, solo riferendosi alle quali è possibile una vera difesa e una radicale reazione ricostruttrice. Ora, proprio questo punto deve attirare la nostra attenzione: il problema ricostruttivo, la restaurazione dell’idea vera di Stato. Il Guénon giustamente rileva che nella misura in cui ci si sprofonda nella materialità, l’instabilità cresce, i cambiamenti si producono in modo sempre più rapido. Così il regno della bor*ghesia non potrà avere che una durata relativamente breve in confronto di quella del regime a cui esso è succeduto, e se elementi ancor più inferiori accedono al potere in un modo o nell’altro - nelle varietà dell’avvento del mero collettivo - e da prevedersi che il loro regno sarà verosimilmente il più breve di tutti e segnerà l’ultima fase di un certo ciclo storico, dato che non si può scendere più in basso.

stuart mill
20-05-06, 13:58
fine...

che ne pensate?

alexeievic
20-05-06, 21:58
penso che avrei bisogno di un'altra vita per avere il tempo per certe cose... ma mi spiegherai tutto in india.. li' penso che avremo tempo

Fenriz (POL)
20-05-06, 22:28
senza dubbio il nostro è un mondo di rovine ...e il Barone Giulio Evola a mio parere è l' unico che ha colto le cause di tale declino

stuart mill
21-05-06, 14:44
senza dubbio il nostro è un mondo di rovine ...e il Barone Giulio Evola a mio parere è l' unico che ha colto le cause di tale declino

evola è (uso volutamente il presente) un grande maestro ermetico. Purtroppo, per come la vedo io spesso molti l'hanno strumentalizzato (è fascista, è nazista e altre imbecillità).
Diciamo che Evola, e come lui altri tradizionalisti, siano essi ermetici o pagani, o appartenenti alla tradizione indù, parlava della decadenza del mondo nell'era del kali yuga, vale a dire quella iniziata circa 5500 anni orsono, e che durerà, per altri 427000 anni circa. E qui ci azzecca, dato che in effetti, essendo nell'era del ferro, la peggiore, non c'è da aspettarsi molto. Quindi quando contrappone l'era attuale, a quelle precedenti, ha mille ragioni. I problemi sorgono, quando lui (in parte) e i suoi seguaci (in toto), finiscono per fissarsi sulla parte 700-800-900 del kali yuga, e erroneamente la contrappongono al medioevo, sbagliando, perchè sempre kali yuga è, sempre decadenza spirituale: oggi c'è l'ateismo, nel medioevo il bigottismo fanatico. Vero è che per molti aspetti il 900 è più materuialista del medioevo, ma anche lati positivi (per quanti possano essercene nel kali yuga), così come il passato recente (cioè nel kali yuga) aveva lati negativi: c'era teresa d'avila in europa, chaytanya mahaprabu in india, ma c'era anche l'inquisizione.
L'errore che fa è che per il disgusto per il materialismo attuale (compresibile), lui esalta spesso (anche se molto spesso poi ricorda a tutti, anche a se stesso, che l'alternativa non è il medioevo, ma le ere dell'oro, dell'argento e del bronzo) il passato ante rivoluzione, scordandosi appunto che nel kali yuga tutto ciò è inevitabile.
Io direi che, come dicono alcuni maestri indiani, bisogni buttare l'acqua del bagno, senza buttare il bambino, cioè criticare il materialismo attuale senza:
1)scordare che allì'interno del kali yuga nessuna epoca è veramente buona
2)scordare che le libertà conquistate mettono akl riparo i sinceri ricercatori, dal fanatismo dei religiosi bigotti: evola nel 500 l'avrebbero bruciato come eretico sicuramente, come giordano bruno
3)scordare che il vero cammino spirituale è autonomo: è inutile cercare di cambiare la società, meglio prima cambiare se stessi, poi cercare di aiutare le singole persone a fare lo stesso
4)che un ritorno al passato recente farebbe solo danno

guenon mi pre che l'abbia tenuto meglio in mente, ferma restando la condanna dello scientismo e del positivismo...
Zolla invece si situa su una posizione più estrema rispetto a evola...

stuart mill
21-05-06, 14:48
[quote=Alexeievic]penso che avrei bisogno di un'altra vita per avere il tempo per certe cose...----

bastano pochi mesi: da quando ho avvicinato l'ermetismo, e l'ho iniziato a prendere sul serio, a stento è passato un annetto e mezzo, da quando ho inziato a prendere un pò sul serio, a quando l'ho preso veramente sul serio, 2-3 mesi. In pratica un mese primas del viaggio in india, poi il viaggio certo mi ha fatto compiere un'accellerazione di parecchi mesi, se non anni...
credo che se farai il viaggio con mente aperta, farai uno zompo in avanti, da non credersi!


ma mi spiegherai tutto in india.. li' penso che avremo tempo------


addirittura? non esageriamo, posso accennarti ad alcune cose, ma addirittura spiegarle a un altro... non sono certo in grado

Fenriz (POL)
21-05-06, 19:59
evola è (uso volutamente il presente) un grande maestro ermetico. Purtroppo, per come la vedo io spesso molti l'hanno strumentalizzato (è fascista, è nazista e altre imbecillità).
Diciamo che Evola, e come lui altri tradizionalisti, siano essi ermetici o pagani, o appartenenti alla tradizione indù, parlava della decadenza del mondo nell'era del kali yuga, vale a dire quella iniziata circa 5500 anni orsono, e che durerà, per altri 427000 anni circa. E qui ci azzecca, dato che in effetti, essendo nell'era del ferro, la peggiore, non c'è da aspettarsi molto. Quindi quando contrappone l'era attuale, a quelle precedenti, ha mille ragioni. I problemi sorgono, quando lui (in parte) e i suoi seguaci (in toto), finiscono per fissarsi sulla parte 700-800-900 del kali yuga, e erroneamente la contrappongono al medioevo, sbagliando, perchè sempre kali yuga è, sempre decadenza spirituale: oggi c'è l'ateismo, nel medioevo il bigottismo fanatico. Vero è che per molti aspetti il 900 è più materuialista del medioevo, ma anche lati positivi (per quanti possano essercene nel kali yuga), così come il passato recente (cioè nel kali yuga) aveva lati negativi: c'era teresa d'avila in europa, chaytanya mahaprabu in india, ma c'era anche l'inquisizione.
L'errore che fa è che per il disgusto per il materialismo attuale (compresibile), lui esalta spesso (anche se molto spesso poi ricorda a tutti, anche a se stesso, che l'alternativa non è il medioevo, ma le ere dell'oro, dell'argento e del bronzo) il passato ante rivoluzione, scordandosi appunto che nel kali yuga tutto ciò è inevitabile.
Io direi che, come dicono alcuni maestri indiani, bisogni buttare l'acqua del bagno, senza buttare il bambino, cioè criticare il materialismo attuale senza:
1)scordare che allì'interno del kali yuga nessuna epoca è veramente buona
2)scordare che le libertà conquistate mettono akl riparo i sinceri ricercatori, dal fanatismo dei religiosi bigotti: evola nel 500 l'avrebbero bruciato come eretico sicuramente, come giordano bruno
3)scordare che il vero cammino spirituale è autonomo: è inutile cercare di cambiare la società, meglio prima cambiare se stessi, poi cercare di aiutare le singole persone a fare lo stesso
4)che un ritorno al passato recente farebbe solo danno

guenon mi pre che l'abbia tenuto meglio in mente, ferma restando la condanna dello scientismo e del positivismo...
Zolla invece si situa su una posizione più estrema rispetto a evola...

sicuramente Evola non considera il medioevo come un età buia e oscura come i signori Voltaire e company vogliono farci credere, ma, anzi, un periodo storico animato da sani e genuini principi ... l' inquisizione e i roghi dei libri ,tipici del medioevo,sono senz' altro da attribuire al dogmatismo e intolleranza dei monoteismi ( in questo caso il cristianesimo ), incocepibili per i Gentili.

riguardo alla realizzazione spirituale autonoma, c' è da dire che il cristianesimo,cosi come tutti i monoteismi, ha sositutuito la purificazione spirituale - il sapere essere- con un semplice credere dogmatico in dio.

riguardo al fatto che evola fossa fascista o nazionalsocialista è senza dubbio una grande cavolata, era solo un pensatorre che vedeva nei due regimi dei barlumi di Tradizionalismo e anticapitalismo...ma comunque rano due ideologie frutto del kali yuga, quandi inevitabilmente imperfette.

riguardo zolla e guenon non so che dirti , dato che il primo non l' ho mai sentito nominare, del secondo ho ,letto solo 'crisi del mondo moderno'.

alexeievic
21-05-06, 21:05
Fenriz... ammappa che avatar....

stuart mill
22-05-06, 17:45
[QUOTE]sicuramente Evola non considera il medioevo come un età buia e oscura come i signori Voltaire e company vogliono farci credere, ma, anzi, un periodo storico animato da sani e genuini principi ...----

ovvio, ma nemmeno lo esaltava: sempre di kali yuga si tratta, e lui ovviamente non ama(va) i dogmatismi


l' inquisizione e i roghi dei libri ,tipici del medioevo,sono senz' altro da attribuire al dogmatismo e intolleranza dei monoteismi ( in questo caso il cristianesimo ), incocepibili per i Gentili.------

concordo, ma appunto di medioevo si tratta, anche se poi peggiorarono nel 500 e in parte del 600


riguardo alla realizzazione spirituale autonoma, c' è da dire che il cristianesimo,cosi come tutti i monoteismi, ha sositutuito la purificazione spirituale - il sapere essere- con un semplice credere dogmatico in dio.---

vero


riguardo al fatto che evola fossa fascista o nazionalsocialista è senza dubbio una grande cavolata,

vero


era solo un pensatorre che vedeva nei due regimi dei barlumi di Tradizionalismo e anticapitalismo...ma comunque rano due ideologie frutto del kali yuga, quandi inevitabilmente imperfette.

lui in un articolo, sul neopaganesimo,l criticò aspramente il nazismo, già nel 34, anche se non ruppe comunque i rapporti con la cerchia più avveduta ed esoterica del reich. Sugli ebrei disse: non ne sapevo nulla, se avessi sapuito io e i miei amici ci saremmo dati da fare per salvarli: interessante, perchè da l'idea di una certa potenza della sua cerchia di amicizie.


riguardo zolla e guenon non so che dirti , dato che il primo non l' ho mai sentito nominare, del secondo ho ,letto solo 'crisi del mondo moderno'.

strano! zolla è un ultra tradizionalista e un esoterista... ha scritto un'ottima prefazione per il signore degli anelli della rusconi...
di guenon sto leggendo l'ottimo re del mondo, poi lessi tempo fa alcuni brani di considerazioni sulla via iniziatica. La crisi del la devo leggere ancora

Fenriz (POL)
22-05-06, 20:12
per la critica al nazionasocialismo , penso che ti riferisci all' articolo 'critica del neopaganesimo '?
comunque criticava anche le derive borghesi e filo-vaticane del fascismo italiano, per non parlare del razzismo puramente biologico nazionasocialista .

su zolla mi informerò...la 'crisi del mondo moderno' è sicuramente un buon libro ,ma preferisco 'rivolta contro il mondo moderno' del Barone

Arjuna (POL)
22-05-06, 20:37
Evola Esaltava molti aspetti del Medioevo, ma comunque in un'ottica di decadenza: in particolare egli guardava all'impero romano-germanico degl'inizi, come riproposizione della concezione sacrale del potere regale, e quindi restaurazione di un valore tradizionale che era decaduto nella fase finale dell'impero romano.
Contemporaneamente individuava nella pretesa della Chiesa cattolica di assegnare al papa un potere equivalente a quello imperiale, con la conseguente scissione di potere spirituale e regale, una forte accellerazione verso la decadenza, in quanto la contrappoosizione tra papato ed impero, portò il primo ad appoggiare le rivendicazioni nazionaliste.

E' indubbio che Evola criticò fortemente nazismo e fascismo, da una posizione di destra, rimarcandone la lontananza dai principi tradzionali.

stuart mill
22-05-06, 21:46
[QUOTE]per la critica al nazionasocialismo , penso che ti riferisci all' articolo 'critica del neopaganesimo '?


si, non ricordavo il titolo


comunque criticava anche le derive borghesi e filo-vaticane del fascismo italiano, per non parlare del razzismo puramente biologico nazionasocialista .


si


su zolla mi informerò...

se vuoi ho un'opera sua, in formato digitale, la nube e il telaio: posso inviartela tramite mail


la 'crisi del mondo moderno' è sicuramente un buon libro ,ma preferisco 'rivolta contro il mondo moderno' del Barone

appena posso li leggerò tutti e 2

stuart mill
22-05-06, 21:47
Evola Esaltava molti aspetti del Medioevo, ma comunque in un'ottica di decadenza: in particolare egli guardava all'impero romano-germanico degl'inizi, come riproposizione della concezione sacrale del potere regale, e quindi restaurazione di un valore tradizionale che era decaduto nella fase finale dell'impero romano.
Contemporaneamente individuava nella pretesa della Chiesa cattolica di assegnare al papa un potere equivalente a quello imperiale, con la conseguente scissione di potere spirituale e regale, una forte accellerazione verso la decadenza, in quanto la contrappoosizione tra papato ed impero, portò il primo ad appoggiare le rivendicazioni nazionaliste.

E' indubbio che Evola criticò fortemente nazismo e fascismo, da una posizione di destra, rimarcandone la lontananza dai principi tradzionali.

vero.
anzi, sull'impero e sul ghibellinismo, ho un interessante articolo del gruppo di ur, più alcuni suoi articoli su argomenti simili, fra un pò li posterò

mosongo
22-05-06, 22:06
http://www.centrostudilaruna.it/evola.html

Il "mistero iperboreo"



L'origine iperborea della civiltà europea è uno di punti di maggiore e significativa continuità dell'opera di Evola. In ciò Evola non tanto presentava una posizione di per sé originale, quanto piuttosto il connettersi di tesi di svariati autori che avevano effettuato importanti scoperte nei campi della storia e dell'antropologia, con la conoscenza metafisica di Evola e la sua penetrazione filosofica della tradizione solare: tutto ciò gli diede la possibilità di sviluppare una peculiare visione dell'origine e della natura della "indoeuropeità": quale civiltà solare, virile e guerriera, forma nella quale viceversa non era stata compresa dalla maggior parte dei cattedratici e delle autorità. In questo studio, ultimo e più corposo tra le pubblicazioni della Fondazione Evola, Alberto Lombardo ha riproposto una veste usuale, quella di riunire articoli evoliani pubblicati su giornali, introdotti con ricchezza di informazioni, e documentato l'influenza su Evola di alcuni suoi precorritori. Questi sono soprattutto Bachofen, Wirth, Altheim e Günther. Quest'ultimo è rappresentato nel volume meno per le sue ricerche razziali che non per la sua piccola opera Frömmigkeit nordischer Artung. Notevole è anche la recensione evoliana allo studio duméziliano Jupiter, Mars, Quirinus.

L'origine degli Indoeuropei dal Polo Nord, come aveva individuato l'indiano Tilak, non è soltanto un motivo spesso ricorrente nell'opera di Evola, ma viene anche frequentemente commentata (su questo punto va raccomandato La Tradizione artica - Arthos 27/28). I riferimenti all'analisi razziale sono stati recentemente rianalizzati criticamente: in particolare, Robert Steuckers ha pubblicato alcuni saggî su Hans F. K. Günther. Circa gli studi su Bachofen di Evola c'è un altro volume della Fondazione Julius Evola. Così il servizio reso da questo volume è quello di focalizzare il campo visivo verso il centro a cui convergono questi interessi di Evola: origine e natura della civiltà indoeuropea. In questo il curatore segue l'allievo di Evola Adriano Romualdi.

Questi gli articoli che compongono il volume:

Il ciclo nordico atlantico (1934, estratto dalla prima edizione di Rivolta contro il mondo moderno)
Il mistero dell'Artide preistorica: Thule ("Il Corriere Padano", 13.1.1934)
Razza e cultura ("La Rassegna Italiana", 1934)
Preistoria mediterranea ("Il regime fascista", 21.3.1934)
Senso della tesi nordico aria ("Il regime fascista", 12.7.1940)
L'equivoco latino ("Il regime fascista", 11.3.1941)
Popolazioni primordiali abitarono forse il Polo Nord? ("Roma", 22.10.1952)
Ricerche sulle origini. La migrazione "dorica" in Italia ("Il regime fascista", 1.11.1940)
Giove, Marte e Quirino per gli antichi romani ("Roma", 21. 1.1956)
Religiosità indoeuropea ("Il Conciliatore", 15.8.1970)

Quale conclusione è riportato un raffronto tra la "protostoria indoeuropea" secondo la scienza attuale e le posizioni di Evola.

Martin Schwarz

stuart mill
22-05-06, 22:15
bravo mosongo, ottimo articolo. Colgo l'occasione per chiedere a chi avesse articoli di evola, di metterli a disposizione di tutti, così come faccio io.
Potremmo arrivare ad averli tutti in questo modo. Al di la del giudizio che si possa avere per certe sue idee, si legge sempre con piacere.
Informo tutti che oltre a suoi articoli, ho 2 suoi libri interi in formato digitale: chi fosse interessato, me lo faccia sapere che glieli mando

stuart mill
22-05-06, 22:15
La leggenda del Graal e il mistero dell’Impero
(Gruppo di Ur)
Nell'una o nell'altra forma, nelle tradizioni dei popoli più vari sempre ricorre l'idea di un possente "Signore del Mondo" di un regno misterioso sovrastante ogni regno visibile, di una residenza avente, in senso superiore, il significato di un polo, di un asse, di un centro immutabile, raffigurata come una terra ferma in mezzo all'oceano della vita, come una contrada sacra e intangibile, come una terra della luce o terra solare. Significati metafisici, simboli e oscuri ricordi qui si intrecciano inseparabilmente. L'idea della regalità olimpica e del "mandato dal cielo" costituisce un motivo centrale: "Colui che regna mediante la Virtù (del Cielo) - dice Kong-tze - rassomiglia alla stella polare: " egli resta immobile, ma tutte le cose volgono intorno "a lui". L'idea del "Re del Mondo" concepito come cakravartî sovrasta una serie di temi subordinati: il cakravartî - Re dei re - volge la ruota - la ruota del Regnum, della "Legge" - restando egli stesso immobile. Invisibile come quella del vento, la sua azione ha tuttavia l'irresistibilità delle forze di natura. In mille forme, e in stretta connessione con l'idea di una terra nordico-iperborea, prorompe il simbolismo della sede del mezzo, della sede immutabile: l'isola, l'altezza montana, la cittadella del sole, la terra difesa, l'isola bianca o isola dello splendore, la terra degli eroi. "Nè per terra nè per mare si raggiunge la terra sacra" - è detto nella tradizione ellenica. "Solo il volo dello spirito vi può condurre" - sussurra la tradizione estremo-orientale. Altre tradizioni parlano di un monte magnetico misterioso e del monte, nel quale scompaiono o sono rapiti coloro che hanno conseguita la perfetta illuminazione spirituale. Altri ancora parlano di nuovo di una terra solare, dalla quale provengono coloro che sono destinati ad assumere la dignità di re legittimi fra popoli senza prìncipi. Questa è anche l'isola di Avallon, cioè l'isola di Apollo, del dio solare iperboreo chiamato, fra i Celti, Aballun. Di leggendarie razze "divine", come i Tuatha dè Danann, che vennero dall'Avallon, è anche detto che vennero "dal cielo". I Tuatha portarono seco dall'Avallon alcuni oggetti mistici: una pietra che indica i re legittimi, una lancia, una spada, un vaso che fornisce un nutrimento perenne, il "dono di vita". Sono gli stessi oggetti che figureranno nella leggenda del Graal. Dai tempi primordiali questi motivi leggendari scendono fino al Medioevo assumendo in questa epoca delle forme caratteristiche. Da qui, ad esempio, le tradizioni relative al regno di Prete Gianni e di Re Artù. "Prete Gianni" non è un nome, ma un titolo: si parla di una dinastia dei "preti Gianni" la quale, come la stirpe di David, avrebbe incarnato ad un tempo la dignità regale e quella sacerdotale. Il regno di Gianni assume spesso i tratti del "luogo primordiale", del "paradiso terrestre". È la che cresce l'Albero: un albero che, nelle diverse redazioni della leggenda, appare talvolta come Albero della Vita, talaltra anche come Albero della Vittoria e del dominio universale. Là si trova anche la Pietra della Luce, una pietra, the ha la virtù di risuscitare l'animale imperiale,l'Aquila. Gianni domina le genti di Gog e Magog - le forze elementari, la demonia del collettivo. Varie leggende dicono di viaggi simbolici che i più grandi dominatori della storia avrebbero fatto fino al paese del prete Gianni, o a terre aventi un significato analogo, per ricevervi una specie di consacrazione sovrannaturale del loro potere. D'altra parte, il prete Gianni avrebbe inviato ad imperatori, come "Federicus", dei doni simbolici aventi il significato di un "mandato divino". Uno degli eroi che avrebbe raggiunto il regno del Prete Gianni è Ogiero di Danimarca. Ma nella leggenda di Ogiero di Danimarca il regno del Prete Gianni si identifica all'Avallon, cioè all'isola iperborea, alla terra solare, all'"isola bianca". In Avallon si è ritirato Re Artù. Avvenimenti tragici, descritti in forme diverse nei vari testi, l'obbligano a cercar là un rifugio. Questo ritirarsi di Artù non ha che il significato del divenir latente di un principio, di una funzione. Artù, secondo la saga, non è mai morto. Egli vive ancora nell'Avallon. Egli si manifesterà di nuovo. Nella figura di Re Artù è da vedersi una delle varie figurazioni del "dominatore polare", del "re del mondo". L'elemento storico qui è travolto e "informato" da quello superstorico. Già l'antica etimologia riferiva il nome di Artù ad arkthos, cioè "orso" il che attraverso il simbolismo astronomico della costellazione polare, riconduce di nuovo all'idea del "centro". Il simbolismo della "Tavola Rotonda", della cui cavalleria Re Artù è il capo supremo, è "solare" e "polare". Il palazzo di Re Artù - come il Mitgard, la residenza luminosa degli Asen, degli "eroi divini" nordici - è costruito nel "centro del mondo" - in medio mundi constructum. Secondo alcuni testi, esso gira intorno ad un punto centrale: gira, come, nell'"isola bianca" - çveta-dvîpa - ricordata dagli Indogermani d'Asia, nella terra iperborea il cui dio è il solare Viçnu, gira lo swastika; come "l'isola di vetro" celtico-nordica - un fac-simile dell'Avallon - gira; come la ruota fatale del cakravartî del "Re del Mondo" ariano, gira.

stuart mill
22-05-06, 22:16
I tratti sovrannaturali, "magici", propri a questa figura s'incarnano, per così dire, in Myrddhin, cioè in Merlino, consigliere inseparabile di Re Artù che è in fondo, meno un essere diverso da lui che non la figurazione personificata della parte sovrannaturale dello stesso Artù. La cavalleria di Artù andrà alla ricerca del Graal. La cavalleria di Artù, che recluta i suoi membri da tutte le patrie, ha per parola d'ordine: "Chi è capo, ci sia da ponte". Secondo l'antica etimologia, pontifex significava pertanto il "facitore di ponti", colui che stabilisce il legame fra due rive, fra due mondi. A ciò si aggiungono oscuri ricordi storici e trasposizioni geografiche di nozioni temporali. L'"isola" situata "all'estremità del mondo", di cui in varie tradizioni, in realtà sta a significare il centro primordiale nelle lontananze remote del tempo. La terra del sole è, per i Greci, Thulé: - Thule ultima a sole nomen habens - e Thulé equivale all'Airyanem-Vaêjô, al paese dell'estremo nord degli antichi Persiani. L'Airyanem-Vaêjô è la "semenza" della razza primordiale ario-iranica, nella quale riapparirà anche in sede storica l'imagine del Re dei re, del rappresentante del Dio di Luce. L'Airyanem-Vaêjô ha conosciuto il regno del solare Yima, l'"età dell'Oro". Ma Esiodo si ricorda: "Quando questa età (l'età dell'Oro) declinò, quegli uomini divini continuarono a vivere toi men ... eisi e divennero, in forma invisibile hora essamenou i guardiani degli uomini". Ciò, perchè il "senso della storia" è la decadenza: all'età dell'Oro succede quella dell'Argento - l'età delle Madri; poi quella del Bronzo - l'età dei Titani; infine l'età del Ferro: "età oscura", kali-yuga, "crepuscolo degli dei". Perchè? Molti miti sembrano voler stabilire una relazione fra "caduta" e hybris, cioè usurpazione prometeica, rivolta titanica. Ma, di nuovo, Esiodo si ricorda: Zeus, il principio olimpico, ha creato nell'età del Ferro una generazione di eroi, che sono più che "titani" ed hanno la possibilità di conquistare una vita simile a quella degli dei iox te deoi. Un simbolo: l'Eracle dorico-acheo, alleato degli Olimpici, nemico dei titani e dei giganti.

stuart mill
22-05-06, 22:16
La dottrina del centro supremo e delle età del mondo è strettamente connessa con quella delle leggi cicliche e delle manifestazioni periodiche. Tralasciando questi punti di riferimento, molti miti e molti ricordi tradizionali rimarrebbero allo stato di frammenti inorganici e quasi incomprensibili. "Ciò avvenne una volta - ciò di nuovo avverrà", insegna la tradizione. E ancora: "Ogni qualvolta lo spirito declina e l'empietà trionfa, io mi manifesto; per la protezione dei giusti, per la distruzione dei malvagi, per stabilire fermamente la legge, di età in età io rivesto un corpo". In tutte le tradizioni, sotto forme diverse, più o meno complete, ricorre sempre la dottrina delle manifestazioni cicliche di un principio unico, sussistente nei periodi intermedi allo stato latente. Messia, "Giudizio Universale", Regnum, ecc., tutto ciò non rappresenta che una traduzione religiosamente e fantasticamente deformata di questa conoscenza; conoscenza, che peraltro sta anche alla base di quelle confuse leggende, ove si narra di un dominatore che non sarebbe mai morto ma che si sarebbe ritirato in una sede inaccessibile - identica in fondo al "Centro" - per rimanifestarsi nel giorno dell'"ultima battaglia"; di un imperatore che dorme e che si ridesterà; di un principe Ferito, che attende colui che lo guarirà e che condurrà a nuovo splendore il suo regno decaduto o devastato. Tutti questi ben noti motivi della leggenda imperiale medievale ci riportano assai lontano nei tempi. Il mito primordiale del Kalki-avatâra contiene già tutte queste idee in una relazione assai significativa con altri simboli da noi già indicati. Kalki-avatâra è "nato" a Shambala - che è una delle designazioni del centro iperboreo primordiale. L'insegnamento gli è stato trasmesso da Paraçu-Râma, il rappresentante "mai morto" della tradizione degli "eroi divini", il distruttore della casta guerriera in rivolta. Kalki-avatâra combatte contro l'"età oscura" e soprattutto contro i capi delle forze demoniache di essa, Koka e Vikoka, i quali anche etimologicamente riportano a Gog e Magog, alle forze sotterranee che, già dominate ed incatenate dal Prete regale Gianni, si scateneranno nell'età oscura e contro le quali anche l'imperatore ridestatosi dovrà combattere.

stuart mill
22-05-06, 22:16
La leggenda del Graal va ricondotta a quest'ordine di idee e solo sulla base di questi dati tradizionali e di questo simbolismo univensale essa può essere compresa sia dal punto di vista storico che da quello superstorico. Chi nella storia del Graal considera soltanto una leggenda cristiana, o una espressione del "folklore celtico pagano", o la creazione di una letteratura cavalleresca sublimata, non coglierà, dei testi relativi, che il lato più esteriore, accidentale ed insignificante. Parimenti errato sarebbe ogni tentativo di dedurre i temi del Graal dallo spirito di un particolare popolo. Si può ben affermare, ad esempio, che il Graal è un "mistero" nordico; ma solo a condizione di intendere, per "nordico", qualcosa di assai più profondo e di più, comprensivo the non "tedesco" o anche "indogermanico", qualcosa che invece riporti alla tradizione iperborea, la quale fa tutt'uno con la stessa tradizione primordiale del presente ciclo. In realtà, proprio da questa tradizione possono dedursi tutti i motivi principali delle leggende in quistione. A tale riguardo è assai significativo che, secondo il "Perceval li Gallois", i testi contenenti la storia del Graal sarebbero stati trovati nell'"Isola di Avallon", ove "è la tomba di Artù". Inoltre altri testi chiamano il paese, in cui a tutta prima Giuseppe di Arimathia avrebbe portato il Graal e dove abitavano certi enigmatici antenati di Giuseppe stesso, l'"Isola Bianca" e "Insula Avallonis": sono, di nuovo, designazioni del centro nordico primordiale. Se l'Inghilterra in questa letteratura appare spesso come una specie di terra promessa del Graal e come il paese nel quale si svolgono essenzialmente le avventure del Graal, molti indizi ci dicono che, nel riguardo, si tratta di un paese simbolico. L'Inghilterra fu chiamata anche "Albione" e "Isola Bianca"; "Albania" una parte di essa; Avallon la località di Glastonbury. L' antica toponomastica celtico-britannica sembra dunque aver trasposto all'Inghilterra, o almeno ad una parte dell'Inghilterra, alcuni ricordi e alcuni significati riferentisi essenzialmente al centro nordico primordiale, a Thule, alIa "terra solare". Questo è il vero paese del Graal. Ed è per questo che il regno del Graal sta in una stretta relazione col regno simbolico di Artù, col regno devastato - la terre gaste - col regno il cui sovrano è ferito, in letargia o decaduto. Un'isola montuosa, un'isola di vetro, un'isola che gira su sè stessa (the isle of the tournance), una residenza circondata dalle acque, un luogo inaccessibile, una sommità alpestre, un castello solare, un monte selvaggio e un monte della salvezza (Montsalvatsche e Mons Salvationis), una cittadella invisibile, tale da poter esser raggiunta solo dagli eletti, e perfino per questi con un pericolo mortale, etc. - ecco le scene principali sulle quali si svolgono tutte le avventure degli eroi del Graal: non sono che altrettante raffigurazioni del "Centro", della residenza simbolica del Re del Mondo. Anche il tema della terra primordiale ricorre : un testo chiama "Eden" la terra del Graal. Il ciclo del Lohengrin e la Sachsenkronik von Halberstadt riferiscono: "Artù si trova, con i suoi cavalieri, nel Graal, the già fu il paradiso e che ora è divenuto un luogo di peccato". Nella letteratura cavalleresca il Graal è propriamente un oggetto sovrannaturale, che ha essenzialmente queste virtù: nutrisce "dono di vita"; illumina (illuminazione spirituale); rende invincibile (chi l'ha visto, n'en court de bataille venchu, secondo Robert de Boron). Quanto ai rimanenti aspetti, ve ne sono da segnalare due. Anzitutto il Graal è una pietra celeste, che non solo designa i re - come la pietra che i Thuata portarono con loro dall'Avallon - ma indica anche i dominatori destinati a divenire "Prete Gianni" (secondo il "Titurel"). In secondo luogo, il Graal sarebbe la pietra caduta dalla corona di Lucifero al momento della sua sconfitta (secondo il "Wartburgkrieg"). Come tale, il Graal simbolizza un potere che Lucifero cadendo, perdette, ed esso anche in altri testi conserva il carattere di un mysterium tremendum. Come una forza temibile, il Graal uccide, spezza o accieca i cavalieri che vi si avvicinano senza esserne degni o senza essere gli eletti (secondo il "Grand St. Graal", "Joseph de Arimathia", ecc.). Questo aspetto del Graal sta in relazione con la prova del "posto pericoloso". Alla Tavola Rotonda di Artù manca ormai qualcuno. Un posto è vuoto, il quale, in fondo, corrisponde al capo supremo dell'Ordine. Chi l'occupa senza essere l'eroe atteso, è fulminato o è inghiottito da una sùbita voragine. Il Graal lo si può raggiungere solo combattendo - er muos erstritten werden, dice Wolfram von Eschenbach. Il mistero del Graal comprende due motivi. Il primo riprende l'idea di un regno simbolico, concepito come una imagine del centro supremo; regno, che è da restaurare, Il Graal non vi è più presente, ovvero ha perduto la sua virtù. Il re del Graal è malato. ferito, decrepito ovvero subisce un incantesimo, per via del quale egli sembra vivere, conserva una apparenza di vita, pur essendo morto da secoli (secondo il "Diû Krone"), L'altro motivo consiste nell'arrivo di un eroe che, avendo visto il Graal, deve sentirsi tenuto ad una tale restaurazione; altrimenti egli tradirà la sua missione e la sua forza eroica sarà maledetta (secondo Wolfram Eschenbach). Egli deve risaldare una spada spezzata. Egli deve essere il vendicatore. Egli deve "porre la domanda". Di che domanda si tratta? E quale è propriamente la missione di queeto "eletto"? Sembra essere la stessa che Esiodo attribuisce agli "eroi", ossia a quella generazione che, nata nell'età oscura della decadenza, ha tuttavia la possibilità di restaurare l'"età dell'Oro". E come l'eroe esiodeo deve superare e signoreggiare l'elemento titanico, del pari vediamo the l'eroe del Graal deve superare il pericolo luciferico. Non basta che il cavaliere del Graal si dimostri "il migliore e il più valente cavaliere del mondo" e un cuore d'acciaio - "ein stählernes Herz" - in ogni specie di avventure naturali e sovrannaturali: egli deve anche esser "libero da orgoglio" e deve "conquistare la saggezza" (secondo Wolfram e Gautier).

stuart mill
22-05-06, 22:17
Se il Graal è stato perduto da Lucifero, ecco che alcuni testi (Grand St. Graal, Gebert de Mostreuil, "Morte Darthur") riferiscono proprio a Lucifero il potere demoniaco agente in diverse prove contro i cavalieri del Graal. Inoltre il vecchio re del Graal è divenuto impotente e incapace di regnare per via di una ferita fattagli da una lancia avvelenata mentre egli era al servizio di Orguelluse: ma è abbastanza visibile che questa Orguelluse non è che una personificazione femminile dello stesso principio dell'"orgoglio". Senonchè altri cavalieri del Graal, per esempio Gauvain ("Galvano"), sono messi alla prova nel castello di questa stessa Orguelluse. Ma essi non soccombono. Vincono. Sposano - "posseggono" - Opguelluse. Il senso di questa prova è la realizzazione di una forza pura, di una virilità spirituale; è il trasporre la qualificazione eroica su di un piano staccato da tutto ciò che è caos e violenza. "La cavalleria terrestre deve divenire una cavalleria celeste" - è detto (Queste du Graal). Questa è la condizione per potersi aprire la via fino al Graal, per peter occupare il "posto" pericoloso senza esser fulminati - come i titani furono fulminati dal Dio olimpico. Purtuttavia come tema fondamentale di tutto il ciclo del Graal va considerato il seguente: all'eroe di tutte queste prove s'impone un compito ulteriore e decisivo. Una volta ammesso al castello del Graal, egli deve sentire la tragedia del Re del Graal ferito, paralizzato o vivente solo in apparenza e deve prendere l'iniziativa di una azione di restaurazione assoluta. Ciò viene espresso dai testi in varie fome enigmatiche: l'eroe del Graal deve "porre la quistione". Quale quistione? Qui si direbbe che gli autori abbiano voluto tacere. Si ha l'impressione che qualcosa li impedisca di parlare e che una spiegazione banale vada a nascondere la risposta vera. Ma se si segue la logica interna dell'insieme non è difficile comprendere ciò di cui, in realtà, si tratta: la quistione da porre è la quistione dell' Impero. Non si tratta di sapere - come secondo la lettera dei testi - ciò che significhino certi oggetti del castello del Graal, ma si tratta di intendere la tragedia della decadenza e, dopo aver "visto" il Graal, di porre il problema della restaurazione. Solo su tale base la virtù miracolosa di questa enigmatica domanda diviene comprensibile: poichè l'eroe che non è stato indifferente ed ha "posta la quistione", con questa quistione redime il regno. Colui che aveva solo un'apparenza di vita scompare; colui che era ferito guarisce.

stuart mill
22-05-06, 22:19
In ogni caso, l'eroe diviene il nuovo e vero re del Graal sostituendo il precedente. Un nuovo ciclo comincia. Secondo alcuni testi, il cavaliere morto, che sembra voler ricordare all'eroe la missione da compiere e la vendetta, appare in una bara trasportata sul mare da cigni. Ma il cigno è l'animale di Apollo nel paese degli Iperborei, nella terra nordica primordiale. Condotti da cigni partono i cavalieri dal centro supremo, in cui Artù è re: dall'Avallon. In altri testi, l'eroe del Graal è chiamato il cavaliere dalle due spade. Ma nella letteratura teologico-politica del tempo, soprattutto in qnella ghibellina, le due spade significavano nient'altro che il doppio potere, temporale e sovrannaturale. Un testo classico parla del paese iperboreo come della terra donde vennero dinastie che, come quelle degli Eraclidi, incarnarono ad un tempo la dignità regale e quella sacerdotale. In un testo del Graal la spada che va risaldata ha una custodia, il cui nome è: memoria del sangue. Il regno inaccessibile e intangibile del Graal è una realtà amche nella forma, secondo la quale esso non è legato a nessun luogo, a nessuna organizzazione visibile e a nessun regno terrestre. Esso rappresenta una patria, alla quale si appartiene per una nascita diversa da quella corporale, avente il senso di una dignità spirituale e iniziatica. Questo regno unisce in una catena infrangibile uomini che possono anche sembrare dispersi nel mondo, nello spazio, nel tempo, nelle nazioni, fino al punto di apparire isolati e da non conoscersi a vicenda. In questo senso il regno del Graal - come quello di Artù e del Prete Gianni, come Thulé, come Mitgard, Avallon, ecc. - è sempre presente. Secondo la sua natura "polare" esso è immobile. Di conseguenza, non è che egli sia talvolta più vicino e talvolta più lontano dalla corrente della storia: è piuttosto la corrente della storia, sono gli uomini e i loro regni che possono essergli più o meno vicini. Ora, in un certo periodo, il Medioevo ghibellino sembrò presentare un massimo di tale approssimazione ed offrire, per così dire, una materia storica e spirituale di tal fatta, che il regno del Graal avrebbe potuto divenire, da occulto, anche sensibile, e dar luogo ad una realtà ad un tempo interiore ed esteriore, come nelle civiltà tradizionali delle origini. Su tale base si può sostenere che il Graal fu il coronamento e il "mistero" del mito imperiale medievale e la suprema professione di fede dell'alto ghibellinismo. Una tale professione di fede si tradisce più nella leggeda e nel mito che non nella chiara volontà politica del tempo, secondo quel che accade anche nell'individuo, ove ciò che vi è di più profondo e di più pericoloso si esprime meno attraverso le forme della sua coscienza riflessa che non attraverso il simbolismo e una spontaneità subcosciente. II Medioevo attendeva l'eroe del Graal affinchè l'Albero Secco dell'Impero rifiorisse, ogni usurpazione, ogni contrasto, ogni opposizione fosse distrutta e regnasse veramente un nuovo ordine solare. Il regno del Graal, che avrebbe dovuto assurgere a nuovo splendore era lo stesso Sacro Romano Impero. L'eroe del Graal, che avrebbe potuto divenire "il dominatore di tutte le creature" e colui al quale "è stata affidata la potenza suprema", è l'Imperatore storico - "Federicus" - se egli fosse stato il realizzatore del mistero del Graal, del mistero iperboreo. Storia e superstoria sembrarono dunque, per un istante, interferire: ne risultò un periodo di alta tensione metafisica, un culmine, una suprema speranza - poi, di nuovo, crollo e dispersione.

stuart mill
22-05-06, 22:19
Tutta la letteratura del Graal sembra affollarsi in un periodo relativamente breve: nessun testo sembra esser anteriore all'ultimo quarto del XII secolo e nessuno posteriore al primo quarto del XIII secolo. A partire dal primo quarto del XIII secolo, si cessa di colpo, come per una parola d'ordine, di parlare del Graal. Solo dopo parecchi anni, e già in uno spirito differente, si scriverà di nuovo sul Graal. Sembra dunque come se in un certo momento una corrente sotterranea fasse affiorata per subito ridivenire occulta (Weston). L'epoca di questa subita scomparsa della prima tradizione del Graal coincide più o mena con la tragedia dei Templari. Forse questo è l'inizio della frattura. In Wolfram vom Eschenbach i cavalieri del Graal sono chiamati Templeise - "templari" - benchè nella sua storia non figuri affatto un tempio, ma solo una corte. In alcuni testi i cavalieri-monaci dell'"isola" misteriosa recano il segno dei Templari: una croce rossa su fondo bianco. In altri testi le avventure del Graal prendono un andamento da "crepuscolo degli dèi": l'eroe del Graal compie sì la "vendetta" e ristabilisce il regno, ma una voce celeste gli annuncia che egli deve ritirarsi col Graal in una terra insulare misteriosa. La nave che viene a prenderlo, è la nave dei Templari: ha una vela bianca con una croce rossa. Come sparse arterie, organizzazioni segrete sembrano aver custodito gli antichi simboli e le tradizioni del Graal anche dopo il crollo della civiltà imperiale ecumenica: "Fedeli d'Amore" ghibellini, trovatori del periodo più tardo, ermetisti. Così arriviamo fino ai Rosacroce. Fra i Rosacroce si presenta ancora una volta lo stesso mito: la cittadella solare, l'Imperator quale "Signore del Quarto Impero" e distruttore di ogni usurpazione, una confraternita invisibile di personalità trascendenti, unite unicamente attraverso la loro essenza e la loro intenzione, infine, lo strano mistero della resurrezione del Re, mistero, che si trasforma nella constatazione, che il Re da risuscitare già viveva ed era desto. Chi assiste a questo mistero reca il segno dei Templari: uno stendardo bianco con una croce rossa. Anche I'uccello del Graal - la colomba - è presente. Ma una parola d'ordine sembra esser stata trasmessa anche in questo caso. Ad un certo momento, si cessa subitamente di parlare dei Rosacroce. Secondo la tradizione gli ultimi Rosacroce, nel periodo in cui assolutismo, razionalismo, individualismo e illuminismo stavano per preparare le vie alla Rivoluzione francese e i trattati di Westfalia dovevano suggellare la decadenza definitiva dell'autorità del Sacro Romano Impero, avrebbero abbandonato l'Occidente per ritirarsi in "India". L'"India", qui, è un simbolo. Equivale alla residenza del Prete Gianni, del Re del Mondo. È I'Avallon. È Thulé. Secondo il "Titurel" tempi oscuri sono venuti per Salvatierra, dove risiedono i cavalieri del Monsalvato. Il Graal non può più restare in quel luogo. Viene trasportato in "India" nel regno del Prete Gianni, che è "presso il paradiso". Una volta che i cavalieri del Graal sono giunti colà, lo stesso Monsalvato e la sua cittadella vi appaiono, trasportativi magicamente, perchè "nulla di ciò deve restare fra i popoli peccatori". Lo stesso Parsival va a rivestire la funzione di "Prete Gianni". Ed ancor oggi dagli asceti tibetani circa Sbambala, la città sacra del Nord, ove conduce la "via settentrionale", cioè la "via degli dèi" - devayâna - vien detto talvolta: "Essa risiede nel mio cuore".

