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vandeano2005
23-05-06, 00:17
L’oceano Herman Melville

Stufo dei galloni da “scrittore esotico” affratellato a Fenimore Cooper, al letterato e baleniere saltò in testa di diventare un genio. E scrisse “Mardi”. Fu l’inizio della grandezza. E perciò del fallimento e della fine. Analisi ammirata del Kubrick delle lettere mondiali, che toccò e riplasmò tutti i “generi”


di Davide Brullo


Il Domenicale 22-04-2006

Cambiare editore è come cambiare aria. Ne sortiranno (quasi) sempre buone e terapeutiche cose. Quanto meno per lo scrittore. Al celebre bivio, di fronte al fatidico cartello con doppia freccia “essere” e “non essere”, assecondare la prima per favore. Herman Melville, che fece l’uomo di mare molto meno di Conrad e come se quella fosse stata un’adolescenziale avventura “on the road” per flutti e spume, sbarcato con una tappezzatura simbolica in testa e una visione del mondo già intricata ma molto meno brusca, netta e disperata del polacco che verrà, pensava di essersi guadagnato i galloni di scrittore.

Typee e Omoo, usciti d’infilata nel 1846 e nel 1847, facevano la felicità di John Murray, editore inglese di Melville, e dei vigliacchi che sognavano epopee in grande stile, e facevano l’effetto di un Fenimore Cooper passato dalle praterie erbose a quelle oceaniche. Romanzone d’avventura scritto in animata verticalità, con vegetazione tropicale assieme, ma poco oltre. Eppure Herman comincia a crederci. Comincia a credere di essere uno scrittore vero, di saper manovrare la penna come un arpione, e così al caro Murray, che si attendeva un ennesimo successo sulla scia dei precedenti, per poco non sarà venuto un colpo leggendo che l’americano stava in verità lavorando a un «romanzo fantastico di avventure polinesiane».

Herman è stufo e inorridito dall’etichetta di romanziere di seconda fascia. Si prepara l’eternità. «Bene: procedendo nella mia narrazione di fatti cominciai a provare un inguaribile disgusto per gli stessi, ed un desiderio di pulirmi le ali in previsione d’un volo; e mi sentivo incatenato, costretto e irritato dal dover tirar avanti con dei noiosi luoghi comuni… Così piantando lì la cosa, mi misi a lavorare anima e corpo ad un romanzo fantastico che si è ora notevolmente sviluppato, dato che vi ho lavorato con serio ardore». Murray, immaginiamo, si sarà sbilanciato sulla sedia, oscillando tra abisso e abisso, pensando che il volo a cui si apprestava Melville sarebbe stato di quelli con ali di cera, e forse avrà provato anche qualche grammo di disgusto verso quei fatti che gli venivano narrati. In soldoni: Murray diede il benservito a Melville. Per fortuna nostra.


Neppure Shakespeare basta.

Per fortuna sua Herman, con quella sua scrittura che trasuda carisma, aveva un manipolo di fan. Tra questi l’editore Richard Bentley, che di fronte al nuovo, immane manoscritto, scrosciò in lacrime e fece tutto ciò che era in potere di fare per felicitare il suo autore. Chilometrico tappeto rosso, argenteria della domenica, carezze, baldacchini e concubine. Melville ottenne carta bianca. Fai ciò che vuoi, lavora come ti aggrada. Mardi viene pubblicato due anni esatti dopo Omoo da Richard Bentley tra il marzo e l’aprile 1849. Herman, solitario sulla sua penna-goletta a scorrazzare per il pelago-libro, lo torturò fino alla fine, rivedendo, correggendo, e, soprattutto aggiungendo branchie e muscoli e polpa a quel leviatanico libro. Voleva metterci tutto dentro. Ci lavorò – a tempi assai più compressi – come Joyce avrebbe lavorato al suo “work in progress”. Fatto è che Melville comincia a leggere. Mette nel cassetto Fenimore Cooper e comincia a leggere come un dannato.

C’è l’integralismo del neofita in tutto ciò, forse, oltre lo sperticato talento del genio. Shakespeare, soprattutto (all’amico Duyckinck scrive, proprio attorno agli ultimi mesi di Mardi, è il 1849: «Credo che adesso in cielo Shakespeare sia alla pari con Gabriele, Raffaele e Michele. E se verrà mai un altro Messia sarà nei panni di Shakespeare»; poi però nemmeno un paio di mesi dopo, da vero scrittore quale è, cioè in competizione a pugni serrati con i vivi ma ancor più con i morti, all’amico del cuore specifica «io ritengo vero che neppur Shakespeare è stato completamente schietto», volendo surclassare pure il Bardo). Poi Agostino, Kant, Spinoza, Burton, le saghe islandesi. Soprattutto, Dante e John Milton, che gli inarcano la schiena. A seguire Pulci e Rabelais e Swift, che gli mettono in mano la struttura mobile attraverso cui da brava Penelope cucire l’arazzo megallegorico del libro.

Nel pieno del capitolo 119 di Mardi emergono in valzer demoniaco alcuni geni melvilliani: «Come un immane maremoto, il vecchio organo di Omero fa rotolare i suoi volumi enormi sotto le lievi e spumeggianti creste d’onda di Anacreonte e di Hafiz; e alto sopra il mio oceano si libra il dolce Shakespeare, come tutte le allodole della primavera. Troneggiante sulle sponde del mio mare, come Canuto, Ossian dalla barba fluente martella la sua arpa albicante, inghirlandata di fiori di campo, tra i quali trillano i miei Waller; e il cieco Milton fa da basso agli accenti dei miei Petrarca e dei miei Prior; e poeti laureati mi porgono corone di alloro. In me molti uomini illustri si posano e discorrono tra loro. Ascolto San Paolo che argomenta contro i dubbi di Montaigne; Giuliano l’Apostata che controinterroga Agostino; Tommaso de Kempis che spiega le sue gotiche lettere antiche affinché tutti le possano decifrare. Zenone sussurra massime, coperte dal rauco gridare di Democrito; e sebbene Democrito rida forte e a lungo e Pirrone non nasconda i suoi sogghigni, il divino Platone e Proclio e Verulamio sono dalla mia parte; e Zoroastro mi parlava all’orecchio prima che io nascessi. Cammino in un mondo che è mio e penetro in molte nazioni, come Mungo Park riposava in molte capanne dell’Africa; sono servito come Bayazit: Bacco è il mio maggiordomo, Virgilio il mio menestrello, Philip Sidney il mio valletto. La mia memoria è una vita oltre la morte; la mia memoria è una Biblioteca Vaticana, ogni sua nicchia una prospettiva senza fine, soffusa del color della sera dall’incrociarsi di luci di vetrate medioevali».


Chiamatelo sua modestia.


Per fortuna ci fu Richard Bentley. «Retrospettivamente, c’è da domandarsi se Mardi e lo stesso Moby Dick sarebbero stati i capolavori che conosciamo, qualora fosse stato Murray a stamparli in Inghilterra», scrisse Ruggero Bianchi nell’edizione ufficiale di Mardi edita da Mursia nel 1987 e ora introvabile, con quelle oceaniche ottanta e passa pagine d’introduzione che sono un esempio di critica vera, che i libri li perfora e non li solletica, e in cui il critico china il cappello di fronte al genio per comprenderlo e non lo vuole sorpassare falsificandolo come fanno gli odierni critigonzi. Ma voi umani accontentatevi della pur pregevole traduzione di Tadini ora riproposta da Garzanti (Milano 2006, pp.XXVIII+570, €12,00), perché Melville è da leggere in tutte le salse.


Non sarà un futuro di canti

Di fatto il libro, che parte con le prime centinaia di pagine alla stregua di uno dei soliti libri marinareschi dal puzzo di capodoglio, poi s’amplia in scrittura che non trattiene la trama – esilissima – e strama, strombazza, scema.
L’epopea nell’isolotto polinesiano, tanto simbolica da apparire un quadro del Botticelli in cui non è tanto la narrazione pittorica a importare ma i singoli particolari – la decisività di quel fiore e di quell’animale araldico piuttosto che l’altro –, è un referto che anticipa i viaggi alle Trobriand di Bronislaw Malinowski ma con sguardo anacronistico da Milton reietto buttato in una terra dove tutta la combriccola celeste è stata cacciata a calci. Poi ci sono viaggi in isolotti in cui ogni cosa è ciò che è e ciò che simboleggia, in una tabella dei significati che Melville è lungi dal possedere, e tutta una serie di più o meno strampalate verità, raccontate ora da uno stregone ora dall’altro, ora attraverso i sogni ora tramite panorami intensi quanto scoraggianti , come questa, da un ipotetico libro dentro il libro, nel capitolo 175: «La spessa membrana che ci avvolge si sta spezzando. Per molto tempo le epoche si sono succedute in tondo. Fratelli uomini! Se avremo un futuro, non sarà un futuro di canti. Non ci metteremo a sbadigliare, allungando le nostre ombre nel ruotare eterno dei cicli. Vivere è già un’alta missione. Vivere per sempre, muoversi all’unisono con Oro, è qualcosa che può davvero indurci allo sgomento. Non fatichiamo forse, quaggiù? E allora perché dovremmo essere infingardi altrove? Gli altri mondi non sono molto diversi dal nostro, se non di livello. Il sasso è senz’altro un buon campione dell’universo intero».

Il destino dell’insuccesso.


Il Melville più muscoloso è quello che va redigendo la propria personale scrittura. Privato dello sguardo “religioso” – gnostico a puntino, sia chiaro, eretico come quello di ogni genio – Melville è uno scrittore di vicende esotiche e strampalate. E le spericolatezze non imbrigliate di Mardi, dove simboli e allegorie fioccano come una serata natalizia doc, preludono a quelle più nette – ma non certo più semplici – di Moby Dick, che gli allocchi dicono sia un capolavoro senza averlo mai letto veramente, gustandosi la scrittura senza comprendere la bianchezza della Balena, godendo di Achab senza pensare non solo a Re Lear o al Satana di Milton ma anche a un Valentino, a uno Jakob Frank, al fondatore di una nuova setta di fedeli la cui divinità è l’ossessionante bianco del cetaceo, il testo sacro le evoluzioni che egli sigla negli oceani. Un libro come Mardi era destinato all’insuccesso geneticamente. Fu così, e fu il preludio delle porte in faccia che Melville cominciò allora, cioè da quando cominciò a compilare i suoi capolavori, a prendere. Al suo editore Bentley, il 5 giungo 1849, scrisse: «Caro Signore, i critici della vostra parte dell’oceano sembrano aver sparato una bella bordata contro Mardi, ma la cosa non era del tutto inaspettata. In effetti il libro è tale da attirarsi complimenti di quel tipo da certi quartieri […]. Tuttavia, esso raggiungerà quelli per cui è stato scritto, e ho già ricevuto assicurazione che Mardi, nelle sue intenzioni più elevate, non è stato scritto invano». Qualche mese prima a Lemuel Shaw disse: «Ma il Tempo che è il risolutore di tutti gli indovinelli, risolverà Mardi». Caro Herman, ti sei sbagliato, e la colpa è tutta della Balena Bianca.