Fenriz (POL)
22-05-06, 22:19
bravo mosongo, ottimo articolo. Colgo l'occasione per chiedere a chi avesse articoli di evola, di metterli a disposizione di tutti, così come faccio io.
Potremmo arrivare ad averli tutti in questo modo. Al di la del giudizio che si possa avere per certe sue idee, si legge sempre con piacere.
Informo tutti che oltre a suoi articoli, ho 2 suoi libri interi in formato digitale: chi fosse interessato, me lo faccia sapere che glieli mando

senza dubbio potrei contribuire :D


comunque se il libro di zolla è 'la nube del telaio' l ho trovato ...grazie lo stesso comunque

mosongo
22-05-06, 22:19
bravo mosongo, ottimo articolo. Colgo l'occasione per chiedere a chi avesse articoli di evola, di metterli a disposizione di tutti, così come faccio io.
Potremmo arrivare ad averli tutti in questo modo. Al di la del giudizio che si possa avere per certe sue idee, si legge sempre con piacere.
Informo tutti che oltre a suoi articoli, ho 2 suoi libri interi in formato digitale: chi fosse interessato, me lo faccia sapere che glieli mando
grazie stuart........questo link contiene molti articoli di Evola
http://www.centrostudilaruna.it/evola.html (http://www.politicaonline.net/forum/redirect.php?url=http://www.centrostudilaruna.it/evola.html)

stuart mill
22-05-06, 22:22
l'articolo appena postato parla appunto dell'idea di impero tradizionale collegata al graal e a tutto il resto, ricollegandosi al re del mondo di guenon. Il gruppo di ur ra un gruppo di iniziati fondato da evola, e sciolto da mussolini.
Sullo scioglimento gira un'interessante storia: pare che il duce avesse assistito a un loro riunione e avesse visto degli oggetti spostati con la sola forza di volontà, e abbia iniziato ad aver paura che, magari durante un comizio, spostassero una vena dal suo collo o da un altro punto vitale, uccidendolo, perciò decretò lo scioglimento.

stuart mill
22-05-06, 22:24
senza dubbio potrei contribuire :D


comunque se il libro di zolla è 'la nube del telaio' l ho trovato ...grazie lo stesso comunque

prego. :)
ti dispiacerebbe allora postarne qualcuno, di quegli articoli che hai? se poi hai opere intere in formato digitale, potresti inserirne i titoli nel thread che ho aperto pochi giorni fa, o aprirne tu uno al proposito.

stuart mill
22-05-06, 22:26
grazie mosongo. Ora inserirò il link nel thread speciale dedicato ai link interessanti

Fenriz (POL)
22-05-06, 22:26
questo è un riassunto fatto (un pò frettolosamente) da me del primo capitolo di Imperialismo Pagano:


I - Noi ,gli antieuropei

La decadenza dell Europa

L ‘ occidente ,regno dell ‘oro, della macchina, del numero, ha perso il senso del comandare e obbedire, il senso della gerarchia,della potenza spirituale, degli uomini-iddii.
Non conosce piu’ quel corpo vivente, fatto di simboli,Dei e gesti rituali, che è la natura.
Non conosce piu’ la sapienza. Ad essa sono subentrati la retorica e il proclama.
Non conosce piu’ lo Stato, l’ Imperium, sintesi di regalità e spiritualità.
Non conosce piu’ quella via sacra di realizzazione che è la guerra ,come lo era per i guerrieri germanici che morivano sul campo di battaglia, come nell’ Islam la Jihad è sinonimo di via di Dio.
L’ europa ha oro per sangue, macchine e fabbriche per carne, carta e giornali per cervello. Tutto ciò ha potuto la ‘civilizzazione dell ‘occidente, questo è il vantato progresso.

Il nuovo simbolo

Per rinnovare questo mondo al crepuscolo occorre la potenza di un nuovo medioevo. Va detto basta agli estetismi e al bisogno dell’anima di creare un dio semitico da adorare e implorare !
Dobbiamo creare un’ elitè in cui riviva la ‘sapienza’ solare,la virtus ,dicontro alla scienza democratica, materiale e profana. Dobbiamo ridestare in quell’litè la scienza sacre della realizzazione e dignificazione di sé. Vi saranno allora Capi, una razza di Capi.
È un errore pensare di giunger a un rinnovamento se non si stabilisce una gerarchia,un Imperium.
Comprenderanno ciò anche coloro che vogliono opporre resistenza a questo rinnovamento ? Comprenderanno che ciò è il primo raggio di luce nalle fitta nebbia dell’ età oscura – il kali yuga - ?

La tradizione primordiale Nordico-Solare

Gli Irani parlano dell’ Airyanen-vaejo, localizzato nel piu’ estremo nord che in esso vedono l’ origine della loro stirpe e dove la religione guerriera di Zarathustra sarebbe stata rivelata per la prima volta.
La tradizione degli Indo-Ari conosce l’ ‘Isola dello Splendore’ situata nell’ estremo Nord. Essa parla anche degli Uttarakura, una razza nordica primordiale
I ceppi Acheo-Dorici sono eredi dei leggendari Iperborei: dall’ estermo nord sarebbero venui lApollo Solare e Ercole,l’ annientatore delle amazzoni.
Nell’ Ellade questo tema interferisce con quello di Thule,’L’isola degli Eroi’,’Paese degli Immortali’,’L’ Isola del Sole’.
Nordica è Avallon nelle tradizioni Gaeliche, da cui ebbe origine la pura razza divina degli eroici conquistatori dell‘ Irlanda preistorica, tra cui Ogma (corrispondente all’ Ercole dorico).
Anche gli Aztechi hanno la loro terra d’ origine nel nord, donde partirono sotto la guida di un dio-guerriero,Huitzilopochtli.
Questo sono alcuni riferimenti nelle piu’ diverse tradizioni del ricordo di una civiltà nordica primordiale ove si univa una spiritualità trascendente extraumana con l’ elemento eroico,regale e trionfale, in contrasto con le razze meridionali, legate alla terra,al caotico,al titanico.
D’ altra parte però oltre a racchiudereil significato dell‘origine ,le sedi primordiali svelano il segreto della via verso la rinascita e la potenza superumana. I fattori storici divennero cosi fattori spirituali, la tradizone reale divenne Tradizione trascendente, costantemente presente.Simboli, segni e saghe ci riferiscono un ‘ unic tradizione.
Cosi in tempi posteriori l’ elemento razziale ‘nordico’ divenne un tipo generale di civiltà e di comportamento davanti al superumano.
Perciò la romanità pgana va considerata come l’ ultima azione creatricedello spirito nordico, capace di far sorgere una civiltà eroica, solare e virile,confermata dai segno nordici del Lupo,dell’Aquila e dell’ Ascia e dal culto olimpicodi uno Zeus,di un’ Apollo e di un Marte.
Il crollo di Roma Pagana è il crollo del piu’ grande baluardo tradizionale.Crollo dovuto all’ onda semitica, nemica do ogni gerarchia e esaltatrice dei deboli, nemica verso tutto ciò che è sapienza e aristocrazia.
Nella semitizazione del mondo nordico e greco-romano, da addebitarsi in gran parte al cristianesimo, si ha la rivolta di quegli strati inferiori di quelle razza che sotto il dominio nordico-ario erano giunte al loro massimo splendore.
Lo spirito d’ Israele ,che aveva già determinato il senso della colpa e dell’ espiazione (che emerse dopo la schiavitu’ del popolo eletto) , evoca le stesse forze inferiori e telluriche.
Poi, da un’ altra parte ,si definirono nella Chiesa Cattolica le forme di una spiritualità lunare il cui tipo non è piu’ il re sacrale, l’ eroe, ma il santo ,colui che si inchina davanti a Dio ,non c’è piu’ la gerarchia ma la comunità fraterna.
E poi nelle seguenti rivoluzioni politiche si rivela la stessa volontà livellatrice, l’ odio della gerarchia,tipico di una razza di schiavi in rivolta.
Ed ancora , il misticismo semitico-cristiano si incontra in quel pathos orfico-dionisiaco ,di contro alla superiorità calma dei capi cesarei, alla spiritualità purificata tipica dell’ iniziato pagano.
Prima della caduta, di contro alla marea giudaico-cristiana, si presentò un’altra forza: fu la tradizione degli Ariani dell’ Iran, che sorse nella forma del culto guerriero di Mithra.
Quindi l’ ultima grande reazione : il Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca che, con un forza spiritualmente imparentata con la paganitas romana , rivitalizzò lo spirito eroico.
La civiltà ecumenica imperiale e feudale del Medioevo espresse una spiritualità nordico romana, la cui anima fu la cavalleria.
Dopo la caduta della civiltà medioevale, la forza della Tradizione diviene un’ eredità che si tramanda in una segreta catena nota da pochi a pochi, tra i quali Nietzsche e coloro che evocarono l’ Aquila, l’ Ascia e la Croce Uncinata.

Noi , Imperialisti Pagani

Noi invochiamo un ritorno deciso e incondizionato alla tradizone nordico-pagana. Antieuropa,antisemitismo,anticristianesimo: questa è la nostra parola d’ordine.
La fola piu’ assurda è quella è quella che dà la paganità come un sinonimo di materialità e fa invece passare ciò che una religione esotica e antiariana ha creato nella nostra decadenza per la sintesi piu’ pura e esclusiva di tutto ciò che è spirituale.
Lo spirito in atto come sapienza e potenza extraumana ,gloria di Re e vincitori , non lo conobbe la contaminazione semitica,lo conobbe il nostro paganesimo.
Noi dunque invochiamo la restaurazione dei valori della tradizione nordico-pagana in un Imperialismo Pagano.
Le forze primordiali della nostra razza ci pongono oggi di fronte al dilemma : fedeltà o tradimento.

Fenriz (POL)
22-05-06, 22:27
Roma e il Natale "Solare" nella Tradizione Nordico-Aria

di Julius Evola
tratto dal Sito ALCHEMICA




[ Tratto da "La difesa della razza" - 20 dicembre 1940
Ora con il titolo "Il Natale Solare" in Simboli della tradizione occidentale, Edizioni Arthos, Carmagnola 1977 ]

Fra gli altri, a due risaltati di non poco momento dovrebbe condurre la dottrina della razza sul piano spirituale: in primo luogo, con un ritorno alle origini, essa dovrebbe riportare alla luce i significati più profondi di tradizioni e di simboli, che si sono oscurati nei corsi dei millenni, sì da non sopravviverne che frammenti sparsi, decaduti in consuetudini e in feste convenzionali. In secondo luogo — e non senza relazione a ciò — la dottrina della razza dovrebbe ridestare la sensibilità per una concezione vivente del mondo e della natura, a limitare il potere di quella razionalistica, profana, scientista e fenomenicista, da cui l’uomo occidentale è stato sedotto ormai da secoli. E, in ordine a questo senso vivente e spirituale delle cose e dei fenomeni, i migliori punti di riferimento possono essere dati soprattutto dalle concezioni « solari » ed eroiche, che le più antiche tradizioni arie ebbero in proprio. Ben pochi sospettano che le feste di questi giorni, che ancor oggi, nel secolo dei grattacieli, della radio, dei grandi movimenti di folle, si celebrano e nelle cosmopoli così come fra trincee, macchine di guerra e masse combattenti, continuano una tradizione remota, riportandoci ai tempi ove, quasi all’aurora dell’umanità, s’iniziò il moto ascendente della prima civiltà aria; una tradizione, in cui peraltro si espresse meno una particolare credenza degli uomini, che la gran voce delle stesse cose. Volendo qui dir qualcosa in proposito, va anzitutto ricordato un fatto da molti ignorato, vale a dire, che in origine la data del Natale e quella dell’inizio del nuovo anno coincidevano, non essendo questa data arbitraria, ma connessa ad un preciso avvenimento cosmico, al solstizio d’inverno. Il solstizio d’inverno cade, infatti, nel 25 dicembre, che è la data del Natale successivamente conosciuto, ma che nelle origini ha avuto un significato essenzialmente « solare ». Ciò appare ancora in Roma antica: la data natalizia in Roma antica era quella del risorgere del Sole, dio invitto — Natalis solis invicti —. Con essa, come giorno del sole nuovo — dies solis novi — nell’epoca imperiale prendeva inizio l’anno nuovo, il nuovo ciclo. Ma questo « natale solare » di Roma del periodo imperiale, a sua volta, rimanda ad una tradizione assai più remota d’origine nordico-aria. Del resto, Sol, la divinità solare appare già fra i dii indigetes, cioè fra le divinità delle origini romane, ricevute da ancor più lontani cicli di civiltà. In realtà, come diremo, la religione solare del periodo imperiale, in larga misura ebbe il significato di una ripresa e quasi di una rinascenza, purtroppo alterata da vari fattori di decomposizione, di un antichissimo retaggio ano.

Già la preistoria italica preromana è ricca di tracce del detto culto solare: carri solari, dischi radiati, stelle radiate, croci d’ogni tipo, non escluse le croci uncinate incise p. es. in ascie arcaiche rinvenute in Piemonte e nella Liguria. Per tal via può constatarsi il passaggio, nell’Italia antichissima, della stessa tradizione, che lasciò fin dall’età della pietra tracce consimili lungo tutti gli itinerari delle grandi migrazioni ano-occidentali e nordico-arie. Simboli, segni, jerogrammi, notazioni calendariche o astrali rudimentali, figurazioni su vasi, armi od ornamenti, enigmatiche disposizioni di pietre rituali o di caverne, poi, più tardi, riti e miti sopravvissuti in civiltà più tarde, se studiati secondo i nuovi punti di vista propri all’indagine spirituale e razziale del mondo delle origini, forniscono peraltro testimonianze concordanti e univoche non solo circa la presenza di un culto solare unitario come centro della civiltà delle genti arie primordiali, ma altresì circa la speciale importanza che in esse aveva la data « natalizia », vale a dire quella del solstizio d’inverno, il 25 dicembre.

Ad evitare degli equivoci, sarà però bene ricordare ad una certa classe dei lettori quel che in questa sede abbiamo già avuto occasione di rilevare, vale a dire, che parlando di un culto solare preistorico non si deve per nulla pensare a forme inferiori di una religione « naturalistica »e idolatrica. E’ una fola, che l’antica umanità, e soprattutto quella della grande razza aria, divinificasse superstiziosamente i fenomeni naturali — vero è invece, che l’antichità concepì i fenomeni naturali essenzialmente come simboli sensibili di significati superiori, spirituali — quindi, più o meno come sostegni spontaneamente offerti ai sensi dalla natura per poter presentire questi significati trascendenti. Che le cose fra la parte meno qualificata di un dato popolo antico talvolta possano anche esser andate altrimenti, ciò può esser concesso, ma evidentemente prova così poco quanto il fatto non raro del passare in forma di superstizioni bigotte perfino in alcuni culti cristiani, in certe popolazioni incolte e fanatiche del Sud. Prevenuto così un noto malinteso, il significato simbolico d’espressioni arcaiche arie, come « luce degli uomini », o «luce dei campi » — landa ljòme — date al sole, deve risultare chiaro ,e si può anche comprendere, che lo stesso intero corso del sole nell’anno, con le sue fasi ascendenti e discendenti, si presentasse parimenti nei termini di un grandioso simbolo cosmico. In questa vicenda solare il solstizio d’inverno costituì una specie di punto critico, vissuto secondo una particolare drammaticità nel periodo in cui le stirpi arie originarie ancora non avevano lasciate regioni, nelle quali era sopravvenuto il clima artico e l’incubo di una lunga notte. In tali condizioni, il punto del solstizio d’inverno — il più basso dell’eclittica — apparve come quello in cui la « luce della vita » sembrava estinguersi, tramontare, sprofondarsi nella terra desolata e gelata o nelle acque o fra le cupe selve, da cui però ecco che subito di nuovo si rialza a risplendere di nuovo chiarore.

Qui sorge una vita nuova, si pone un nuovo inizio, si apre un nuovo ciclo. La « luce della vita », si riaccende. Sorge o nasce dalle acque l’ eroe solare ». Di là dall’oscurità e dal gelo mortale vieti vissuta una rinascita, una liberazione. Il simbolico albero del mondo e della vita si anima di nuova forza. E’ in relazione a tutti questi significati che già in tempi preistorici anteriori di millenni all’èra volgare una quantità di riti e di feste sacre andarono a celebrate la data del 25 dicembre, come data di nascita o rinascita, nel mondo così come nell’uomo, della forza « solare ». Poco si sa che lo stesso tradizionale albero natalizio, ancora in uso in molti paesi e in parte anche in Italia, ma nella forma di una faccenda da bambini o, al massimo, da buone famiglie borghesi, è un’eco residuale proprio di quell’antichissima, severa tradizione aria e nordico-aria. Un tale albero, ricavato da un « sempre verde », semper virens, cioè da pianta che non muore nell’inverno, pino od abete, riproduce l’arcaico albero della vita o del mondo, che al solstizio d’inverno s’illumina di nuova luce, cosa espressa appunto dalle candelette che lo adornano e che vengono accese in quella data. E i « doni », di cui quell’albero è carico -.— oggi, semplici regali per bambini —raffiguravano effettivamente il simbolico « dono di vita »proprio alla forza solare che nasce o rinasce. Ma il momento in cui il sernper virens, la pianta che non muore, si rinnova e si illumina è, nel simbolismo primordiale, anche quello in cui, come si è detto, l’ “eroe solare” sorge dalle acque allo stesso modo che, secondo un rito continuatosi fino al Medioevo ghibellino dopo aver avuto una parte importante nelle leggende relative ad Alessandro Magno, l’albero cosmico è anche un albero « solare » avente un’intima relazione col cosiddetto « albero dell’impero — arbor solis, arbor imperii.

Ciò ci induce a considerare un altro aspetto assai interessante delle tradizioni in parola, per il quale vogliamo particolarmente riferirci all’antica romanità. Il mithracismo. o culto di Mithra, come è noto, è la tarda forma assunta dall ‘antica religione ario-iranica (ma-dzea), in una formulazione particolarmente adatta per una mentalità guerriera. Diffusosi questo culto nella Romanità, sotto Aureliano la data del « natale solare o solstizio d’inverno », il 25 dicembre, si identificò a quella della celebrazione del Natalis Invicti, cioè della nascita di Mithra considerato come un eroe « solare ».

Circa il mithracismo a Roma, come si è accennato, sarebbe assai superficiale, se non addirittura grossolano, parlato sic et sirnpliciter di « importazioni » o « influenze orientali »: l’Oriente di quel tempo fu una cosa assai complessa, nella quale figuravano elementi molto eterogenei— ma fra di essi, indubbiamente, anche parti importanti e incorrotte del più antico retaggio spirituale delle genti arte e indoeuropee. Nei riguardi della relazione che fu stabilita fra Mithra e il « natale solare » romano, un noto studioso ebbe dunque a rilevare assai giustamente, che con questo non si venne ad un’alterazione, ma piuttosto ad un rinnovamento del calendario romano secondo quel suo antico aspetto astronomico e cosmico, che esso aveva avuto ai tempi primi di Romolo e di Numa e che conferiva alle feste il significato di grandi simboli nella coincidenza delle date di esse con grandi epoche della vita del mondo.

Dopo di che, è importante esaminare l’attributo di invictus-aniketos — dato a Mithra — all’eroe solare — e alla stessa forza solare nella nuova concezione romana. E’ un attributo « trionfale ». Nelle originarie tradizioni ario-iraniche e affini esso è l’attributo di ogni natura celeste e, eminentemente, del sole, in quanto luce che vince le tenebre, forza luminosa urànica su cui mai quelle della notte e della buia terra prevarranno. Ma, a Roma, noi vediamo che lo stesso epiteto invictus diviene titolo imperiale, cesareo, e noi sappiamo che mithracismo, più che esser culto di una divinità astratta, voleva «indurre » per così dire — la stessa qualità di Mithra negli iniziati, per mezzo di una certa trasformazione della loro natura. E’ in ciò evidente la tendenza a comprendere anche in modo simbolico e analogico l’attributo « solare », sì da poter farlo valere per l’uomo e, propriamente, a controsegnare il tipo e l’ideale di una superiore umanità —per non dire addirittura di una « superumanità ». Come il sole risorge, perennemente vittorioso sulle tenebre, così pure, in una perenne vittoria interiore sulla natura mortale e istintiva si compie un essere, che una mistica virtù rende, in via normale, eminentemente atto alla funzione di re, di capo, di duce. E’ così che in Mithra, l’“eroe solare “, fu venerato a Roma un fautor imperii; è così che si stabilisce un’intima relazione del simbolismo solare con le idee di regalità e di impero, nella loro più alta forma. Siffatta relazione ebbe particolare risalto nelle tradizioni eroiche delle antiche genti arie, e noi, in questa stessa sede, ne abbiamo già parlato trattando della dottrina mistica della « gloria ». Non volendo ripeter, dunque, cose già dette, ci limiteremo a ricordare la presenza degli stessi significati nell’antica Roma. La victoria Caesaris, cioè la mistica forza trionfale che, nel simbolo di una statuetta, dall’un Cesare veniva trasmessa all’altro, riflette esattamente le più antiche tradizioni ario-iraniche circa la regalità e il cosiddetto hvarenò: poiché, come già dicemmo nell’articolo ora ricordato, l’hvarenò valse come una misteriosa forza « solare » di invincibilità, e di « gloria », che investe i duci, fa di essi qualcosa di più che semplici uomini e li testimonia appunto con la loro vittoria.

Un’antica effige romana di Sol raffigura questo dio simbolico con la destra levata nel gesto « pontificale » di protezione e con la sinistra che regge una sfera, simbolo del dominio universale. In un’altra immagine si ravvisa però lo stesso dio che trasmette il globo all’imperatore, presso ad iscrizioni, le quali riferiscono appunto alla « solarità » la stabilità e l’imperium di Roma: Sol conservator orbis, Sol dominus romani imperii. Un altro medaglione particolarmente interessante reca nel retto l’imagine laureata dell’imperatore — con la testa, cioè, cinta del semper virens, della fronda imperitura: a tergo si ha il dio solare con la sfera, ma in più, vicino, una croce unci nata (che noi vediamo dunque presente anche in Roma antica) e la scritta: soli invicto comiti cioè: al dio solare, compagno invincibile. Ancora un’imagine conservata nel Museo Capitolino — ci mostra l’associazione del simbolo di Sol sanctissimus con l’Aquila, con l’animale fatidico di Roma, che si pensava fosse anche quello, da cui lo spirito trasumanato degli imperatori morti veniva simbolicamente tratto dal rogo funerario in cielo. Testimonianze analoghe potrebbero esser facilmente moltiplicate. Non è azzardato dire, che esse ci parlano di un vero e proprio « mandato divino solare » quale anima viva di quella funzione imperiale cesarea, che, per noi, nel mondo antico, fu una specie di ultimo guizzo di significati arcaici a poco a poco perduti.

Nella antica settimana romana il « giorno del sole » era il « giorno del signore » — e questo significato è sopravvissuto nei tempi successivi col termine di domenica, da dominus, signore, così come nella designazione germanica sontag o inglese sunday per lo stesso giorno di « festa » si e conservato letteralmente il significato di « giorno del sole » e, con esso, il riflesso dell’antica concezione solare ariana. Qualcosa della sapienza dei primordi sembra dunque essersi conservato, in un qualche modo, nella stessa festa attuale del Natale, per quanto la celebrazione dell’anno nuovo si sia da essa dissociata. Il simbolismo della luce vi si mantiene — si ricordino p. es. le parole del prologo del Vangelo di Giovanni : erat lux vera, quae ìlluminat omnem homnem venientem in bunc mùndum -così come l’attributo di « gloria », che appare poco più sotto. In tracce monumentali del primo periodo romanica lo stesso simbolo della croce si unisce a quello solare.

Nella tradizione aria e nordico-aria e nella stessa Roma lo stesso tema ebbe una portata non soltanto religiosa e mistica, ma sacra, eroica e cosmica ad un tempo. Fu la tradizione di una gente, alla quale la stessa natura, la stessa gran voce delle cose, parlò in quella data di un mistero di resurrezione, della nascita o rinascita di un principio non solo di « luce » e di nuova vita, ma anche di imperium, nel senso più alto e augusto del termine.

Fenriz (POL)
22-05-06, 22:28
LA VIA DI REALIZAZIONE DI Sé ATTRAVERSO I MISTERI DI MITHRA



quello che sto per proporvi è il riassunto di un articolo intitolato "la via della realizzazione di sè attraverso i misteri di Mithra" presente nel numero quattro dei quaderni di testi evoliani stampato dalla fondazione Julius Evola.

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Contrariamente a quello che si crede oggigiorno i miti degli antichi culti misterici non sono testi finzione, essi sono trascrizioni allusive a tappe della via dell' autorealizzazione, le gesta degli Eroi mitici sono "realtà", non finzioni poetiche. Ogni azione da loro compiuta è allusione ad un esperienza interiore che sarà sperimentata da chiunque tenda ad un fine che va oltre alla contingenza dell' umana esistenza; ovviamente questo vale anche per la parte del mito Mithraico sulla quale stiamo per soffermarci:la sua nascita.

I Misteri Mithraici sono parte integrande della Tradizione Magica Occidentale che nelle parole di Julius Evola è :"un mondo che è tutto di affermazione, luce e grandezza, di una spiritualità che è regalità e di una regalità che è spirituale[...]"; codesta è la via Solare dell' Azione, opposta al sognante universalismo orientale ed al sentimentalismo moralista cristiano.
Solo all' Uomo è concessi di procedere su questa via, la Donna verrebbe solo arsa e spezzata dalla tensione terribile generata dallo splendore del "Hvareno" (al di là della gloria, è una condizione di elevata spiritualità).

In questo Mito Mithra è assimilato ad un dio Nascente dalla "pietra" dopo che in essa si è "precipitada una luce celeste", essendosi svincolato dalla roccia sulla riva di un "fiume" vibrando in alto una lama di luce, la sua nascita è avvertita solamente da "pastori" nascosti sull' alto dei "monti".

Questi tra le virgolette sono simboli concernenti una fase di "iniziazione", la luce celeste si riaccende in colui che essendosi strappato dal "dio della terra" e avendo resistito all' "impeto delle acque" ha la sua nascita in spirito; questa è una dura attività spirituale che allontana il destino delle rinascite, il susseguirsi di una serie di vite inconsistenti e caduche [1]; al ciclo delle rinascite, conosciuto in oriente come "Samsara" corrisponde il simbolismo delle acque (quindi del fiume) presso le quali nasce Mithra.
L' Iniziato è colui che dopo essere stato salvato dalle acque (si facci riferimento a tale riguardo anche alla leggenda del ritrovamento di Mosè sulle rive del Nilo) "cammina sull' acqua" (si pensi in questo caso al noto prodigio effettuato dal nazareno Gesù detto "il cristo"); costui ha assunto la totalità della vita di brama e deficenza in sè per avere la facoltà di resistergli, esso ha detto NO a questa oganizzandosi al di la di essa, in uno stadio nel quale gli esseri del mondo "sub-lunare" (vale a dire coloro che sono dominati dal principio "umido" dell' "acqua") non conoscono che distruzione e riassorbimento.
Si deve dunque lasciare la sponda ove si svolgono le attività umane, affrontare la corrente fino al punto centrale nel quale è più turbinosa (questa è al fase detta di "preparazione", lasciata all' iniziativa dell' Iniziando), passato quel limite si arriva all' altra "sponda" dove nasce un nuovo essere:Mithra, il fanciullo divino.

La "pietra" dalla quela nasce il Dio simboleggia il corpo, ciò che è sottomesso al "principio umido", l' iniziazione è svincolarsi dalla "pietra" e realizzare uno stato di coscienza superiore alla fisicità.

La nascita dalla pietra ha nella Tradizione Solare e Magica un secondo significato, infatti il "precipitarsi della luce celeste" non è solo degenerazione, il corpo non viene rifiutato, è bensì potenziato e superato, lo spirito va tratto dalla natura umana stessa, non è esterno ad essa; l' Uomo-Dio Mithra non scende dal cielo, viene invece dalla terra, egli è nudo a simboleggiare la purezza, così come il salvarsi dall' "acqua".

Facendo riferimento alla volontà sarà bene dividerla in "pura" ed "impura":
la volontà impura è quella determinata da un "perchè", sia esso oggetto, scopo o passione.
la Volontà pira invece si determina da sè, in occidente è simboleggiata dalla Vergine che schiaccia la luna ed il serpente (altri que simboli per le "acque", si pensi a come è raffigurata spesso la vergine Maria nell' iconografia cristiana) e che per "immacolata concezione" da alla luce il fanciullo divino; viene così generata tramite la volontà pura una nuova esistenza che va al di la dell' umano, dello spazio e del tempo.

La nascita del Dio è avvertita solo da "pastori" nascosti sulle "montagne", simboleggianti delle superiori entità che dirigono le "acque" ed il "gregge", vale a dire le Tradizioni, gli eventi storici e sociali, la psiche collettiva; anche la "montagna" simboleggia un particolare stato di cosceinza metafisica.

Tuttavia per giungere a virilità il fanciullo divino dopo aver superato il mondo della nature inferiori deve anche superare quello delle natura superiori e spirituali che il suo stato extracorporeo gli dischiude.

Il mito continua dicendo che superate le "acque" un "vento" sferza il suo corpo nudo e il dio avverte potenze terribili attorno a lui, dunque si dirige verso un "albero", ne mangia i frutti e si veste con le foglie.
Lo sferzare del "vento" sta a simboleggiare l' azione di forze pure e potentissime che "flagellano" il Dio, se egli non rimanesse fermo e distaccato durante la loro azione verrebbe da questa distrutto. Questa prova dona a Mithra una resistenza immane senza la quale la nuova esperienza che lo attende sarebbe fatale. Egli mangua dunque un "frutto" dall' albero della vita, si ha così un capovolgimento del mito biblico: l' "osare" diviene "dovere". Mithra ha strappato della potenza all' universale e l' ah dominata, avendo liberato l' energia ed essendone degno "rinasce in potenza" invece di essere annientato; così lui non solo non soggiace alla legge ma trova anche la forza di rivoltarsi contro colui che l' ha imposta per imporgli così la propria.
Difatti il mondo dello spirito è un mondo di costante lotta: un incontro di potenze che non vogliono sottomettere necessariamente le altre, fatto che tuttavia avviene naturalmente dal solo confronto tra esse nel quale chi è superiore finisce per prevalere naturalmente; in questo mondo "vincere" equivale a resistere, chi non subordina è a sua volta subordinato.

E' così che Mithra fissa il Sole, il gran Dio, adesso non prega più, comanda!
Si è creato un Essere più forte della natura, più forte degli Dèi, al di là della nascita e della morte.