Di fatto, ogni opera melvilliana viene letta come preparazione o fallimentare digressione rispetto a Moby Dick. Di fatto, Melville, pietra d’angolo della letteratura americana, non è ancora compreso con interezza. Eppure è una specie di Kubrick della scrittura: ha toccato tutti i generi, li ha svaginati, li ha rifatti. Ogni libro una zona di confine. Vuoi i romanzi d’avventura? Eccoti Typee. Vuoi il romanzo allegorico? Eccoti Mardi. Vuoi il romanzo borghese con sublimi stravaganze? Eccoti Pierre (di cui, per inciso, esiste solo un’edizione Einaudi a cura di Luigi Berti datata 1942!). Vuoi il reportage raffinatissimo? Eccoti Le Encantadas. Vuoi i racconti scritti come mai prima? Eccoti i Piazza Tales. Vuoi il romanzo breve? Eccoti Billy Budd. Vuoi il poema dantesco? Eccoti Clarel. Melville inventò una letteratura. Di cui si nutrirono tutti gli scrittori con bandiera a stelle e strisce. Leggere per credere. Se in Moby Dick, il cui picco nessuno falcidia, hanno trovato pappa da Faulkner a McCarthy, da West all’inglese Malcolm Lowry all’eretico Saul Bellow che fa capriolare il sublime melvilliano, in Pierre ci leggi il nocciolo duro di Henry James, ma pure Philip Roth è partorito in quelle pagine, così Ashbery è anche in Clarel, e, soprattutto, Thomas Pynchon è tutto in Mardi. Dove il critico non arriva è lo scrittore che si sollazza al tavolo dei morti amici suoi, a bere cocktail mentre l’altro arranca orribilmente.

Chissà fino in quali mondi e galassie si è sporto Melville con il suo sguardo da baleniere che ancora siamo incapaci di vedere con interezza. Dentro gli inferi di quell’oceano, «il gran sudario del mare», con cui si conclude Moby Dick prima dell’“epilogo” e in cui si ferma anche Mardi, nel nucleo di «quel mare senza fine».

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vandeano2005
24-05-06, 16:31
FRATELLO EMBRIONE, SORELLA MARY


Flannery O'Connor


Tempi n°.23 del 31 maggio 2005

Nella primavera del 1960 ricevetti una lettera da Suor Evangelist, la superiora della Casa per malati di cancro "Nostra Signora del Perpetuo Soccorso" di Atlanta. «Questa è una strana richiesta - diceva - ma cercheremo di esporre la nostra storia nel più breve tempo possibile. Nel 1949 una bimba di tre anni, Mary Ann, venne accolta come paziente nella nostra casa. Si rivelò una bambina straordinaria, e visse fino all'età di dodici anni. Di questi nove anni molto merita di essere raccontato. Pazienti, visitatori, suore, tutti in qualche modo furono influenzati da questa bambina malata, anche se nessuno pensava a lei come a una malata. è vero, era nata con un tumore che le copriva un lato del viso, un occhio le era stato tolto, ma l'altro brillava, ammiccava, danzava birichino, e dopo averla vista una volta, non ci si rendeva più conto del suo difetto fisico, ma si riconosceva soltanto il suo spirito splendidamente coraggioso e si provava gioia per averla incontrata. Dunque la storia di Mary Ann deve essere scritta, ma chi potrebbe farlo?». Non io, mi dissi. «Si sono offerte suore, e altre persone, ma noi non vogliamo un raccontino pio. Vogliamo un racconto che abbia un reale impatto sulla vita dei lettori, lo stesso impatto che Mary Ann ha avuto su ogni vita che ha toccato. Non c'è bisogno che sia un resoconto fattuale. Potrebbe essere un romanzo con molti altri personaggi, ma con Mary Ann come protagonista».

"SENZA MACCHIA SARESTI PERFETTA"

Un romanzo, pensai. Orrore. Suor Evangelist concludeva invitandomi a scrivere la storia di Mary Ann e a venir su per trascorrere qualche giorno nella loro casa di Atlanta e «assorbire l'atmosfera» in cui la piccola aveva vissuto per nove anni. è sempre difficile ficcare in testa a chi non è una scrittore professionista che avere talento non vuol dire essere capaci di scrivere qualunque cosa. Non avevo intenzione di assorbire l'atmosfera di Mary Ann. Non sarei stata capace di scrivere la sua storia. Suor Evangelist aveva allegato una foto della bambina. Le avevo dato un'occhiata appena aperta la lettera e l'avevo subito messa da parte. La ripresi per darle un ultimo rapido sguardo prima di rispedirla dalle suore. Mostrava una ragazzina con l'abito e il velo della Prima Comunione. Era seduta su una panca e teneva in mano qualcosa che non riuscivo a riconoscere. Un lato del suo visetto era regolare e luminoso; l'altro lato era protuberante, l'occhio bendato, il naso e la bocca troppo vicini e leggermente fuori posto. La bambina guardava l'osservatore con evidente gioia e compostezza. Dopo aver pensato di aver visto quel che c'era da vedere, continuai a fissare la fotografia ancora a lungo.
Dopo un po' mi alzai, andai allo scaffale e ne tirai fuori un volume dei racconti di Nathaniel Hawthorne. La Congregazione domenicana alla quale appartengono le suore che si erano prese cura di Mary Ann era stata fondata dalla figlia di Hawthorne, Rose. La foto della bambine mi aveva portato alla mente uno dei racconti, La voglia. Lo trovai e lo aprii alla pagina dello stupendo dialogo in cui Alymer parla per la prima volta alla moglie del suo difetto: «Un giorno Alymer sedeva fissando la moglie con un'espressione preoccupata che crebbe finché non aprì bocca. "Giorgiana - esordì - hai mai pensato che la macchia che hai sulla guancia potrebbe essere tolta?". "No, davvero", rispose lei sorridendo; ma percependo la serietà del marito, arrossì. "A dire il vero, è stata definita così spesso un vezzo che sono stata così ingenua da immaginare che lo fosse davvero". "Ah, potrebbe esserlo, forse, su un altro viso - replicò il marito - ma mai sul tuo. No, adorata Giorgiana, tu sei uscita così perfetta dalle mani della Natura che questo difetto, così lieve che non sappiamo se definirlo un difetto oppure un pregio, mi sconvolge perché segno visibile dell'imperfezione terrena". "Ti sconvolge, marito mio!" gridò Giorgiana, profondamente offesa, per un momento arrossendo di collera, e poi scoppiando in lacrime. "Perché allora mi hai portato via dalla casa di mia madre? Non puoi amare ciò che ti sconvolge!"». Il difetto sulla guancia di Mary Ann non poteva essere preso per un vezzo. Era qualcosa di palesemente grottesco. Lei apparteneva alla realtà, non alla fantasia. Sentii di dover scrivere a Suor Evangelist che se qualcosa andava scritto su quella bambina, doveva essere proprio «un resoconto fattuale», e proseguii dicendo che se qualcuno doveva raccontare i fatti, soltanto le suore stesse che l'avevano conosciuta e assistita avrebbero potuto farlo. Ne ero sicura. Allo stesso tempo volevo fosse chiaro che io non ero la persona adatta a scrivere quella storia, e non c'è modo più sbrigativo per liberarsi di un lavoro che farlo fare a chi l'ha prescritto a te. Aggiunsi che se avessero seguito il mio consiglio sarei stata felice di aiutarle nella preparazione del manoscritto, apportando le piccole correzioni che si rivelassero necessarie. (.)

LA MORTE MODERNA E LA VITA DI MARY ANN

Il manoscritto arrivò il primo di agosto. Dopo essermi fatta coraggio, mi sedetti e iniziai a leggerlo. Per quanto riguardava la forma non mancava nulla di ciò che fa indignare lo scrittore professionista: quasi tutto era riferito, molto poco drammatizzato; nei punti forti - quando ce n'era uno - l'osservatore sembrava dissolversi, e quando sarebbe servita una parola o espressione esatta, in genere se ne presentava una vaga. Tuttavia appena finita la lettura, dimenticate le imperfezioni di forma, rimasi a lungo a pensare al mistero di Mary Ann. Le suore erano riuscite a trasmetterlo. Il racconto era incompiuto come il volto della bambina. Entrambi sembravano lasciati, come la creazione al settimo giorno, perché altri li finissero. Il lettore era chiamato a fare qualcosa del racconto come Mary Ann aveva fatto qualcosa del suo viso. Lei e le suore che l'avevano educata, dal suo viso incompiuto avevano modellato il materiale della sua morte. L'azione creativa della vita del cristiano consiste nel preparare la propria morte in Cristo. (.)
La morte è il tema di tanta letteratura moderna: Morte a Venezia, Morte di un commesso viaggiatore, Morte nel pomeriggio, Morte di un uomo. Quella di Mary Ann era la morte di una bambina. Più semplice di ognuna di queste, ma infinitamente più rivelatrice. Quando varcò la porta della Casa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso, finì nelle mani di donne che non si spaventavano facilmente e che amavano tanto la vita da spendere la propria per rendere sopportabile la condizione di coloro a cui era stato diagnosticato un cancro incurabile. La sua prognosi era di sei mesi, ma visse dodici anni, abbastanza perché le suore le insegnassero ciò che solo poteva avere importanza per lei. La sua fu un'educazione alla morte, ma non condotta in maniera invadente. Le sue giornate furono piene di cani e vestitini per la festa, di suore e sorelle, di Coca-Cola e panini, e dei suoi molti e diversi amici, da Mr. Slack e Mr. Connolly a Lucius, il giardiniere; da pazienti malati come lei a bambini portati alla Casa per farle visita e ai quali, quando andavano via, veniva forse detto di pensare quanto dovessero essere grati a Dio per aver dato loro una faccia perfetta. Ma c'è da chiedersi se qualcuno di loro fosse altrettanto fortunato di Mary Ann. (.)

IL GOVERNO VIOLENTO DELLA TENEREZZA

Il vescovo Hyland pronunciò il sermone al funerale di Mary Ann. Disse che il mondo avrebbe chiesto perché Mary Ann dovesse morire. Senza dubbio pensava a coloro che l'avevano conosciuta e che sapevano quanto amasse la vita, lei che una volta aveva stretto con tanta forza un hamburger da precipitare all'indietro la sedia senza lasciarlo cadere; o che pochi mesi prima di morie, con Suor Loretta, aveva avuto un bambino vero da accudire. Il vescovo stava parlando ai suoi familiari ed amici. Non pensava sicuramente a quel mondo, tanto più lontano ma tuttavia ovunque, che avrebbe chiesto non perché Mary Ann fosse morta, ma perché innanzi tutto fosse nata.
Una delle tendenze della nostra epoca è di usare la sofferenza dei bambini per screditare la bontà di Dio, e una volta screditata la sua bontà, aver chiuso il conto con lui. Gli Alymer che Hawthorne vedeva come una minaccia si sono moltiplicati. Intenti a tagliar via l'umana imperfezione stanno facendo progressi anche sulla materia prima del bene. Ivan Karamazov non può credere finché ci sia un bambino che soffre; l'eroe di Camus non può accettare la divinità di Cristo per via del massacro degli innocenti. In questa pietà popolare si guadagna in sensibilità e si perde in visione. Se sentivano meno, altre epoche vedevano di più, anche se vedevano con l'occhio cieco, profetico, insensibile dell'accettazione, vale a dire della fede. Ora in assenza di questa fede siamo governati dalla tenerezza. Una tenerezza che da tempo, staccata dalla persona di Cristo, è avvolta nella teoria. Quando la tenerezza è separata dalla sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas.
(tratto da A memory of Mary Ann, Farrar, Straus and Giroux, New York, 1961)

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vandeano2005
08-06-06, 18:05
L’orrore e la speranza
di Fante