Fenriz (POL)
22-05-06, 22:30
non è proprio di Evola ma penso che gradiate:
Julius Evola, il “diritto naturale” e


la Tradizione giuridico-religiosa romana (II parte)

di Giandomenico Casalino



Noi, non senza ragione, nel parlare della romanità adoperiamo sem­pre la parola composta giuridico-religioso, poiché siamo convinti che per il romano, poiché è il Rito che fonda e crea la Civitas e poiché esso è intrinsecamente sentito dal popolo dei Quiriti come un agire giuridi­co-religioso, allora, di conseguenza, nella sua essenza tale civiltà, come fatto storico non può che essere di natura giuridico-religiosa. Questo genere di approccio possiamo dire che si è fatto strada negli ultimi decenni, nell’ambito sia degli studi di religione romana che tra quelli di romanistica, smettendo, pertanto, di considerare, in termini stupida­mente moderni e, quindi, sempre come effetto della cultura cristiana, le due sfere, il Diritto e la Religione nella romanità, come separate in guisa tale che i relativi studi, pure eccellenti nel loro settore, sono stati sempre quasi come due linee parallele destinate a non incontrarsi mai. Diciamo che i nomi di Axel Hàgerstròm, di Pietro de Francisci, per quanto riguarda gli antesignani, e di Pierangelo Catalano, John Scheid, Giuseppe Zecchini e soprattutto Dario Sabbatucci, per i tempi più recenti, possono dare un’idea di ciò che può significare accostarsi alla romanità, pensare e studiare la sua vicenda storica in modo unitario sia come giuristi che come storici della religione antica, entrando così in idea nella sua mentalità, in uno sforzo di umiltà ermeneutica al fine di comprendere i presupposti ideali, i valori vissuti dalla stessa comunità nella sua continuità storica e le categorie di pensiero su cui gli stessi si fondano. Chi, però, quasi in solitudine, in un mondo ed in un’epoca ammaliati di esotismo e di asiatismo, in cui vigeva ancora la convin­zione tanto popolare quanto cattedratica, nonché degli stessi ambienti tradizionali (vedi il pensiero di Guénon sulla civiltà greco-romana) che la romanità fosse stata in definitiva solo una civiltà giuridico-politica, ma che del fatto religioso in se stesso avesse sempre avuto, in un primo momento, un’idea del tutto primitiva ed animistica che poi arricchì, nel tempo. con il contatto con la cultura greca e che, soprattutto, tutto ciò non avesse avuto niente o quasi a che fare con il Diritto; ebbene, dicevamo, chi in un’epoca siffatta osò affrontare sempre il mondo spirituale di Roma in modo unitariamente giuridico-religioso, fu Evola! Egli infatti intuì, e ciò è presente sin dagli scritti degli anni Venti sino ad Imperialismo Pagano, che è impossibile accostarsi all’essenza della romanità se non ci si sforza di coniugare quei due elementi (Diritto e Religione), che per l’uomo moderno appaiono inconiugati e forse inco­niugabili, ma che per il romano sono naturaliter il suo modo di essere nel mondo e la ragione del suo agire rituale nello stesso. Crediamo che Evola sia giunto alla conoscenza di tale verità in virtù di una sua affinità demonica con l’anima di quella civiltà, rivelandocì pertanto che il flesso, l’anello di congiunzione tra le “due” sfere (che non sono tali ma sostanzialmente una) è il Rito e che, quindi, per tentare di dare una valenza esplicativa ad atteggiamenti, fatti, eventi ed azioni dell’in­tera storia di Roma, intesa soprattutto come storia del Diritto Pubblico romano nella sua dimensione simbolica, è da lì che bisogna muoversi, cioè da quel significato creatore ed ordinatore del mondo che il Rito ha nella romanità, accostandosi ad essa pertanto in modo tradizionale. Esso, in termini di interdisciplinarietà, è l’unico, infatti, che consente di acquisire la griglia interpretativa in chiave profondamente ed essen­zialmente spirituale dell’intero ciclo romano. Questa è la ragione per cui abbiamo titolato il presente studio in quella guisa. Pertanto la concezione che, nell’ambito del discorso di cui sopra, Evola esprime in relazione al Diritto, è lecito affermare che coincide in modo sorprendente, solo per chi non voglia o non può vedere per igno­ranza radicale e della natura più intima del diritto romano e dello stesso Evola, con la medesima idea e prassi politica che ne avevano i romani e che emerge dai testi tramandatici, sempre che gli stessi si leggano senza lenti ideologicamente deformanti. Ciò che vuole esprimere Ulpiano, in­fatti, nel passo citato nella prima parte di questo saggio dimostra che ad un giurista romano fino a tutta l’epoca classica e postclassica, non solo poco o niente poteva interessa­reciò che Cicerone, da filosofo, aveva affermato in ordine alle tematiche stoiche, ma che in esso è presente a tutto tondo proprio quella polarità di cui facevamo cenno all’inizio del presente contributo, tra forze biologi­che e realtà spirituali (tra “Ius naturale” che insegna ed indica a tutti gli animali e solo ad essi e “Ius civile” che è precipuo del mondo civile e quindi della Romanità) che è la stessa presente in Evola in tutta la sua esegesi tradizionale ed in particolare nel suo giudizio intorno al cosid­detto Diritto naturale. Nel saggio “Idea olimpica e diritto naturale” Evola, infatti, sviluppando le intuizioni e le argomentazioni di Bachofen, già nel titolo stesso dà l’inquadratura di quella polarità, quando contrappo­ne, anche nel linguaggio, l’Idea, quasi in termini platonici, che è per natura olimpica, e, quindi, relativa al mondo superiore dell’Essere, al Diritto naturale che, in guisa proprio ulpianea, (anche se Evola interpre­ta in modo diverso il passo...) definisce non il diritto per eccellenza ed in assoluto ma un diritto, cioè un modo, peculiare di una certa “razza dello spirito “, di concepire l’ordine politico in una prassi... antipolitica cioè antivirile e quindi del tutto naturalistico-biologica, egualitaria e fem­minile, riconducibile alla sfera dell’etica dei produttori nella tripartizione platonica dello Stato ed al dominio dell’anima concupiscibile nello Sta­to “in piccolo”. Tale ideologia precede, secondo Evola, anche lo stesso avvento del cristianesimo e, come corrente sotterranea all’itinerario spi­rituale della stessa civiltà indoeuropea, è presente in tutte le forme asia­tico-materne assumenti poi i medesimi caratteri dell’assolutismo di marca tirannica o plebea, contro le quali sempre si erse Roma nella sua guerra sacra contro Dioniso e la Donna, che è vicenda storica e simbolica insie­me. Riallacciandosi agli studi del geniale Vittorio Macchioro che per primo individuò il filo rosso che legava le correnti orfico-dionisiache al paolinismo cristiano ed alla sua disperata concezione da anima lacerata, Evola espone, anticipando di molti decenni le recenti acquisizioni della scienza politica dell’antichità, la natura e le cause vere, cioè giuridico-religiose, della conflittualità tra patriziato romano — di origine indoeuropea e di cultura pastorale, i cui Dei sono maschi e celesti — e la plebe — con i suoi culti, i suoi riti ed il suo diritto, con l’Aventino come suo colle che si contrappone al Campidoglio; con la sua Triade (Cerere, Libero e Libera, divinità agricole e femminili, dove poi Libero è Dioniso), che si contrappone alla Triade Arcaica dei patrizi (Jupiter, Mars, Quirinus). Evola non poteva non avere quel giudizio sull’ ideologia ed il “mito” antico del Diritto naturale proprio perché poi in esso, ed “a fortiori” nella sua cristianizzazione, individuò, potenziati dal nuovo tipo umano prevalente e con capacità quindi scatenanti, tutti quegli elementi di indi­vidualismo volontaristico prima (Agostino) e razionalistico poi (Tom­maso) in uno con la conseguenziale anima femminile del cristianesimo, che avevano provocato un radicale spostamento delle basi ideali della vita, spezzando la visione unitaria della civiltà classica: l’”ordo ordinatus” tanto come “dato — voluto”, secondo la mentalità greca che come “volu­to = dato” secondo quella romana. Evola evidenzia, anche in questo, pensando in modo molto simile ad un antico giurista romano, che tutto ciò non avrebbe potuto che annientare la visione serena ed oggettiva della tradizione classica, a causa della presenza del momento creativo e soggettivo introdotto dall’individualismo cristiano in uno con il suo inau­dito concetto di “volontà” (del tutto assente nella visione greco-romana che sapeva solo di “necessità”...) del Dio creatore e della sua legge che, con l’avvento del mondo moderno e con la secolarizzazione dello stes­so, producente la cancellazione della fede cristiana, diviene la soggetti­vità pubblica astratta della razionalità borghese e mercantile in una pa­rola il giusnaturalisrno moderno, lontano padre del fantasma giuridico definito stato di diritto. All’animalità ed alla sfera puramente biologica (Paolo, agli Ateniesi scandalizzati che conoscevano solo della resurre­zione dell’anima dal corpo, parlò di qualcosa di volgare come la resur­rezione del corpo e infatti alla sua concezione del matrimonio sovrappone la πίστις = fede come “benedizione” di un rapporto che per egli resta sempre animalesco) che è, proprio in termini vetero-testamentari, defi­nita, con un altro termine inaudito e sconosciuto alla cultura greco-ro­mana, “carne”, il cristiano non può opporre nulla di organico e di virile se non la sua ψύχή prettamente lunare e non certo lo Stato come mente = νοϋς, quale Idea che dà la forma alla “chòra” platonica, in tutte le sue significazioni. Tanto è vero che in tutta la cultura cattolica, anche la più conservatrice, non si parla mai di “Stato” organico, che è qualificante la visione tradizionale elleno-romana ed è precipuo di essa, ma della “so­cietà” organica, privilegiando quasi per istinto la corrispondente sfera ctonica, non potendo vedere e quindi ignorando quella celeste e/o superio­re. Pertanto Evola afferma a chiare lettere che l’origine, la natura ed i fini della ideologia del cosiddetto Diritto naturale sono, come categorie a livello morfologico, eminentemente moderne in quanto biologico-egualitarie, se non plebee e, quindi, antitradizionali e tendenzialmente sovversive nei con­fronti dell’Ordine giuridico-religioso della Teologia dell’Impero, realtà metapolitica e spirituale, principio ordinatore della “natura”; sovversive, quindi, di un mondo di oggettive certezze metafisiche, cioè essenzialmente spirituali e non certo di natura psichicamente fideistica e, pertanto, umana, troppo umana! Da qui alla laicizzazione dell’ideologia cristiana del Diritto naturale, che è a sua volta una democratizzazione psichica dell’antica dottrina stoica, nel moderno giusnaturalismo. non c’è che il passo verso il tramonto dell’ecumene medioevale e l’avvento del razionalismo ateo ed utilitaristico della borghesia, non tanto e non solo come ceto prevalente, quanto come cultura e visione del mondo. Qui la “natura” non è più quella di cui parlava il cristianesimo, come ordine “morale” secondo la legge del Dio cristiano a cui si deve unifor­mare il Diritto positivo. Espunta la “fede” come elemento posticcio e sovrapposto ad una natura concepita già dallo stesso cristianesimo in termini meccanicistici e materialistici, quasi precorrendo Hobbes, Cartesio e Newton (avendo cancellato tanto la sacralità dello Stato cioè dell’impero quanto l’intera concezione portata dalla cultura greca dei grandi miti naturali e della natura vista come “piena di Dèi e che, invece, per il cristiano sarà: massa diaboli ac perditionis ...”); non resta che la natura molto più prosaicamente razionalistica dell’indivi­duo (Grozio e Domat) e del mondo visto da Cartesio come “res extensa”, corpi materiali meccanicamente mossi da se stessi in uno spazio desolatamente vuoto. Quell’individuo, “liberatosi” da quella “fede”, vedrà solo i suoi “naturali” diritti (ed ecco il giusnaturalismo moderno) di pro­prietà, di libertà, di associazione, di lucro, il tutto vissuto uti singulus et contro omnes; in forza dei quali e brandendoli come arma di ricatto imporrà il suo “contratto sociale” (proprio come pensava Agostino che fosse nata la società politica...) e tollererà solo quello Stato che gli con­sentirà di esercitarli secondo il suo utile, giudicando poi da questo punto di vista della liceità e della legittimità di questa stessa larva di Stato e del suo diritto positivo. Alla luce di tutto ciò, la vecchia polemica portata avanti da certi ambienti ideologico-culturali di area presumibilmente cattolica, secon­do cui Julius Evola, proprio in virtù del suo tradizionalismo avrebbe dovuto non solo consentire con la corrente di pensiero che per comodi­tà definiamo del “Diritto naturale”, ma anzi ne avrebbe dovuto fare uso paradigmatico e refenziale nei confronti della concezione moderna del diritto (che è contrattualistico-individualistica, priva di ogni legittima­zione dall’Alto e quindi eticamente indeterminata, nonché finalisticamente neutra) appare non solo e non tanto falsa, cioè non vera in quanto difetta di fondamenti storico-culturali, quanto surrettiziamente contraddittoria. Infatti tale “tesi” pretenderebbe di coniugare la cultura tradizionale in senso lato, se non proprio la tradizione giuridico-reli­giosa dell’Occidente, che è quella romana, con la teoria e l’ideologia del diritto naturale che, crediamo, di aver dimostrato essere invece totalmente e radicalmente in contrapposizione con quella, essendo alla stessa tanto estranea quanto appare essere invece la quidditas della stessa concezione borghese e liberaldemocratica dello Stato e del Dirit­to, e cioè dell’ideologia kelseniana del cosiddetto Stato di diritto. Tale discorso Evola lo ha esplicitato ampiamente nelle sue opere, in tutte, non resta altro che, secondo le varie equazioni personali, chi sappia e possa ne tragga organiche riflessioni nel proprio campo di indagine e sempre secondo lo spirito della visione tradizionale del mondo che è sintetica e simbolica e non analitica e diabolica.

Fenriz (POL)
22-05-06, 22:31
L’AQUILA


Il simbolismo dell’aquila ha un carattere "tradizionale" in senso superiore. Dettato da precise ragioni analogiche, è fra quelli che testimoniano un "invariante", cioè un elemento costante e immutabile, in seno ai miti e ai simboli di tutte le civiltà di tipo tradizionale. Le particolari formulazioni che riceve questo tema costante son però naturalmente diverse a seconda delle razze. Qui diciamo subito che il simbolismo dell’aquila nella tradizione delle genti arie ha avuto un carattere spiccatamente "olimpico" ed eroico, cosa che ci proponiamo di chiarire nel presente scritto con un gruppo di riferimenti e di ravvicinamenti.
Circa il carattere "olimpico" del simbolismo dell’aquila, esso risulta già direttamente dal fatto, che quest’animale fu sacro al Dio olimpico per eccellenza, a Zeus, il quale a sua volta non è che la particolare figurazione ario-ellenica (e poi, come Jupiter, ario-romana) della divinità della luce e della regalità venerata da tutti i rami della famiglia aria. A Zeus fu connesso a sua volta un altro simbolo, quello della folgore, cosa che va ricordata, perché vedremo che per tal via esso va a completare non di rado il simbolismo stesso dell’aquila. Ricordiamo anche un altro punto: secondo l’antica visione aria del mondo, l’elemento "olimpico" si definisce soprattutto nella sua antitesi rispetto a quello titanico, tellurico ed anche prometeico. Ora, proprio con la folgore Zeus abbatte, nel mito, i titani Negli Arii, che vivevano ogni lotta come una specie di riflesso della lotta metafisica fra forze olimpiche e forze titaniche, essi stessi considerandosi come una milizia delle prime, vediamo peraltro aquila e folgore come simboli e insegne che racchiudono, per tal via, un significato profondo e generalmente trascurato.
Secondo l’antica visione aria della vita, l’immortalità è qualcosa di privilegiato: non significa semplice sopravvivenza alla morte, ma partecipazione eroica e regale allo stato di coscienza che definisce la divinità olimpica. Fissiamo alcune corrispondenze. La veduta ora accennata circa l’immortalità è anche propria alla antica tradizione egizia. Solo una parte dell’essere umano è destinata ad una esistenza eterna celeste in stati di gloria – il cosidetto Ba. Ora, questa parte nei geroglifici egizi è raffigurata appunto come un’aquila o uno sparviero (per le condizioni di ambiente, lo sparviero qui è il surrogato dell’aquila, l’appoggio più prossimo offerto dal mondo fisico per esprimere la stessa idea). È sotto forma di sparviero, che nel rituale contenuto nel Libro dei Morti l’anima trasfigurata del morto incute spavento agli stessi dèi e può pronunciare queste parole superbe: "Io son sorto a similitudine di sparviero o di aquila divina ed Oro mi ha fatto partecipe secondo simiglianza dello spirito suo, a che prenda possesso di quel che nell’altro mondo corrisponde ad Osiride". Questo retaggio superterreno corrisponde esattamente all’elemento olimpico. Infatti nel mito egizio Osiride è una figura divina che corrisponde allo stato primordiale "solare" dello spirito, il quale, dopo aver subito alterazione e corruzione (uccisione e dilaceramento di Osiride), viene restaurato da Oro. Il morto consegue l’indiamento immortalante partecipando della forza restauratrice di Oro, che riconduce ad Osiride, che provoca il "risorgere" o il "ricomporsi" di Osiride.
A questo punto, è facile constatare corrispondenze molteplici di tradizioni e di simboli. Nel mito ellenico, si comprende, a tale stregua, che da "aquile", esseri, come Ganimede, siano stati rapiti al trono di Zeus. Per mezzo di aquile, nell’antica tradizione persiana, il re Kei-Kaus tentò prometeicamente di innalzarsi al cielo. Nella tradizione indo-aria è l’aquila che porta ad Indra la mistica bevanda che lo costituirà a signore degli dèi. La tradizione classica qui aggiunge un particolare suggestivo: per essa, benché inesattamente, l’aquila valeva come l’unico animale che poteva fissare il sole senza abbassare gli occhi.
Ciò chiarisce la parte che l’aquila ha in alcune redazioni della leggenda prometeica. Prometeo vi appare non come colui che è veramente qualificato per far proprio il fuoco olimpico, ma come colui, che, restando di natura "titanica", vuole usurparlo e farne cosa non più da "dèi", ma da uomini. Per pena, nelle redazioni della leggenda cui alludiamo, il Prometeo incatenato ha il fegato continuamente divorato da un’aquila. L’aquila, animale sacro del Dio olimpico, associato alla folgore stessa che abbatte i titani, ci appare qui come una figurazione equivalente allo stesso fuoco, che Prometeo voleva far suo. Si tratta cioè di una specie di castigo immanente. Prometeo non ha la natura dell’aquila, che può fissare impunemente e "olimpicamente" la luce suprema. La stessa forza che volle far sua, diviene il principio del suo tormento e del suo castigo. E qui si aprirebbe una via per comprendere la tragedia interiore di vari esponenti moderni della dottrina di un superuomismo titanico, ossessi e vittime della loro stessa idea, partendo da Nietzsche e da Dostojewskij, e con particolare riguardo, anche, agli eroi caratteristici dei romanzi di quest’ultimo.
Tornando al mondo del mito ano, troviamo nell’antica tradizione indù una variante di quello prometeico. Agni, sotto forma di aquila o di sparviero, strappa un ramo dell’albero cosmico, ripetendo il gesto, che nel mito semita Adamo compì per "rendersi simile agli dèi". Agni, che a sua volta è una personificazione del fuoco, viene colpito. Dalle sue piume cadute al suolo sorge però il seme di una pianta che produrrà il "soma terrestre". Ma il soma è un equivalente della ambrosia, è la sostanza simbolica che indìa, che propizia una partecipazione allo stato "olimpico". La struttura del mito ario, benché in forma più involuta, ripete quella che già abbiamo analizzata nel mito egizio (offuscamento di Osiride, resurrezione per mezzo di Oro). Si può parlare di un tentativo prometeico fallito in un primo tempo, poi "rettificato" e fatto seme di una giusta realizzazione dello stesso fine.
Nella tradizione irano-aria l’aquila figura spesso come una incarnazione della "gloria" dello hvarenô che, come in altra occasione ricordammo, per quelle razze non valse come una astrazione, bensì come una forza mistica e un potere reale dall’alto, che scende sui sovrani e sui capi, li fa partecipi della natura immortale e li testimonia con la vittoria. Questa "gloria" aria, personificata dall’aquila, non sopporta lesioni dell’etica virile propria alla tradizione mazdea. Così il mito riferisce, che sotto forma di aquila essa si diparti dal re Yima allorché questi si contaminò con una menzogna.
Sulla base di siffatte corrispondenze di significato e di simboli la parte che in Roma antica ebbe l’aquila risulta in una particolare luce. Il rito dell’apoteosi imperiale romana è una prima testimonianza ed una precisa conferma dell’aderenza della romanità all’ideale olimpico. In tale rito proprio il volo di un’aquila dalla pira funeraria simboleggiava infatti il trapasso allo stato di "dio" dell’anima dell’imperatore morto. Ricordiamo i particolari di questo rito, che fu ripetuto sull’esempio di quello originario celebratosi alla morte di Augusto.
Il corpo dell’imperatore morto veniva racchiuso in una bara coperta di porpora, portata da una lettiga d’oro e d’avorio. Veniva deposto in una pira costituita al Campo di Marte e circondata da sacerdoti. Si svolgeva allora la cosiddetta decursio, su cui subito diremo. Dato fuoco alla pira, un’aquila si liberava dalle fiamme, e si pensava che in quell’istante l’anima del morto simbolicamente s’innalzasse verso le regioni celesti, per esser accolta fra gli Olimpici.
La decursio, cui ora si è accennato, era la corsa di truppe, di cavalieri e di capi intorno alla pira dell’imperatore, sulla quale essi gittavano le ricompense ricevute per il loro valore. Anche in questo rito si cela un significato profondo. Era credenza aria e romana, che nei capi fosse la vera forza decisiva per la vittoria; cioè, non tanto nei capi come persona, quanto nell’elemento sovrannaturale, "olimpico" ad essi attribuito. Per questo, nella cerimonia romana del trionfo il duce vincitore assumeva i simboli del dio olimpico, di Jupiter, e al tempio di questo dio andava a rimettere i lauri della vittoria, volendo con ciò esprimere il vero autore della vittoria, ben distinto dalla sua parte semplicemente umana. Nella decursio avveniva una "remissione" analoga: i soldati e i capi restituivano le ricompense che ricordavano il loro coraggio e la loro forza vincitrice all’imperatore come a colui che, nella sua potenzialità "olimpica", ora sul punto di liberarsi e di transumanarsi, ne era stato la vera origine.
Ciò ci conduce ad esaminare la seconda testimonianza dello spirito "olimpico" della romanità, parimenti controsegnato del simbolismo ario dell’aquila. Era tradizione classica che colui, su cui si posasse l’aquila fosse predestinato da Zeus ad alti destini o alla regalità, volendosi con ciò indicare il presupposto "olimpico" della legittimità degli uni o dell’altra. Ma era parimenti tradizione classica, e poi specificamente romana, che l’aquila fosse segno di vittoria, col che, parimenti, vengono in risalto i presupposti "olimpici" della concezione stessa della lotta e della vittoria, cioè l’idea, che attraverso la vittoria della gente aria e romana fossero le forze stesse della divinità olimpica, del dio di luce, a vincere; la vittoria degli uomini, riflesso di quella stessa di Zeus su forze antiolimpiche e "barbariche", era preannunciata dall’apparire dell’animale stesso di Zeus, dall’aquila.
Ecco la base per comprendere adeguatamente, in relazione a significati profondi d’origine tradizionale e sacrale, e non a vuote allegorie, la parte che l’aquila aveva fra le insegne degli eserciti romani, presso signa e vexilla, fin dalle origini. Fin dall’epoca repubblicana l’aquila fu in Roma come l’insegna delle legioni – veniva detto: "un’aquila per legione e nessuna legione senz’aquila". In particolare, l’insegna era costituita dall’aquila con le ali spiegate e, in più, con una folgore fra gli artigli. Vien così confermato rigorosamente il simbolismo "olimpico" già detto: presso all’animale sacro di Giove è il segno della sua stessa forza, di quella folgore, con la quale egli combatte e stermina i titani.
Dettaglio degno di rilievo, le insegne delle truppe barbariche non avevano aquila: nei signa auxiliarium troviamo invece animali sacri o "totemici", rifacentisi ad altre influenze, quali il toro o l’ariete. Solo in un periodo successivo questi segni s’infiltrarono nella stessa romanità associandosi all’aquila e dando luogo, spesso, ad un simbolismo doppio: il secondo animale aggiunto all’aquila nelle insegne di una data legione stava allora in relazione con una caratteristica di essa, mentre l’aquila si rifaceva al simbolo generale di Roma. Nel periodo imperiale, peraltro, l’aquila, da insegna militare, divenne spesso simbolo per lo stesso Imperium.
Noi sappiamo la parte che nella storia successiva il simbolo dell’aquila ha avuto nei popoli nordici e germanici. Questo simbolo sembra quasi aver abbandonato per un lungo periodo il suolo romano ed esser trasmigrato fra le razze germaniche, tanto da apparire a molti come un simbolo essenzialmente nordico. Ciò non è esatto. Si è dimenticata l’origine dell’aquila che figura ancora oggi (1941 – n.d.r.) come emblema della Germania, così come essa fu anche emblema dell’Impero austriaco, ultimo erede del Sacro Romano Impero. Quest’aquila germanica è semplicemente l’aquila romana. Fu Carlomagno nell’800, che nel punto di dichiarare la renovatio romani imperii ne riprese il simbolo fondamentale, l’aquila, e ne fece l’emblema del suo Stato. Storicamente, è dunque null’altro che l’aquila romana quella che si è conservata fino ad oggi come simbolo del Reich. Ciò non impedisce però che, da un punto dì vista più profondo, superstorico, nel riguardo si possa pensare a qualcosa di più che ad una semplice importazione. L’aquila infatti nella mitologia nordica figurava già come uno degli animali sacri ad Odino-Wotan e come questo animale fu aggiunto nelle insegne romane delle legioni, così esso apparve anche nei cimieri degli antichi capi germanici. Si può dunque concepire che mentre Carlomagno nell’assumere l’Aquila a simbolo del risorto impero aveva essenzialmente in vista Roma antica, egli simultaneamente, senza rendersene conto, riprendeva anche un simbolo dell’antica tradizione ario-nordica, conservatasi solo in forma frammentaria e crepuscolare fra i vari ceppi del periodo delle invasioni. In ogni modo, nella storia successiva l’aquila finì con l’avere un valore semplicemente araldico e il suo significato simbolico e morale più profondo e originario fu dimenticato. Come molti altri, divenne un simbolo che sopravviveva a sé stesso e che quindi fu perfino suscettibile a servir da base ad idee molto diverse. Sarebbe quindi assurdo supporre la presenza, sia pur "sonnambolica", di concezioni, come quelle qui ricordate, dovunque oggi si siano viste aquile in segni ed emblemi europei. Le cose potrebbero stare diversamente per noi, eredi dell’antica romanità, e poi pel popolo, che oggi ci sta a fianco, erede dell’imperio romano-germanico. La conoscenza del significato originario del simbolismo ario dell’Aquila, risorto emblema di entrambe le nostre genti, potrebbe controsegnare anzi il significato più alto della nostra lotta e connettersi con l’impegno, che in questa si ripeta, in una certa misura, la stessa vicenda, nella quale l’antica gente aria, nel segno olimpico ed evocando la forza stessa olimpica sterminatrice di entità oscure e titaniche, potè sentirsi come la milizia di influenze dall’alto ed affermare un superiore diritto e una superiore funzione di dominio e di ordine.



Julius Evola

Fenriz (POL)
22-05-06, 22:35
Dioniso e la via della “Mano Sinistra”


di Julius Evola


Quali sono tratteggiati nell'esposizione di una delle prime opere, assai suggestiva, di Federico Nietzsche - La nascita della Tragedia - i concetti di Dioniso e di Apollo hanno una scarsa corrispondenza col significato che queste entità ebbero nell'antichità, specie in una loro comprensione esoterica. Ciò nondimeno qui ci rifaremo proprio a quella loro assunzione nietzschiana come punto di partenza, al fine di definire degli orientamenti esistenziali fondamentali. Cominceremo col presentare un mito. Immerso nella luminosità e nell'innocenza favolosa dell'Eden l'uomo era un beato e un immortale. In lui fioriva l'Albero della Vita e lui stesso era questa vita luminosa. Ma ora sorge una nuova, inaudita vocazione: la volontà di un dominio sulla vita, il superamento dell'essere, per il potere di essere e non essere, del Si e del No. A ciò si può riferire l'Albero del Bene e del Male. In nome di esso l'uomo si stacca dall'Albero della Vita, il che comporta il crollo di tutto un mondo, nel lampeggiamento di un valore che dischiude il regno di colui che, secondo un detto ermetico, è superiore agli stessi dèi in quanto con la natura immortale, a cui questi sono astretti, ha nella sua potenza anche la natura mortale, epperò con l'infinito anche il finito, con l'affermazione anche la negazione (tale condizione fu contrassegnata dall'espressione di “Signore delle Due Nature”). Ma a questo atto l'uomo non fu sufficiente; lo prese un terrore, da cui fu travolto e spezzato. Come lampada sotto uno splendore troppo intenso - è detto in un testo cabalistico -, come un circuito percosso da un potenziale troppo alto, le essenze si incrinarono. A ciò va rapportato il significato della “caduta” e della stessa “colpa”. Allora, scatenate da questo terrore. le potenze spirituali che dovevano essere serve, immediatamente si precipitarono e ghiacciarono in forma di esistenze oggettive autonome, fatali. Sofferta, resa esterna e fuggente a se stessa, la potenza prese le specie di esistenza oggettiva autonoma, e la libertà - l'apice vertiginoso che avrebbe instaurato la gloria di un vivere superdivino - si fece la contingenza indomabile dei fenomeni fra i quali l'uomo vaga, trepida e misera ombra di se stesso. Si può dire che questa fu la maledizione scagliata dal “Dio ucciso” contro colui che fu incapace di assumerne l'eredità. Con Apollo, inteso sempre in termini nietzschiani, si sviluppa ciò che deriva da questo venir meno. Nella sua funzione elementare, deve essergli riferita la volontà che si scarica di sé stessa, che non vive più se stessa come volontà, sibbene come “occhio” e come “forma” - come visione, rappresentazione, conoscenza. È appunto l'artefice del mondo oggettivo, il fondamento trascendentale della “categoria dello spazio”. Lo spazio, inteso come il modo dell'esser fuori, come ciò per cui le cose non sono più vissute in funzione di volontà bensì sotto le specie di immagini e di visività, è l'oggettivazione primordiale della paura, dell'incrinarsi e dello scaricarsi della volontà: trascendentalmente, la visione di una cosa è la paura e la sofferenza riguardanti quella cosa. E il “molteplice”, l'indefinita divisibilità proprie alla forma spaziale ne riconfermano il significato, riflettendo appunto il venir meno della tensione, il disgregarsi dell'unità dell'atto assoluto (1) (http://utenti.lycos.it/Misraimememphis/id136_m.htm#_1_). Ma come l'occhio non ha coscienza di sé, se non in funzione di ciò che esso vede, del pari l'essere, reso esteriore a sé stesso dalla funzione “apollinea” dello spazio, è essenzialmente dipendente, legato: è un essere che si appoggia, che trae da altro la propria consistenza. Questo bisogno di appoggio genera la “categoria del limite”: la tangibilità e solidità delle cose materiali ne sono l'incorporazione, quasi la sincope stessa della paura che arresta l'essere insufficiente sul limitare del mondo “dionisiaco” . Perciò la si potrebbe chiamare il “fatto” di questa Paura, di cui lo spazio è l'atto. Come caso particolare del limite, si ha la legge. Mentre colui che è da sé stesso non ha paura dell'infinito, del caos, di ciò che i Greci chiamavano l'apeiron, perché anzi vi vede riflessa la propria natura più profonda di ente sostanziato di libertà, colui che trascendentalmente viene meno ha orrore per l'infinito, fugge da esso e cerca nella legge, nella costanza delle sequenze causali, nel prevedibile e nell'ordinato un surrogato di quella certezza e di quel possesso da cui è decaduto. La scienza positiva e ogni morale potrebbero, in un certo senso, rientrare in una non diversa direzione. La terza creatura di “Apollo” è la finalità. Per un dio, il fine non può avere alcun senso, dato che egli fuori di sé non ha nulla - né un buono, né un vero, né un razionale, piacevole o giusto - da cui trarre norma ed essere mosso, ma buono, vero, razionale, piacevole e giusto si identificano con ciò che egli vuole. semplicemente in quanto lo vuole. In termini filosofici, si può dire che della sua affermazione, la “ragion sufficiente” è l'affermazione stessa. Invece gli esseri esteriori a sé stessi per agire hanno bisogno di una correlazione, di un movente dell'azione o, per meglio dire, della parvenza, di un movente dell'azione. Infatti in casi decisivi, fuori da contesti banalmente empirici, l'uomo non vuole una cosa perché la trova, ad esempio, giusta o razionale, ma la trova giusta e razionale semplicemente perché la vuole (la stessa psicanalisi ha dato, a tale riguardo, alcuni contributi validi). Ma di scendere nelle profondità in cui il volere o l'impulso nudamente si afferma, egli ha paura. Ed ecco che la prudenza “apollinea” preserva dalla vertigine di qualcosa che possa accadere senza avere una causa e uno scopo, ossia unicamente per sé stessa, e secondo lo stesso movimento con cui liberò la volontà in una visività, fa ora apparire, attraverso le categorie della “causalità” e della cosiddetta “ragion sufficiente”, le affermazioni profonde in funzione di scopi, di utilità pratiche, di motivi ideali e morali che le giustifichino, su cui si appoggino. Così tutta la vita della gran massa degli uomini prende il senso di un fuggire dal centro, di una volontà di stordirsi e di ignorare il fuoco che arde in loro e che essi non sanno sopportare. Tagliati fuori dall'essere, essi parlano, si agitano, si cercano, si amano e si accoppiano in richiesta reciproca di conferma. Moltiplicano le illusioni e così erigono una grande piramide di idoli: è la costituzione della società, delle moralità, delle idealità, delle finalità metafisiche, del regno degli dèi o di una tranquillizzante provvidenza, per supplire all'inesistenza di una ragione centrale, di un significato fondamentale. Tutte “macchie luminose a soccorso dell'occhio offeso per aver fissato nell'orribile tenebra” - per usare le parole di Nietzsche. Ora l'altro - l'oggetto, la causa, la ragione, ecc. - non esistendo in sé, essendo soltanto una apparizione simbolica del deficiere della volontà a sé stessa, con l'atto in cui questa chiede ad altro la sua conferma, in realtà va solo a confermare la sua stessa deficienza (2) (http://utenti.lycos.it/Misraimememphis/id136_m.htm#_2__). Così l'uomo vaga, simile a colui che insegue la propria ombra, eternamente assetato e eternamente deluso, creando e divorando incessantemente forme che “sono e non sono” (Plotino). Così la “solidità” delle cose, il limite apollineo, è ambiguo; esso viene meno alla presa e rimette ricorrentemente ad un punto successivo la consistenza che esso sembrava garantire e con cui lusingava il desiderio e il bisogno. Donde, oltre quella dello spazio, la categoria del tempo, la legge di un divenire di forme che sorgono e si dissolvono - indefinitamente -, perché per un solo istante di arresto, per un solo istante in cui non agisse, non parlasse, non desiderasse, l'uomo sentirebbe crollare tutto. Così la sua sicurezza fra le cose, le forme e gli idoli è spettrale quanto quella di un sonnambulo che va sull'orlo di un abisso (3) (http://utenti.lycos.it/Misraimememphis/id136_m.htm#_3_) . Tuttavia questo mondo può non essere l'ultima istanza. Non avendo infatti radice in altro, essendone soltanto l'Io il responsabile e tenendone egli entro di sé le cause, egli ha in via di principio la possibilità di operarne la risoluzione. Così è attestata una tradizione riguardante la grande Opera, la creazione di un “secondo Albero di Vita”. Questa è l'espressione usata da Cesare della Riviera, nel suo libro Il mondo magico degli Heroi (2a ed. Milano, 1605), dove tale compito è associato alla “magia” e in genere alla tradizione ermetica e magica. Ma in questo contesto è interessante considerare ciò che è proprio alla cosiddetta “ Via della Mano Sinistra”. Essa comporta il coraggio di strappar via i veli e le maschere con cui “Apollo” nasconde la realtà originaria, di trascendere la forme per mettersi in contatto con l'elementarità di un mondo in cui bene e male, divino e umano, razionale e irrazionale, giusto e ingiusto non hanno più alcun senso. Nel contempo, essa comporta il saper portare all'apice tutto ciò da cui il terrore originario è esasperato e che il nostro essere naturalistico e istintivo non vuole; saper rompere il limite e scavare sempre più profondamente, alimentando la sensazione di un abisso vertiginoso, e consistere, mantenersi nel trapasso, da cui altri sarebbero spezzati. Da qui la possibilità di stabilire una connessione anche col dionisismo storico, a tale riguardo entrando in questione non quello “mistico” e “orfico”, bensì quello tracio, che ebbe alcuni aspetti selvaggi, orgiastici e distruttivi. E se Dioniso si rivela nei momenti di crisi e di crollo della legge, anche la “colpa” può rientrare in questo campo esistenziale; in essa il velo apollineo si squarcia e, messo di faccia alla forza primordiale, l'uomo giuoca la partita della sua perdizione o del suo farsi superiore a vita e a morte. È interessante che il termine tedesco per delitto comprenda il significato di uno spezzare (ver-brechen). Un atto lo si può continuare a chiamare colpevole in quanto è un atto di cui si ha atto lo si può continuare a chiamare colpevole in quanto è un atto di cui si ha paura, che non ci si sente di poter assumere assolutamente, per cui si viene meno ad esso, che incoscientemente giudichiamo essere qualcosa di troppo forte per noi. Ma una colpa attiva, positiva. ha qualcosa di trascendente. Novalis ebbe a scrivere: “Quando l'uomo volle divenire Dio, egli peccò, quasi che questa ne fosse la condizione”. Nei misteri mithriaci la capacità di uccidere o di assistere impassibili ad una uccisione (anche se simulata) costituiva una prova iniziatica. Allo stesso contesto potrebbero essere riportati certi aspetti dei riti sacrificali, quando la vittima veniva identificata con la stessa divinità, eppure il sacrificatore doveva abbatterla affinché lui magicamente convergeva - si liberasse e passasse l'assoluto: la trascendenza nella tragicità del sacrificio e della colpa., superiore alla maledizione e alla catastrofe, in lui - ma anche nella comunità che in lui magicamente convergeva - si liberasse e passasse l'assoluto: la trascendenza nella tragicità del sacrificio e della colpa. Ma l'atto può anche portarsi su sé stessi, in alcune varietà della “morte iniziatica”. Far violenza alla vita in sé, nell'evocazione di qualcosa di elementare. Così la via che in alcune forme dello yoga tantrico si apre a kundalini viene chiamata quella in cui “divampa il fuoco della morte”. L'atto tragico del sacrificatore qui si interiorizza e diviene la pratica con la quale la stessa vita organica nella sua radice viene privata d'ogni appoggio, viene sospesa e trascinata di là da sé lungo la “Via Regia” della cosiddetta sushumnâ, “divoratrice del tempo”. È noto che storicamente il dionisismo ha potuto associarsi a forme di scatenamento frenetico, distruttivo e orgiastico, come nel tipo classico della baccante e del baccante (Dioniso = Bacco), della menade e del coribante. Ma qui è difficile separare ciò che può rifarsi alle esperienze dianzi accennate, da fenomeni di possessione, di invasamento, specie quando non si tratta di forme istituzionalizzate e legantesi ad una tradizione. Comunque è sempre da ricordare che qui ci si trova sulla linea della “Via della Mano Sinistra”, la quale costeggia gli abissi, e andar sulla quale, è detto in alcuni testi, rassomiglia all'andare su di un fil di spada. Il presupposto, sia nel campo della visione (aprovvidenziale) della vita, sia di questi comportamenti è la conoscenza del mistero della trasformazione del veleno in farmaco, la quale costituisce la forma più alta dell'alchimia.
Note:
(1) (http://utenti.lycos.it/Misraimememphis/id136_m.htm#_1__) In questo contesto si potrebbe ricordare la teoria di Henri Bergson, il quale spiega lo spazio appunto come “il disfarsi di un gesto”, con un processo inverso a quello onde molteplici elementi in uno slancio sono raccolti e fusi insieme e in una semplicità qualitativa.
(2 (http://utenti.lycos.it/Misraimememphis/id136_m.htm#_2__)) A ciò si potrebbe associare il senso più profondo della dottrina patristica, secondo la quale il corpo, il veicolo materiale, sarebbe stato creato al momento della “caduta” onde impedire l'ulteriore precipitare delle anime (cfr. per es. ORIGENE, De princip.,I, 7, 5). Apollo è un tale dio prudente. Inoltre si pensi ad una paralisi dovuta ad uno spavento: è come un ritrarsi, un gettarsi indietro dell'Io, per via del quale ciò che era dominato e compreso organicamente come un corpo vivo e pulsante si fa cosa inerte, rigida, estranea. Il mondo oggettivo è il nostro “grande corpo” paralizzato - congelato o fissato dalla condizione del limite, attraverso la paura.
(3) (http://utenti.lycos.it/Misraimememphis/id136_m.htm#_3__) Cfr. C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e la retorica, parte II e passim.

stuart mill
22-05-06, 22:45
grazie.
Quello di Dioniso l'avevo letto, e anche quello dell'aquila. Gli altri no, a parte quello di casalino che avevo ma dovevo ancora leggere.
perfetto.
di questo sito, alchemica, da cui hai tratto uno degli articoli, hai il link?

Fenriz (POL)
22-05-06, 22:53
http://www.thule-italia.org/ alchemica non esiste piu' , ma tutto il materiale è stato trasferito qui.
Ne avrei altri di articoli ma penso che sfocino troppo sulla 'politica profana'

stuart mill
22-05-06, 22:55
[QUOTE] (http://www.thule-italia.org/)http://www.thule-italia.org/ alchemica non esiste piu' , ma tutto il materiale è stato trasferito qui.-

si, lo conosco, ok.



Ne avrei altri di articoli ma penso che sfocino troppo sulla 'politica profana'

no, infatti: rimaniamo nell'ambito spirituale: per la politica gli spazi su pol abbondano...