Una raccolta di racconti del 1940 ci dà lo spunto per narrare di un grande italoamericano. Che possedeva il sublime dono della sintesi e una scrittura magica. Dalle stalle a Hollywood


di Gaia Manzini


Il Domenicale 3-06-2006

Rapimento in famiglia è il racconto che apre Dago Red (Einaudi Stile libero, Torino 2006, pp.222, €11,00). Nick Toscana, alter ego di Fante, trova una foto nel baule della madre. È lei da giovane, bella e non ancora toccata da delusioni, figli e sofferenze. Si ritrova a guardare quell’immagine lontana, a spiarne la bellezza, per trovare da lì la strada per un pezzo di vita che vuole fare suo, che faccia meno sofferente l’esistenza di un piccolo wop, l’italoamericano dalla pelle scura e dalla miseria stampata in faccia. Quella che vuole è una storia in cui credere e tuffarsi a capofitto.
La foto del baule è un po’ come la letteratura di Fante. Lui è lo scrittore che parla dal confine di un territorio céliniano: ha il disgusto che gli sgorga dalla penna, senza essere sordido e dannato come il grandissimo francese, ma nello stesso tempo aspetta scorci di bellezza, nuove promesse di vita e crea immagini indimenticabili. Fante, e dunque Bandini (qui Nick Toscana), è un cinico poco convinto. Ma di grande talento. E così non sorprende sapere che già nel 1932 i suoi racconti – confluiti poi in Dago Red – incominciavano a comparire sulla scena letteraria, adocchiati da Louis Mencken, il più grande critico di quei tempi e stampati sulla prestigiosissima The American Mercury. Roba da niente, tanto così per mettere subito nero su bianco il talento di quello scrittore di appena ventitré anni.

L’ubriacatura costante

Nel 1940 Fante vuol far pubblicare una raccolta di racconti. A Pascal Covici, editor della Viking Press, propone un titolo: Dago Red. Con questa clausola intraducibile s’intende il vino che bevevano gli italoamericani negli anni Trenta. È il rosso del guappo, del “terrone”, quello che si ritrova in Casa, dolce casa: dolceamaro, rubino, legato indissolubilmente alla figura del padre. D’altronde il libro, che segue a ruota i due romanzi che l’hanno reso celebre, non è che un’ubriacatura dei temi cari a Fante, fermentati con il suo autobiografismo molesto, con la sua italianità e la lotta continua con la propria fede cattolica. Sembra di leggere il seguito di Aspetta primavera, Bandini (1938), pur tornando alla dirompente prima persona di Chiedi alla polvere (1939).
Fante non è certo uno scrittore grandioso e biblico come Faulkner, né solido come Hemingway, ma piuttosto un abile artigiano armato di scalpelli e sgorbie affilate, che sa ritagliare nella materia umile e in economia di mezzi stilistici il comico nel tragico e viceversa, creando figure vivide come statue levigate ad arte. Sulle spalle di Fante corri veloce da un’immagine all’altra senza accorgerti degli artifici letterari, tra un sorriso e momenti di commozione. Il doppio registro. Già. Forse quello che aveva anche nella vita, visto che dal 1935 al 1960 si guadagna la pagnotta sceneggiando più di una dozzina di film, e se anche si può dire che ci sia uno stile cinematografico nelle sue opere, tratteggiate a scene e pienamente visive, tuttavia non c’è la ricerca estenuante della “storia”, come spesso ci ha insegnato la cara vecchia Hollywood.

Anzi, nel suo primo romanzo, La strada per Los Angeles, rifiutato e uscito solo nel 1985, non accade nulla, come lui stesso scriverà a Mencken. Fante sta dietro alle pezze dei suoi personaggi perché quello che gli interessa maggiormente è ciò che accade nella loro testa. Come agiscono e reagiscono. Nelle loro contraddizioni, nella loro comicità o tragicità, nei gesti delle mani, nelle contrazioni dei volti, c’è la grandezza dell’autore.
Nel racconto Una moglie per Dino Rossi quest’aspetto è chiarissimo. Al di là della trama, dell’incontro combinato, quello che è descritto con maestria sono i sentimenti che si agitano sotto la tavola di un pranzo funesto. La bassezza, l’orgoglio ferito, la devozione, la superbia, colti nei piccoli particolari, in un braccio che cinge una spalla, in una frase detta al momento sbagliato, in una chioma di capelli non pettinati così come in un paio di fianchi accarezzati dal raso lucido.
Attraverso i tredici racconti di Dago Red passi dal Colorado alla California e fai lo stesso percorso del Bandini di Aspetta primavera per arrivare a Los Angeles in Chiedi alla polvere. C’è tutta l’epopea del piccolo wop, da un’infanzia da chierichetto a una maturità da aspirante scrittore, con quei momenti di grazia che Fante sa regalarti quando meno te lo aspetti. Pezzi di vera bellezza, quando ti passa sulla pagina una madre che apparecchia la tavola con i giornali al posto della tovaglia e si premura di far capitare le vignette umoristiche sotto il piatto del figlio più piccolo e le notizie sportive vicino a quello di Nick (Professionista).

Là, nella “cucina” del mondo

E sempre di grazia si tratta quando bastano due aggettivi a descrivere un personaggio. La nonna è una donna «grande e vasta» (Rapimento in famiglia): due paroline che aprono la visione su una vecchia granitica, irremovibile quanto benevola. Due aggettivi e hai una fotografia da portarti dietro, come quella trovata nel baule o quell’altra rubata a Suor Agnes. Già, con lo scrittore di Denver è sempre una questione d’immagini, storie fatte di umori e piccole azioni, ma anche di una precisione che t’intaglia nella materia grigia volti e gesti, anche se ti disgustano o ti fanno grattare per il fastidio. Precisione.
A Dago Red, che racchiude a grandi linee l’andamento tematico di Aspetta primavera, Bandini e quello stilistico di Chiedi alla polvere, manca però l’apice della cura fantesca. Perché il vecchio John, che scava nel dettaglio, è penna abile che utilizza la somma dote della sintesi, talvolta riconducendo un personaggio a un oggetto simbolico, di una semplicità e di un’evocazione grandiosa. Cose comuni, che continuano a fare capolino nel dipanarsi della trama.

Che cosa sarebbe la mamma di Bandini senza il rosario in mano o senza la sua stufa incandescente, che nessuno sa domare, se non le sue mani da fata del focolare? E dove andrebbe Camilla Lopez, l’amata in Chiedi alla polvere, senza le sue huarachas, i sandali sudici che usano i messicani e che stanno lì a dire la sua emarginazione, esattamente come in Prima comunione (in Dago Red) le scarpe nuove sono per Nick il primo passo per un riscatto sociale? Che fine farebbe il predatore fallito, il signor Hellfrick (Chiedi alla polvere), senza la sua vestaglia slacciata a scoprire le pudenda? Non sarebbe più lui, al lettore sarebbe risparmiato il disgusto e il poverino precipiterebbe in un angolo offuscato, prima di dileguarsi per sempre dalle sinapsi degli estimatori di Fante.
Ne La strada per Los Angeles al Bandini debole e alla ricerca disperata del proprio talento non concederesti una lettura attenta se non l’avessi visto fare una strage di granchi là sulla scogliera e affondare il coltello nella testa di un tonno già morente. Perché senza l’immagine di quelle bestie non capiresti l’orrore, l’inettitudine a vivere, il desiderio disperato di rivincita.

Peccato, in Dago Red manca quest’apice di grazia, ma c’è tutto Fante nella sua interezza: la precisione e la velocità stilistica, l’ambizione, la povertà e le preghiere, e quel Bandini, qui Nick Toscana, che si confonde con chi l’ha tratteggiato, che è Fante e forse non lo è, ma che alla fine vorresti che fosse lui: il cattolico che bestemmia e rinnega ma che teme l’ira divina, lo scrittorino con sogni di gloria, l’uomo mediocre con una grandezza che ogni tanto fa capolino tra slealtà e crudeltà, il ragazzo che in un crepuscolo hollywoodiano si siede all’angolo tra la Franklin e l’Argyle e snocciola la sua personalissima Ave Maria (nel racconto omonimo), che sente addosso il disprezzo degli altri, ma che si prende una pausa là nella “cucina” del suo mondo, dove la sua fede sgualcita è tutt’uno con la speranza e il desiderio di farcela.

Rocker503
09-06-06, 13:40
Amo particolarmente "Il vecchio e il mare" di Hemingway e "Il Grande Gatsby" di F. Scott Fitzgerald

brodo_di_carne
09-06-06, 14:16
Amo particolarmente "Il vecchio e il mare" di Hemingway e "Il Grande Gatsby" di F. Scott Fitzgerald
di hemingway c'e addio alle armi che è molto meglio

Nicki (POL)
09-06-06, 15:36
di hemingway c'e addio alle armi che è molto meglio

Quoto.

Andrea I Nemesi (POL)
09-06-06, 16:09
Amo particolarmente "Il vecchio e il mare" di Hemingway e "Il Grande Gatsby" di F. Scott Fitzgerald
Quoto. Bello, di Hemingway, è anche "Per chi suona la campana"; un altro capolavoro di Fitzgerald è "Di là dal Paradiso".
Qualcuno ha mai letto Philip Dick? Io solo "La svastica sul sole": lo trovo molto interessante (per lo più grazie al mondo costruito con la Storia alternativa).

vandeano2005
09-10-06, 20:19
Charles Wright,
dai Navajo a Dante




Analisi del maggior poeta statunitense che mescola Montale a Whitman e i canti dei pellerossa al gran fiorentino

di Davide Brullo



Il Domenicale 7-10-2006


Tutto ciò che viene dagli Stati Uniti, visione del volgo, o fa schifo o è eccellente. Stessa sorte per gli affari letterari, dove pare che gli unici romanzieri stiano oltreoceano e così i maggiori poeti, tutti fantastici bruchi che rosicchiano felici la Grande Mela. Noi, che non siamo per nulla giudiziosi tranne quando gli altri sono estremisti, vien da pensarla un po’ diversamente. Ergo: non è tutto oro il verso che luccica. Ergo: noi non ci schioderemo da Petrarca, ma parecchi cowboy che impugnano la penna come un lazo a fatica scrivono due righe che non siano fatalmente whitmaniane o postpoundiane.

Fatte le premesse, occorre dire che nell’amazzonia di antologie made in Usa che ci è toccata la sorte di leggere in questi anni, nella folta truppa di abilissime scimmie con il piffero tra le labbra, tra i Mark Strand e i Charles Simic, tra i Robert Pinsky e i C.K. Williams, tra i Frank Bidart e la pur aggraziata Louise Glück (qui da noi i poeti della domenica nascono come funghi, lì vengon fuori forzuti porcini, lirici già con la laurea sotto braccio), noi abbiamo sempre preferito Charles Wright. Da quando, folgorati, leggemmo la scoppiettante antologia edita da Jaca Book, Crepuscolo americano e altre poesie (Milano 2001), che raccoglieva la produzione lirica di un ventennio, tra il 1980 e il 2000, che, poi lo chiarificheremo, è il suo più luminoso.
Allora, in un’accorata quarta di copertina, Roberto Mussapi, senza sparare con cartucce più poderose del lecito, scrisse: «la voce di Wright cresce fino a diventare una delle più grandi della poesia contemporanea di lingua inglese». Ben detto. E come fa il nostro cowboy del Tennessee ad avere una tenuta così solida? Mescolando in cocktail capace di stroncare un bue Ezra Pound ed Eugenio Montale, Walt Whitman e Dino Campana.