Fenriz (POL)
22-05-06, 23:01
'

no, infatti: rimaniamo nell'ambito spirituale: per la politica gli spazi su pol abbondano...
direi di si...



comunque segnalo anche questo sito
http://www.filosofico.net/evola.htm

stuart mill
22-05-06, 23:03
Evola e la critica della modernità
Convegno "Evola dadaista e antimoderno", Roma, 25 settembre 1998

Il pensiero di Julius Evola è certamente poco conosciuto - se s'intende la cittadinanza "ufficiale" o accademica - e ingiustamente misconosciuto; ma, al tempo stesso, è stato fatto oggetto di disamine anche minuziose e di ricostruzioni complete, senza - come è inevitabile - poter sfuggire alle tentazioni di appropriazione (o di stroncatura) da parti diverse. Sotto questo profilo, Evola parrebbe condividere la sorte di altri grandi pensatori del Novecento che fino a tempi recentissimi hanno subito l'ostracismo della cultura imperante per cause ideologiche: Spengler, Jünger, Schmitt, i pensatori della Rivoluzione conservatrice; e prima ancora, Nietzsche e Heidegger. Tuttavia, una certa fretta, se non di sbarazzarsi, almeno di rendere innocuo o museale il pensiero evoliano, forse la si può riscontrare anche nell'area che dovrebbe essergli (ideologicamente) più omogenea: la definizione di «mito incapacitante» (Tarchi), l'indicazione del pericolo "solipsista" comportato dalla prospettiva "ideale" della Tradizione[1], fino a una sorta di censura da parte dell'apparato del partito Alleanza Nazionale. Se le "ragioni" di emarginazione da parte della cultura egemone (salvo qualche isolata, notevole, eccezione) sono ampiamente note ancorché non più giustificabili oggi, alcuni motivi di diffidenza da parte di chi Evola lo legge a partire da una concezione del mondo non storicista mi paiono degni di essere discussi. Accennerò in breve ad alcuni temi filosofici che possono fungere come cartine di tornasole nell'interpretazione della modernità: la concezione del tempo e del soggetto, il lavoro, il ruolo della Tradizione nell'epoca contemporanea.
1. Frammenti di modernità: il significato delle avanguardie
Prendiamo le mosse dai notevoli scritti evoliani sull'arte di avanguardia. Appare altamente significativa la "scelta" evoliana a favore di Dada in un'Italia massicciamente dannunziana e futurista: nessun estetismo superomistico o eroicizzante, nessuna indulgenza verso vene decadentiste presenti in tanta letteratura dell'epoca; ma nemmeno lo scontato allineamento sul marinettismo, destinato a diventare una poetica di regime. Dada versus Futurismo è molto di più e di altro che una questione meramente estetica, dettata dal desiderio avanguardistico della sperimentazione iconoclasta: è qui che si apre una prospettiva evoliana di lunga durata e di una non sottovalutabile portata di pensiero. In un articolo pubblicato su «La Torre» nel 1930, intitolato significativamente Simboli della degenerescenza moderna: il Futurismo[2], Evola afferma che il futurismo, ben di più che fenomeno circoscritto di un'avanguardia artistica[3], è «una cosa terribilmente presente e in atto», caratterizzante l'essenza dell'epoca finale: è quel «divenirismo»che connota la temporalità moderna, la smania di cambiamento e d'innovazione fine a se stessa, la distruttività gratuita che diventa demolizione di ogni superiore principio spirituale, il misticismo della materia e dell'elementare. Futurista, cioè, è la modernità, anzi la forma dell'umanesimo moderno che persegue le prestazioni materiali e fisiche, i record, la quantità, l'accelerazione, il macchinismo, l'automazione, l'enfasi dell'istintualità e della brutalità. La retorica futurista, al di là delle realizzazioni artistiche che schiudono la dimensione dell'arte d'avanguardia, è la traduzione estetizzante del moto più proprio dell'epoca moderna: l'accelerazione e la spersonalizzazione tecnica: «L'attualità del futurismo [...] sta in ciò che nel futurismo riflette ed esprime tipicamente il movimento dello spirito che tradendo se stesso s'immedesima con la forza bruta del divenire e della materia, mutando il senso di sé con l'ebbrezza e la vertigine che ritrae da questa sua perdita»[4]. Tre temi di dissenso dal futurismo che fanno propendere Evola per il dadaismo sono di particolare interesse: l'istintività, il dinamismo, la vitalità primordiale, contrapposti all'«assoluta mediazione» del dadaismo; l'enfasi sulla macchinicità, l'algida bellezza della macchina, la perfezione astratta e metallica che fino a Le Corbusier sarà celebrata come l'autentica emancipazione - estetica ma anche etica - del moderno, l'accelerazione e la simultaneità che fanno dell'uomo un meccanismo anziché un essere spirituale; e l'accondiscendenza alla prepotenza delle passioni politiche («la chiassata, l'ode per la pedata e per il pugno, la mistica della spiritualità sportiva e del successo»[5], ma anche il nazionalismo e l'interventismo) cui si contrappone il «potenziamento massimo del principio individuale»[6], il formalismo assoluto in cui si scandisce «il ritmo di una pura libertà interiore»[7], coscienza astratta simile all'«interiorità atona e gelidamente ardente di un Ruysbroeck e di un Eckhart»[8]. In altri termini, il futurismo è emblematico della «degenerescenza» in quanto porta a compiuta visibilità, tanto da farne anche una retorica pubblicitaria, quella che si potrebbe chiamare «la spiritualità rovesciata» del moderno, culminante nell'idoleggiamento della tecnica, i cui tratti fisiognomici sono da Evola sintetizzati nell'elementare (la primordialità istintuale, la meccanicità, la volontà del dominio). Non si tratta di scambiare ingenuamente l'era tecnica per l'avvento di un mondo nuovo, bensì di oltrepassare la modernità e la storia in quanto tali: «L'automobile al posto della Nike samotrace è evidentemente una umanità al posto di un'altra; e non sono da superarsi le umanità, bensì l'umanità»[9]. Questi temi, insieme con i motivi aristocratici dell'opposizione al futurismo "plebeo", adatto alle bassure della massa, l'insistenza sull'individualità della via di ricerca spirituale contrapposta all'accrescimento quantitativo e materiale, all'agonismo e a tutto ciò che presuppone la partecipazione alla dimensione collettiva, sono questioni di ascendenza nietzschiana che si trovano, nella stessa epoca, approfonditamente meditati dalla cultura tedesca (in particolare da Spengler, Benn, Jünger e soprattutto Heidegger) e non altrettanto in quella italiana[10]: è l'orizzonte del nichilismo in cui la tecnica domina incontrastata, nell'affermazione di quel Regno della Quantità che realizza la promessa progressista dello storicismo. Nichilistica - ossia non in grado di scorgere la chiusura dell'epoca e la necessità del suo oltrepassamento - è dunque per Evola l'apologia della velocità, dell'innovazione, del consumo: come per Jünger, al di là del moto rapinoso (e rovinoso) della tecnica, occorre vederne il «centro immobile» e collocarsi in esso[11]. Il che vuol dire combattere l'appiattimento illuministico di ogni dimensione spirituale e "altra" nella materialità del misurabile: riconoscere nell'elementare la cifra della civilizzazione che si pretende compiutamente emancipata dalle superstizioni e dalla naturalità, è smascherare gli idoli futuristici come estetizzazione di una potenza dissolutrice di ogni trascendenza, ma anche dell'umano stesso.

stuart mill
22-05-06, 23:03
2. Il paesaggio di rovine
Il "superamento" dell'umano propiziato dalla tecnica è quello che, con sguardo veggente, prefigura l'Operaio di Ernst Jünger. La "figurazione" del paesaggio da officina realizzata in quest'opera ha quei tratti scabri e taglienti che Cavalcare la tigre accosterà alla Nuova Oggettività: «tutto ciò che è pura realtà e oggettività, che appare freddo, inumano, minaccioso, privo di intimità, spersonalizzante, 'barbarico'»[12]. È il tipo dell'Operaio, sostituitosi all'individualità borghese, che rappresenta la sostanza elementare del nuovo mondo. L'elementare ha definitivamente varcato le mura della razionalità borghese (illuministica) e l'irrazionale si insedia nel cuore della Ragione dell'Occidente nella figura del suo massimo trionfo: la Tecnica. Ma poiché, jüngerianamente, la tecnica è il mezzo con cui la figura dell'Operaio mobilita il mondo, il Lavoro è destinato ad assumere portata e connotazioni inedite, - la «superstizione moderna del lavoro»[13] - quasi una nuova e più cogente naturalità cui non sfugge aspetto alcuno dell'esistenza, e che uniforma potentemente il mondo, rendendolo "univoco", plasmato nell'impronta di un unico conio, parlato da un'unica "lingua primordiale" che si sostituisce all'idea di razionalità, di progresso, di utilità: la tecnica moderna. Nella sua lettura dell'Operaio, Evola radicalizza (o rettifica) la posizione jüngeriana: se occorre che la tecnica trovi un limite nell'ordine che dovrebbe riuscire ad imporle il Tipo, avviandosi «verso un mondo nuovo della stabilità e del limite, quindi, in un certo modo, verso un nuovo classicismo dell'azione e del dominio, dove significati d'ordine superiore dovranno esprimersi attraverso la nuova lingua meccanica integrata, divenuta univoca perché fissata in uno stato di perfezione» [14]. Evola non manca di sottolineare una certa utopicità della prospettiva jüngeriana, rivelata dalla sua mancata realizzazione e dalla crescente pericolosità dei ritrovati tecnici, quel "titanismo" catastrofico che lo stesso Jünger denuncerà nelle opere successive.Anche quella sorta di disciplina ascetica che forgia il tipo dell'Operaio non può, a parere di Evola, essere valutata come qualcosa di positivo e oltrepassante in sé, al di fuori del riconoscimento del suo orientamento: occorre sapere se la dissoluzione dell'individualità borghese conduce in direzione di un ulteriore sprofondamento e disgregazione elementare oppure verso dimensioni superpersonali. Lo svelamento jüngeriano della crescente e costitutiva elementarizzazione di un'epoca "futurista", del volto arcaico e regressivo della tecnica moderna, non può prescindere da una valutazione della qualità dell'elementare con cui il lavoro tecnico mette a contatto, soprattutto in un mondo ormai sprovvisto di saperi relativi adeguati: anticipando le riflessioni posteriori dello stesso Jünger[15], Evola nota come «l'elementare può anche prorompere conservando le sue valenze negative, perfino demoniche; [...] possibilità sufficientemente attestata dai tempi ultimi, con inclusa la seconda guerra mondiale»[16]. Ogni criterio di legittimità che non preveda la capacità di padroneggiare questa dimensione è insufficiente: perciò né l'Operaio né i tecnocrati, che al massimo possono limitarsi al dominio sui mezzi e sullo sviluppo tecnico, appaiono all'altezza dell'inedito compito epocale[17]. Su questo punto, come del resto su altri, esiste una significativa vicinanza fra le posizioni evoliane e quelle dell'opera complessiva di Jünger (anche se probabilmente non dell'Operaio considerato a sé): la tecnica e la scienza moderne sono espressioni della volontà di dominio, del frenetico attivismo della volontà di potenza, e in quanto tali sono antitetiche ad ogni spiritualità orientata alla trascendenza. Perciò l'idea stessa di limite è qualcosa che ripugna alla mentalità faustiana dell'Occidente, così come la tecnica moderna è necessariamente distruttiva e iconoclasta. Se dunque il lavoro dell'Operaio mira alla mobilitazione delle potenze della realtà, è problematico scorgere in quale modo «possa tornare a rivelarsi e a farsi valere concretamente una dimensione spirituale, sacrale o metafisica, della realtà in una umanità che concepisce l'universo in puri termini di scienza moderna e di tecnica, quindi in un modo disanimato»[18]. Questo «spazio spirituale vuoto»[19], altro non è che l'orizzonte desertico - disertato dal divino - del nichilismo tecnico, che trova le sue icone nell'algidezza scostante dell'estetizzazione razionalistica, non a caso scaturita da quell'iniziale rivolta futuristica e astratta contro i residui delle tradizioni passate. La tabula rasa futuristica è soltanto l'inizio del gelo metallico del razionalismo funzionale alla pervasività plasmante della tecnica: ma ha il merito di mostrarne, con gli aspetti più chiassosi e iconoclasti, l'occulta radice elementare, ir-razionale, dissolutoria, che permane e agisce anche là dove parrebbe che i grandi e capillari sistemi d'ordine del mondo del lavoro l'abbiano definitivamente liquidata. I Lumi rischiarano il mondo di luce sinistra[20].

stuart mill
22-05-06, 23:04
3. L'enigma della Tradizione
È indubbio che Evola, con la multiformità della sua azione culturale, abbia inteso innanzitutto fornire un orientamento per un'epoca nella quale l'idea stessa di punti di repere e di direzione è diventata obsoleta, quando non apertamente dileggiata in nome dell'emancipazione mondialista[21]. Orientare è un'azione diversa dal muoversi all'interno di punti certi di riferimento, stelle fisse in un firmamento immutabile. Non certamente che l'immutabilità del firmamento sia venuta meno, ma il nostro punto di osservazione è cambiato, o forse piuttosto non siamo più in grado di vedere nitidamente, né sappiamo dove guardare. Il cielo è diventato il disanimato spazio siderale in cui gettare le scorie che la Terra non riesce più a contenere, e la terra altro non è che un suolo occluso e depredato, o forse ormai solo un ricordo nella proliferazione delle dimensioni virtuali. In questo quadro sta il grande problema dell'attualità della Tradizione, le cui interpretazioni danno luogo a posizioni diverse che, insieme considerate, possono ricomporre il suo significato universale. Non è mia intenzione ripercorrere l'interpretazione evoliana della questione, impresa del resto da altri eccellentemente compiuta secondo varie prospettive[22], tuttavia la relazione fra modernità e Tradizione, in Evola, merita attenzione. Marcello Veneziani ha scritto che il pericolo che insidia il pensiero evoliano sarebbe il solipsismo conseguente al riferimento a una Tradizione senza più efficacia, senza riti, senza templi, senza riferimenti presenti: in questo, Evola sconterebbe una crisi simile a quella di altri esponenti della rivoluzione conservatrice, come Jünger, Benn e Spengler, «la crisi di una trascendenza che ha perduto Dio, di un verticalismo che ha perduto il vertice, di un eroismo che ha perduto gli eroi, di un Olimpo che ha perduto gli dèi, di una Tradizione che ha perduto i templi»[23]. Da qui, dal necessario doversi riferire all'idea più che alla situazione reale, proverrebbe l'inclinazione evoliana all'apolitìa o la figura del Waldgang jüngeriano, l'elogio della solitudine aristocratica che trascurerebbe il luogo ("la patria") in cui vive.
Altri, sostenendo la modernità di Evola, si chiedono se la condanna evoliana dell'epoca attuale non sia in contraddizione con la stessa dottrina tradizionale del progressivo allontanamento dal Principio. L'interrogativo sotteso ad entrambi è il medesimo: è legittima la critica al mondo moderno nella prospettiva tradizionale? E questa non cozza paradossalmente contro la necessità di prendere una posizione trasformatrice? L'interrogativo travalica il pensiero di Evola e ricade su tutto il pensiero del Novecento che ha posto la domanda, da un punto di vista non storicista, circa il problema della destinalità del moderno e della necessità del suo oltrepassamento, dischiusa dal grande interrogativo nietzschiano conseguente alla morte di Dio e allo spalancamento dell'abisso del nichilismo. È la stessa questione che tracima dalle pagine del Tramonto dell'Occidente, dal problema di quale comportamento tenere in una fine che comunque avverrà, in base alle legge inesorabile di una ciclicità che stronca le illusioni progressiste e demiurgiche dell'uomo faustiano. La riflessione e la battaglia culturale evoliane mostrano esemplarmente quale possa essere il modo di restare in piedi in mezzo alle macerie della civiltà, in nome di una Tradizione che si è oscurata e ritratta nel silenzio e nell'enigmaticità. Diversamente forse dalla posizione di Guénon, Schuon, Burkhardt, Evola assume radicalmente il punto di vista dell'estrema modernità, di una dissoluzione registrata senza più potersi rifugiare o avere la certezza di una forza spirituale vigente. È possibile che in questo estremo disincanto della diagnosi evoliana agiscano le prospettive dei pensatori della rivoluzione conservatrice più affini, una certa "inflessione" tedesca della filosofia che certo manca del tutto in un Guénon. In realtà, a differenza che negli altri autori della Tradizione, vi è nel pensiero di Evola una forte e chiara presenza della riflessione filosofica moderna, Nietzsche in primis, che interagisce con le dottrine tradizionali, e contribuisce a declinarne il possibile significato per i contemporanei. La connotazione kshatriya che è stata riconosciuta alla posizione tradizionale di Evola[24], e che spiegherebbe le differenze rispetto a una maggior "ortodossia" guénoniana o schuoniana, forse trova strumenti ermeneutici e argomentativi anche nella visione più umana e storica della contemporanea filosofia. Ma, anche se il debito più vistoso - perché consegnato a due opere di una certa mole - sembra essere quello con la filosofia italiana coeva (il neoidealismo, Michelstaedter), a dare la specifica tonalità della meditazione evoliana "tradizionale", la sua efficacia ermeneutica nell'epoca finale, mi sembra piuttosto la filosofia che da Nietzsche e dalla sua diagnosi del nichilismo moderno prende le mosse. Questo spiegherebbe anche coerentemente l'attenzione di Evola per autori da lui promossi o introdotti nella cultura italiana[25]: una sorta di "veicolo" o di preparazione, un esercizio critico e un'educazione del pensiero a quella "fedeltà" la cui perdita costituisce "il mistero della decadenza", l'oscuramento della Tradizione[26]. Se la Tradizione è destinalmente oscurata, si è allontanata da noi, «la razza dell'uomo sfuggente» rappresenta un'umanità fiera della propria chiusura e abiezione da «ultimo uomo»[27] nietzscheano, rinserrata fra le muraglie dell'indurimento materialistico, per la quale la perdita del sacro e l'allontanamento del divino non costituiscono problema degno d'interrogazione. A un'umanità inconsapevole della propria miseria estrema, per la quale simboli e riti appaiono tutt'al più come reperti etnografici e museali, del tutto destituiti di efficacia e significato riconoscibile, non è possibile accedere al deposito intatto del sapere della Tradizione, alla meditazione trasformatrice dei suoi simboli. Il moderno, per sua essenza, non può che misconoscere - nella duplice forma della negazione o dell'imbalsamazione museale - il retaggio tradizionale.Attaccarsi alla sua immutabilità, a un dogmatismo interpretativo, dunque, equivale a ribadirne la morte, la mummificazione, e consegnarla al vasto repertorio museale di cui la modernità si serve da alibi per le sue distruzioni. Inoltre, significherebbe non riconoscere l'effettività della dimensione temporale, dunque l'allontanamento dal Principio e il progressivo, necessario, oscurarsi.

stuart mill
22-05-06, 23:04
La Tradizione non è un deposito intatto di forme storiche cui si potrebbe attingere indifferentemente dalla posizione epocale: «non è supino conformismo a ciò che è stato, o inerte continuarsi del passato nel presente»; perciò «non si tratta nemmeno affatto di prolungare artificialmente e violentemente forme particolari legate al passato, malgrado il loro aver esaurito le loro proprie possibilità vitali e il loro non essere più all'altezza dei tempi»[28]. I principi sono immutabili, mentre le forme storiche in cui si traducono non sono che «espressioni particolari e adeguate per un certo periodo e in una certa area»[29]. Se dunque la Tradizione per essere viva e operante deve di volta trovare un'adeguata incarnazione storica - secondo un principio che si potrebbe chiamare "geofilosofico" -, la disperazione che fa mantenere attaccati ai residui delle sue attuazioni trascorse (il "tradizionalismo"[30]) è l'atteggiamento più nichilistico, assieme a quello complementare e opposto che la giudica definitivamente "cosa del passato", morta superstizione da lasciarsi alle spalle, nell'orgoglio di una completa immanenza. «Per garantire una tale continuità, pur tenendo fermo ai principi», occorre invece «abbandonare eventualmente tutto ciò che dev'essere abbandonato, invece di irrigidirsi o di gettarsi allo sbaraglio quasi per panico e di cercar confusamente idee nuove quando si verificano delle crisi o i tempi mutano - questa è l'essenza del vero conservatorismo»[31]. Se la Tradizione consiste in principi metastorici e dinamici al tempo stesso, che agiscono attraverso manifestazioni eventualmente anche molto differenti fra loro, pur conservando un'unità trascendente, qual è la forma che la Tradizione assume nei tempi ultimi, e i compiti cui ci chiama, nell'Occidente tardomoderno, nell'epoca della mondializzazione?

stuart mill
22-05-06, 23:04
È qui che, in prospettiva evoliana, il pensiero non storicista contemporaneo può fornire utili orientamenti a chi voglia comprendere la situazione attuale in direzione di una possibile trasformazione spirituale, e dunque di un pensiero della Tradizione.La situazione dell'umanità contemporanea, che il sapere tradizionale sintetizza nella fase terminale del kali-yuga, del massimo allontanamento dal Principio, della "solidificazione" materialistica, del suo "sfaldamento" e disgregazione, dell'inversione satanica dei significati e dei simboli, è esaustivamente analizzata nel suo carattere "catastrofico", ossia di cesura, "muro del tempo", dai pensatori che prendono le mosse da Nietzsche, tematizzando il carattere di "fine" della modernità intesa come culmine del razionalismo occidentale. I temi della tecnica, del lavoro, della tipizzazione, della morte del sacro, della fuga degli dèi, dell'estrema derelizione in cui questa umanità tracotante e arrischiata si trova, costituiscono un imprescindibile punto di partenza per ogni riflessione che voglia ritrovare un orientamento nel confuso franare e mescolarsi di ogni significato. Per molti versi, anche se questa affermazione suona intollerabile per i filosofi professionali come per i tradizionalisti, il pensiero di Nietzsche, ma soprattutto quello di Heidegger e di Jünger, che rappresentano il culmine speculativo di una più vasta costellazione di pensatori e di pensieri che presero forma nei primi decenni del secolo, soprattutto in area germanica, come espressioni o propaggini di certi filoni della cosiddetta "rivoluzione conservatrice", è accostabile alla prospettiva della Tradizione, quasi a rappresentarne una "traduzione" filosofica ed essoterica[32]. Da questo punto di vista, dunque, questa direzione di pensiero filosofico costituisce la più radicale diagnosi della natura dissolutiva della modernità e dei suoi riferimenti etici e intellettuali: è la forma stessa della Ragione occidentale moderna a contenere tutte le sue possibilità di realizzazione e di dissoluzione, ed è solo comprendendone i limiti che si può cominciare a pensare (e ad agire diversamente), portandola alla sua fine - come auspicava anche Evola.Questo pensiero ci aiuta a comprendere anche perché, pur prendendo atto del costitutivo oscurarsi della Tradizione, del rarefarsi o dell'interrompersi del tradere, non si debba rassegnarsi nichilisticamente o precipitarsi in un'azione cieca: occorre sapere che l'occultarsi della Tradizione, il suo ammutolimento[33], vanno custoditi come tali, senza illudersi di poter ritrovare la trasparenza dei simboli (come fa, semplicisticamente, il New Age ai nostri giorni). Come ha mostrato esemplarmente Heidegger, il divino, per noi contemporanei, si dà solo nella forma del suo allontanarsi, e satanica e parodica sarebbe ogni pretesa di resuscitare gli antichi dèi, o di riesumare riti e simboli che non hanno alcuna vigenza, poiché, in quanto appartenenti a una costellazione geotemporale determinata, sono necessariamente tramontati. Questo è il contenuto di verità della tecnica moderna, che non lascia in piedi né dèi né templi, ma che essa stessa occulta incessantemente nelle parvenze mirabolanti dei nuovi idoli: l'estremo allontanamento del Principio, l'estrema povertà, il paesaggio delle rovine in cui occorre che singoli differenziati si tengano in piedi. Questa consapevolezza, che ha riconosciuto l'illusorietà, la mistificazione e la rovinosità del pensiero storicistico, della scienza moderna e della tecnica, dalla volontà di potenza dell'uomo occidentale, è l'imprescindibile orientamento per ogni cammino ulteriore, forse anche per riaccostarsi a quel mistero che per i moderni è diventata, necessariamente, la Tradizione e che va custodita come il seme del "nuovo inizio"[34].

stuart mill
22-05-06, 23:05
Questa consapevolezza è anche uno spartiacque spirituale, come Evola ha mostrato con abbondanza di dettagli analitici, osservando la degenerazione del gusto e della morale moderna, e insegnando a tener desta l'attenzione anche su quelli che sembrerebbero aspetti marginali e che, invece, tutti, se rettamente interpretati, costituiscono un indice del grado e della forma della disgregazione.Da questo punto di vista, l'esplorazione impietosa dello sterminato paesaggio di rovine della modernità che Evola realizza nei suoi scritti, è accostabile a quelle analoghe tracciate nelle opere di Spengler, Jünger, Benn, Keyserling, e il quadro che risulta dall'intreccio di queste analisi è coerente e unitario. Evola è perfettamente "all'altezza" dei tempi e parla una lingua filosofica spesso in grande anticipo sulla cultura degli addetti ai lavori, impigliati nei loro stessi tenaci pregiudizi ideologici. E, dal canto suo, questo pensiero filosofico converge, nei suoi risultati speculativi, con l'orientamento tradizionale, forse anche più di quanto lo stesso Evola fosse in grado di ammettere[35]. Non sarà dunque stato un caso se, per gli uni e per l'altro la risposta della cultura egemone sia stata una pesante, livorosa e ostile cappa di silenzio o di denigrazione, che a stento si è cominciata a sollevare negli ultimi anni, da parte di quei pochi che hanno "testimoniato" della Tradizione con il loro orientamento: «Si lascino pure gli uomini del tempo nostro parlare, con maggiore o minore sufficienza e improntitudine, di anacronismo e di antistoria. [...] Li si lascino alle loro 'verità' e ad un'unica cosa si badi: a tenersi in piedi in un mondo di rovine. [...] Rendere ben visibili i valori della verità, della realtà e della Tradizione a chi, oggi, non vuole il 'questo' e cerca confusamente l''altro' significa dare sostegni a che non in tutti la grande tentazione prevalga, là dove la materia sembra essere ormai più forte dello spirito»[36].
Note:
(1) - M. Veneziani, Julius Evola tra filosofia e Tradizione, Ciarrapico, Roma 1984, pp. 122 e sgg.
(2) J. Evola, Scritti sull'arte d'avanguardia, a cura di E. Valento, Fondazione Julius Evola, Roma 1994.
(3) O «le scemenze da strapaese», di un'Italia «futurista unicamente nello spirito di certi ‘fascisti’ di scarto che all'idea sostituiscono il pugno, al senso critico il proclama, alla cultura lo sport, alla superiorità classica e aristocratica la bravata e il lazzo giovanile» (Ivi, p. 83).
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 89.
[6] J. Evola, A proposito di Dada, in Scritti sull'arte d'avanguardia, cit., p. 53.
[7] J. Evola, Sul significato dell'arte modernissima, in Scritti ..., cit., p. 59
[8] Ivi, p. 67.
[9] J. Evola, Arte astratta, Fondazione Julius Evola, Roma s.d., p. 12
[10] Può essere interessante confrontare la "politica culturale" evoliana di importazione e divulgazione di autori e temi del pensiero europeo con quella, mossa evidentemente da intenti ideologici opposti e destinata ad avere una lunga ripercussione sulla cultura filosofica ed estetica italiana, di Antonio Banfi negli stessi anni. Cfr. L. Bonesio, L'ombra della ragione. Banfi lettore di Klages, in AA.VV., Soggetto e verità, Mimesis, Milano 1996, per un'analisi della strategia ideologicamente neutralizzante della letture banfiana nei confronti di autori etichettati come «irrazionalisti».
[11] «A lato delle grandi correnti del mondo, esistono ancora individualità ancorate nelle ‘terre immobili’ [...]. Essi mantengono le linee di vetta, non appartengono a questo mondo - pur essendo sparsi sulla terra e spesso ignorandosi a vicenda sono uniti invisibilmente e formano una catena infrangibile nello spirito tradizionale. [...] In virtù di essi la Tradizione è presente malgrado tutto" (J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1988, p. 441).
[12] J. Evola, Cavalcare la tigre, Scheiwiller, Milano 1971, p. 113.
[13] J. Evola, Gli uomini e le rovine, Il Settimo Sigillo, Roma 1990, p. 100. Sul tema del lavoro, come sulla «demonia dell'economia», Evola ritorna a più riprese, particolarmente in Rivolta contro il mondo moderno, L'arco e la clava e Gli uomini e le rovine, rimarcandone il carattere di inevadibile asservimento:
«Se mai vi è stata una civiltà di schiavi in grande, questa è esattamente la civiltà moderna. Nessuna civiltà tradizionale vide mai masse così grandi condannate ad un lavoro buio, disanimato, automatico: schiavitù [...] che viene imposta anodinamente attraverso la tirannia del fattore economico e le strutture assurde di una società più o meno collettivizzata. E poiché la visione moderna della vita, nel suo materialismo, ha tolto al singolo ogni possibilità di conferire al proprio destino qualcosa di trasfigurante, di vedervi un segno e un simbolo, così la schiavitù di oggi è la più tetra e la più disperata di quante mai se ne siano conosciute» (Rivolta ..., cit., pp. 143-144).
[14] J. Evola, L'Operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Edizioni Mediterranee, Roma 1998, p. 87.
[15] Cfr., in particolare, Al muro del tempo (che, com'è noto, fu tradotto dallo stesso Evola con lo pseudonimo di Carlo D'Altavilla per l'editore Volpe), e, in genere, le opere successive alla seconda guerra mondiale.
[16] Ivi, p. 121
[17] «Bisogna pur considerare il caso, che fra gli antagonisti in lotta vi sia invece chi possa rappresentare l'elementare proprio nelle sue valenze negative e oscure, facendo un corrispondente, terribile uso di tutte le possibilità offerte dal mondo della tecnica in ordine al soggiogamento non pure delle forze materiali ma anche dell'uomo» (Ibidem).
[18] Ivi, p. 124.
[19] Ivi, p. 125.
[20] Il riferimento è al celebre incipit della Dialettica dell'Illuminismo di Horkheimer e Adorno, ma anche alle profonde considerazioni di S. Quinzio in Mysterium iniquitatis, Adelphi. Milano 1995. Sul tema dei sinistri Lumi della modernità, in relazione alla dissacrazione della realtà e della natura in particolare, cfr. L. Bonesio, La terra invisibile, Marcos y Marcos, Milano 1993.
[21] Per la discussione di questi temi in riferimento anche alla prospettiva evoliana, cfr. L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 1997.
[22] Fra i molti contributi in proposito, cfr. J.-P. Lippi, Julius Evola et la pensée traditionnelle, in Julius Evola, , L'Age d'Homme ("Les Dossiers H"), Lausanne 1997 e G. Ferracuti, Modernità di Evola, in «Futuro Presente» (Julius Evola), 6, 1995; P. Di Vona, Evola Guénon Di Giorgio, SeaR, Borzano 1993.
[23] M. Veneziani, op. cit., p. 152.
[24] P. es. da Lippi, op. cit.
[25] Con la rilevante eccezione del "secondo" Heidegger.
[26] J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., pp. 132-133. Sulla fedeltà come principio di responsabilità al proprio compito trascendente, cfr. Cavalcare la tigre, cit., p. 222.
[27] Esplicito riferimento all'«ultimo uomo» nietzschiano si trova in Cavalcare la tigre, cit., p. 34 e sgg.
[28] J. Evola, Gli uomini e le rovine, cit., p. 19.
[29] Ibidem.
[30] Sul tradizionalismo, si veda, p. es., Gli uomini e le rovine, cit., pp. 198-199.
[31] Ibidem. Queste considerazioni dovrebbero ridimensionare la preoccupazione di Veneziani circa il pericolo "solipsista" di Evola: «Questa insidia si ripropone palesemente quando Evola indicando la via da seguire per restare in piedi tra le rovine, informando gli orientamenti esistenziali e metapolitici dell'uomo ‘differenziato’ e fedele alla Tradizione, sostiene che la sua patria ‘dev'essere l'idea’, non la patria reale in cui vive» (Op. cit., p. 122).
[32] Lasciando aperta la questione - teoreticamente poco rilevante - se e in quali casi vi sia stata una conoscenza effettiva (anche se non forse "iniziazione") dei principi e delle dottrine tradizionali. Il più interessante, anche per la straordinaria portata del suo pensiero, è il caso di Heidegger. Controverso anche il caso di Jünger: per Evola e altri (Q. Principe, ad es.), egli non avrebbe avuto precisi orientamenti tradizionali; mentre secondo altri studiosi, Jünger, che attraverso la mediazione di Eliade, aveva conosciuto sia il pensiero di Guénon che di Gurdijeff, mostrerebbe precise conoscenze tradizionali e iniziatiche (come alluderebbe la ricorrente figura di Nigromontanus). Cfr., ad es., M. Freschi, Jünger ed Evola: un incontro pericoloso, introduzione a L'Operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit.
[33] Peraltro profondamente interpretato da W. Benjamin, soprattutto nel saggio su Franz Kafka (in Angelus novus, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962). L'uomo differenziato di Evola "sa che in una civiltà come l'attuale è impossibile ripristinare le strutture che nel mondo della Tradizione davano un senso all'esistenza" (J. Evola, Cavalcare la tigre, cit., p. 211).
[34] L'espressione è di Heidegger. «Il problema essenziale è piuttosto quello della misura in cui fra il mondo che muore e il mondo che può nascere esisteranno rapporti di continuità: cioè che cosa, dell'un mondo, potrà continuarsi nell'altro. La concezione predominante nell'antico insegnamento tradizionale è che, di fatto, una specie di iato separa un ciclo dall'altro: non si avrebbe un progressivo riprendersi e risollevarsi, ma un inizio nuovo, una mutazione brusca, in corrispondenza ad un fatto d'ordine divino o metafisico» (Rivolta ..., cit., pp. 440-441).
[35] - Sulla convergenza dell'indagine evoliana con le filosofie del nichilismo, cfr. G. Malgieri, Modernità e tradizione. Aspetti del pensiero evoliano, Il Settimo Sigillo, Roma 1987
[36] J. Evola, Rivolta ..., cit., p. 442.

stuart mill
22-05-06, 23:05
quello di sopra è interessante perchè parla anche della new age

stuart mill
22-05-06, 23:09
questo è tratto dal sito segnalato da fenriz, e ne posto una parte, quella che ritengo più significativa:
JULIUS EVOLA
IL RAZZISMO DELLO SPIRITO
Prima sottosezione: Precisazioni necessarie La questione del razzismo in Julius Evola va trattata molto, molto attentamente. Infatti è proprio questo argomento uno dei maggiormente equivocati, sia dai “ filo-evoliani ” che dagli “ anti-evoliani ”. I primi spesso si sono suddivisi (inconsapevolmente) in due filoni: quelli che hanno visto in lui un giustificatore del razzismo in sé e per sé - alla stregua di un Hitler, insomma - e quelli che hanno minimizzato la questione lasciando pensare quasi che Evola non fosse razzista, ma semplicemente che pensasse ( vedi appunto la dizione “ razzismo dello spirito ”) che esistono uomini migliori di altri - da un punto di vista intellettuale, culturale, morale - senza che però questo avesse a che fare con la razza intesa in senso fisico. A sinistra, o più in generale in studiosi che si trovavano su fronti opposti rispetto a Evola (quindi anche liberali, democratici, uomini “di destra”) la condanna è stata univoca e senza appello: è sempre presente nella mente di coloro che superficialmente hanno letto e scartato subito il Barone quanto disse Furio Jesi: “ un razzista così sporco da non poterlo toccare con le dita ” (F. Jesi, Cultura di destra, Garzanti Milano 1979 p. 91). Soprattutto Evola è stato escluso dal diorama culturale italiano repubblicano e democratico perché considerato una sorta di teorico delle leggi razziali del 1938 che strinse “ culturalmente ” l’Italia alla Germania nazista. Tutto ciò non è completamente privo di fondamento: è però mistificato, frainteso in più sensi, non compreso nella sua totalità. Anzitutto bisogna dire che questo elemento della sua produzione culturale, comunque venga giudicato, non può essere sufficiente a liquidare Evola in toto. Perché il Barone è stato un pensatore così poliedrico da far sì che gli si possa rivolgere l’attenzione in diversi ambiti, anche non per forza correlati fra loro: per esempio, non sono pochi coloro che hanno letto i suoi libri unicamente in riferimento ai suoi scritti sull’esoterismo e sulla magia. I più grandi esperti di kabbala, Rosacroce, neopaganesimo e cultura orientale hanno fatto i conti quasi sempre con gli studi di Julius Evola. Oppure, lo si può prendere in considerazione per la sua attività artistica, per quella filosofica, senza appunto che ciò implichi un’adesione alle sue idee sulla razza e al suo razzismo. Per fare un paragone forse un po’ improprio ma che può rendere l’idea, Knut Hamsun, lo scrittore norvegese premio Nobel nel 1920, fu filonazista nel corso della Seconda Guerra Mondiale: questo gli costò una parziale esclusione - all’interno del mondo della cultura - da parte di addetti ai lavori e lettori semplici; ciò non toglie però che abbia lasciato opere di letteratura di grande valore, benché siano contestabili e siano state contestate le sue idee politiche. Tutto questo non significa che bisogna dire: “vabbè bocciamolo sul razzismo, però nelle altre cose merita di essere ascoltato” , ma che l’interessarsi a un autore non significa per forza condividere tutto ciò che scrive prendendolo come fosse oro colato (anzi, quando si arriva a questo fideismo e a questa partigianeria, si rischia di storcere il senso di ciò di cui si parla perché si è perso lo spirito critico). Ciò in via di considerazione preliminare, per chiarire le idee a coloro che disgustati da una posizione del genere sulla questione-razzismo, leggono Evola con pregiudizi e superficialità o lo rifiutano a priori.

stuart mill
22-05-06, 23:13
http://www.filosofico.net/evola.htm
anche questo finisce nella pagina dei link interessanti, in rilievo

Arjuna (POL)
23-05-06, 00:08
io ho un po' di articoli di Evola in formato digitale scaricati un po' qui e un po' là, ne farò una selezione da postare.