Di Ezra non si scarta nulla

Ebbene sì, nella penna del Nostro congiurano i maggiori americani con i maggiori italiani. C’è di che far montare in onda perpetua il petto. Questione di biografia, o, se preferite, di destino. Leggenda vuole che nel 1959, a Sirmione, Wright leggesse Pound pensando a Catullo, e che tale corto circuito abbia innescato in lui la scossa lirica. Imparò l’italiano, tradusse Montale (La bufera e altro, nel 1978; I mottetti, nel 1981), s’invaghì di Dante, trovò un affine in Dino Campana (la traduzione dei Canti orfici è del 1984). Chiamiamolo destino.
Eppure, è ovvio, tra Montale e Campana c’è un abisso. Quasi come tra il primo Wright e il secondo, che è poi l’ultimo. Lo si attesta leggendo questa seconda antologia dedicata all’americano, Breve storia dell’ombra (Crocetti Editore, Milano 2006, pp.212, e16,00), affidata ad Antonella Francini, che già si era presa cura della prima, e che copre il giro di anni che la precedente escludeva. Cioè, la produzione lirica degli anni Settanta e quella dal 2000 al 2005. E qui ci scappa il morto, cioè, si capisce, anche tastando qua e là come improbabili terapeuti, che il genio di Wright ha dato i frutti suoi più maturi “nel mezzo del cammin”.

Mettiamola così: il Nostro produce i risultati più clamorosi quando si dimentica di Montale (e delle chincaglierie ermetiche della primissima stagione) e fa lievitare certo Pound (di cui, e per fortuna sua, gli manca la vena polemica) con il Whitman (del quale, e ancora per fortuna sua, dimentica l’afflato “politico”) più alto, quello di When Lilacs Last in the Dooryard Bloom’d.
Di Pound, si sa, non si butta via niente, e Wright ne usa anche gli scarti, digerendoli bene. Mostra di aver letto e compreso non solo Hugh Selwyn Mauberley (specie di bigino del modernismo), ma anche le poesie di Lustra e dell’Homage to Sextus Propertius. In soldoni, ripercorre la stagione “imagista” del “miglior fabbro”, e per quella via arriva nel parchetto zen della Cina poundiana.

Confucio, Monet e Pavese

Mai si sottolineerà troppo l’importanza formativa di Cathay nella scrittura di Wright. Che se è globalmente ancora farraginosa in una raccolta come China Trace (1977), spicca ormai con ali d’aquila, ad esempio, in Zone Journals (1988) e Xionia (1990). Cioè, dove Li Po si confonde con Monet e i grandi impressionisti francesi, Confucio a Cézanne. Ma l’Oriente classico è prima di tutto disciplina di stile. Così, la scrittura del Wright maggiore è eminentemente “ideogrammatica”, distillato di significato in immagini fisse, cristalline, concluse. «Le parole cinesi sono vive e plastiche come la natura, poiché cosa e azione non sono formalmente separate», scriveva Pound in quella sua atipica “ars poetica” che è L’ideogramma cinese come mezzo di poesia (trad. it. Libri Scheiwiller, Milano 1987).
La parola è guscio plastico che fa esplodere i suoi mistici sensi, e Wright è davvero una sorta di I Ching buono per ogni giornata. Eppure, per fortuna nostra, egli non è un francese né si francesizza, cioè non guarda alla filiera che da Rimbaud arriva a René Char, ma che, pure, da Mallarmé giunge, già usurata, abusata, a certo Bonnefoy. No, per fortuna c’è di mezzo Whitman, così il Wright maggiore non si trattiene, ma si libera e libra, e si legga il maggior poemetto raccolto in questa antologia, Buffalo Yoga, con le varie “code” per rendersene conto (a proposito, fate pure a meno dei commenti dell’autore ai suoi testi: come sovente accade non gli rendono affatto giustizia).

In sunto: il placido piacere di Wright per l’astrazione (leggi, la “funzione Wallace Stevens”), non si tramuta mai in lacustre e tronfio intellettualismo, grazie anche all’altrettanto potente vena “demonica” e visionaria che forgia in drago bicipite Campana ad Hart Crane (il debito maggiore di Wright nei suoi confronti si salda in The Southern Cross,1981, il cui titolo calca una delle sezioni del vibrante e magnifico The Bridge di Crane). In mezzo, la “terrestrità” mitica e quasi etnografica di Pavese, che il Nostro ha studiato assai. Ed è per questa via che Wright giunge a una sorta di rilettura ancestrale della sua terra, recuperando in alcune poesie nevralgiche (ad esempio al principio di Buffalo Yoga, in Chickamauga e nel Libro appalachiano dei morti nelle sue varie “appendici”) segni, riti e figure della tradizione pellerossa, in specie Navajo e Apache (lo si compari ad alcuni canti rituali raccolti da Enrico Comba in Riti e misteri degli indiani d’America, UTET, Torino 2003).

Dalle foreste indiane alla selva oscura dantesca, in questa poesia colta e citazionista, ma anche “sciamanica”, il passo è brevissimo. Specie se compiuto, ancora, grazie a Virgilio-Pound («La forza è della lingua dantesca dove si trova la metafora tutta condensata nella scelta del verbo», scrisse Ezra su L’Indice di Genova nel 1930). Dante è partner onnipresente in queste liriche, eppure è difficoltoso, al di fuori di una volontaristica connessione d’amorosi sensi con il genio fiorentino, leggere nell’intera opera di Wright, come sembra fare la Francini, una Commedia in chicco di riso. Wright è superbo poeta, ma lasciamo a Dante ciò che è di Dante.

unknow (POL)
10-10-06, 00:13
Vandeano credo tu sia l'unico lettore del "Domenicale" la cui esistenza è stata accertata.
E' bel record sai? :D

Alberto89
10-10-06, 18:40
Io apprezzo molto Hawthorwe e la "Lettera scarlatta", meno la "Casa dei sette abbaini!.

vandeano2005
10-10-06, 18:47
Io apprezzo molto Hawthorwe e la "Lettera scarlatta", meno la "Casa dei sette abbaini!.