Volevo segnalare anche www.juliusevola.it

stuart mill
23-05-06, 00:27
[quote]io ho un po' di articoli di Evola in formato digitale scaricati un po' qui e un po' là, ne farò una selezione da postare.


bravo



Volevo segnalare anche www.juliusevola.it (http://www.juliusevola.it/)
ottimo: l'ho aggiunto ai siti interessanti, nel thread in rilievo

Fenriz (POL)
23-05-06, 20:43
Le radici del male europeo

tratto da IMPERIALISMO PAGANO



di Julius Evola
Abbiamo detto che il mondo moderno è ormai giunto ad un punto dove è inutile farsi illusioni sull'efficacia di una qualsiasi reazione che non parta da un profondo rivolgimento spirituale. Liberarsi dal male che ci cor-. rode non si può che con una negazione totale, con uno slancio spirituale che faccia di noi veramente degli esseri nuovi, riaprendoci la possibilità di cogliere un mondo nuovo, di respirare una libertà nuova: dovesse anche crollare tutto ciò di cui l'Occidente trae il suo vano orgoglio.
Nella consapevolezza che il nostro mondo è un mondo di r o v i n e, dobbiamo spingerci di nuovo verso quei valori, che ci consentano di riconoscere in modo inequivocabile la causa di tale rovina.
La prima radice della decadenza europea è il «socialismo», l'anti-gerarchia.
Le forme fondamentali, sviluppatesi da questa radice, sono:
La regressione delle caste.
L'insorgere delle scienza e della filosofia positive.
La tecnica e l'illusione della potenza meccanica.
Il nuovo mito romantico e attivistico.
Queste sono le quattro principali radici della decadenza europea, che noi adesso considereremo ad una ad una per poi puntualmente opporvi i nostri valori gerarchici.
Così saranno dati i tratti fondamentali di un'altra visione del mondo e della vita, che per noi deve valere come una forza segreta e come l'anima della nostra battaglia.
La regressione delle caste. L'oro e il lavoro
Abbiamo già accennato al fatto che, se in modo del tutto generale si dovesse formulare una legge che ci dia il «senso della storia», per i tempi ultimi, non potremmo parlare di progresso ma, semmai, di involuzione.
A tale riguardo vi è un processo che si impone alla considerazione di ognuno nel modo più oggettivo e manifesto: il processo della regressione delle caste. Come «senso della storia», a partire dall'epoca preistorica, si ha esattamente il decadimento progressivo dall'una all'altra delle quattro grandi caste - casta «solare» (regale-sacrale), nobiltà guerriera, borghesia (mercanti) e servi - in cui, nelle civiltà tradizionali, e particolarmente nell'India ariana, la differenziazione qualitativa delle possibilità umane trovò il suo riflesso.
In un primo tempo assistiamo infatti al tramonto dell'epoca della divinità regale. I capi, che sono esseri «divini», i capi che riuniscono completamente in sé i due poteri, l'autorità regale e quella pontificale, appartengono ad un remoto, quasi mitico, passato. Attraverso un progressivo alterarsi della forza nordico-aria, formatrice di civiltà, si è compiuto questo primo crollo. Nell'ideale tedesco del Sacro Romano Impero noi abbiamo già riconosciuta l'ultima eco di questa tradizione, di questo livello «solare».
Scomparso l'apice, l'autorità passa al livello immediatamente inferiore: siamo alla casta dei guerrieri. Si tratta di monarchi che ora sono semplicemente dei capi militari, dei signori di giustizia temporale, sovrani assoluti politici. Sussiste talvolta la formula del «diritto divino», ma come una mera reminiscenza priva di contenuti. Dietro ad istituzioni che solo formalmente conservavano i tratti dell'antica costituzione aristocratico-sacrale, spesso già nell'antichità non si ebbero più che sovrani di questo tipo. In ogni caso, dopo la caduta dell'unità ecumenica medievale, questo fenomeno si manifesta in modo decisivo e definitivo.
Secondo crollo: l'aristocrazia decade, la cavalleria si estingue, le grandi monarchie europee si «nazionalizzano» e tramontano - attraverso le rivoluzioni e le «costituzioni», quando non siano semplicemente soppiantate da regimi di tipo diverso (repubblica, federazione), si trasformano nella già citata vuota sopravvivenza, soggetta alla «volontà» della «nazione». Nelle democrazie parlamentari, repubblicane o nazionali, il costituirsi delle oligarchie capitalistiche esprime il fatale passaggio del l'autorità e della potenza della seconda all'equivalente moderno della terza casta: dal guerriero al mercante. Al posto dei principi virili della fedeltà e dell'onore subentra ora la dottrina del «contatto sociale». Il vincolo sociale è ora utilitaristico ed economico: è il contratto sulla base della convenienza e dell'interesse dei singoli. In questo modo tale vincolo passa necessariamente dal personale all'impersonale. L'oro fa da tramite, e chi se ne impadronisce e sa moltiplicarlo (capitalismo, industrialismo) giunge virtualmente anche alla presa del potere. L'aristocrazia cede il posto alla plutocrazia; il guerriero al banchiere, all'ebreo e all'industriale. Il traffico con la moneta e con l'interesse, prima confinato nel ghetto, diventa la gloria e l'apice dell'epoca ultima. La forza nascosta del socialismo, dell'antigerarchia, comincia qui a rivelare visibilmente la sua potenza.
La crisi della società borghese, la rivolta proletaria contro il capitalismo, il manifesto della «Terza Internazionale» e il correlativo lento sollevarsi e organizzarsi dei gruppi e delle masse in forme puramente collettive e meccanizzate — nei quadri di una nuova «civiltà del lavoro» — ci indicano infine il terzo crollo, per cui l'autorità tende a passare all'ultima delle caste tradizionali, a quella dello schiavo da fatica e dell'uomo-massa: con conseguente riduzione di ogni orizzonte e valore al piano della materia e del numero.
Se la spiritualità extraumana e la «gloria» caratterizzarono il periodo «solare», l'eroismo, la fedeltà e l'onore quello dei guerrieri, l'oro quello dei guerrieri, l'oro quello dei trafficanti e degli Ebrei - così all'avvento dei servi doveva far riscontro l'esaltazione appunto del principio degli schiavi: il lavoro che si innalza a religione. E l'odio dello schiavo va a proclamare sadisticamente: «Chi non lavora, non mangia», e la sua idiozia, glorificandosi, forma incensi sacrali con le esalazioni del sudore umano: «Il lavoro nobilita l'uomo», «Il lavoro è grandezza», «Il lavoro è dovere etico». Così si cala sul cadavere la pietra sepolcrale, e il ciclo dell'involuzione sembra compiersi definitivamente.
Nessun altro ideale offre il futuro ai sacerdoti del «progresso». Per oggi ancora dura la lotta fra l'ebreo, onnipotente signore dell'oro, e la rivolta dello schiavo; e quella «civiltà», di cui i contemporanei sono così orgogliosi, sovrasta un ingranaggio mostruoso, mosso da forze brute ed impersonali: l'oro, il capitale e la macchina.
I vincoli di dipendenza, lungi dall'allentarsi, si sono nuovamente rassodati. Ma accanto alla forza non procede più l'autorità, accanto all'obbedienza non più il riconoscimento, accanto al grado non più la superiorità. Il signore non è più tale perché è s i g n o r e, sibbene perché è uno che ha più danaro, perché è uno che, pur non vedendo affatto oltre il piccolo orizzonte di una qualunque vita umana, domina le condizioni materiali della vita; mediante le quali gli è anche possibile di soggiogare o opprimere chi abbia un respiro infinitamente più potente che non il suo: la possibilità del più ignobile inganno e della più infame schiavitù. La potenza e il legame di dipendenza, spersonalizzandosi e meccanizzandosi, sono divenuti capitale e macchina. E così non è un paradosso: di schiavitù vera si può parlare seriamente soltanto o g g i, se ne può parlare soltanto presso alla organizzazione economico-meccanica occidentale, lungo quella direzione di abbrutimento, di cui la «libera America» sta dandoci il migliore esempio.
E forse dopo un breve ciclo di generazioni, debitamente e scientificamente educate alle norme del «servizio sociale», il senso dell'individualità sarà cancellato del tutto, e, con esso, l'ultimo residuo di coscienza necessario per sapere almeno di essere schiavi. E rimarrà forse quello stato di rinnovata innocenza che si differenzia da quello dell'Eden mitico per il fatto che il lavoro allora vi regnerà come universale e unico scopo dell'esistenza, - di cui parla Chigalev ne Gli ossessi di Dostojewskij: è l'ideale dei Soviet.
Una dipendenza senza più capi, una organizzazione indifferente rispetto ad ogni esigenza qualitativa- questo ideale «sociale» la forza bruta, impersonale, fatta di mera quantatitività, del danaro, lo realizza.
Abbiamo detto: senza più capi. Non ci si illuda, difatti. Ripetiamo che la razza dei Signori se non è già scomparsa, vi è vicina; e tutto procede in un crescendo di livellamento precipitato verso la vita più materiale e senza volto. Le cosidette classi «superiori» o «dirigenti» di oggi non sono tali che per ironia: i grandi capi dell'organizzazione finanziaria mondiale, così come i tecnici, gli industriali, i funzionari, ecc., non rappresentano nulla più che quei liberti, che i signori di un tempo delegavano al controllo dei servi e all'amministrazione dei loro beni. Uno stesso giogo li assoggetta alla immensa, cieca turba automatizzata degli operai e degli impiegati, e al disopra di essa non hanno respiro schiavi e liberti sorveglianti di schiavi - e, al disopra: nessuno - questa è la terribile verità dei «civilizzati»!
E come interiormente molto più angusta e dipendente e povera è la giornata senza tregua, febbricitante, satura di responsabilità dei signori dell'oro e della macchina, che non la giornata di un umile artigiano, altrettanto lo è quella delle classi «superiori» a cui l'oro non serve che per moltiplicare morbosamente la loro sete di «distrazione», di lusso, di voluttà o di guadagno ulteriore.
Nessuna traccia di Signori, in tutto ciò. E nell'assenza loro, nessun senso in tutta questa pseudo-organizzazione. Se si domanda un perché, una giustificazione ai milioni di reclusi fra le macchine e gli uffici, - di là dall'effìmera ebbrezza con cui essi cercano di scimmiottare la «signorilità» delle «classi superiori» - non si avrà nessuna risposta. Ma se si risale e lo si domanda ai «capi dell'economia», agli inventori, ai signori dell'acciaio, del carbone, del petrolio, dei popoli (non abbiamo visto che il problema politico oggi tende a ridursi a quello economico?), dell'oro - di nuovo nessuna risposta. I mezzi per la vita hanno dominato la vita, anzi l'hanno ridotta a loro mezzo. E così la grande oscurità irrompe sulle luci delle illusioni superbe dell'orgoglio occidentale; una oscurità che si esprime in un mito nuovissimo e mostruoso: quello del lavoro per il lavoro, del lavoro come scopo in sé, come valore intrinseco e dovere universale.
L'infinità degli uomini sulla terra deserta di luce, ridotti a pura quantità -soltanto a quantità - resi uguali nella identità materiale di parti dipendenti di un meccanismo lasciato a se stesso, inarrestabile che possa più nulla - ecco quale è la prospettiva che sta in fondo alla direzione economico-industrialistica che intona tutto l'Occidente.
E chi sente che questa è la morte della vita e l'avvento della bruta legge della materia, il trionfo di un fato tanto più spaventoso inquantoché non ha più persona, sente altresì che non vi è che un rimedio: spezzare il giogo semitico dell'oro, superare il feticcio della socialità e la legge dell'interdipendenza, restaurare i valori aristocratici, quei valori di qualità, di differenza e di eroismo, quel senso della rea Ita metafisica a cui oggi tutto va contro e che noi, pertanto, contro tutto affermiamo.
E perciò: se inteso come una rivolta contro la tirannide economica, contro lo stato di cose in cui non l'individuo, ma la quantità di oro comanda; in cui la preoccupazione per le condizioni materiali dell'esistenza corrode tutta l'esistenza; se inteso come la ricerca di un equilibrio economico, sulla base del quale abbiano modo di liberarsi e svilupparsi forme diverse di vita non più riducibili al piano materiale - se inteso a questa stregua, ma a questa soltanto, potremmo riconoscere persine a certe correnti estremistiche una funzione necessaria e un avvenire.
La causa maggiore della mancanza di una differenziazione qualitativa nella vita moderna consiste appunto nel fatto che la vita moderna è tale, da non lasciar più margine ad un genere di attività che non si valuti in termini di utilità pratica e di socialità. Il pregiudizio economico crea il livellamento; imponendosi, fra tutti uguali, inquantoché le differenze in funzione dell'oro e delle gerarchie meccanico-economiche non sono differenze: esse rientrano in un livello unico, in una qualità unica; di là da questo livello, preso nella totalità di tutte le sue possibili differenziazioni, bisognerebbe che esistessero altri livelli, che invece oggi non esistono: indipendenti dal primo ed ai quali il primo dovrebbe essere subordinato, e non viceversa, come è lo stato di fatto delle società contemporanee.
È per questo che quando l'ipertrofìa di un tale male in mostruosi trusts bancario-industriali si arroga il diritto di «imperialismo», noi, non sapendo piangere, non possiamo che ridere. E contrapporre freddamente l'idea che una rivoluzione radicale contro l'oro, il capitale, è il presupposto imprescindibile del vero Imperium. Passando attraverso all'istanza che serpeggia in fondo a tutte le ideologie rivoluzionarie quale sintomo di rivolta contro la schiavitù moderna, noi tuttavia la trascendiamo, constatando che essa stessa è pervasa dallo stesso male: essa stessa non vede che problemi economici e sociali, non chiede la liberazione dal giogo economico in nome di valori differenziati, metaeconomici e meta fisici - non perché le forze, svincolate dall'assillo economico, possano lavorare in profondità - ma invece solamente per una sistemazione egualitaria e ancor <<più socialistica», ritenuta migliore, dello stesso problema economico determinato dai bisogni puramente materiali ed utilitaristici delle masse. Donde, in tali tendenze, una diffidenza, una insofferenza e quasi un larvato risentimento, non diciamo per lo spirituale, ma già per lo stesso «intellettuale» ritenuto un «lusso»: di là dall'equilibrio economico, esse non hanno occhio per differenze non economiche — non le vedono e non le vogliono: con lo stesso spirito di intolleranza plebea ed egualitaria di schiavi in rivolta, che già si rivelò alla caduta dell'antica romanità.
In conclusione, con due armi bisogna lottare contro questa prima radice del male europeo. Sulla prima, non occorre insistere e fermarsi ancora: consiste nel creare una élite, nel mettere in rilievo coscienziosamente e tenacemente le nuove differenze, gli interessi, le qualità nuove dell'indifferenziata sostanza degli individui di oggi, così che si ridesti una aristocrazia, una razza di signori, di dominatori. Questo anzitutto.
In secondo luogo, è necessario un moto, una rivolta dal profondo che ci liberi dalla macchina, dalla dipendenza estrinseca, inorganica, automatica e violenta; che spezzi il giogo ebraico, economico-capitalistico; che irrida il dovere del lavoro imposto come legge universale e fine a sé; che ci liberi insomma, che apra un varco all'aria e alla luce -per, sulla base di questa libertà, non per violenza, non per dominio di bisogni e giochi di passioni, interessi ed ambizioni, ma per riconoscimento spontaneo - scaturito dal senso di valori e di forze trascendenti, da fedeltà verso il proprio modo di essere, qualunque esso sia, da consapevolezza di natura, di dignità e di qualità- ricostituire la gerarchia. Una gerarchla organica, diretta, effettiva: in ciò, più libera e più ferrea di qualsiasi altra.
Come non riconoscere, allora, che la realtà del passato è anche un mito profetico per un avvenire migliore? Il ritorno al sistema delle caste è il ritorno ad un sistema di verità, di giustizia e di «forma» in senso superiore.
Nella casta si ha l'ideale di una comunità di attività, di professione, di sangue, di eredità, di leggi, di doveri e di diritti, che corrispondono più precisamente a prestabiliti, tipici modi di essere, a manifestazioni organiche di nature congenialmente raffinate; in esso vi è, come presupposto, proprio la volontà di essere ciò che si è, la volontà di realizzare la propria natura e il proprio destino come qualità, mettendo a tacere le velleità individua-listiche ed arrivistiche, principi queste di ogni disordine e disorganizzazione; in esso vi è il superamento della uniformità quantitativa, della centralizzazione, della standardizzazione; in esso vi è il superamento della uniformità quantativa, della centralizzazione, della standardizzazione; in esso vi è la base per una gerarchia sociale che immediatamente riflette una gerar-chia dei modi di essere, dei valori e delle qualità, e che sale ordinata secondo gradi, dal materiale allo spirituale, dall'informe al formato, dal collettivo all'universale e al superindividuale.
L'antica India ci mostra nel modo più perfetto questo ideale che, in forma diversa, si trova anche in altre civiltà, sino a quella del nostro Medioevo nordico-romano.
E il nostro punto di riferimento non può essere un altro.
Come substrato la operosità sana della classe inferiore (shudrd), non più anarchizzata dalle ideologie demagogiche, diretta dagli esperti dello scambio, del commercio, di una organizzazione economico-industriale semplificata per semplificati bisogni (vaishya): di là dai vaishya, gli kshatriya, la nobiltà guerriera, che della guerra riconosce il valore e il fine, e nell'eroismo, nella gloria e nel trionfo della quale può ardere la superiore giustificazione di tutto un popolo; di là dagli kshatriya, i brahmano, la razza solare dello spirito e della Sapienza, di coloro che «vedono» (rshi) e che «possono» e che testimoniano attraverso la loro vita che noi non siamo di questa terra oscura, ma che le nostre radici vitali si perdono in alto, nello splendore dei «cicli». Al culmine di tutto, come mito e limite, l'ideale del cakravartì, il «Re del Mondo», l'imperatore invisibile, la cui forza è occulta, possente e incondizionata.
Scienza contro Sapienza
Come la potenza, spersonalizzandosi e socializzandosi, è divenuta oro, capitale, del pari la sapienza, spersonalizzandosi e socializzandosi, è divenuta «concetto», «razionalità». E questa è la seconda radice del male europeo.
Tanto la filosofia, quanto la scienza positiva occidentale sono, nella loro essenza, fondamentalmente socialistiche, democratiche, antigerarchiche. Esse propongono per «vero» ciò che deve essere universalmente riconosciuto, ciò a cui chicchessia, qualunque sia la vita in cui si lascia vivere, purché abbia soltanto una certa istruzione, può assentire. E così, come nel criterio di «maggioranza» del democratismo politico, esse presuppongono l'eguaglianza e dominano sotto il criterio di quantità su tutto ciò che in questo ambito potrebbe essere qualità, irreducibilità di qualità, privilegio di qualità.
E non vale proclamare dottrine individualistiche od anche relativistiche, quanto già nel modo di proclamarle, che è il modo concettuale della filosofìa profana, si dimostri di aver aderito a detti presupposti democratici, impersonali e collettivistici, che giacciono alla base di quella filosofìa stessa. La via è tutta un'altra — quegli stessi presupposti bisognerebbe cominciare col contestare, per prima cosa, se non si vuoi ricadere nell'insensatezza di un imperialismo che, al luogo di imporsi per quella gerarchia dall'alto, di cui si è detto, invocasse la propria giustificazione al riconoscimento popolare. E qui si ci sì comincerà ad accorgere con che nemico si abbia a lottare, quanto spaventosamente la stessa «cultura», non solo la «società» dei contemporanei sia un democratismo in atto - e che rinuncia essi debbono chiedere a se stessi per riconquistare la salute.
Come l'oro è una realtà divenuta indifferente rispetto alla qualità degli individui che lo posseggono, del pari lo è il «sapere» degli uomini contemporanei. Diciamo meglio: obbediente ad una volontà di eguaglianza, ad una insofferenza antigerarchica, e, quindi, ad un pregiudizio socialistico, il sapere degli Europei ha dovuto necessariamente portarsi su qualcosa, su cui l'efficienza delle differenze individuali e della condizione - per sapere — di un'attiva differenziazione individuale, sia ridotta ad un minimo; epperò si riferì o all'esperienza fisica, uguale ad un dipresso per tutti gli uomini in quanto sono animali (scienza positiva), o al mondo dell'astrazione e delle convenzioni verbali (filosofia e razionalismo).
L'esigenza della socializzazione del sapere ha condotto 1 fatalmente alla sua astrazione, epperò ha creato uno jato insuperabile fra il sapere stesso e la vita, fra il conoscere e l'essere oltre che con ciò che può essere qualità dei fenomeni e «realtà metafisica». È così che nell'Occidente il pensiero, quando non si riduca ad uno strumento per trascrivere più o meno convenzionalmente il lato più esteriore, generale-quantativo e uniforme delle cose materiali, non è che un creatore di irrealtà, di parole «reificate», di vuoti schematismi logici, quando anche non si risolva in uno sport intellettuale tanto più ridicolo, per quanto più fatto in buona fede.
Da qui tutta l'irrealtà dello spirito moderno: scisso dalla vita, l'uomo oggi è quasi un'ombra che si agita fra schemi e programmi e soprastrutture intellettuali impotenti a dominare la realtà e la vita stessa, mentre si fa sempre più dipendente da una scienza che aggiunge astrazioni ad astrazioni, schiava come è di leggi fenomeniche da essa constatate ma non comprese, ed esaurientisi tutte in una esteriorità meccanica, senza che una qualsiasi delle possibilità per l'essere interiore dell'uomo.
Per i limiti propri alla presente trattazione, noi qui non possiamo di certo andare a fondo nella quistione. Non si creda però che essa sia estranea allo stesso problema dell'Impero: così come lo poniamo, il problema dell'Impero è il problema par excellence, rispetto al quale non è possibile che problemi particolari possano separarsi e costituire un dominio a sé. Il particolarismo, l'indifferenza reciproca delle varie forme dell'attività umana - qui la politica, là la scienza, qui la pratica, là la religione e così via — sono un altro aspetto già rilevato della decadenza europea e un sintomo inequivocabile della sua inorganicità.
Sul sapere debbono poggiare i cardini della gerarchia imperiale: «devono governare i sapienti», fu già detto da Piatone - e questo è un punto centrale, assoluto, definitivo in ogni ordine razionale di cose. Ma nulla sarebbe più ridicolo che paragonare un tale sapere ad una qualunque competenza tecnica, scienza positiva o speculazione filosofante: coincidendo esso, invece, con ciò che al principio, come una espressione tradizionale usata sia dall'Occidente classico che dall'Oriente, abbiamo chiamato Sapienza. E la Sapienza è qualcosa di tanto aristocratico, individuale, effettivo, sostanziale, organico, qualitativo, quanto invece il sapere dei «civilizzati» è democratico, sociale, universalistico, astratto, livellatore e quantitativo. E qui, di nuovo, sono due mondi, due occhi, due visioni diverse da porre l'una di contro l'altra, senza attenuazione alcuna.
Conoscere, secondo la Sapienza, non vuoi dire «pensare», ma essere la cosa conosciuta: viverla, realizzarla interiormente. Non conosce realmente una cosa chi non possa trasformare attivamente la sua coscienza in essa. Epperò ciò che risulta da una esperienza diretta o individuale, soltanto ciò varrà come conoscenza. E all'opposto della mentalità moderna, la quale ciò che risulta immediatamente al singolo individuo lo chiama «fenomeno», parvenza «soggettiva», e dietro pone qualche altra cosa, che è semplicemente pensata o supposta (la «cosa in sé» dei filosofi, l'«Assoluto» della religione profana, la «materia», P«etere» o P«energia» della scienza) come la «realtà vera», la Sapienza è un assoluto positivisimo che chiama reale solamente ciò che si può cogliere in rapporto di diretta esperienza, e irreale, astratto, illusone tutto il resto.
Si obietterà che da questo punto di vista, tutto il sapere si ridurrebbe alle cose finite e contingenti date dai sensi fisici - e di fatto così stanno le cose, e così debbono stare, per la gran massa degli uomini; la quale soltanto di questa fìnitudine e contingenza — che resta tale anche dopo tutte le pseudo-spiegazioni scientifiche - può dire di sapere effettivamente. Ma oltre a ciò noi sosteniamo la possibilità di forme di esperienza diversa da quella sensibile dell'uomo comune, non «date», non «normali», se pure raggiungibili per mezzo di certi processi attivi di trasformazione interiore. La peculiarità di tali esperienze trascendenti (di cui il «sovramondo», l' «àmbito degli esseri», i sette cicli, le sfere di fuoco ecc. dell'umanità legata alla Tradizione furono solo diverse rappresentazioni) è di essere dirette, concrete ed individuali quanto l'esperienza sensibile stessa, e tuttavia di cogliere la realtà fuori dal lato contingente, spazio-temporale, proprio a tutto ciò che è sensibile; lato che anche la scienza tenta di sorpassare, ma a patto però di trascendere anche tutto ciò che è veramente sapere - visione, evidenza individuale e vivente - in mere probabilità, in «uniformità» incomprensibili, in astratti principi esplicativi.
Questo sarebbe il senso nel quale parliamo di realtà «metafisica». Si tenga fermo, in ogni caso, che abbiamo a che fare con dell'esperienza, e soltanto con dell'esperienza; che non vi è, dal punto di vista tradizionale, una realtà finita e una realtà assoluta, ma un modo finito e un modo assoluto di sperimentare la realtà, un occhio finito e un occhio assoluto; che tutto il cosidetto «problema della conoscenza» è rinchiuso nell'interiorità di ogni essere, non dipende da «cultura», ma dalla sua capacità di liberarsi dall'umano, quindi sia al sensibile che dal razionale ed emozionale e di identificarsi a questa o quella forma di esperienza «metafìsica» - lungo una gerarchia che procede sino a culminare in uno stato di identità perfetta, di visione spirituale, di piena attuazione, sovrasensibile, sovrarazionale di una cosa nell'Io e dell'Io nella cosa, che realizza uno stato di potenza e, simultaneamente, uno stato di assoluta evidenza rispetto alla cosa stessa, dato il quale non si chiede più nulla e si constata superfluo ogni raziocinare, tanto più ogni parlare.
Tale è, in rapidissime linee, il senso di quella Sapienza che costituisce il cardine dell'insegnamento «metafìsico» e della scienza spirituale (il cui rito dell'iniziazione operava originariamente appunto la trasformazione della coscienza necessaria per il «sapere» e il «vedere» metafisico) e la cui tradizione, sia pure per vene sotterranee, si è conservata nell'Occidente anche dopo la semitizzazione e la decadenza della sua antica civiltà.
Il punto da tenere presente è che la scienza sacra e sapienziale non essendo, come quel la profana, un «conoscere », ma un e s s e r e, essa non può venire insegnata da libri o università e trasmessa in parole: per conquistarla, occorre trasformarsi, trascendere la vita comune in una vita superiore. Essa misura esattamente la qualità e la realtà della vita individuale, di cui diviene privilegio inviolabile, e parte organica, al luogo di essere il concetto e la nozione che si può fare entrare nella testa come una cosa in un sacco, senza che contemporaneamente in ciò che si è si sia menomamente tenuti a trasformarsi od a smuoversi.
Da qui la naturale aristocrazia della Sapienza; da qui la sua decisa non-volgarizzabilità, non-comunicabilità. Un altro tabù degli Europei è appunto la comunicabilità: essi ritengono, ad un dipresso, che l'essere intelligibile e l'essere parlabile siano la stessa cosa. Non si accorgono che se ciò può aver senso nei riguardi di astrazioni intellettuali e di convenzioni sulla base di esperienze - quelle proprie ai sensi fisici — supposte uguali ad un dipresso in tutti, là dove questa uniformità cessa, là dove si riafferma una differenziazione qualitativa, la comunicatività discorsiva non può più essere un criterio.
Fondandosi precisamente sull'evidenza di esperienze in atto, di là da tutto ciò che è esperienza degli uomini comuni, la Sapienza lascia aperta soltanto una via: tentare di portarsi, per mezzo di un atto libero e creativo, allo stesso livello di colui che espone l'insegnamento, in modo da sapere per esperienza ciò che l'altro sa o dice con una parola, che altrimenti resterà soltanto parola. Alla socializzazione, spersonalizzazione e concettualizzazione del sapere, alla inclinazione democratica a «volgarizzare», a depotenziare il superiore ad uso dell'inferiore perché la maggioranza possa parteciparne senza smuoversi o cessare di essere inferiore - noi opponiamo intransigentemente l'attitudine contraria, aristocratica: debbono esistere gerarchie nello stesso sapere; debbono esistere molte verità separate tra loro da solchi profondi, vasti, invalicabili, corrispondenti esattamente a molte qualità di vita e di potenza, a molte distinte individualità; deve esistere una aristocrazia del sapere, e l'«universalità», comunicativamente, democraticamente ed uniformisticamente intesa deve cessare di essere un criterio. Non dobbiamo scendere sino a loro, ma loro sono tenuti ad elevarsi sino a noi dignificandosi, ascendendo sul serio - a seconda delle loro possibilità, lungo la gerarchla degli esseri - se vogliono partecipare delle forme superiori e metafìsiche, criterio a se stesse e alle inferiori e fisiche.
Donde risulta anche la libertà, il campo aperto, il respiro che lascia la Sapienza. Nel sapere socializzato vi è invece, e sempre, un nascosto «tu devi», vi è sempre una nascosta, intollerante imposizione moralistica: ciò che è verità «scientifica» o «filosofica» deve, in quanto verità, essere riconosciuta da ognuno; dinanzi a lei, non è permesso l'atteggiarsi diversamente. Espressione di un despotismo collettivo, essa vuole regnare dispoticamente su tutti gli individui rendendoli tutti uguali rispetto a lei - ed appunto sulla base di una tale volontà essa si è organizzata, ha costruito le sue armi, le sue prove, il suo metodo, la sua violenza. Nella Sapienza, per contro, l'individuo è disciolto, reintegrato, restituito a se stesso: ha la sua verità, che esprime esattamente e profondamente la sua vita, che è un modo particolare di sperimentare e di esprimere la realtà, il quale non contraddice od esclude altri modi diversi, che sono egualmente possibili nella differenziazione su cui si basa la gerarchla della Sapienza.
E questo basti per quanto riguarda la seconda radice del male europeo e il suo correttivo; già in questo cenno si giustifica il principio, che «debbono governare i sapienti». Nell'ordine della Sapienza la gerarchla del sapere è coestensiva alla gerarchla della forza e della superiorità degli individui. Il sapere è essere, e l'essere è capacità, e poter e, onde attrae spontaneamente a sé la dignità dett'Imperium. Il vero fondamento del concetto originario radicato nella Tradizione di «regalità divina» non fu nessun altro.
Di contro a ciò, ripetiamolo, vi è l'Europa tutta, con una eredità ed una organizzazione plurisecolari: vi è, dicemmo, il regno dei professori, degli «intellettuali», degli occhiali senza occhi, il mondo universitario, «colto», accademico, che nell'arrogarsi il privilegio del sapere e dello spirito testimonia soltanto a che grado abbiano potuto spingersi la decadenza e l'astrazione dell'uomo moderno.

Fenriz (POL)
23-05-06, 20:43
Religione e sesso

di Julius Evola

In ogni grande religione si possono distinguere due parti. La prima, che si può chiamare mistica o eterna, è rivolta verso l’alto, mira a stabilire un certo rapporto fra l’uomo e il modo spirituale, trascendente. La seconda parte la si può chiamare “sociale” o morale, e consiste in un complesso di norme per la condotta di vita. Mentre la prima parte è quella essenziale e forma il nucleo imperituro di ogni religione, la seconda è, in un certo modo accidentale e mutevole, perché risente sia delle diversità dei popoli e delle società, sia delle contingenze storiche.

Fare questa distinzione è importante, per orientamento generale, e altresì nell’interesse della stessa tradizione religiosa. Infatti essa impedisce che nei momenti di crisi, quando la critica mostra la relatività e la mutevolezza di certe norme e di certi precetti a cui era stata già attribuita l’assolutezza di una legge divina, tale critica vada a colpire anche la parte superiore, veramente rivolta verso l’alto, di una religione.

Questa premessa è necessaria per il problema al quale qui vogliamo dedicare qualche breve considerazione, cioè a quello della concezione del sesso propria alla religione venuta a predominare in Occidente. Tale concezione risente di una confusione di domini, che nel cristianesimo è caratteristica e che gli sforzi dei teologi sono riusciti ad ovviare solo in parte. Si tratta di una confusione fra le norme che hanno una finalità ascetica, e che come tali si rivolgono ad una piccola minoranza di vocati, e le norme che debbono invece valere pel mondo e per la gran massa. Se noi consideriamo altre religioni – fra le quali si può considerare l’Ebraismo, l’antica religione persiana, l’Islam, il Brahamanesimo – nei riguardi del secondo dominio sono state lungi dal predicare e a condannare tutto ciò che riguarda l’ordine naturale. Poiché qui la natura veniva concepita come opera divina, la legge data a coloro che vivono nel mondo mirava alla sacralizzazione di ogni attività, di ogni impulso e di og ni istituzione, cioè ad un riferimento verso l’alto che, in un certo modo, trasfigurasse e desse uno sfondo spirituale a tutto ciò che si fa. Quel che l’apologetica cristiana dice sul “paganesimo” delle religioni non-cristiane o pre-cristiane, attribuendo loro una soggiacenza a tutto quanto è “natura”, è semplice fantasia, essendo noto ad ogni studioso di scienza delle religioni che, in quei culti, riti e norme sacre accompagnavano ogni manifestazione della vita, sia individuale che collettiva. E ciò vale anche per tutto quanto ha attinenza col sesso e con la donna.

Nel cristianesimo, specie a quest’ultimo riguardo le cose sono andate diversamente. In esso è ben visibile che si è cercato di introdurre nella vita nel mondo norme, che hanno una validità e un senso unicamente sul piano ascetico. A voler indicare degli esempi, non vi sarebbe che l’imbarazzo della scelta. Così il precetto di amare il proprio nemico, di porgere l’altra guancia a chi vi ha schiaffeggiati, di non curarsi del domani e di imitare i fiori nei campi e gli uccelli del cielo, e via dicendo, fino a quegli spunti in cui certi cattolici di oggi in vena di “aperture a sinistra” hanno voluto vedere una giustificazione cristiana del pacifismo, del socialismo, se non dello stesso comunismo. Tutte queste norme possono valere in sede di disciplina per che abbia vocazioni ascetiche e per la “santità”, non certo per chi vive nel mondo. Con esse non si ordina una società, ma, semplicemente, si rende impossibile ogni società. E, in effetti, se sono esistiti Stati cristi ani, ancora non è esisti to nessuno Stato cristiano, cioè informato praticamente e rigorosamente ai principi sovramondani della morale evangelica. Ebben, la stessa cosa vale nei riguardi del sesso. Si può condannare il sesso, e porre come ideale la continenza, dal punto di vista ascetico. Fare di ciò una norma per la vita nel mondo, è invece un assurdo. Di nuovo, vi è confusione fra due domini distinti. In vari modi i teologi si sono sforzati di attenuare quel dualismo fra mondo naturale e mondo sovrannaturale che fu caratteristico nel cristianesimo delle origini. Ma nei riguardi del sesso si è rimasti in una posizione ibrida e paralizzante: il pregiudizio moralistico nei riguardi della sessualità, anzi una specie di “odio teologico” per essa (Pareto), la stretta relazione fra sessualità e peccato è una caratteristica mai perduta nella religione venuta a predominare in Occidente, la quale la mette in contrasto con le altre religioni creazionistiche dianzi ricordate. In effetti, come accennammo, queste si int esero a sacralizzare la sessualità, non a reprimerla e a bollarla a fuoco.

Spesso la funzione procreatrice fu da esse glorificata come un riflesso nell’uomo del potere creatore divino. Cosa che per ogni cristiano apparirebbe blasfema, l’Islam contempla invocazioni divine durante l’atto sessuale, l’antico Iran giunse a promettere grazie divine a che desse il massimo ardore nell’amplesso, note formule indù nell’unione dei sessi fanno intervenire simboli cosmici e sacri, e via dicendo. E ciò, a tacere di correnti, come il dionisismo, che all’estasi del sesso riconobbero possibilità mistiche. Si sa che lo stesso Platone mise il trasporto eros vicino a specie varie di entusiasmo divino, profetico e iniziatico.

Se dicessimo che di tutto ciò nel cristianesimo non si trova traccia, udremmo solo ribattere che esso conosce il matrimonio come sacramento. Ma proprio qui si vede l’ibridismo cui abbiamo accennato poco fa. Anzitutto il matrimonio come sacramento è cosa tardiva, nella tradizione cattolica. Prese questa forma solo verso il XIII secolo e fu obbligatorio come tale solo col Concilio di Trento. Ma, in più, il matrimonio è concepito dal cristianesimo come un pis aller, come un ripiego dovuto alla fragilità umana, perché come dice San Paolo, “è meglio prender moglie che ardere”. Se no, è la castità, l’astinenza, che è l’ideale: non il “Sacro connubio” ma il “casto connubio”. Che non si sa più che connubio sarebbe.

Ciò si conferma nell’idea, che l’unico fine del matrimonio sarebbe la procreazione, ossia quel di più naturalistico e di biologico presenta la sessualità: indulgere a questa per altro scopo, perfino fra coniugi, sarebbe peccato. Si vede perciò che il carattere di sacramento conferito al matrimonio non porta a nessun mutamento di piano, non dà – come nel già accennato orientamento delle antiche sacralizzazioni – dimensioni diverse, spirituali, all’esperienza sessuale presa in se stessa, la lascia tale e quale come una mera necessità della natura e ha alla fine, una portata sociale: sancisce il regime di una società trovatasi ad essere monogamica (anche qui si vede la relatività della parte puramente sociale e morale della religione, perché notoriamente l’Antico Testamento sanzionava la poligamia), cercando di rafforzarlo attraverso il principio della indissolubilità del matrimonio.

La consegna di tutto ciò è stato, nel mondo cristiano, un inselvatichimento per repressione di tutto quanto è proprio al sesso, con molta ipocrisia, finchè lo sbarramento è saltato. Così oggi si assiste ad una specie di scatenamento di tutto ciò che si lega a sesso e a donna, nel senso più primitivistico, pandemico e pericoloso. Per questo, delle revisioni dei rapporti fra spiritualità e sesso si impongono.



Da Il Popolo Italiano, 8 settembre 1957.

Fenriz (POL)
23-05-06, 20:44
L'equivoco del "nuovo paganesimo"



Recentemente a Vienna, in occasione di una intervista, un giornalista, cui era noto come noi già molti anni fa in Italia avemmo a difendere un "Imperialismo Pagano", ci disse che ormai la nostra ora, in un altro paese almeno, poteva dirsi venuta. Egli alludeva naturalmente alla Germania, alle corenti più o meno affiancate al nazismo, intese a creare un nuovo spirito religioso germanico e non-cristiano. Noi rispondemmo che il tempo, piuttosto, ci sembra venuto, in cui ci troviamo quasi costretti a dichiararci, se non cristiani, almeno cattolici.
In realtà, quello del "nuovo paganesimo" d'oltralpe è un grosso equivoco, chiarire il quale non può non offrire dell'interesse, sia per la cosa in sè, che, in una certa misura, appunto per un fatto personale di chi scrive. Noi infatti avemmo ad indicare il valore che la ripresa di alcune nostre grandi tradizioni precristane potrebbe avere per una ricostruzione in senso eroico, imperiale ed integralmente "romano" della nostra civiltà occidentale: ed oggi siamo ben lungi dal pensare diversamente che nel 1928, quando fra una certa sensazione uscí un nostro libro recante appunto il titolo Imperialismo Pagano. Senonché fra le idee da noi riprese, e ciò che viene oggi affermato in Germania come "nuovo paganesimo", esiste non solo una differenza, ma anche un'antitesi. Per cui - notiamolo di passata, e non senza riferimento alle dicerie di qualche interessato - se è vero che certe nostre opere trovano ora in Germania una risonanza maggiore che in Italia, altrettanto vero è però che una tale risonanza si riferisce assenzialmente ad ambienti dell'antica Germania conservatrice e per nulla alle nuove correnti pagane, con le quali insomma non abbiamo nessun rapporto, e con lo stesso fronte semi-ufficiale di Alfred Rosenberg.
Il Rosenberg tanto interesse dimostrava per noi quando credeva, per sentito dire e per l'equivoco, appunto, del termine generico "pagano", che fossimo sulla sua stessa linea, altrettanta frigidità sembra dimostrare ora che è venuto propriamente a conoscenza dei nostri veri punti di vista. I quali, se possono avere un'azione in Germania, è quella di mostrare la deformazione che molte idee, suscettibili di un significato superiore, hanno subíto in una adattazione avente per mira scopi puramente empirici e tendenziosamente politici.
Ma vediamo ora in che consiste propriamente ed oggettivamente l'equivoco del neopaganesimo nordico e proponiamoci di esaminare la quistione nel modo più impersonale: chiediamo venia a coloro che forse perferirebbero vederci usare le parole d'ordine oggi, a tale riguardo, più d'uso fra noi, ma ormai più o meno note a tutti.
Il primo punto da fissare è che la scelta del termine "pagano" per designare in genere visioni del mondo e tradizioni estranee ai quadri del cristianesimo è tutt'altro che felice, onde noi stessi ci rammarichiamo di aver precedentemente usato questa espressione. Paganus, infatti, è un termine essenzialmente dispregiativo se non ingiurioso, adoperato ad uso polemico dalla prima apologetica cristiana. Senonché non solo come termine, cioè come parola, bensí anche come contenuto e come concetto esiste un "paganesimo", che è una escogitazione polemica e che trova ben poco riscontro nel mondo pre-cristiano e non-cristiano quale veramente fu, prescindendo da periodi di palese decadenza. Per affermare e glorificare la nuova fede, una certa apologetica cristiana procedette ad una deformazione e ad una svalutazione spesso sistematica di quasi tutte le dottrine e le tradizioni precedenti, alle quali poi si fece corrispondere la designazione complessiva e dispregiativa di "paganesimo".
Orbene, noi ci troviamo di fronte più o meno al seguente paradosso: un tale "paganesimo" mai esistito, generato polemicamente dell'apologetica cristiana militante, minaccia proprio oggi di esistere per la prima volta, appunto per opera dei neopagani e degli anticristiani della nuova Germania.
Quali sono i tratti principali della visione pagana della vita, così come detta apologetica l'ha supposta e l'ha diffusa? Anzitutto: naturalismo. La visione pagana della vita avrebbe ignorato ogni trascendenza. Essa sarebbe rimasta in una promiscuità fra spirito e natura. Il suo limite, sarebbe stato una mistica delle forze naturali (é la vecchia storia della "Selva" opposta al "Tempio") e una divinificazione superstiziosa delle energie delle razze, allevate da altrettanti idoli. Da cui, in primo luogo, un particolarismo e un politeismo condizionato dalla terra e dal sangue. In secondo luogo, l'assenza del concetto di personalità e di libertà, uno stato di innocenza, che è semplicamente quello proprio agli esseri di natura, a coloro che ancora non si sono destati a nessuna aspirazione veramente sovranaturale. Di contro al determinismo e al naturalismo "pagano" sorge per la prima volta col cristianesimo un mondo della libertà sovramondana, cioè della grazia e della personalità; un ideale "cattolico", vale a dire, etimologicamente, universale; un sano dualismo, che permette la subordinazione della natura ad un ordine superiore, ad una legge dall'alto.
Questi sono i tratti principali, schematici, della concezione più corrente del paganesimo. Tutto quel che essa presenta di inesatto e di unilaterale, vi è appena bisogno di farlo rilevare a chiunque abbia, in fatto di storia delle civiltà e delle religioni, una conoscenza diretta anche soltanto elementare: e del resto già nei quadri della prima patristica - in un Origene, in un Clemente Alessandrino, in un Giustino, ecc. - assai spesso si dette prova di una comprensione assai maggiore dei princ“pi e dei simboli della precendente civiltà. Qui non possiamo mettere in risalto che qualche punto.
Anzitutto, ciò che caratterizzò il mondo non-cristiano in tutte le sue forme superiori, non fu una divinificazione superstiziosa della natura, bensì una comprensione simbolica di essa, per via della quale ogni fenomeno ed ogni azione apparì come la manifestazione sensibile di un mondo sovrasensible: la concezione "pagana" dell'uomo e del mondo abbe essenzialmente carattere simbolico-sacrale. In secondo luogo, il modo "pagano" di vita non fu per nulla una naturalistica licenza: nelle forme originarie e di alta tensione dell'antica Roma, dell'antica Ellade, delle antiche civiltà indogermaniche d'Oriente, ecc., non vi fu aspetto della vita, sia individuale che collettiva, che non fosse accompagnata, sorretta e animata da un rito corrispondente, cioè da una azione e da una intenzione spirituale concepite come oggettivamente efficaci. In terzo luogo, il mondo "pagano" conobbe già un sano dualismo: esso si ritrova non solo in grandi concezioni speculative - limitiamoci a nominare un Platone e un Çankara - ma altresì in visioni religiose generali, come quella antigonistica a tutti nota degli Indoeuropei dell'antico Iran, come l'opposizione ellenica fra le "due nature", come quella fra mondo degli Asen e mondo elementare degli antichi Nordici, o quella fra "via solare" e "degli Dei" e "via della terra", fra "vita" e "liberazione della vita" degli antichi indú, e via dicendo, in connessione a ciò, l'aspirazione ad una libertà sovrannaturale, cioè ad un compimento metafisico della personalità, fu comune a tutte le grandi civiltà precristiane, le quali conobbero tutte una "iniziazione" e celebrarono i loro "misteri".
L'innocenza naturalistica pagana è una tale favola, che essa non si ritrova nemmeno fra i selvaggi: quella forma che, per alcuni, sarebbe il suo limite, cioè l'ideale classico, non sta al di qua, ma al di là del dualismo fra spirito e corpo essendo l'ideale di uno spirito resosi così dominante, da plasmare interamente il corpo e l'anima a sua imagine, in perfetta corrispondenza di contenente e contenuto.
In quarto luogo, un'aspirazione universalistica è da constatarsi dovunque, nel mondo "pagano", nel ciclo ascendente di una razza superiore, si manifestò una vocazione all'impero: e una tale vocazione spesso fu anche metafisicamente potenziata e apparve come una naturale conseguenza dell'estensione dell'antica concezione sacrale dello Stato e come la forma propria in cui tende a manifestarsi una presenza vittoriosa del sovra-mondo nel mondo. A tale riguardo potremmo ricordare l'antica concezione iranica dell'impero quale "corpo" del "Dio di Luce", la tradizione indo-aria del "Signore Universale" o "çakravatri", e così via, fino a giungere alla teoria "solare" del tardo impero romano, il quale ebbe un contenuto rituale e sacrale nel culto imperiale, che si pose non come la negazione, bensí come la culminazione gerarchia unificatrice di un pantheon, cioè di una serie di culti condizionati della terra e dal sangue. E per moltiplicare rettificazioni del genere, senza un'ombra di tendenziosità vi sarebbe solo l'imbarazzo della scelta.
Colui che si rendesse ben conto di tutto ciò, e riconoscesse che è una pessima tattica difendere la propria tradizione discreditando quella degli altri, avrebbe facile modo di vedere la via per superare ogni unilateralezza dettata da spirito di parte, per dare ad ognuno il suo, per separare il positivo dal negativo, e dal contingente nelle varie forme storiche, ma soprattutto per venire ad una visione più completa, ad un punto di vista veramente universale, tale che ad esso possa davvero applicarsi l'assioma "cattolico" quod ubique, quod ab omnibus et quod semper. Si potrebbe cioè enucleare un corpo di principi, da dirsi "tradizionali" in senso eminente, perché essi apparirebbero, in fondo, anteriori e superiori - metafisicamente - a qualsiasi particolare di queste tradizioni o religioni. È su questo piano, e senza la minima animosità, con la fermezza, invece, che proviene dalla giusta visione, che si potrebbe poi anche procedere ad una revisione dei valori, sia nel senso di limitare o gerarchicamente subordinare la validità di alcune concezioni particolari, specificatamente ebraiche, del cristianesimo, sia nel senso di riportare alla loro giusta luce molti aspetti dimenticati di grandi tradizioni di un passato più remoto, anteriore al cristianesimo, per saggiare quali fra di essi, senza anacronismi, potrebbero eventualmente ancora oggi venir chiamati a vita e agire in modo creativo, non contro la Chiesa e il Cristianesimo, ma, se mai, di là dall'una e dall'altro, in una determinata èlite. Orbene, assolutamenta nulla di simile è da ritrovarsi nel neo-paganesimo germanico. Anzitutto, come dicevamo, e quasi cadendo in una trappola appositamente preparata, i neopagani finiscono col professare e difendre dottrine riducentesi più o meno al paganesimo fittizio, naturalistico, privo di luce, privo di trascendenza, vincolato dal sangue, pervaso da un misticismo sospetto, creato polemicamente proprio dalla dialettica dei loro avversari. Ma, come se ciò non bastasse, si ripete quell'opera partigiana di tacitamento degli aspetti superiori, di risalto degli aspetti contingenti o deteriori del cristianesimo e del cattolicesimo, che già era stata esercitata sul "paganesimo" vero, e, infine, si mette mano a sinistre concezioni di tipo prettamente moderno, illuministico e razionalistico, che già erano scese in campo contro la Chiesa e il cristanesimo sotto il segno - miracolo dei miracoli - del liberalismo, della socialdemocrazia e della massoneria.
Infatti, null'altro che questo può ravvisarsi, quando il nuovo paganesimo si dà all'esaltazione dell'immanenza, della "vita" e della "natura" creando una nuova superstiziosa religione che è nel più stridente contrasto con ogni superiore ideale "olimpico" delle antiche civiltà d'Oriente e d'Occidente e andando ad accusare in ogni dualismo ascetico un prodotto di degenerescenza antiariana inoculalto dalla razza levantina; quando nega ogni verità superiore alla razza e alla mistica della razza e non esita a mettere ogni concezione sovrannaturale del conoscere e dell'agire, e così anche il "sovrannaturalismo" cristiano e l'intera dottrina cattolica dei sacramenti e del miracolo, a carico delle superstizioni dell'"oscuro Medioevo" e della tattica di dominio dei preti per esaltare invece le "conquiste" proprie al cosiddetto libero esame e alle scienze profane moderne; quando riesuma le vecchie storielle anticattoliche circa l'inquisizione e la donazione costantiniana e si scandalizza di fronte a quella pretesa di infallibilità, che, in civiltà normali, sempre veniva tranquillamente riconosciuta a tutti coloro che fossero veramente pervenuti alla conoscenza metafisica; quando, verosimilmente sotto l'inconscia angoscia per orizzonti troppo vasti, nell'universalismo non sa vedere che una creatura del despotismo ebraico-romano letale per le nazionalità o un prodotto del caos etnico di un clima di decadenza, invece che una superiore unità gerarchia e una esigenza spirituale; quando, associando un fanatismo per la nazione di sapore alquanto giacobino col sospetto romanticismo dell'"eroismo tragico" e dell'"amore per il destino" esso da un lato ridesta a vita la mistica dell'orda primordiale, dall'altro fomenta una rivolta del potere temporale contro ogni autorità spirituale, fino al tentativo di ridurre la seconda ad una mera promanazione del primo.
Tutto ciò è sul serio "paganesimo" nel senso negativo desiderato dall'antica apologetica militante, ma, in più, è confusione, regressione, perdita di ogni vero orientamento, soggiacenza a suggestioni irrazionali e, infine, dilettantismo, fanatismo e incultura. Qualcuno, in Italia, ha trovato una espressione assai felice nel dire che, mentre il nazismo accusa il cattolicesimo di far della politica, la verità vera è che esso spesso fa della religione. Ciò è, in larga misura, vero. Il nuovo paganesimo è il prodotto di una trasposizione della politica nella religione, per cui perfino la religione si fa politica, laddove, nei tempi antichi si faceva religione. Esso, lungi dal rappresentare, come pretenderebbe, un ritorno alle origini, ci si presenta essenzialmente come una deformazione delle origini e come la risultante di elementi derivati esclusivamente della disgregazione anti-tradizionalistica moderne e, più propriamente, da questi tre elementi: dal pathos della "nazione" divinificata più o meno giacobinamente, dell'immanentismo naturistico moderno e infine di una attrezzatura di tipo razionalistico e scientista, la quale si ritrova, poi, nello stesso paradossale connubio con il misticismo, in ciò che è propriamente tecnica "razzista".
Certo, noi non vogliamo contestare che presso a tali elementi si agitino, nel fermento dell'ultima cultura tedesca, anche esigenze di diverso valore e per questo ci siamo astenuti dal riferimento a particolari autori: ma si deve in ogni modo constatare che il tono generale è dato dal "paganesimo" ora accennato e che è soprattutto in funzione di esso che si stanno formando, in Germania, nuovi miti, e che si esasperano gravi conflitti spirituali. Ma se cosi stanno le cose, dovendo uscire dalla neutralità di fronte ad un conflitto fra un nuovo paganesimo ed il cristianesimo, è evidente che ad onta di ogni buona volontà sarebbe impossibile schierarsi dalla parte del primo, specie poi se, più che non di cristianesimo in genere, si tratti di Cattolicesimo e di Chiesa cattolica. Se non altro, il Cattolicesimo può assolvere ad una funzione di sbarramento portatore di una dottrina della trascendenza, finché esso sussisterà, impedirà che la mistica dell'immanenza e le invasioni prevaricatrici dal basso si portino oltre un certo segno. Inoltre, si può essere simpatizzanti finché si vuole con una teoria del superuomo, negli aspetti in cui essa può riflettere i valori più virili dei periodi di alta tensione delle nostre più antiche civiltà; purtuttavia la stessa etica cristiana della rinuncia, del sacrificio e dell'umiltà viene ad avere una funzione ben precisa - la funzione di un necessario contrappeso - quando ogni dottrina dell'eroismo, dell'affermazione, della potenza e della virilità resti su di un piano affatto secolare, umanistico e materialistico come oggi quasi senza eccezione si vede accadere.
Questa rivista non è precisamente dedicata a menti non adulte, da non disturbare con punti di vista diversi da quelli della mentalità corrente e conformista. Perciò si può dire che secondo la prospettive di chi scrive il Cattolicesimo non si presenta come l'unico ed esclusivo portatore dei valori sopra accennati, e nemmeno come la dottrina nella quale un punto di vista integralmente "tradizionalista" può trovare una espressione completa ed inattenuata di tipo schiettamente metafisico.
Ma è evidente che di fronte a tendenze, per le quali, alle fine, il Cattolicesimo rappresenta già un "troppo" e per questo esse cercano di "superarlo", per fare, col ritmo di avanzata del gambero, in confusioni, deviazioni e soggiacenza alla forze meno intellettuali e meno controllabili del mondo attuale, è evidente che di fronte a tali tendenze è inutile riferirsi a tali più vasti orizzonti e far sì che, per un capovolgimento distruttivo, un punto di vista che potrebbe esser di "supertradizione" vada comunque a confortare e fomentare punti di vista, che sono semplicemente di antitradizione.

stuart mill
23-05-06, 20:52
ottimo, fenriz

Fenriz (POL)
23-05-06, 21:01
Julius Evola: la visione tradizionale della vita


e l’ideologia moderna

di Giandomenico Casalino


Ciò che distingue RADICALMENTE la nostra concezione di cultura, in senso lato, da quella dominante, che è illuministica e quindi razionalistica ed individualistica, è proprio il fatto che per noi la cultura è sostanzialmente VISIONE DELLA VITA E DEL MONDO (Weltanschauung) che è presente in un essere umano sin dalla nascita come potenzialità da sviluppare, come forma interna, come carattere, che non si acquistano sui libri (la nostra cultura non e libresca!...); essa è viva come la vita, è anima e sangue, è sesso e passione, è intelletto e sentimento, è il senso REALE del mondo, la sua visione concreta. E la cultura platonico-aristotelica, quindi è qualcosa che nessun “docente” insegnerà mai, è qualcosa che è necessario RICORDARE, perché l’uomo moderno (diciamo da Cartesio in poi...) ha DIMENTICATO. Che cosa è necessario ricordare? E semplice: ciò che le droghe ideologiche moderne hanno impedito di vedere alla nostra mente, al nostro spirito e al nostro occhio nonché di sentire ai nostri sensi (l’occhio per Platone quasi non è uno dei sensi ma la finestra dell’anima sul mondo); RICORDARE che il mondo e un intreccio, una tra ma di microcosmi e macrocosmi che hanno TUTTI lo stesso ordito, cioè la stessa legge, lo stesso LOGOS, che è la FORMA, tanto nell’infinitamente piccolo, quanto nell’infinitamente grande (dalla galassia all’atomo, dalla cellula all’organismo, tanto animale quanto vegetale e minerale). La Forma è quello che i Greci chiamavano COSMO, cioè la luminosità vivente dell’armonia, dell’equilibrio, dell’ordine del BELLO che, proprio perché nella luce, sono visibili e riconoscibili dall’uomo che, essendo un Dio mortale, è l’unico ad avere la capacità di vedere la Forma che è lo spirito che illumina e rende visibili le cose del mondo, gli enti, che sono tutti REALI, tanto quelli concreti e visibili quanto quelli astratti ed invisibili. Allora il mondo è l’insieme vivente ed organico, cioè necessariamente legato, degli Dei, degli Eroi, dei Demoni, delle Potenze dell’Anima del Mondo, che sono quelle stesse potenze che attraversano l’anima dei viventi; èl’insieme delle piante, delle genti, degli animali, degli uomini e delle donne. “Noi siamo immersi nell’Anima, come la rete nel mare”, dice Plotino; “Tutto è pieno di dei”, dice Talete. Tutto ciò o lo si ricorda, come affermano Platone ed Evola, oppure è vano anche parlarne. Pertanto non tratterò di un pensatore, perché Evola non è il filosofo nel senso moderno del termine, cioè l’ideologo astratto che crea dal niente mondi irreali (la società liberale, marxista...) ma dirò qualcosa di ciò che Egli, ultimo testimone di quella visione del mondo che è reale e normale, ha inteso farci ricordare. E da dire che tale visione del mondo, essendo la visione tradizionale tipica dell’uomo che è nella norma, cioè nell’ordine, è qualcosa che è intima all’umanità e ciò da SEMPRE, e quindi è una visione che avendo per soggetto l’intelletto visivo e per oggetto la Forma, cioè lo Spirito che sono Eterni, è essa stessa al di fuori del tempo e dello spazio! Può essere presente in una civiltà collocata nel passato, come nel presente o ripresentarsi in un futuro prossimo o remoto. “Tutto ciò che è in basso è simile a tutto ciò che è in Alto e tutto ciò che è in Alto è simile a tutto ciò che è in basso, per fare il Miracolo della Cosa Una”, insegna la Tavola Smeraldina, antico testo alchemico, e vuol dire che il microcosmo, cioè l’uomo, la Comunità degli uomini, il mondo terrestre, sono e devono essere simili al macrocosmo, cioè all’Universo, la Comunità Divina degli Astri e dei Pianeti, nonché delle Galassie, perché tutto ciò è il Miracolo dell’Unità: UNIVERSO= VERSUS UNUM= che va verso l’Uno. Allora se l’Universo che noi vediamo è il Cielo luminoso, dove la luce che è la Vita e la Conoscenza, l’Ordine del tempo e dello spazio, è il Principio, anche sulla terra deve essere così! Noi dobbiamo IMITARE, per quanto sia possibile, quell’Ordine, afferma l’uomo della Tradizione, per la semplice ragione che quanto più il mondo degli uomini, la Comunità politica, si avvicina all’ordine cosmico che è eterno da sé e per se, tanto più la stessa Comunità politica si avvicinerà all’eternità come tensione e modello. Pertanto i principi su cui si regge la società tradizionale sono Autorità, Ordine, Giustizia e Gerarchia, che sono gli stessi che governano il Cielo luminoso, imovimenti dei Pianeti e degli Astri, mediante Amor che muove il Sole e le altre stelle, come insegna Dante. L’uomo, Stato in piccolo, deve essere governato, illuminato, dalla Mente, voùς, dicevano i Greci, intellectus, i Latini; che è il Sole dell’uomo ed è la sfera dell’ordine GIURIDICO-RELIGIOSO che FORMA, cioè dà la FORMA all’ordine POLITICO che è l’insieme organico degli uomini, tanto i vivi quanto i morti, aventi il medesimo Destino, cioè un mandato sacro che proviene dal Divino e che quegli uomini devono riconoscere ed attuare, come Ordine degli Dei. Ed è l’Impero, la Res Publica, che noi traduciamo impropria­mente con la parola moderna Stato. Questo è l’Ordine virile, paterno, solare, ma vi è anche il cielo stellato ed illuminato dalla Luna, che è l’Ordine femminile, la luce tenue e delicata, fredda e non propria che governa la dimensione del sesso e che tramite la potenza dell’Eros coniuga i due mondi; ed è la sfera della riproduzione e della maternità, della economia (òikoς vòμoς = LEGGE DELLA CASA), della conservazione delle provviste, della produzione dei beni e della ricchezza. Re divino, guerrieri e contadini-operai (Jupiter — Mars —Quirinus). Ordine economico e moneta, competenza del principio femminile sono governati dal principio solare e paterno della mente, tanto nell’uomo quanto nella Comunità degli uomini. La parola CAOS è di origine greca ed i greci volevano significare l’apertura, l’antro oscuro ed umido, il “mundus” dei Romani che è la porta per transitare nel mondo dei Mani, cioè gli antenati come giacimento di ricchezza di Vita in senso liberato; ora nell’antro, nella caverna, nel CAOS che non ha forma poiché è scuro e non visibile, perché non vi è la luce, entra il raggio del Sole che è l’organo del Disco Aureo ed è il principio verti­cale, come la lancia di Marte, come l’Obelisco, ed illumina l’antro, la caverna, generando la Forma, il COSMOS, l’Ordine; ed è l’atto sessuale come impronta impressa nella morbida cera; questo è il Miracolo dei due mondi gerarchicamente complementari per fare la Cosa Una. Autorità deriva dal verbo latino AUGERE (donde auctor, augur, auguratus, augustus...) che ha il significato di dare, donare, accre­scimento, aumento di forza, di virtus, di potenza di legittimazione e quindi di rapporto con il Divino ed essa è il cardine intorno al quale ruota la Civiltà Tradizionale. Il fine ultimo dell’Ordine Politico, la SOLA ragione per cui esiste è quella di ricondurre l’uomo, per mezzo della Legge, e quindi del rito giuridico-religioso,quanto più è vicino possibile al Cielo verso Juppiter, attraverso l’Autorità che stabilisce le sfere di «maiestas», cioè di competenze, di “honores” ed è la Gerarchia naturale dei corpi sociali (corporativismo), attribuendo ad ognuno il suo (unicuique suum tribuere); ciò realizza l’Armonia, l’Ordine della Giustizia, cioè il Bene Comune dell’intero organismo, che è un insieme di corpi sociali legati dal rapporto funzionale ed organico, proprio come l’organismo dell’uomo, della pianta o dell’Universo. Allora l’Ordine politico-giuridico-religioso, la sfera superiore, è il Pedagogo, l’Educatore, cioè l’Autorità che “e-duca”, cioè “conduce da”: dal basso verso l’Alto; la società tradizionale ed organica governata dall’Alto ed indirizzata verso l’Alto è la forma occidentale e romana del socialismo patriottico ed antimaterialista che aborrisce l’individuo ma difende e forma la persona, poiché la sua linfa vitale, il sangue che scorre nelle sue vene è la visione eroica e spirituale della vita e del mondo. E la nostra Tradizione, quello da cui proveniamo e che ancora portiamo dormiente dentro di noi: e la trasmissione, la consegna (traditio...) elleno-romano-germanica, è la POLIS greca, microcosmo ad immagine del Mondo degli Dei, sono Platone, Aristotele e Plotino eredi altrettanto guerrieri dell’epos eroico di Omero e della sua società aristocratica; è il Miracolo, il Mistero di Roma che realizza l’Ordine per mezzo della Giustizia (con il consenso sincero e duraturo sino a divenire Mito di sterminati popoli che si riconosceranno nella Romanità e diverranno romani pur non dimenticando le loro radici...). Roma diviene da città Mondo, il macrocosmo, l’Impero senza fine e limite nel tempo e nello spazio, l’Impero Eterno, perché creato ad immagine di quello di Giove Ottimo Massimo; è la restauratio Romani Imperii del cosiddetto Medioevo, è il Mito delle genti germaniche, dagli Ottoni a Federico Il sino a Dante: la Res Publica cristianorum non può che essere la prosecuzione della veneranda antica Res Publica pagana. Tutto ciò, in termini contemporanei, si è tradotto nel grande tentativo, l’ultimo, operato dal Fascismo, come fenomeno epocale europeo e come generale stato d’animo e visione del mondo o complesso dl Idee senza parole, di ripensare in termini Mitici e Simbolici il mondo, di ritornare, cioè di fare una RIVOLUZIONE e quindi di REVOLVERE (compiere l’intero giro per tornare al punto di partenza... come i pianeti...) ai principi della nostra Tradizione. Il Fascismo volle, pertanto, realizzare lo Stato Organico e quindi Corporativo, dice Evola, Corpi sociali gerarchicamente ordinati e rappresentati che si autogovernano nell’ambito della produzione dei beni; si affermava che l’iniziativa nella produzione degli stessi può essere o pubblica o privata, poiché ciò è un fatto puramente tecnico e non politico (come vuole l’individualismo liberale o il collettivismo marxista); è l’Ordine Politico-etico che DECIDE POLITICAMENTE secondo la sua visione dei FINI, quale STRUMENTO sia più adatto in quel momento storico alla produzione della ricchezza (la Dichiarazione VII della Carta del Lavoro del 21 aprile 1927 parla di STRUMENTO...), se sia quello dell’iniziativa privata o pubblica, che, comunque, nella visione organica della società che ha il Fascismo, hanno sempre una finalità pubblica ed una funzione sociale, cioè per il bene di tutti i cives. Anzi il concetto autonomo e sovrano di economia (tipico delle ideologie astratte e disumane del liberalismo e del marxismo) scompare e la stessa economia è intesa come politica economica, cioè come appendice della sfera d’influenza e di governo dell’Ordine Politico e non più come la sacra scienza neutra e metafisicamente vera e quindi valida per tutti nonché politicamente sovrana, che è il concetto liberal­marxista dell’economia, ed è poi quello odiernamente dominante come ideologia del mercato quale collante del pensiero unico liberista tecnocratico. Nel Fascismo riappare pertanto il sano principio delle società tradizionali e cioè delle Comunità che si differenziano dalle società (vedi F. Tònnies) proprio perché l’economia come categoria autonoma del pensiero non esiste ed è intrecciata nella trama sociale insieme al giuridico-religioso e quindi al Politico (vedi a tal proposito gli studi fondamentali di Karl Polanyi). Secondo la dottrina del NAZIONALSOCIALISMO, il popolo misura il valore dei beni prodotti da esso stesso con la moneta che è di sua proprietà (nella Res Publica Romana è il Senato che conia la moneta e nell’Impero è il Principe, e sono ambedue organi esecutori della volontà del Popolo Romano), accettata convenzionalmente da tutto il Popolo, come simbolo della misurazione del Valore degli stessi beni prodotti; (Aristotele nell’Etica Nicomachea definisce la moneta “NOMISMA” cioè fatto del NÒMOS cioè della legge, quindi convenzionale). Pertanto la Sovranità, anzi la Majestas del Popolo non può rinunziare alla sua moneta ed al diritto di coniarla o stamparla cedendola al banchiere, che eserciterà, come esercita, tale diritto per i suoi fini di lucro... (vedere al riguardo R. Dubail, L’ordinamento economico nazionalsocialista, Ed. del Veltro). Nella stessa azienda il Fascismo tende a rinnovare e restaurare, mediante la disintossicazione dai veleni capitalistici e marxisti cioè materialisti, l’antico senso feudale della Comunità di uomini e donne, legati da un progetto comune alla cui gestione politica partecipano tutti; ognuno nel rispetto delle proprie competenze e gerarchie; il denaro finalizzato a creare altro denaro (investimenti puramente finanziari) non può avere la direzione politica dell’azienda che spetta alla stessa, quale piccola corporazione, e, salendo nella gerarchia della comunità, ai vertici dell’Ordine politico: la gestione politica dell’azienda spetta a chi produce e non a chi non partecipa al processo produttivo, ne è estraneo e si limita ad investire il suo denaro con finalità di lucro, a costui andrà solo il suo giusto profitto (dice S. Tommaso). In sostanza è lo stesso principio che nell’ordine dello Stato non può consentire al mercante di decidere i destini della Nazione e del Popolo (cosa odiernamente di normalissima accezione...). Essendo la nostra tradizione di natura europea ed il Fascismo fenomeno altrettanto europeo, esso pensò che anche la stessa Europa può salvarsi dalla rovina materialistica ed edonistica solo mediante la restauratio Imperii, tornando all’unitotalità del Principio spirituale forte proprio perché tale, intorno al quale ruotano liberamente ed organicamente le città, le nazioni come imitazione dell’impero di Augusto quale ordinamento sovranazionale. Possiamo, giunti a questo punto, evidenziare “a contrario” i caratteri essenziali dell’uomo moderno. Il grado di differenziazione massima nei confronti delle società tradizionali ed organiche risiede nei fatto che l’uomo moderno è individuo! Egli nasce tale, nel momento in cui, alla fine del Medio Evo, per un insieme di cause di cui qui non possiamo trattare per ovvie ragioni di spazio, diviene sempre più “atomo”, nel significato di soggetto che non riconosce più alcun modello trascendente nè alcun legame sociale, politico o religioso, non tollera pertanto di essere parte necessaria di un organismo unitario sia esso la società politica o l’ordine naturale, non ha più tradizioni comuni con i propri simili che pur vivono ed operano insieme ad esso nella stessa città. Non pensando più la società in termini olistici, cioè come totalità organizzata, ma come semplice somma di parti, si “libera” da ogni vincolo che sia quello della Corporazione di Arti e Mestieri o quello derivante dal riconoscere la superiore autorità Imperiale o Papale, anche in tema di liberalizzazione dell’attività economica. L’uomo moderno non privilegia più la terra, le sue leggi e i suoi beni, ma inizia ad accumulare ricchezza mobile sviluppando sempre più un atteggiamento psichico mercantile: si passa così dalla progressione naturale finalizzata, in economia pre-moderna, al solo soddisfacimento dei bisogni necessari e cioè Merce-Denaro-Merce a quella tipica dell’accumulazione capitalistica che è Denaro-Merce-Denaro, dove nella prima la finalità è la merce, cioè i beni reali, nella seconda è il denaro, ed è la differenza radicale tra economia reale e finanziaria ed attualmente prevale in modo mostruoso la sola dimensione finanziaria. Tale individuo, facente parte di una folla solitaria di altrettanti individui, comincia a pensare che, se non vi sono «cose» comuni che legittimino lo stare insieme formando NATURALMENTE una comunità, allora le stesse non sono mai esistite e quindi la società politica ha un’unica origine che è della stessa natura di quell’impulso egoistico che lo spinge a contrarre legami pur necessari con altrettanti individui: ed è nato così il pensiero dell’origine contrattuale della società politica e non naturale come da sempre si era pensato e creduto. Cioè scompare la coincidenza necessaria tra microcosmo (società organica degli uomini) e macrocosmo (ordine universale) e la società politica viene pensata non più come imitazione dell’ordine universale, ma come frutto delle ideologie umane. Ciò significa che, si comincia ad immaginare che, come l’individuo per tutelare un suo attuale interesse o per realizzare un suo potenziale utile ha necessità di stipulare un contratto, così gli uomini, per difendersi dai pericoli comuni o per tutelare i loro interessi, in tempi remoti, hanno CONTRATTUALMENTE deciso di riunirsi in una società che ha dovuto accettare l’autorità imperativa dello Stato, considerato però come «male necessario” stante la supposta natura dei contraenti derivante dal “principio”: «Homo homini lupus». Tale autorità politica, però, ritiene l’uomo moderno, non deve interferire nella sfera dei suoi interessi, sempre più dominati dall’etica dell’utile quale misura di tutte le cose nonché dalla convinzione che è l’uomo creatore del proprio destino e non più alcuna divinità nè legge nè tantomeno tradizione comune. Ragion per cui egli creerà un suo diritto che è il giusnaturalismo individualistico, razionalistico ed immanente, avente due sole finalità, la prima: difenderlo da quel “male necessario”, che è sempre un potenziale nemico, tollerato, pertanto, a malapena; la seconda: è quella di riconoscere, codificare e quindi tutelare, con un’aura di «sacralità”, il suo moderno concetto del diritto di proprietà, non avente più alcuna funzione pubblica, nè sociale, nè politica come era riconosciuto in ogni forma di società tradizionale, ma solo quella di essere in fin dei conti la proiezione materializzata del suo unico ideale di vita, ragione stessa del suo frenetico operare: la ricchezza ed il lusso, frutti della sua nuova religione che è il cieco lavoro materializzato e quindi non più elevato ad Arte nel senso antico del termine; nonché della sua etica dell’accumulo monetario. Pertanto, si può sinteticamente affermare a livello di storia complessiva delle idee del mondo moderno, che esso è una progressione evidente di sovversioni che gradualmente hanno scardinato l’ordine tradizionale esistente: la prima è il Protestantesimo che è rivoluzione religiosa, la fondamentale, che distacca infatti l’uomo religioso dalla superiore autorità, lo isola, lo autorizza alla «libera” interpretazione dei testi ma, cosa ancor più rilevante, benedice la sua ricchezza riconoscendo l’attività economica coronata da successo come “segno” di benevolenza divina; poi sopraggiunge la seconda inevitabile fase, dopo quella religiosa, che è quella politica (infatti dopo Dio viene il Re...!) dell’Illuminismo e della rivoluzione dell’89, per proseguire in questo secolo con la rivoluzione bolscevica del ‘17, che è la sovversione sociale cioè dell’ordine naturale della società; mentre è in corso la più radicale delle sovversioni che è quella dei sessi, della manipolazione genetica e dello stesso organismo umano (donazione).

stuart mill
23-05-06, 21:09
fenriz, un unico appunto: potresti cercare di suddividere i messaggi più lunghi? così agevoleresti la lettura e lo scorrimento del forum.
So che è una cosa pallosa, ma lo faccio pure io per evitare i problemi di cui sopra, grazie

Fenriz (POL)
24-05-06, 18:08
fenriz, un unico appunto: potresti cercare di suddividere i messaggi più lunghi? così agevoleresti la lettura e lo scorrimento del forum.
So che è una cosa pallosa, ma lo faccio pure io per evitare i problemi di cui sopra, grazie
ok
provvederò per iprossimi messaggii

stuart mill
24-05-06, 18:38
ok
provvederò per iprossimi messaggii

grazie. So che è una cosa fastidiosa, ma è più semplice per tutti leggere, quotare etc

stuart mill
25-05-06, 10:35
J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno È più o meno noto che mentre l’uomo moderno ha creduto e, in parte tuttora crede al mito dell’evoluzione, le civiltà antiche quasi senza eccezione e perfino le popolazioni selvagge riconobbero invece l’involuzione, il graduale decadere dell’uomo da uno stato primordiale concepito non come un passato semiscimmiesco ma come quello di un’alta spiritualità.

La forma più nota di tale insegnamento è il mito di Esiodo circa le quattro età del mondo – dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro – le quali corrispondono a gradi successivi dell’accennata discesa o decadenza. Del tutto analogo è l’insegnamento indù circa gli yuga, cicli complessivi e successivi che sono ugualmente in numero di quattro e che da una “età dell’essere” o “della verità” – satya yuga – vanno fino ad una “età oscura” – kali yuga. Secondo tali tradizioni, i tempi attuali corrispondono all’epicentro proprio di quest’ultimo periodo: noi ci troveremmo nel bel mezzo della “età oscura”.

Benché la formulazione di tali teorie sia antichissima, di fatto i caratteri previsti per “l’età oscura” corrispondono in modo abbastanza sconcertante alle caratteristiche generale dei tempi nostri. Se ne può giudicare da alcuni passi che traiamo dal Vishnu-purana, testo che ci ha conservato gran parte del tesoro delle antiche tradizioni e degli antichi miti dell’India. Noi ci siamo limitati ad aggiungere, fra parentesi, alcune delucidazioni e a sottolineare le corrispondenze più evidenti.

Per incominciare:

“Razze di servi, di fuori casta e di barbari si renderanno padroni delle rive dell’Indo, del Darvika, del Candrabhaga e del Kashmir... I capi che regneranno sulla terra, come nature violente... si impadroniranno dei beni e dei loro soggetti. Limitati nella loro potenza, i più sorgeranno e precipiteranno rapidamente. Breve sarà la loro vita, insaziabili i loro desideri ed essi quasi ignoreranno cosa sia la pietà. I popoli dei vari paesi, ad essi mescolandosi ne seguiranno l’esempio.” (Si tratta di quelle nuove invasioni barbariche con conseguente immissione del virus del materialismo e della selvaggia volontà di potenza propria all’Occidente moderno in civiltà ancora fedeli e millenarie, sacre tradizioni. Tale processo, come si sa, in Asia è in pieno sviluppo).

“La casta prevalente sarà quella dei servi” (epoca proletario-socialista: comunismo). “Coloro che posseggono diserteranno agricoltura e commercio e trarranno da vivere facendo servi o esercitando professioni meccaniche” (proletarizzazione e industrializzazione).

“I capi invece di proteggere i loro sudditi, li spoglieranno e sotto pretesti fiscali ruberanno le proprietà alla casta dei mercanti” (crisi della proprietà privata e del capitalismo, statizzazione comunista della società).

“La sanità (interiore) e la legge (conforme alla propria natura) diminuiranno di giorno in giorno finché il mondo sarà completamente pervertito. Solo gli averi conferiranno il rango. Solo movente della devozione sarà la preoccupazione per la salute fisica, solo legame fra i sessi sarà il piacere, sola via al successo nelle competizioni sarà la frode. La terra sarà venerata solo per i suoi tesori minerali” (industrializzazione ad oltranza, morte della religione della terra). “Le vesti sacerdotali terranno il luogo della dignità del sacerdote. La debolezza sarà la sola causa dell’obbedire (fine degli antichi rapporti di lealismo e di onore). “La razza sarà incapace di produrre nascite divine. Deviati da miscredenti, gli uomini si chiederanno insolentemente: “Che autorità hanno i testi tradizionali? Che sono questi Dei, che è la casta detentrice dell’autorità spirituale? (Brahmana)”. “Il rispetto per le caste, per l’ordine sociale e per le istituzioni (tradizionali) verrà meno nell’età oscura. I matrimoni in questa età cesseranno di essere un rito e le norme connettenti un discepolo ad un maestro spirituale non avranno più forza. Si penserà che chiunque per qualunque via possa raggiungere lo stato di rigenerati (è il livello democratizzante delle pretese moderne della spiritualità) e gli atti di devozione che potranno ancora esser eseguiti non produrran no più alcun risultato. Ogni ordine di vita sarà uguale promiscuamente per tutti” (conformismo, standardizzazione). “Colui che distribuirà più danaro sarà signore degli uomini e la discendenza familiare cesserà di essere un titolo di preminenza” (superamento della nobiltà tradizionale). “Gli uomini concentreranno i loro interessi sull’acquisizione, anche se disonesta, della ricchezza. Ogni specie di uomo si immaginerà di essere pari ad un brahmana” (pretese prevaricatrici della libera cultura accademica; arroganza dell’ignoranza). “La gente quanto mai avrà terrore della morte e paventerà l’indigenza: solo per questo conserverà forma (un’apparenza) di culto. Le donne non seguiranno il volere dei mariti o dei genitori. Saranno egoiste, abiette, discentrate e mentitrici e sarà a dei dissoluti che si attaccheranno. Esse diventeranno semplici oggetti di disfacimento sessuale”.

Se l’attualità di tale profezia del Vishnu-purana ha tratti difficilmente contestabili, per il significato complessivo di esso bisognerebbe aver un senso del punto di riferimento, ossia di ciò che sarebbero state le origini, lo stato da cui via via l’umanità sarebbe decaduta. Ma che significato oggi potrebbero avere, per i più, termini come “età dell’essere” e “età dell’oro”? Purtroppo si ridurranno a semplici, vuote reminiscenze mitologico-letterarie.

Nel testo in questione varrebbe la pena di notare due motivi ulteriori che mitigano alquanto le tetre prospettive dell’età oscura. Vi accenneremo soltanto. Il primo è l’idea che chi, essendo nato nel Kali-yuga, malgrado tutto sa riconoscere i veri valori e la vera legge, raccoglierà frutti sovrannaturali difficilmente raggiungibili in tempi più facili. “Pessimismo eroico” direbbe un Nietzsche e questa idea non è estranea allo stesso cristianesimo. Il secondo punto è che lo stesso Kali-yuga, per rientrare in uno sviluppo ciclico cosmico più vasto, avrà esso stesso una fine. Per via di un fatto non semplicemente umano si produrrà un mutamento generale. Ne seguirà una specie di rigenerazione, un nuovo principio. Speriamo che sia così e soprattutto che, prima, non si debba giungere proprio sino in fondo alla china, con le delizie che “l’era atomica” ci riserva.


Julius Evola


Da Il Roma, 14 gennaio 1954.

Trascrizione di "Federico Barbarossa".

stuart mill
27-05-06, 19:48
EVOLA PITTORE TRA FUTURISMO E DADAISMO Giulio Cesare Evola, che ha sempre dimostrato attitudine per il disegno e che si accinge ad iniziare presso l’Università di Roma gli studi di Ingegneria, che non porterà mai a termine, appena diciassettenne, si accosta al mondo dell’arte d’avanguardia, incuriosito dalle manifestazioni futuriste che, aldilà dei clamori e degli scandali sollevati tra i “benpensanti” di anguste vedute, si concretizzavano a Roma in mostre di respiro perfino internazionale, presso la Galleria Sprovieri. Si aggregò alla pattuglia di giovani artisti - Prampolini, Depero, Marchi, i due fratelli Ginanni Corradini - che s’incontravano nello studio di Giacomo Balla. Di quest’ultimo, figura centrale della vita artistica romana nel primo quarto del secolo, Evola fu, come ha scritto Crispolti, “praticamente allievo”[1]. Quanti hanno letto l’autobiografia intellettuale evoliana, Il cammino del cinabro, sanno come il futuro autore di Rivolta contro il mondo moderno prendesse presto le distanze dal movimento marinettiano, da cui l’allontanavano lo stile comportamentale (“In esso mi infastidiva il sensualismo, la mancanza di interiorità, tutto il lato chiassoso ed esibizionistico, una grezza esaltazione della vita e dell’istinto curiosamente mescolata con quella del macchinismo e di una specie di americanismo, mentre, per un altro verso, ci si dava a forme sciovinistiche di nazionalismo”)[2], e soprattutto, appunto, l’acceso piglio interventista contro gli Imperi Centrali che, nonostante l’età giovanissima e la generalizzata infatuazione nazionalistica del tempo, Evola avvertiva come l’antemurale della vecchia Europa, delle sue tradizioni, del suo primato mondiale (Evola rammenta come Marinetti, avendo letto un articolo del giovane amico in cui erano esposte più o meno queste idee, gli replicasse: "Le tue idee sono lontane dalle mie più di quelle di un esquimese”).[3] Eppure, in un primo periodo, circoscrivibile al quadriennio 1915-1918, Evola fu fortemente influenzato dal dinamismo plastico futurista e, in modo particolare, dalla ricerca di Balla, non senza suggestioni di spiritualismo orfico, destinate ad avere in lui successivamente una decantazione in chiave alchemico-magica. Appartengono a questo primo periodo futurista (da Evola stesso definito dell’“Idealismo sensoriale”) opere come il celebre, e splendido nella sua cromia vivacissima, Mazzo di fiori e, sempre stilisticamente assai coerenti, Feste, Fucina - studio di rumori, Five o’ clock tea, Sequenza dinamica, Truppe di rincalzo sotto la pioggia (davvero uno straordinario acquerello, quest’ultimo). Se possibile, ancor più originale e significativa si configura la seconda fase della pittura evoliana, che lo stesso artista definì dell’“Astrattismo mistico”, e che copre il triennio 1918-1921. Scompare adesso ogni referente figurale e, si comprende meglio, a questo punto, l’importanza di Balla che, in pratica, aveva introdotto nel repertorio pittorico futurista, che era sostanzialmente figurale e che tale rimane anche nel dopoguerra - basti pensare all’aeropittura - la dimensione astratta, suscitando la diffidenza di Boccioni.

stuart mill
27-05-06, 19:49
È, per Evola, il tempo della partecipazione al Dadaismo, di cui egli può essere oggi considerato il maggior esponente italiano; periodo in cui si delineano affinità con l’impianto del costruttivismo purista e dove appare tutto un elaborato repertorio di forme astratte, dalla chiara allusività simbolica, restando sempre marcato il cromatismo, come nel periodo futurista. Ma non si possono altresì, negare neppure suggestioni della Secessione viennese, ravvisabili nell’uso di vernici metalliche, soprattutto argentate. Occorre tener presente che la linea di discrimine tra i due momenti della pittura evoliana non è nettamente tracciabile: per l’artista dovette infatti trattarsi di un periodo di concitato apprendistato tecnico e intellettuale; ed anzi sorprendono il livello qualitativo (nei momenti di vertice, realmente eccezionale) e la rapidità di maturazione del giovanissimo artista, rivelati dai dipinti giunti fino a noi. Che sono - prescindendo dalle tarde repliche degli anni Sessanta e dai pochi dipinti di nuova ideazione, eseguiti negli anni Sessanta e Settanta - una quarantina. Molto dovette andar smarrito, specie tra prove e tentativi; e qualcosa deve, con ogni probabilità, essere ancora rintracciato. La fase dadaista si articola in un ristretto repertorio tematico, i Paesaggi interiori, le Astrazioni, le Composizioni e i Paesaggi dada, ed indica una sorprendente sintonia col più avanzato quadro internazionale, nonché l’assunzione di coordinate dell’Avanguardia mitteleuropea che rinviano alle ricerche coeve di Schad e di Arp, di Richter e di Itten. Sappiamo che Evola entrò in contatto con il gruppo dadaista zurighese già nel 1918, e che fu in corrispondenza almeno con Tzara, Arp, Schad. Purtroppo l’archivio evoliano è andato quasi completamente disperso; di sicuro esistono le importanti missive di Evola nell’archivio Tzara a Parigi, pubblicate qualche anno addietro da Elisabetta Valento, seppure nella sola traduzione italiana[4]. Altri documenti dadaisti evoliani erano conservati nell’archivio di Hans Richter, poi riversati in archivi pubblici tedeschi. Cronache giornalistiche del tempo e qualche catalogo, divenuto nel tempo prezioso cimelio, c’informano dell’attività espositiva di Evola che, nei pochi anni in cui questi si dedicò alla pittura, fu tutt’altro che clandestina e marginale: una personale da Bragaglia, a Roma, nel 1920: un’altra a Berlino, l’anno seguente, nella celeberrima galleria “Der Sturm” di Erwart Walden; sempre nel 1921, un “trittico” dadaista, con Fiozzi e Cantarelli, da Bragaglia; nonché la partecipazione alle tre grandi collettive, quella futurista del 1919 a Palazzo Cova a Milano, la mostra internazionale d’arte d’avanguardia a Ginevra (1920-1921), e il “Salon Dada” a Parigi (1922). Senza, d’altronde, dimenticare il grande murale di cinque metri per tre, con cui Evola aveva collaborato alla decorazione del cabaret “Grotte dell’ Augusteo” (1921).

stuart mill
27-05-06, 19:49
L’attività pittorica non esaurì l’impegno evoliano in campo dadaista e, in senso più lato dell’avanguardia. La collaborazione alle riviste "Bleu" e "Noi", le plaquettes poetiche Raâga-Blanda e La parole obscure du paysage interieur, il lucidissimo saggio Arte astratta, articoli e conferenze integrano ed introducono i quadri.[5] Benché Evola si collocasse in un ideale filone "costruttivo" del Dadaismo, evitandone quindi il versante eversivo e nichilista, egli aveva però chiarissimo il significato ultimativo del movimento fondato da Tzara. Al punto da rendere di ardua comprensione la conciliabilità in una sola persona, seppure sulla base di un complesso itinerario intellettuale, di colui che teorizza l’azzeramento dell’espressione estetica, e del celebre interprete dei valori della Tradizione. Fatto sta che, nel 1921, Evola decise di dare irrevocabilmente l’addio a pennelli e tavolozza; alla pittura sarebbe tornato episodicamente nel corso degli anni Sessanta, eseguendo delle repliche, anche teoricamente stanche, delle antiche opere: l’ interruzione dell’ attività pittorica riuscì, in effetti, sostanziale. Probabilmente fu questo l’esito coerente dello stesso Dadaismo, votato all’autodissoluzione: "le vrai dada est contre dada". Resta il fatto che Julius Evola abbandonò, per intraprendere studi diversi e diverse esperienze esistenziali, ricerche ed approdi su cui altri di meno adamantina ed esigente attitudine intellettuale avrebbe tranquillamente vissuto di rendita per vent’anni. Non è forse inutile rammentare come l’abbandono evoliano precedesse di quattro anni la defezione da Dada - essa pure carica di significati programmatici - attuata nel 1925 da Marcel Duchamp. Da parte sua, Evola non ha incertezze a separarsi in modo reciso, ed anzi a contrapporvisi frontalmente, dalla maggioranza del gruppo dadaista (Breton, Aragon, più tardi lo stesso Tzara), trasbordata all’avventura surrealista, con l’esaltazione dell’inconscio freudiano, dell’istintualità subrazionale, perfino della dissociazione schizofrenica, cui farà riscontro - sul versante politico - una dichiarata militanza comunista. Completamente diversa la posizione di Evola, che guardava con interesse alla radicalità dell’azzeramento dadaista, non come ad un approdo nichilista, ma come ad uno strumento con cui combattere il materialismo sazio e soddisfatto della mentalità borghese, per poter incidere in qualche modo sulla decadenza spirituale insita nei percorsi della modernità.


Carlo Fabrizio Carli 1. ^ Enrico Crispolti, Giulio Evola, cit. 2. ^ Julius Evola, Il cammino del cinabro, Scheiwiller, Milano 1972², pag. 17. 3. ^ Julius Evola, Il cammino del cinabro, cit, p. 18. 4. ^ Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919-1923), a cura di E. Valento, “Quaderni di testi evoliani”, n. 25, Fondazione Julius Evola, Roma 1991. ^ Julius Evola, Scritti sull’arte d’avanguardia, a cura di E. Valento, Fondazione Julius Evola, Roma 1994. Il volume raccoglie gran parte degli scritti evoliani sul tema.

francodisassoni
16-06-06, 11:56
Questi discorsi cominciano a interessarmi.
Rileggo tutto, medito un pò e poi scriverò le mie sconclusionate considerazioni
SCUSATE PER IL DOPPIO MESSAGGIO

stuart mill
16-06-06, 15:35
problema risolto ;)

Fenriz (POL)
16-06-06, 20:25
Julius Evola, Noi antimoderni, 1930



Per vie molteplici, oggi, si fa sempre più preciso il senso, che una minaccia oscura incombe sull'intera civilizzazione d'Occidente. Nella crisi, investente non questa o quella forma speciale, ma la compagine dell'intero mondo moderno, sembra che si preannuncino i sintomi della fine di un mondo, del tramonto di una cultura.

Un GUENON, mentre analizza il malessere e lo squilibrio propri all'epoca, mostra difatti come le caratteristiche di essa siano proprio quelle dell'Età Oscura o DEL FERRO, preconizzata da antiche tradizioni.

Uno SPENGLER indica come oggi sia fatalmente in atto quella legge inflessibile, per cui, come ogni organismo, così ogni civilizzazione ha, dopo il suo sorgere e prosperare, il suo decadere ed il suo pietrificarsi in una grandezza barbarica priva di vita.

Dopo un NETZSCHE, un KEYSERLING e un KALERGI accusano l'IMMORALISMO e l'IRREALISMO dell'anima europea, mentre un BENDA constata la TRAHISON DES CLERCS, l'asservimento delle classi che ebbero il retaggio di una tradizione spirituale, alla passione e all'odio politico.

In realtà, le antiche certezze barcollano dovunque; i principi dovunque sono incerti, le tradizioni sono perdute, gli spiriti sono divisi e forze oscure, incontrollabili, irrazionali, sospingono e travolgono gli uomini e le collettività, giuocandole attraverso le idee, gl'interessi e le passioni che essi s'illudono di perseguire.

Quella Civiltà, di cui il Moderno fu sì fiero, e in nome della quale aveva creduto al MITO del PROGRESSO e aveva marciato alla conquista del mondo, quella civiltà si trova oggi dinanzi ad una specie di riduzione dell'assurdo, di capovolgimento dei valori che essa si era arrogati.

Lanciatasi alla conquista della materia, essa non ha conseguito il suo scopo che a prezzo di materializzare lo spirito, di escludere ogni forma superiore di vita, di amalgamare gl'individui nella tirannide di organismi collettivi, che quasi diremmo SUBUMANI nella loro mancanza di volto, di razionalità, di luce, nella loro soggiacenza ad energie che di tempo in tempo, come galvanizzando con una vita momentanea e paurosa dei corpi morti o automatici, li scaglia gli uni contro gli altri.

Il tentativo Cristiano di dare all'Occidente una tradizione religiosa, non può che considerarsi fallito.

La nostalgia con cui spiriti come un MARITAIN, un GUENON, un BERDJAEW si volgono al Medioevo feudale e cattolico, non dice forse dell'invalicabile distanza fra i tempi attuali e quelli, in cui l'Europa s'avviò veramente ad organizzarsi sotto i due grandi simboli dell'Azione e della Contemplazione? Che importa che il Cristianesimo(senza rendersene conto) abbia servito di veicolo alla trasmissione di una Sapienza Trascendente, ANTERIORE AD OGNI TEMPO, e che la Chiesa in Riti, Simboli e Dogmi ne conservi il deposito, se da tempo nessuna coscienza oramai vi corrisponde?

Se il Cristianesimo oggi non vale più alle genti che come una piccola fede ed una morale che tutti professano e che tutti tradiscono, mediocre e borghese nel cattolicesimo, depotenziata e stimolante di realizzazioni pratiche e d'intransigenze sociali nel protestantesimo?

E non è soltanto a questo riguardo che chi parla di TRADIZIONE e di Ritorno alla Tradizione, in realtà, sa ancor meno di chi la nega che cosa sia Tradizione.

Un MASSIS che innalza il simbolo di una DIFESA DELL'OCCIDENTE, che getta allarme contro l'asiatizzazione del mondo latino, in realtà, non sa nè ciò che è l'ORIENTE, nè ciò che all'OCCIDENTE potrebbe valere come principio di rintegrazione; non sa quanto di ciò che egli nega stia in ciò ch'egli afferma, nè quanto ciò che egli afferma stia in ciò ch'egli nega. Taciamo poi di tutto quel che da qualche tempo si proclama da noi su tradizioni e tradizionalismo, ora su questa base ed ora su quella, chi esaltando una Roma Vaticana, chi una Roma Massonica, chi una Roma Mazziniana e Giobertiana, innalzando a destra e a manca strani TABU', lanciando attacchi a vuoto, ammannendo con paroloni i pasticci più inverosimili. Qui, come altrove, la CONFUSIONE DELLE LINGUE è completa; la potenza di schemi, formule e parole che, come gli enti creati dalla Magia, non dipendono più da chi li ha creati, è quasi senza limite.

Nè basta.

Un informe bisogno di sfuggire alla stretta arimanica del materialismo, non incontrando più quei sostegni che solo nel presupposto di rapporti interiori e viventi erano dati dalle sopravviventi tradizioni, ha generato nella squilibrata anima occidentale una deviazione ancor più pericolosa: quella del NEOSPIRITUALISMO.

Dalle varie riviviscenze di un misticismo sospetto all'importazione di dottrine esotiche quanto mai contraffatte; dalla nuovissima superstizione spiritistica all'interesse morboso per i problemi e le complicazioni del subcosciente e della psicanalisi; dall'INTUIZIONISMO e dal SURREALISMO alle varie forme messianiche e alle mille sette pseudo-religiose e pseudo-occultistiche che pullulano ai margini del protestantesimo: dalle ideologie umanitarie ed universalistiche a quelle di una RELIGIONE DELLA VITA e di un SUPERUOMISMO che, strano a dirsi, quasi sempre finisce in associazione di donne e di sub-uomini, da tutte queste forme si palesa un comune significato.

Fenriz (POL)
16-06-06, 20:26
E' il disfarsi dell'anima europea, è il suo scarcarsi di sè stessa, il suo EVADERE.

Deviata da un insano conato di liberazione, essa si sottrae al reale non per un SUPER-REALE, sì invece per un SUB-REALE e per un PRE-REALE nel quale il senso dell'individualità si scioglie, ed una torbida, estatica coalescenze con forze sub-umane abolisce la legge dell'azione pura e della chiara visione.

Tanto poco, quanto ciò contro cui reagisce, un tale spiritualismo costituisce dunque un principio: non è un sintomo di rinascita, sì invece - al pari di quello che già asiatizzò il mondo greco-romano nel periodo alessandrino, ed a cui così stranamente rassomiglia - un sintomo di crepuscolo, un'esasperazione dello SCARTARE e del desistere nell'universale scompiglio.

Così, tristi presagi incombono sul mondo occidentale: giacchè non si tratta di una contingenza degli ultimi tempi, sì invece della logica conclusione dei principi stessi su cui questa civiltà si è sviluppata. Nell'AMERICA - che è la più temibile fra le nuovissime barbarie - non ci si trova forse dinanzi allo sbocco della direzione industriale iniziata dalla Civiltà europea?

E nel BOLSCEVISMO - che in un certo modo costituisce una forma diversa dell'identico pericolo - non si palesa forse la statuizione in maschera sociale materialistica di quella mistica della comunità che, attraverso il sovvertimento cristiano, travolse i valori individuali, gerarchici ed imperiali del mondo greco-romano?

Tutto ciò, ci dice quanto poco sia da sperare circa l'efficacia di una reazione.

Ancora una generazione - due al massimo - e ogni possibilità superstite sarà strozzata, e nulla più arresterà questa gran massa oscura che già corre lungo la china: a meno che un rivolgimento brusco, una crisi che squassi radicalmente le fondamenta della civilizzazione moderna venga a ristabilire l'equilibrio, sia pure attraverso qualcosa, che agli occhi dei più varrà come catastrofe.

Possedendo questa persuasione, che compito resta ai pochi che ancora resistono?

Non un'azione diretta, ma quell'azione più sconcertante che può esercitare la muta ed impassibile presenza di un CONVITATO DI PIETRA. Bisogna spezzare i ponti, e con l'aderenza assoluta a significati e a visioni primordiali, quelle che agirono ancor prima che le cause della presente civilizzazione si stabilissero, costituire un Polo, il quale, se non impedirà a questo mondo di deviati di essere ciò che è, gl'impedirà però di affermare l'inesistenza di ogni altro orizzonte, di glorificare se stesso, di statuire se stesso a religione, di pensare che ciò che è, è ciò che deve essere e che è bene che sia.

Da qui, un punto fermo; da un tale punto, nuovi rapporti, nuove DISTANZE, nuove consapevolezze; da tali consapevolezze, forse - in qualcuno - principi di crisi liberatrici.

E' naturale che molti punti a questo proposito vanno precisati e chiariti: al che si volgeranno i nostri articoli successivi. Fin d'ora diciamo che non si tratta di RITORNI, poichè il riferimento è soprattutto a certi principi e a certi interessi, che essendo al di sopra del tempo, hanno (per usare un'espressione di GUENON) una permanente attualità.

Aver perduto il senso di quest'attualità, essersi disciolti nel mito di un puro fluire, di un puro fuggire, di un puro tendere che sospinge sempre più in là la propria meta, di un processo sempre impotente a raggiungere un possesso, questa è una delle caratteristiche del mondo, a cui NOI ANTIMODERNI ci contrapponiamo.

Da qui, un limite netto che separa due epoche, non in senso storico, ma piuttosto in senso ideale: e potremmo chiamare l'una TRADIZIONALE, l'altra ANTI-TRADIZIONALE.

Riportare al grande respiro della prima, al di là da ogni diversità che la comune opposizione all'altra cancella, è il primo punto. Poi, noi vorremmo più particolarmente far parlare il simbolo più prossimo a noi occidentali: il simbolo dell'AZIONE, restituito al suo significato integrale e tradizionale, di cui le equivoche DIFESE DELL'OCCIDENTE di oggi potrebbero recare un informe presentimento.

Ma ciò, non prima che il punto fermo sia stabilito; che il senso della distanza sia preciso, sì che appaia la modalità e la natura dei processi, che confermano e fomentano il pervertimento dell'anima europea.

fonte La Torre, n° 1, 1 febbraio 1930
inserito negli archivi di juliusevola.it

stuart mill
17-06-06, 09:07
grazie

Fenriz (POL)
18-06-06, 22:20
sintesi del secondo capitolo dell edizione terdesca di 'imperialismo pagano'
(fatta da me quindi è venuta un pò un aschifezza :) )

II - Le condizioni per l’ Impero

La decadenza dell’ idea imperiale

La causa della decadenza dell ‘ idea politica nell’ Occidente contemporaneo sta nel fatto che i valori spirituali con cui si compenetrava l’ ordinamento sociale sono venuti , tutto si è ridotto a fattori economici ,industriali e amministrativi.
Inorganicità,esteriorità sono i caratteri dominanti delle organizzazioni sociali contemporanee , che l ‘alto debba essere determinato dal basso,che la legge e l’ ordine,anziché giustificarsi in una aristocrazia,in una gerarchia spirituale ,debba fondarsi su un anonima moltitudine –tale è l’ errore fondamentale che sta alla base di queste organizzazioni.
La radice di questa degenerazione è legata allla separazione dei due poteri: regale e sacrale . Attraverso questo dualismo si delinea da un lato una virilità materiale ( lo stato laico) ,dall’ altro una spiritualità lunare.
La prima rivoluzione antitradizionale fu quella in cui il sacerdote sostitui il ‘re divino’ e la religione prese il posto delle èlites.
Soltanto in Occidente,con l’ ascesa della religione semitica, la rottura appare essere divenuta decisiva.
Il cristianesimo primitivo con i suoi valori gravitanti sull’ attesa di quel ‘Regno ‘ celeste ,sulla semitica sottomissione a Dio , infranse la sintesi ‘solare’di spiritualità e politicità, regalità e divinità.
Si giunse a un compromesso : sorse la Chiesa Cattolica. Il cristianesimo è la corrispondente mistica della rivoluzione francese, del comunismo e del socialismo. La Chiesa Cattolicainvece assume in parte alcune forme dell’ ordinamento pagano-romano, mna non tanto pagana da abolire il dualismo da dominio spirituale e dominio politico.
Coerente è l’ atteggiamento dei guelfi ,che vogliono una completa subordinazione dell ‘Aquila alla Croce.
Un ‘Impero è tale solamente quando lo permea una immanente spiritualità, ma in tal caso l’ Impero non può riconoscere una qualsiasi organizzazione che si arroghi la prerogativa delle cose dello spirito.Esso soppianterà ogni Chiesa ponendosi come vera e unica chiesa ,tornando alla sintesi di regalità e sacerdotalità , al ‘Sacrum Imperium’.
Nel Medioevo con gli Hohenstaufen si può scorgere proprio questo : non esservi nessun apotenza temporaler in rivolta contro quella spirituale, ma piuttosto fra due autorità della stessa natura spirituale.Nell’ Impero torna l’ idea pagana del ‘re divino’, nella Chiesa la verità ‘sacerdotale’ che cerca in ogni modo di appoggiare i mercanti in rivolta contro l’Impero (i Comuni ).
Una via d’ uscita dalla crisi del mondo occidentale è una restaurazione assoluta dei due poteri, politico e sacrale,sulla base di una visione del mondo ario

Fenriz (POL)
18-06-06, 22:21
La deviazione protestante e la nostra riforma

La dottrina messianico –Galilea inizialmente non mirava a costituire una nuova forma di vita associata o religione, ma aveva un carattere antisociale e sovvertitore ,e ossessionata dalla salvezza dell ‘anima dinanzi all’ avvento del ‘Regno di Dio’.
Successivamente la religione semitica passò al suo aspetto socialistico: si formò l’ ecclesia , basata sul bisogno di amare e servire ( ecclesia da distinguere nettamente con la organizzazione chiesastica cattolica).
Nell ‘ impero il principio era : gerarchia,investitura dall’ alto. Nell’ ecclesia cristiana uguaglianza e fratellanza. Nell’ Impero esistevano servi e padroni , nell ‘ ecclesia individui tutti uguali senza capi e senza distinzione di classe e tradizione.
È nella Riforma che abbiamo il ritorno al cristianesimo primitivo, di contro a quello romano della chiesa.
Da un cambiamento inizialmente religioso, la Riforma determinerà un profondo rivolgimento della stessa idea politica.
La religione protestante ha aperto la via ad una organizzazione non poggiata sui capi, ma sulla somma dei singoli individui emancipati da ogni vincolo di autorità.
In conclusione la Riforma separe dal nucleo cristiano –pagano presentato dai paesi cattolici, l’ aspetto cristiano e realizza un nuovo tipo di stato, l’ autogoverno della massa sovrana a se stessa con contemporaneo livellamento dei singoli.
I paesi protestanti sono quelli in cui il capitalismo e la plutocrazia si sono sviluppati nella forma piu’ significativa.
Sulla base di una integrale restaurazione nordico-romana dobbiamo creare uno stato retto dai valori di gerarchia e aristocrazia.

Fenriz (POL)
18-06-06, 22:21
Volontà di gerarchia

Per prima cosa ci si dovrebbe sbarazzare di ogni residuo del sistema democratico e collettivistico, andrebbe invece rivitalizzato e temprato ogni rapporto attraverso la fedeltà e l’ attitudine guerriera, quella fides che fu una delle piu’ antiche divinità della Roma pagana,quella fides che si ritrova nella Bhakti indiana.
Un tale sistema implica naturalmente la necessità di creare una elites, nella quale la carica sia fondata sull’ autorità, e questa a sua volta su una effettiva superiorità.
La gerarchia inoltre non deve esaurirsi sul piano ‘politico’.La politica dovrebbe subordinarsi ai valori di carattere superiore per servire come mezzo.
Naturalmente va riaffermato il concetto di Nobiltà e Monarchia.Laddove è stata abbattuta va ristabilita, dove ancora sussiste va rinnovata.

Fenriz (POL)
02-07-06, 18:35
III - L’ errore democratico

Il vero liberalismo

Fondamento del nuovo stato deve essere l’ idea organica. Il concetto di organismo è totalmente diverso dal concetto di composto,cioè l’ insieme di elementi stretti da u legame che non si individua in nessun elemento superiore. L ‘ opposizione che intercorre tra idea imperiale e idea liberal-democratica è del tutto simile a quella che intercorre tra organismo e composto.
Concetto da puntualizzare è quello di libertà. Libero,secondo la tradizione germanica e ,piu’ tardi, quella medioevale, equivaleva a nobile. Fedrico II dirà : ‘Io sono Re fintanto che sono libero’. Libero è dunque un solo individuo,mentre nel liberalismo democratico si assiste alla presenza di piu’ esseri liberi che non possono che negarsi a vicenda.
Il capo nell’ Impero,dovendo essere il portatore del valore di libertà, non sarà il rappresentante delle masse,il servitora del popolo,la sua voce, ma ,viceversa le masse ricerebbero ordine e forma solamente grazie a questa forza superiore.
La libertà può esistere solamente quando esistono signori dinanzi a degli schiavi. L’ abolizione della schiavitu’ non può averla creata che una razza di schiavi (che restarono comunque tali dopo che vennero abbatute le gerarchie), che creò ben piu’ terribili tiranni: il dio arbitro semitico, l’ oro e l’ opinione pubblica, l’ intolleranza moralistica delle nazioni protestanti.

Fenriz (POL)
02-07-06, 18:35
La gerarchia secondo potenza . La conquista dello Stato

Concetto fondamentale della visione ‘pagana’ e solare del mondo è che lo spirito sia potenza e la potenza sia spirito,quindi la misura della libertà è la potenza.
Come l’anima considera una limitazione il proprio corpo , cosi il dominatore si comporterà rispetto alle masse , o la razza superiore rispetto alle altre razze.
La gerarchia sarà un preciso mettersi-in-rapporto, equilibrarsi, subordinare o subordinarsi di forze individuate.
Bisogna spiegare però ciò che noi intendiamo per potenza, al fine di evitare equivoci.
Vogliamo sottolineare che potenza per noi non significa affatto forza puramente materiale, e che il dominio e l’ Imperium non si identificano affatto con la violenza e la sopraffazione.
La violenza esprime uno star-di-contro ( e quindi sullo stesso piano) invece la potenza uno star-sopra.
Questa potenza,questo dominio si esercitano tramite Idee, Miti, Idee-Forza con la funzione di destare energie. Il dominatore deve però restare signore dei vari , senza subirne la suggestione.
Idea che inizialmente sarà ‘Nazione’ , ‘ Patria’ , dopodiché il Dominatore arriverà a dire ‘’La Nazione , lo Stato sono io’’

stuart mill
02-07-06, 19:56
diciamo che Evola, dice cose giuste, in parte, ma più va a occuparsi di politica, più mostra i suoi limiti. Comunque, voglio evitare che si scada nella diatriba puramente politica.

Vurdak
03-07-06, 09:35
senza dubbio il nostro è un mondo di rovine ...e il Barone Giulio Evola a mio parere è l' unico che ha colto le cause di tale declino

Si, peccato che pecchi in tante altre cose, finendo anche in contraddizioni.

stuart mill
03-07-06, 12:42
Si, peccato che pecchi in tante altre cose, finendo anche in contraddizioni.

vero: ne elenco 3:
1) le donne: lui le considera molto inferiori, ma ciò cozza con la sua idea che la razza fisica non corrisponda più alla razza spirituale, cosicchè certe donne potrebbero avere un anima più 'maschile' di certi uomini.
2)nell'ermetismo maschile e femminile stanno per attivo e passivo, non per sup e inferiore. Addirittura nel tao te ching, che evola disse di ammirare molto, il passivo (femminile) è indicato come nettamente superiore! Inoltre praticamwente tutte le tradizioni, parlano di fare dei 2 l'uno, cioè di superare ogni dualismo, anche fra passivo e attivo e maschio-femmina. Perciò un uomo non si vede perchè dovrebbe avere qualche vantaggio in più di una donna. inoltre esistobno donne con caratteri attivi, e uomini con caratteri passivi: conta l'attitudine fisica o quella interiore? vedi punto 1
3)le sue fisime su cristo, l'amore e le via devozionali, che è specularmente ugualwe a quelle del xclero per le vie del guerriero.
ce ne sono molte altre, ma basta per chiarire che evola sapeva abbastanza, ma non va assolutizzata la sua figura.
Diciamo che andrebbe letto con accanto testi complementari, come la b. gita o i vangeli, in grado di bilanciare gli eccessi del barone

Vurdak
03-07-06, 13:46
1) se leggi indirizzi per una educazione razziale, razza fisica e spirituale combaciano, e concordo con questo
2-3) non parlo perchè non conosco ancora

stuart mill
03-07-06, 15:46
1) se leggi indirizzi per una educazione razziale, razza fisica e spirituale combaciano, e concordo con questo
2-3) non parlo perchè non conosco ancora

se leggi il cammino del cinabro, smentisce tutto ciò

Vurdak
04-07-06, 07:51
Questo è il problema di Evola!...il suo "adattarsi ai tempi". Durante il fascismo era razzista, favorevole alla dottrina eugenetica, ecc. Poi, dato che i tempi erano cambiati, anche lui ha fatto un voltagabbana.
Il miglior libro sulla razza mai scritto da Evola è il mito del sangue, dove pone dei scritti senza metterci sempre il suo punto di vista. Una volta letto quello ci si può fare un'opinione.

stuart mill
04-07-06, 13:04
[QUOTE]Questo è il problema di Evola!...il suo "adattarsi ai tempi".

si può dire tutto di evola, tranne questo: se fosse quel tipo sarebbe diventato socialista o dc!




Durante il fascismo era razzista,

razza spirituale, mentre il fascismo era per le razze fisiche, anzi mussolini accolse positivamente l'idfea di evola, ma poi la chiesa fece un macello, e si ritornò alle razze fisiche.


favorevole alla dottrina eugenetica, ecc. Poi, dato che i tempi erano cambiati, anche lui ha fatto un voltagabbana.


beh, un conto è il rendersi conto che certe idee (tipo la riv conservatrice) sono ormai impraticabili (cioè cambiare idea sulla possibilità di metterla in pratica), un conto è cambiare idea sull'idea (cioè ritenerla sbagliata a livello teorico). I voltagabbana sono nel secondo gruppo, evola nel primo. Infatti scrive cavalcare la tigre (dice) perchè rassegnato all'idea dell'immutabilità della degenerazione, almeno si riesca a creare degli uomini in grado di sopravvivere e anzi usarla come acqua corrosiva, per avanzare spiritualmente.
Poi per carità, non sono evoliano: in lui, come in quasi tutti, c'è molto bene e molto male(inteso come sbagliato), va fatta una cernita. D'altronde lui ha sbagliato molto perchè ha osato tanto: dove le vedi in giro, ORA persone che osano e ricercano tanto? ricorda che Dante reputava più spregevoli gli ignavi, piuttostro che i malvagi, dato che i primi rifiutavano il ibero arbitrio, il dono più alto.


Il miglior libro sulla razza mai scritto da Evola è il mito del sangue, dove pone dei scritti senza metterci sempre il suo punto di vista. Una volta letto quello ci si può fare un'opinione.

non so... a me è un argomento che non interessa. Poi magari se capita... però quando vedo molti che parlano di spiritualità, e poi invece di pensare alla loro pensano a quella degli altri... insomma, se anche evola avesse ragione sulle razze spirituali, questo mi avvicinerebbe anche di un solo millimetro alla realizzazione spirituale? se si, ok, perfetto, altrimenti... beh, meglio leggere altre sue opere, o guenon, o meyrink, o raphael ;)

Vurdak
05-07-06, 07:15
Beh...a sto punto potrei dirti che Evola non ha per forza di cose ragione :D
Io credo nell'unità di sangue-spirito, basti vedere il fatto che bene o male i popolo indo-arii sono uniti nei punti focali delle tradizioni (sistema di caste, visione spirituale dello stato come uomo e come volere di dio in terra, ecc.). E vedo che cose simili, a livello di idee e di un certo sentire, sono valide ancora oggi per molti.

stuart mill
05-07-06, 14:53
[QUOTE]Beh...a sto punto potrei dirti che Evola non ha per forza di cose ragione :D

beh, che evola sbagli su diverse questioni, è indubbio.



Io credo nell'unità di sangue-spirito, basti vedere il fatto che bene o male i popolo indo-arii sono uniti nei punti focali delle tradizioni (sistema di caste, visione spirituale dello stato come uomo e come volere di dio in terra, ecc.). E vedo che cose simili, a livello di idee e di un certo sentire, sono valide ancora oggi per molti.

onestamente non avrebbe molto senso. Come spiegare allora genitori atei e figli 'spiritualisti' o viceversa? come spiegare in certi paesi, da un lato di gente estremamente evoluta, e dall'altro di gente materialista?

Vurdak
05-07-06, 16:52
Questo è un ciclo possibilmente infinito. Solo che dubito fortemente che un negro (nero, di colore, come volete insomma) o un ebreo possa mai provare un attaccamento alle religioni nordiche. La razza veicola, tramite il sangue, una forma di spirito, e questo poi potrà crescere se il destino (o la volontà divina, come la volete chiamare) gliene darà occasione.
Questo discorso non è inteso solo per le razze indo-arie, ma anche per le altre. Basti vedere il presidente della Bolivia che ha festeggiato l'elezione tramite rito Azteco.

Poi questa è una mia opinione, che si basa principalmente sul concetto de "a ognuno il suo" un pò esoterico ( :D ).
Non credo che vedrò mai una persona di un'altra razza partecipare a qualche rito celtico, perchè non sono religioni o spiritualità che non gli appartengono, anzi, molte religioni e molte vie spirituali sono nate appunto attorno ad un etnia, cosa che rafforza questo concetto.




ehm, scusa, per sbaglio ho premuto modifica, invece di rispondi, ora ho rimediato.

Vurdak
05-07-06, 17:06
Ovviamente, e mi son dimenticato di dirlo, il predominio, in questo periodo dominato da meticciati indoeuropei con la paura di meticciati mondiali, la razza fisica ha meno importanza di quella spirituale.

stuart mill
05-07-06, 20:13
Questo è un ciclo possibilmente infinito. Solo che dubito fortemente che un negro (nero, di colore, come volete insomma) o un ebreo possa mai provare un attaccamento alle religioni nordiche. La razza veicola, tramite il sangue, una forma di spirito, e questo poi potrà crescere se il destino (o la volontà divina, come la volete chiamare) gliene darà occasione.
Questo discorso non è inteso solo per le razze indo-arie, ma anche per le altre. Basti vedere il presidente della Bolivia che ha festeggiato l'elezione tramite rito Azteco.

Poi questa è una mia opinione, che si basa principalmente sul concetto de "a ognuno il suo" un pò esoterico ( :D ).
Non credo che vedrò mai una persona di un'altra razza partecipare a qualche rito celtico, perchè non sono religioni o spiritualità che non gli appartengono, anzi, molte religioni e molte vie spirituali sono nate appunto attorno ad un etnia, cosa che rafforza questo concetto.



Ovviamente, e mi son dimenticato di dirlo, il predominio, in questo periodo dominato da meticciati indoeuropei con la paura di meticciati mondiali, la razza fisica ha meno importanza di quella spirituale.

ok, dopo la tua precisazione, il messaggio ha la sua logica. Onestamente però la pratica smentisce nettamente la tua prima enunciazione, mentre la seconda non è altro che l'enunciazione di evola (sempre li si torna).
Per il punto primo, beh, ho visto indù in india provenienti dai paesi scandinavi, con occhi azzurri, capelli biondi etc. Io che sono italiano sono interessato sia alla cultura e spiritualità orientale che a quella nordica (thor, wotan, freyr, njord, elfi, nani etc), eppure fisicamente parlando, sono il tipico siciliano. Potrebbe spiegare l'interesse per l'india, ma non quello per i paesi nordici (a meno di non scoprire di essere discendentwe dei normanni).
Conosco italiani biondissimi che sono hare krishna, e so che anche in africa, ci sono indù, come anche cristiani, musulmani etc.
L'esempio sulla spiritualità celtica e su quella norrena non è molto calzante, perchè, di fatto, sono culture che sopravvivono in pochi esemplari, e di questi quanti sono che vanno in giro a far conoscere la loro esistenza? molti li scambiano per wiccan o new age, mentre le religioni orientali sono più o meno note o per predicazione (indù), o per fraintendimento (zen, che molti prendono per semplice scuola filosofica all'occidentale) o per la popolarità dei suoi esponenti (buddismo, che è stato reso celebre da hesse e dal dalai lama e da personaggi famosi come baggio). La via nordica non ha nulla di tutto ciò. Inoltre è avvertita morta o, peggio, ne viene ignorata l'esistenza, anche da chi abita nei luoghi da essi occupati in passato: quanti sono i bolognesi, o i padani che praticano la via celtica? e quanti romani praticano la via romana? quindi, se nemmeno chi è etnicamente affine le pratica, come puoi meravigliarti se un nero o un americano non lo fa?
Voglio dire, nella scelta della religione, influisce, per inerzia o fede, la religione dei genitori: molti preferiscono restare cattolici perchè i loro genitori erano tali, quanti padani diventano celtici per riscoprire le loro radici? Se la tua idea di nascita/colore della pelle/etnia fosse vera, allora avresti una grossa massa di italiani che si dividono fra celtismo via romana, etc, mentre in realtà seguonmo una religione allogena, e ciò smentisce appunto la tesi dell'affinità: o gli italiani sono etnicamente affini alle religioni semite, oppure l'affinità c'entra solo per quella ristretta minoranza che preferisce sceglirsi la propria via, piuttosto che accettarla per inerzia.
p.s. quanti credi che siano i cattolici veri, per fede?
p.p.s. e di essi, quanti sono pienamente consapevoli di ciò che seguono e dello scopo della loro religione?
affinità o inerzia? ;)

Vurdak
05-07-06, 20:38
Io che sono italiano sono interessato sia alla cultura e spiritualità orientale che a quella nordica (thor, wotan, freyr, njord, elfi, nani etc), eppure fisicamente parlando, sono il tipico siciliano. Potrebbe spiegare l'interesse per l'india, ma non quello per i paesi nordici (a meno di non scoprire di essere discendentwe dei normanni).

riguardo la discendenza, la probabilità ce l'hai.


Conosco italiani biondissimi che sono hare krishna, e so che anche in africa, ci sono indù, come anche cristiani, musulmani etc.

Lasciamo stare cristiani e musulmani, dato che sono religioni universali in quasi tutti i sensi.


L'esempio sulla spiritualità celtica e su quella norrena non è molto calzante, perchè, di fatto, sono culture che sopravvivono in pochi esemplari, e di questi quanti sono che vanno in giro a far conoscere la loro esistenza?

Mai andato ad un festival celtico? Preparati, perchè ti ci inviterò il prossimo a cui potrò andarci, poi ne parleremo.


molti li scambiano per wiccan o new age,

Esulo dal discorso. Questo è un errore gravissimo, che vedo anche in persone con una certa preparazione. C'è la credenza che i celti siano i figli dei fiori dell'antichità. Senza entrare nello specifico, dico solo una cosa: sacrifici umani.


mentre le religioni orientali sono più o meno note o per predicazione (indù), o per fraintendimento (zen, che molti prendono per semplice scuola filosofica all'occidentale) o per la popolarità dei suoi esponenti (buddismo, che è stato reso celebre da hesse e dal dalai lama e da personaggi famosi come baggio).

Ok, ma a sto punto: quanti seguono il proprio spirito e quanti la "moda"?


La via nordica non ha nulla di tutto ciò.

Se escludi il black metal ok :D


Inoltre è avvertita morta o, peggio, ne viene ignorata l'esistenza, anche da chi abita nei luoghi da essi occupati in passato: quanti sono i bolognesi, o i padani che praticano la via celtica?

Pochi e pochi di buoni. Ma una riscoperta di sè e di ciò che si è nel kali yuga è facile, solo che è difficile avere la scintilla.


e quanti romani praticano la via romana?

Idem con patate.


quindi, se nemmeno chi è etnicamente affine le pratica, come puoi meravigliarti se un nero o un americano non lo fa?

A parte che in italia il paganesimo avanza lentamente, stando a vecchie statistiche nel resto d'europa aumentano a ritmo incalzante, al punto da spaventar vescovi.


Voglio dire, nella scelta della religione, influisce, per inerzia o fede, la religione dei genitori: molti preferiscono restare cattolici perchè i loro genitori erano tali, quanti padani diventano celtici per riscoprire le loro radici? Se la tua idea di nascita/colore della pelle/etnia fosse vera, allora avresti una grossa massa di italiani che si dividono fra celtismo via romana, etc, mentre in realtà seguonmo una religione allogena, e ciò smentisce appunto la tesi dell'affinità: o gli italiani sono etnicamente affini alle religioni semite, oppure l'affinità c'entra solo per quella ristretta minoranza che preferisce sceglirsi la propria via, piuttosto che accettarla per inerzia.

Cito, a fastidio, una frase di Evola che non sopporto ma che forse calza "chi sa riconoscere l'esistenza delle razze, già fa parte di una.". Frase pericolosa e un pò insensata, ma potrebbe valere come risposta.


p.s. quanti credi che siano i cattolici veri, per fede?
p.p.s. e di essi, quanti sono pienamente consapevoli di ciò che seguono e dello scopo della loro religione?
affinità o inerzia? ;)

Ok, ma non si parlava dell'occupazione cristiana :D

stuart mill
06-07-06, 15:58
riguardo la discendenza, la probabilità ce l'hai.


[quote]
Lasciamo stare cristiani e musulmani, dato che sono religioni universali in quasi tutti i sensi.
beh si, ma per esempio l'induismo non lo è, se eccettui movimenti fra l'occidentalesco e il non so cosa, tipo gli hare krishna, brave persone ma un pò troppo simili ai cristiani(fra il cattolicesimo per i dogmi e il puritanesimo per la morale esasperata) nei metodi.
Quindi un africano induista non è spiegabile se non col samsara (reincarnazione), magari essendo stato indiano in una vita passata, oppure rigettando ogni nesso fra etnia e religione. Diciamo che accettare il 'razzismo' del tipo evoliano, implichi anche la reincarnazione, dato che non si spiegherebbe perchè io (è solo un esempio) spiritualmente sia che ne so, indo-nordico, mentre S. che abita sotto casa mia, e per giunta è coi tratti nordici, sia cattolico. Cioè escluso il biologismo delle unioni nel passato fra razze etc (idea che trovo bizzarra) resta da spiegare come ma 2 siciliani abbiano spiriti di provenienze diverse, se non o accettando che la reincarnazione avvenga in tal modo, permettendo quindi di capire a che popolo si apparteneva nella vita passata, oppure si può spiegare in termini di maggiore/minor grado di spiritualità di una religione, e spigare quindi il tutto in termini di maggiore/minore avanzamento spirituale compiuto nelle vite passate (e riecco la reincarnazione), oppure sancire la totale casualità e/o l'inconoscibilità di tutto ciò, vale a dire o gettarsi sul caso (ma se esistye Dio, può muoversi foglia che Lui non voglia?) o gwettrsi sulla mera e passiva grazia, cosa che non solo cozzerebbe col tipo di spiritualità immaginato da evola e da altri, ma anche resterebbe da xapire, perchè tale grazia capita a Tizio e non a Caio, se si escude l'accoppiata karma/reincarnazione.
So che sono stato parecchio contorto nel messaggio precedente, ma qui espongo dubbi su questioni che mi sono posto anch'io parecchie volte: karma? destino? caso? grazia? merito? cioè, perchè io appena ho cercato sinceramente, ho trovato chi mi a dato una mano, mentre altri cercano da anni ma non hanno trovato nulla? si può dire, la mia era sincera. Si, ma chi o cosa ha fatto si che lo fosse? il karma? il caso? etc come vedete si ritorna sempre li (che poi sia ancora al punto di partenza o quasi, è da imputare a me e al poco tempo passato, ma anche ad altro, ma cosa? karma, destino etc, come vedete ci si cozza sempre), perchè se accetti il libero arbitrio totale, questo spiega magari avanzamento e successo, ma resta da spiegare perchè Tizio ha la possibilità di nascere vicino a una persona come Gesù/buddha o altro, e chi invece nasce vicino alla gioventù bruciata.
Quindi, escluso il razzismo biologico, il razzismo spirituale può esistere solo se spiega perchè Tizio ha lo spirito buddista e Caio quello ateo, a meno che non subordini il tutto agli accoppiamenti, ma ciò farebbe ritornare al razzismo biologico, francamenti difficile da accettare per 3 motivi:
1)presuppone la superiorità della mera corporeità sulla spiritualità e/o li reputa indissolubilmente legati
2)presuppone appunto che Tizio sia superiore e caio inferiore, per accoppiamenti passati difficili da provare e solo supposti, copme conseguenza...
3)...ci si butta sulla spiritualità di un popolo cioè l'idea dell'unità spirito-sangue-suolo, che è il preludio del fanatismo, dato che chi non condivide quella via spirituale è da ritenersi automaticamente inferiore
4)francamente imbarazzante l'idea di Dio che se ne ricava, vale a dire un dio indifferente che fa dipendere il suo raggiungimento da parte delle persone al suo essere o meno, di discendenza giusta. vale a dire, io non lo raggiungo non perchè non mi impegno, ma semplicemente non mi impegno perchè avevo dei parenti ebrei/neri o altro. Quindi io se ne deduce, sconto colpe non mie, e dio mi punisce per cose non fatte, dato che esclusa la reincarnazione, resterebbe da capire perchè io nasco li e non qui.
5)poi appunto occhio che la trascendenza dell'umanità non è solo verso l'alto ma anche verso il basso: subordinare anima e spirito alla mera accoppiata corpo-psiche, apre la porta delle forze 'infere' dell'uomo, i suoi bassi istinti, la meschinità, l'irrazonalità etc
6)il determinismo: io sono di razza 'giusta' perciò raggiungerò Dio, posso anche non impegnarmi, io sono di razza sbagliata, non lo raggiungerò.
7)perchè Dio avrebbe creato intere razze subordinate e prive della Luce? perchè creare gente che non sentirebbe neanche il bisogno di cercarlo?
8)siamo sicuri che queste idee non siano (e lo sono) frutto del marasma incredibile che attanagliava l'europa fra il Terrore Rosso francese e il primo dopoguerra? e che non siano state ideate come supporto biologfic per idee politiche? siamo certi che abbiano a che fare con la ricerca della scintilla divina che è in noi?
9)queste domande, per quanto interessanti, aiutano o ostacolano la ricerca?
se io (mettiamo il caso) scoprissi che i neri (per esempio) sono per natura materialisti, avanzerei anche di un solo passo verso Dio, oppure questo servirebbe solo a soddisfare il mio ego, facendmi allontanare da Dio?




Mai andato ad un festival celtico? Preparati, perchè ti ci inviterò il prossimo a cui potrò andarci, poi ne parleremo.
beh, mi interesserebbe molto andare a vederne uno, ma il problema è che io sto in fondo all'orrido stivale(:D) quindi non so dove sia tale festival, e avrei bisogno anche di un certop preavviso per trovare alloggi economici (non mi sono reincarnato in un ricco e grasso industriale, con tutti i pro e contro della situazione:D). Comunque fammi sapere, ma resto dell'idea, che siano una goccia nell'oceano, francamente parlando, credo siano anche meno di ebrei, ortodossi e musulmani, culti certo meno legati al passato di quelle terre.




Esulo dal discorso. Questo è un errore gravissimo, che vedo anche in persone con una certa preparazione. C'è la credenza che i celti siano i figli dei fiori dell'antichità. Senza entrare nello specifico, dico solo una cosa: sacrifici umani.
Beh, ma il punto è questo: se anche chi abita li, e sarebbe quindi etnicamente celtico, non sa bene cosa siano, e ancora più non gli passa per l'anticamera di seguirne la via, come si può pensdare che un abitante del ghana che magari non sa dov'è la padania (non credo lo sappiano nemmeno i padani:D) non sia celtista (nel senso di religioso celtico) per differenze etnciche. Anzi, fra un africano tribalista e un moderno borghese cattolico, globalista e progressista, perdonami ma credo che il primo apprezzerebbe di più i celti del secondo.




Ok, ma a sto punto: quanti seguono il proprio spirito e quanti la "moda"?
si, quello che voglio dire è che, bene o male, se io voglio sapere cosa dicono i buddhisti o gli indù, non è difficile: fra internet e le librerie sarò invaso da una marea di libri, alcuni buoni, molti mediocri, ma le informazioni le troverò, anche perchè, se non altro, tutti sanno che esiste un qualcosa che si chianma buddismo, ma quanti sono quelli che sanno della religione celtica? e di questi, quanti riusciranno a trovare materiale non wiccan/new age?
capisci il punto? cioè i problemi ci sono anche per conoscere i buddisti, che per molti sono rappresentati dal dalai lama, che in realtà rappresenta solo la fede lamaista, e non gli altri, oppure per gli indisti, che molti identificano tout court con gli hare krishna, errore in cui caddi anch'io nel passato.
Però della via celtica non circolano nemmeno quelle notizie utili a sapere che esiste. io ne ho appreso l'esistenza su una rivista, rivivere la storia, anni fa. Ma è una rivista di nicchia, dubito che su repubblica, corriere della sera e simili, se ne parli, se non in termini folkloristici.




Se escludi il black metal ok
:confused:


Inoltre è avvertita morta o, peggio, ne viene ignorata l'esistenza, anche da chi abita nei luoghi da essi occupati in passato: quanti sono i bolognesi, o i padani che praticano la via celtica?

Pochi e pochi di buoni. Ma una riscoperta di sè e di ciò che si è nel kali yuga è facile, solo che è difficile avere la scintilla.

dici che è facile nel kali yuga? uhhm, direi che è facile capire/sentire che questo mondo è sbagliato, ed ecco la diffusione dei movimenti contestatori di ogni tipo, dalkle br, a slow food. Il difficile, il difficilissimo, è trovare i veri motivi per cui non va, e sopratutto, la vera unica via che permette di eliminare, almeno per sr, tali problemi, vale a dire la sincera ricerca del Se/Dio/Tutto/Uno, comunque lo si voglia chiamare.
Io per anni sono stato 'contestatore: prima ambvientalista, poi anarchico verde, poi di destra, poi di sinistra, sopratutto sempre passatista e antitecnologico, sono sempre, tranne alcune parentesi e pur senza militanza (data la totale sfiducia nelle associazioni con più di 1 persona), stato più o meno conscio che c'era qualcosa che non andava: l'inquinamento, la tecnologia, lo stato, la volgarità tutto quello che vuoi, ma non c'era la vera consapevolezza di quali fossero i motivi del disagio e nemmeno mi passavano per la mente concetti come illusione (maya), risveglio, etc.
C'è voluta una contestazione e una rivolta anzi tutto interiore, che risale dall'età di 10 anni (!) per poi arrivare, nel momento di maggior scoraggiamento, ad avere risposte vere, all'età di circa 21 anni, cioè ci sono voluti 11 anni, cioè praticamente tutta la prima parte della giovinezza per prendere coscienza, se non altro a livello intellettuale, di ciò che ho detto prima. Se questa la chiami facilità un brivido mi attraversa la schiena al pensiero di cosa tu possa reputare difficile(:D).
Cioè ricapitolando, il tuo messaggio va corretto così:
nell'era di kali è:
1) facilissimo prendere coscienza che così non va
2)facile capire che non sarà la tv, lo psicologo o la discoteca a darti le risposte
3)leggermente difficile non reprimere tale anelito
4)difficile, molto difficile, non avere sbocchi politico/devozionali/fanitico terroristici, o altri false cause per cui girare a vuoto
5)difficile da dire se superate le 4 fasi precedenti, se poi il cammino per la vera presa di coscienza sia più facile che il superare i 4 ostacoli di cui sopra, oppure che la vera difficoltà debba ancora venire
Se si è arrivati al punto 5, ed si è certi che il peggio è passato, bene, ragazzi stappiamo lo spumante! ma altrimenti, ci sarà da sudare parecchio.
I veda (se non erro nel commento di prab. alla gità) dicono che in effetti viste le difficoltà, chi però riesce a essere consapevole del punto 5 avrà particolarmente la strada spianata, cioè al punto 5 il peggio è passato, di contro, pochi lo raggiungono. Anche il libro del dio vivente, di bo yin ra, amico di gustav meyrink, dice che chi cerca sarà aiutato e pure evola nel cammino del cinabro, dice che si è alla fine reso conto che un tale mondo è una straordinaria acqua corrosiva: o ci abbandona a tutto ciò, venendo aanegati, o ci si erge titanicamente, e si viene spazzati via, oppure ci si rende conto del punto 5 e allora questo da uno sprone incredibile a realizzare il se. Un pò il messaggio della montagna sacra di jodorowski, dove si vede un governo dittatorialer, preti delinquenti, violenza, e dove i rivoltosi, spesso finisconio per sfogarsi con la politica, venendo uccisi, mentre pochi, spronati dal senso di vuoto, cercano l'aiuto di un maestro che darà la vera soluziobne: risvegliarsi, e alla fine... (non lo dico per non rovinare la sorpresa).





quindi, se nemmeno chi è etnicamente affine le pratica, come puoi meravigliarti se un nero o un americano non lo fa?

A parte che in italia il paganesimo avanza lentamente, stando a vecchie statistiche nel resto d'europa aumentano a ritmo incalzante, al punto da spaventar vescovi.
i vescovi, quando sentono traballare le loro poltrone, tremano sempre: vuoi vedere che scopriranno che bin laden è pagano e dopo aver devastato l'oriente, cominciano a bombardare l'europa per eliminare l'integralismo pagano?:-0008n



Voglio dire, nella scelta della religione, influisce, per inerzia o fede, la religione dei genitori: molti preferiscono restare cattolici perchè i loro genitori erano tali, quanti padani diventano celtici per riscoprire le loro radici? Se la tua idea di nascita/colore della pelle/etnia fosse vera, allora avresti una grossa massa di italiani che si dividono fra celtismo via romana, etc, mentre in realtà seguonmo una religione allogena, e ciò smentisce appunto la tesi dell'affinità: o gli italiani sono etnicamente affini alle religioni semite, oppure l'affinità c'entra solo per quella ristretta minoranza che preferisce sceglirsi la propria via, piuttosto che accettarla per inerzia.

Cito, a fastidio, una frase di Evola che non sopporto ma che forse calza "chi sa riconoscere l'esistenza delle razze, già fa parte di una.". Frase pericolosa e un pò insensata, ma potrebbe valere come risposta.

si, appunto, qui evola è ascivolato sulla buccia del relativismo:
il punto è:
1)le razze esistono, chi non le riconosce è un'idiota ma ne fa parte in ogni caso di una di esse
2)le razze non esistono: chi le riconosce è un idiota ma non ne fa parte, perchè non esistono, nonostante la sua credenza

mac se per evola è una questione non di fatti ma di credenza (direi fede), a questo punto ciò si ribalta in:
le razze non esistono, ma siccome io ci credo, allora divengono reali
e, si può ipotizzare, lwe razze esistono, ma siccome non ci credo cessano di esistere. E qui si ravvisano i germi del solipsismo, del relativismo (in apparente contrapposizione al primo) e pure dell'egualitarismo interpretativo protestante, che lui condanna, ma che con questa frase giustifica, dato che aggancia la realtà dei fatti alla mera interpretazione personale. Mi auguro che sia una sua semplice frazse a effetto, giovanile.


p.s. quanti credi che siano i cattolici veri, per fede?
p.p.s. e di essi, quanti sono pienamente consapevoli di ciò che seguono e dello scopo della loro religione?
affinità o inerzia? ;)

Ok, ma non si parlava dell'occupazione cristiana :D
ma si parla del presunto legame fra stirpe e religione

Vurdak
06-07-06, 16:33
Nun ho balle di rispondere a tutto, ma bene o male non posso non concordare con certi punti. Stiamo pur sempre girando intorno allo stesso argomento. Per te la razza fisica non serve, per me si (anche in quanto portatrice spesso di una cultura che cambia la forma mentis della persona).
Poi siamo sempre lì' :D

stuart mill
06-07-06, 17:19
Nun ho balle di rispondere a tutto, ma bene o male non posso non concordare con certi punti. Stiamo pur sempre girando intorno allo stesso argomento. Per te la razza fisica non serve, per me si (anche in quanto portatrice spesso di una cultura che cambia la forma mentis della persona).
Poi siamo sempre lì' :D

aspetta, non ho detto che non serve, ho detto che lascia parecchi interrogativi aperti, e che la posizione più sfumata del razzismo spirituale ha senso SOLO in presenza di una spiegazione del perchè uno spirito, poniamo, ario, possa essere eventualmente trovato in un nero o in un cinese, e perchè uno spirito ebreo, possa essere trovato in un ario.
Senza una spiegazione di ciò, a meno di non voler tirare fuori il caso, può sfociare o nello sfaldamento della teoria, o nel rispuntare nel tema del razzismo biologico, con tutte le riserve per tale sistema, accentuate pure dal fatto che si cercava di mascherarlo come razz. spirituale.
Quanto a quello biologico, andrebbe provato in maniera non scientifica, altrimenti si cadrebbe nella trappola, in cui caddero i vari teosofisti, cercando di usare la scienza per capire il Se, impresa assurda. Se si accettano i presupposti della Tradizione (quella vera) ovviamente va scartata la scienza, e quindi tutto l'armamentario di geni, incroci e quant'altro. ergo, chi con questi termini cerca di spiegare le differenze, non può essere un Tradizionalista, e un tradizionalista non può ricorrere ad essi, per cui, o abandona il razzismo biologico, o trova una spiegazione, 'iniziatica', ttradizionale, per esso, che spieghi il razzismo biologico facendolo combaciare con la Tradizione.
Ma riteng che l'unico concetto di razza che un Tradionalista possa accettare, sia quello di razza spirituale, e l'unica spiegazione swensata, sarebbe l'accoppiata karma-reincarnazione.
Poi io sul razzismo sono parecchio scettico, dico solo che a occhio e croce, la questione è ponibile nei termini sudetti.

stuart mill
06-07-06, 17:23
per vurdak: si mi rendo conto, guardandolo bene, che il messaggio precedente a quello prima di questo, oltre a essere un pò ostico, è pure lunghetto, ma appunto era un argomento interessante.


ita: Scritto in origine da stuart mill
Io che sono italiano sono interessato sia alla cultura e spiritualità orientale che a quella nordica (thor, wotan, freyr, njord, elfi, nani etc), eppure fisicamente parlando, sono il tipico siciliano. Potrebbe spiegare l'interesse per l'india, ma non quello per i paesi nordici (a meno di non scoprire di essere discendentwe dei normanni).


riguardo la discendenza, la probabilità ce l'hai.
mah, non saprei, dovrei fare delle lunghe e forse impossibili ricerche, che francamente non sarebbero granchè utili, dato che anche ammesso di scoprire una eventuale discendenza normanna, non solo alimenterei il mio smisurato ego, ma non otterrei nulla, perchè poi dovrei fare delle ricerche su ta.le antenato, per scoprire da chi discende Lui: potrebbe essere purosangue (cosa impossibile, prima o poi, a costo di risalire all'epoca romana, troverei quasi sicuramente vari miscugli di razze) o magari avere genitori di razze diverse, e li ci sarebbe da ridere.

stuart mill
19-09-06, 13:30
su!

Chaos88 (POL)
19-09-06, 18:04
Francamente il discorso evoliano del razzismo spirituale non mi ha mai convinto proprio perchè mi ha sempre riportato in mente il genere di interrogativi sollevati da Stuart.

La questione del 'differenzialismo' spirituale secondo me è gia' stato espresso lucidamente a suo tempo da Giuliano l'Imperatore. Una teologia delle differenze che giustifica le peculiarita' etno-culturali dei popoli e garantisce la loro sopravvivenza (v., particolare, il Contra Galilaeos...)

Detto questo, volevo solo sottolineare un punto (in merito alla discussione precedente): quando Evola parla di spiritualita' diverse per razze diverse, chiedersi perchè un individuo diciamo 'nordico' sia portato ad essere cattolico o buddista è porre la domanda in modo sbagliato, perchè per Evola è chiaro che è l'atteggiamento spirituale che conta. Ossia: si puo' possedere una spiritualita' 'nordica' essendo cattolici o buddisti (anzi, a dirla tutta, il buddismo è una delle piu' limpide espressioni di spiritualita' Arya per Evola - v. Dottrina del Risveglio -, e quanto al cattolicesimo, è da distinguere nettamente dal cristianesimo primitivo - v. Rivolta...).

Nota a margine: l'eredita' genetica normanna in Sicilia mi sa che è perfino inferiore a quella araba...

stuart mill
19-09-06, 19:25
Francamente il discorso evoliano del razzismo spirituale non mi ha mai convinto proprio perchè mi ha sempre riportato in mente il genere di interrogativi sollevati da Stuart.

La questione del 'differenzialismo' spirituale secondo me è gia' stato espresso lucidamente a suo tempo da Giuliano l'Imperatore. Una teologia delle differenze che giustifica le peculiarita' etno-culturali dei popoli e garantisce la loro sopravvivenza (v., particolare, il Contra Galilaeos...)

Detto questo, volevo solo sottolineare un punto (in merito alla discussione precedente): quando Evola parla di spiritualita' diverse per razze diverse, chiedersi perchè un individuo diciamo 'nordico' sia portato ad essere cattolico o buddista è porre la domanda in modo sbagliato, perchè per Evola è chiaro che è l'atteggiamento spirituale che conta. Ossia: si puo' possedere una spiritualita' 'nordica' essendo cattolici o buddisti (anzi, a dirla tutta, il buddismo è una delle piu' limpide espressioni di spiritualita' Arya per Evola - v. Dottrina del Risveglio -, e quanto al cattolicesimo, è da distinguere nettamente dal cristianesimo primitivo - v. Rivolta...).

Nota a margine: l'eredita' genetica normanna in Sicilia mi sa che è perfino inferiore a quella araba...


Quoto Chaos88, si credo che non si poteva sintetizzare meglio.
Io però ribaleterei il giudizio evoliano: positivo per Cristo, pessimo per il cristianesimo, in tutte le sue salse.
Del resto, pure Piero Negri, alias Reghini, nel secondo libro di ur, la pensa così, dimostrando, vangelo alla mano, che Gesù parlava giusto, erano "quel popolo di levantini" (i giudei sia ebrei che cristiani) che capivano solo ciò che il loro materialismo, e la loro ignoranza, faceva capire loro.

stuart mill
21-09-06, 15:49
ho spostato i nostri messaggi ot, nel thread: ot da evola ai pvt

ecco il link
http://www.politicaonline.net/forum/showthread.php?t=287200

stuart mill
06-07-07, 11:19
postato da Ygg altrove:

http://www.politicaonline.net/forum/images/icons/icon2.gif Evola citato
Evola citato
di Maurizio Murelli

Nell'arco di un mese ho ricevuto una trentina di e-mail riguardo a Evola (dal momento che me ne sono occupato e me ne sto occupando). Molte di esse hanno un minimo comune denominatore e fanno riferimento a dibattiti in corso su vari siti che io non seguo (non ce la faccio ad occuparmi d'altro oltre a quello di cui mi sto già occupando... mi piacerebbe ma non ce la faccio proprio).
Da quanto mi viene riportato si conferma la caduta in disgrazia di Evola presso l'area variamente definita e composta (so che si litiga e discute sulla definizione: destra/fascista/neofascista/estrema destra/destra radicale...): comunque sia e comunque la si pensi ovunque il Barone è in calo di popolarità. Questo ci può stare e io personalmente me lo spiego molto bene. Ci sta meno il messaggio che qualcuno pare stia lanciando. La premessa di costoro è sempre la stessa: "ho letto Evola che ho incontrato da giovane ma poi sono andato oltre". Quasi sempre questo oltre sarebbe rappresentato dalla dimensione dell'Anarca là dove si è "legge a sé stessi", oltre il bene e il male, si determina soggettivamente ciò che è giusto e ciò che non lo è. I princìpi sono sub-ordinati ad una sorta di decisionismo faustiano sulla scorta di una conseguita libertà... (sulla base di cosa venga stabilito questo è un misterio tanto più che questa individuale comvinzione poi non ha riconoscimenti... nemmeno di tipo élitario). S'avanza l'etica del "libero arbitrio" (ma è mai esistito un arbitro "libero"?, cioè non subordinato ad una regola/regolamento?) a fronte dell'etica del valore e del principio. Per certi versi anche questo ci potrebbe stare. A voler fuggire dalla modernità oltre all'uomo che si richiama alla Tradizione ci sono diversi "tipi umani": il Nichilista, il Cacciatore, l'Avventuriero, l'Anarca... Non ho lezioni da dare e men che meno punteggi da assegnare ai vari "tipi umani" qui elencati. Mi limito solo a mettere in guardia - sopra tutto i più giovani - dal considerare in ambito politico (e quindi a qualsiasi livello dentro quel che resta dell'"area") chi fa del soggettivismo senza limiti la propria base di partenza. C'è un pensiero che vien giù da Nietzsche e passa attraverso Heidegger (il cui senso per altro non è sconosciuto alla sapienza greca o a quella indù, a quella confuciana o a quella zen) e che Evola ha magistralmente affrontato (anche sistematizzato nelle elaborazioni dedicate alla "Via della Mano Sinistra" con il richiamo all'apologo per cui "se il cardine è forte la porta può anche sbattere") che è di una pericolosià estrema. Introduce ad una sorta di relativismo empirico che incenerisce.
Mi è stato riferito in una di queste e-mail che in uno stesso luogo di discussione si ragiona attorno alla costruzione di un unico soggetto politico basato sulla riproposta della dottrina fascista e parimenti si suggerisce di agire senza porsi domande per valutare in seguito se si è sbagliato oppure no. Se questo corrisponde al vero (e il mio corrispondente non ha equivocato) siamo davanti a qualcosa di molto grave e pericoloso. Non può essere che l'aderente ad una comunità che vuole essere politica (o metapolitica) decida motu proprio il tipo d'azione da compiere e dopo averla portata a termine da solo valuti pure se era giusta o sbagliata. E non può essere che si suggerisca l'idea che ad ostacolare questo percorso sia il pensiero di Evola mentre quello nietzscheano lo autorizzerebbe.
Credo che non siano pochi gli intellettuali che hanno letto e studiato Evola e poi ne abbiano travisato completamente l'insegnamento (basti pensare che Marcello Veneziani si è laureato con una tesi su Evola... intellettualmente stupido non lo è, quanto al resto ognuno valuti da solo). Evola non dice nulla di "originale": piuttosto è un testimone dell'"originarietà" di una certa visione del mondo e dell'uomo detta appunto "tradizionale". Come tutti i testimoni la sua prospettiva può anche essere oggetto di critica e dibattito, di studio e conversazione. E c'è anche la possibilità di essere in linea con il tipo umano definito da Evola senza neppure leggere un rigo di quel che ha scritto Evola, ma questo non autorizza nessuno, sopra tutto vantando una conoscenza dell'essenza del pensiero (che in tutta evidenza non c'è) ad indicarlo come "incapacitante" e in antitesi rispetto al superiore concetto di libertà. Grazie agli dèi Evola non è per tutti e spesso non corrisponde proprio a chi maggiormente lo ha letto. Sopra tutto non è pane per chi pone sé stesso come principio e valore, non è pane per chi non è capace di una disciplina interiore che si invera poi nei comportamenti. C'è etica quando c'è "etnia" (comunitaria razza dello spirito) e persino l'Anarca, per essere tale, è sub-ordinato, non alla Regola ma alla Norma. Di fatto esser liberi non significa fare ciò che vuole l'istinto, e l'agire per l'agire non è roba neppure per la bestia... È libero solo colui che è in grado di aderire fedelmente ai principi che lo trascendono e che ha riconosciuto come tali. Se, per esempio, ha valore la fedeltà o l'onore non è certamente libero chi avendoli evocati poi li disattende. Si dovrebbe riflettere, sempre ad esempio, sul perché dell'esistenza della guerra ritualizzata (o del duello) e perché quando l'uomo non fa la guerra GIOCA e il gioco per esser tale ha base nella regola e nella norma non scritta (oggi volgare "spirito sportivo")... E si dovrebbe ben riflettere su tante altre cose prima di indurre i giovani (direttamente o indirettamente) a ritornare alla dicotomia anni 1970 Evola o Nietzsche, ordine e gerarchia (in sé e per sé) piuttosto che "spontaneismo" armato o disarmato che sia.
Essere liberi significa sopra tutto poter corrispondere alla propria natura e non sono certo tutte le biblioteche di questo mondo a fare la differenza tra l'Uomo Libero (che corrisponde alla Tradizione) e il liberto fuggito (o che tenta di fuggire) dal manicomio della modernità. Cultura significa coltivarsi ma ci sono vari modi. C'è la possibilità che coltivando il cuore si renda fertile l'intelletto e di dura tempra l'anima, oppure c'è la possibilità che coltivando l'intelletto (pre-scindendo dai principi e valori) si rendano fertili gli istinti avviandosi con ciò sulla strada dell'ipertrofia dell'io.
In questo momento in cui l'ambiente ("politico"-ideologico-cameratesco) è polverizzato dove non c'è più né alto né basso e in cui l'attrito tra fazioni (e individui) è massimo, secondo me, è certamente il momento in cui c'è più bisogno di Evola (che è ben altro rispetto a quello descritto da chi oggi lo rinnega... o lo ha superato - modestamente eh!?) piuttosto che di altri (che pure sono indispensabili).
Io spero che i più anziani e quelli che hanno una qualche ascendenza sui giovani, al di là di tutte le insanabili divisioni e incomprensioni, mettano un sicuro paletto tra chi spinge per la soggettività e la sperimentazione empirica e chi no. Il vaneggiamento attorno alla "libertà del superuomo" (ovviamente tutti si sentono superuomini) non può lasciare indiffrenti. La posta in gioco è alta.

AGGIORNAMENTO
Questa comunicazione era qui nel sito da meno di tre ore che subito mi sono arrivate diverse e-mail con richiesta di specificare, andare a fondo, sviluppare. Prima di tutto mi stupisco di quanta gente in un afoso sabato di luglio entra in "Orionlibri" persino di pomeriggio: io davanti alla tastiera in questo momento ci sono per forza di causa maggiore ma sinceramente avrei preferito esser sperso su per i ghiacciai. Comunque sono onorato e ringrazio tutti.
Vorrei però avvertire che l'argomento di cui sopra oltre a mille altri è oggetto del mio "compito per l'estate", il preannunciato libro "Intervista sul neofascismo" che spero di stampare a settembre-ottobre. Dal momento che su Evola, Nietzsche, manifesti politici, ambiente, area etc. mi sono state fatte tante domande avrò modo di dare risposte. Prego i miei interlocutori di avere pazienza. Qui non ho potuto che essere telegrafico. Sono intervenuto anticipando un tema perché se le cose stanno come mi vengono raccontate - cioè sono stati miscelati due differenti piani e mjesso in correlazione due diversi universi senza nessuna cautela - significa che siamo davanti ad un'enormità che è meglio prender subito di petto. Grazie anora per l'attenzione.

....

Avevo segnalato qui, prima della pausa estiva, la distorsione in atto del pensiero evoliano e promesso di ritornarci, in particolare per rispondere ad alcuni giovani che mi hanno interpellato in proposito. Sono veramente invalidanti il pensiero e la dottrina evoliana?
A questi giovani vorrei rispondere con il lavoro sui DVD dedicati a Evola, perché il linguaggio filmico oggi è il linguaggio più idoneo per introdurre ad un mondo complesso e variegato come quello evoliano, in cui l'essenza si coglie solo dopo molti anni di paziente studio e pratica. Ma i giovani non sono (giustamente) pazienti e il mio lavoro richiede tempo, molto tempo. Quindi, tanto per cominciare e non venir meno alla promessa, faccio mie le parole che lo stesso Evola dedicò negli anni '50 ai giovani. A quel tempo lui aveva l'età che ho io oggi.

«È inutile crearsi illusioni con le chimere di un qualsiasi ottimismo: noi oggi ci troviamo alla fine di un ciclo. Già da secoli, prima insensibilmente, poi col moto di una massa che frana, processi molteplici hanno distrutto in Occidente ogni ordinamento normale e legittimo degli uomini, hanno falsato ogni più alta concezione del vivere, dell'agire, del conoscere e del combattere. (...)
Ciò che solo conta è questo: noi oggi ci troviamo in mezzo ad un mondo di rovine. Il problema da porsi è: esistono ancora uomini in piedi in mezzo alle rovine? E che cosa debbono, che cosa possono essi ancora fare?

Un tale problema va invero di là dagli schieramenti di ieri, essendo chiaro che vincitori e vinti si trovano ormai su di uno stesso piano e che l'unico risultato della seconda guerra mondiale è stato di ridurre l'Europa ad oggetto di potenze e di interessi extraeuropei. Devesi riconoscere poi che la devastazione che abbiamo d'intorno è di carattere soprattutto morale. (...) il cedimento del carattere e di ogni vera dignità, il marasma ideologico, la prevalenza dei più bassi interessi, il vivere alla giornata, stanno a caratterizzare, in genere, l'uomo del dopoguerra. Riconoscere questo, significa anche riconoscere che il problema primo, base di ogni altro, è di carattere interno: rialzarsi, risorgere interiormente, darsi una forma, creare in sé stessi un ordine e una dirittura. Nulla ha imparato dalle lezioni del recente passato chi si illude, oggi, circa la possibilità di una lotta puramente politica e circa il potere dell'una o dell'altra formula o sistema, cui non faccia da precisa controparte una nuova qualità umana. (...) La misura di ciò che può esser ancora salvato dipende invece dall'esistenza, o meno, di uomini che ci siano dinanzi non per predicare formule, ma per esser esempi, non andando incontro alla demagogia e al materialismo delle masse, ma per ridestare forme diverse di sensibilità e di interesse. Partendo da ciò che può ancora sussistere fra le rovine, ricostruire lentamente un uomo nuovo da animare mediante un determinato spirito e una adeguata visione della vita, da fortificare mediante l'aderenza ferrea a dati principii - ecco il vero problema.

Come spirito, esiste qualcosa che può servir già da traccia alle forze della resistenza e del risollevamento: è lo spirito legionario. È l'abitudine di chi seppe scegliere la vita più dura, di chi seppe combattere anche sapendo che la battaglia era materialmente perduta, di chi seppe convalidare le parole dell'antica saga:

«Fedeltà è più forte del fuoco»

ed attraverso cui si affermò l'idea tradizionale, che è il senso dell'onore o dell'onta - non piccole misure tratte da piccole morali - ciò che crea una differenza sostanziale, esistenziale fra gli esseri, quasi come fra una razza e un'altra razza.
(...) Queste forme dello spirito possono essere le basi di una nuova unità. L'essenziale è di assumerle, di applicarle e di estenderle dal tempo di guerra al tempo di pace, di questa pace soprattutto, che è solo una battuta di arresto e un disordine malamente contenuto - a che si determini una discriminazione e un nuovo schieramento. Ciò deve avvenire in termini assai più essenziali di quel che non sia un "partito", il quale può essere solo uno strumento contingente in vista di date lotte politiche; in termini più essenziali perfino che non come un semplice "movimento", se per "movimento" s'intende solo un fenomeno di masse e di aggregazione, un fenomeno quantitativo più che qualitativo, basato più su fattori emotivi che non di severa, chiara aderenza ad un'idea (...). Lo "stile" che deve quadagnar risalto è quello di chi si tiene sulle posizioni di fedeltà a se stesso e ad un'idea, in una raccolta intensità, in una repulsione per ogni compromesso, in un impegno totale che si deve manifestare non solo nella lotta politica, ma anche in ogni espressione dell'esistenza: nelle fabbriche, nei laboratori, nelle università, nelle strade, nella stessa vita personale degli affetti. Si deve giungere al punto, che il tipo, di cui parliamo, e che deve esser la sostanza cellulare del nostro schieramento, sia ben riconoscibile, inconfondibile, differenziato, e possa dirsi: "È uno che agisce come uomo del movimento"».

È così che comincia "Orientamenti", libretto di imprescindibile lettura per ogni giovane (la versione curata dalle Edizioni di Ar è quella che ci sentiamo di caldeggiare, anche per l'importante 'Corollario') e che già in queste poche righe smentisce quanti vogliono Evola arroccato. Il punto è che è troppo facile lisciare il pelo alle iconografie fasciste e naziste facendosi forti di altrui storie e battaglie nel tentativo di elevarsi agli onori, mentre è decisamente meno semplice lavorarsi sul piano etico-spirituale per essere il tipo d'uomo indicato da Evola.
È l'orrore per la fatica della palestra a far gridare che la ginnastica fa male. Vale per il fisico, vale per lo spirito. Evola è impegnativo, non è per tutti, come già detto. Esistono alternative dignitose. Può anche essere che ci sia di molto meglio, di certo a questo "molto meglio" non si fa onore denigrando l'insegnamento evoliano.

http://www.orionlibri.com/index.php?...owbyid&idn=155 (http://www.politicaonline.net/forum/redirect.php?url=http://www.orionlibri.com/index.php?page=showbyid&idn=155)
http://www.orionlibri.com/index.php?sezione=home (http://www.politicaonline.net/forum/redirect.php?url=http://www.orionlibri.com/index.php?sezione=home)
http://www.orionlibri.com/index.php?page=orion (http://www.politicaonline.net/forum/redirect.php?url=http://www.orionlibri.com/index.php?page=orion)

ulfenor
02-08-07, 22:01
http://www.centrostudilaruna.it/evola.html

Il "mistero iperboreo"



L'origine iperborea della civiltà europea è uno di punti di maggiore e significativa continuità dell'opera di Evola. In ciò Evola non tanto presentava una posizione di per sé originale, quanto piuttosto il connettersi di tesi di svariati autori che avevano effettuato importanti scoperte nei campi della storia e dell'antropologia, con la conoscenza metafisica di Evola e la sua penetrazione filosofica della tradizione solare: tutto ciò gli diede la possibilità di sviluppare una peculiare visione dell'origine e della natura della "indoeuropeità": quale civiltà solare, virile e guerriera, forma nella quale viceversa non era stata compresa dalla maggior parte dei cattedratici e delle autorità. In questo studio, ultimo e più corposo tra le pubblicazioni della Fondazione Evola, Alberto Lombardo ha riproposto una veste usuale, quella di riunire articoli evoliani pubblicati su giornali, introdotti con ricchezza di informazioni, e documentato l'influenza su Evola di alcuni suoi precorritori. Questi sono soprattutto Bachofen, Wirth, Altheim e Günther. Quest'ultimo è rappresentato nel volume meno per le sue ricerche razziali che non per la sua piccola opera Frömmigkeit nordischer Artung. Notevole è anche la recensione evoliana allo studio duméziliano Jupiter, Mars, Quirinus.

L'origine degli Indoeuropei dal Polo Nord, come aveva individuato l'indiano Tilak, non è soltanto un motivo spesso ricorrente nell'opera di Evola, ma viene anche frequentemente commentata (su questo punto va raccomandato La Tradizione artica - Arthos 27/28). I riferimenti all'analisi razziale sono stati recentemente rianalizzati criticamente: in particolare, Robert Steuckers ha pubblicato alcuni saggî su Hans F. K. Günther. Circa gli studi su Bachofen di Evola c'è un altro volume della Fondazione Julius Evola. Così il servizio reso da questo volume è quello di focalizzare il campo visivo verso il centro a cui convergono questi interessi di Evola: origine e natura della civiltà indoeuropea. In questo il curatore segue l'allievo di Evola Adriano Romualdi.

Questi gli articoli che compongono il volume:

Il ciclo nordico atlantico (1934, estratto dalla prima edizione di Rivolta contro il mondo moderno)
Il mistero dell'Artide preistorica: Thule ("Il Corriere Padano", 13.1.1934)
Razza e cultura ("La Rassegna Italiana", 1934)
Preistoria mediterranea ("Il regime fascista", 21.3.1934)
Senso della tesi nordico aria ("Il regime fascista", 12.7.1940)
L'equivoco latino ("Il regime fascista", 11.3.1941)
Popolazioni primordiali abitarono forse il Polo Nord? ("Roma", 22.10.1952)
Ricerche sulle origini. La migrazione "dorica" in Italia ("Il regime fascista", 1.11.1940)
Giove, Marte e Quirino per gli antichi romani ("Roma", 21. 1.1956)
Religiosità indoeuropea ("Il Conciliatore", 15.8.1970)

Quale conclusione è riportato un raffronto tra la "protostoria indoeuropea" secondo la scienza attuale e le posizioni di Evola.

Martin Schwarz

Beh per me evola non e un maestro e il maestro julius evola!


leggendo il mito del sangue il maestro evola spara ad alzo zero sull'ambiente razzista tedesco che viene definito materialista non solo ma accusato di andare a braccetto con la chiesa tedesca in certi casi di affiancare al culto della vergine quello di un eroe solare,non solo ma definisce alcune scoperte del wirth fatte al polo nord fantasiose quali la scoperta di esquimesi biondi e dolicocefali per non parlare delle teorie secondo le quali le popolazioni iperboree avrebbero avuto una sorta di monoteismo solare.