Condivido il tuo giudizio

Alberto89
11-10-06, 15:03
Condivido il tuo giudizio

Infatti, "La casa dei sette abbaini" mi sembrava troppo triste e pessimista. Invece "la lettera scarlatta" è più ottimista.

*-RUDY-*
12-10-06, 06:52
secondo me manca "antologia di spoon river" di edgar lee masters...

vandeano2005
17-10-06, 13:13
secondo me manca "antologia di spoon river" di edgar lee masters...


Non può certo mancare un'opera di cui posseggo moltissime edizioni (tra i miei difetti c'è quello di essere bibliofilo:D :D ) tra una con una firma di un certo peso...:-01#44

Certo Rudy non può mancare

vandeano2005
17-10-06, 13:37
Stephen Amidon
Il profeta dell’America post 11 settembre


di Vittorio Macioce
caposervizio de Il Giornale, si occupa di letteratura e nuovi scrittori, economia e società.



Qualche tempo fa David Foster Wallace parlava di quel gruppo di “grossi maschi bianchi”, quarantenni o giù di lì, alti almeno un metro e ottanta, quasi tutti con gli occhiali, che stanno cercando di raccontare l’America. Wallace faceva i nomi di Jonathan Franzen, Donald Antrim, Jeffrey Eugenides, Rick Moody, Richard Powers, William Vollman. Ricordava che “CivilWarLand in Bad Decline” di George Saunders è un gran bel libro. Parlava anche di A. M. Homes: “Le cose più lunghe magari non sono perfette, ma ogni due o tre pagine ti colpisce allo stomaco e ti fa piegare in due”. Ma se c’è qualcuno che ti mette davanti allo specchio e ti dice “guardati, questo sei tu” è un ex critico cinematografico e giornalista culturale. Si chiama Stephen Amidon. Uno che in Italia è riuscito a far crepare d’invidia Niccolò Ammaniti. Tutta questa gente, diceva Wallace, guarda all’America come un gigante rattrappito, un po’ isterico, che passa il tempo a guardarsi allo specchio e non si riconosce, troppo grande, troppo solo, troppo stanco dopo un secolo intenso, megalomane, feroce. L’America come Atlante si ritrova il mondo sulle spalle e non sa se questo peso è il segno della sua forza o il simbolo della sua maledizione. Se si va alla radice del romanzo sociale americano, quello che in questi anni ha ritrovato forza e vigore, quello che scruta l’anima di un paese immenso e ne intuisce inquietudini e correzioni, quello colto, sopravvissuto al salotto di Oprah Winfrey, che si illude di trovare la terra promessa nella vecchia Europa, l’afrore che si sente è quello tipico della paura, sudore acre, sudore freddo, sudore che non va più via.

Stephen Amidon ha 46 anni. Vive in un villaggio del Massachusetts con la moglie, fotografa, e quattro figli. E’ stato per molti anni a Londra, da giornalista, poi è tornato a casa e ha cominciato a raccontare un posto che non riconosceva. Nei suoi romanzi quel sentimento di paura che avvolge l’America non è solo una traccia lontana, ma è lo scenario stesso del dramma, tutto ciò che accade ai suoi personaggi è il riflesso di questo spirito inquieto. Un anno fa è stata tradotta in Italia la sua ultima storia: Il capitale umano (Mondadori). Il capitale umano, è inutile nasconderlo, siamo noi. Quelli che buttano a mare un’esistenza, vita, sogni, figli, amanti, mogli sul mercato del lavoro. Siamo noi che Amidon descrive: noi che inseguiamo il sogno di una vita a nove zeri per poi trovarci davanti ad un’esistenza che vale “meno di zero”. Sperperata, distrutta, dissipata nel cercare di vendere noi stessi in quel mercato del sociale dove “regna la superficialità e dove per vincere basta mettersi in mostra”. Sino alla fine, sino a quando, troppo tardi, ci si accorge di tutto ciò che abbiamo perso: sorrisi, carezze, umanità. Poi c’è solo il boom: che non è economico, ma è soltanto una bancarotta esistenziale
. Siamo noi che pure stiamo alla periferia dell’impero. Amidon qui ha raccontato la dissipazione del migliore dei mondi possibili. E la soluzione è che questa è l’unica strada possibile. Ma prima del “Capitale umano” c’era un’altra storia, che qui in Italia per uno strano gioco editoriale è arrivata dopo. Il titolo è The New City, La città nuova (Mondadori, pagg. 528, euro 19). Ed è in questo romanzo che l’America appare oggi per quello che effettivamente è: uno iato tra la più pragmatica delle utopie e il più amaro realismo. L’America del XXI secolo non può più scegliere. E’ come la Roma di Augusto, deve pagare il prezzo della pace e della vittoria. La Roma di Augusto, come l’America di oggi, per sopravvivere deve costruire muri.

La città nuova di Amidon si chiama Newton e si trova da qualche parte nel Maryland. E’ il sogno di un vecchio architetto, disegnare un mondo perfetto come alternativa alle tensioni sociali e razziali delle grandi metropoli. Una città dove non esistono ghetti, dove bianchi e neri, nativi e immigrati, coloni e post-coloni, ricchi e poveri vivono insieme, senza frontiere, senza spartiacque, in una democrazia che non conosce il veleno degli scontri ideologici e religiosi, dove la libertà è la firma sotto la carta di tutte le carte, quella che definisce il confine dei diritti e dei doveri. E’ una città dove tutti gli uomini nascono liberi, dove non c’è bisogno di polizia perché lo Stato è una comunità di individui che si riconosce nei valori universali dell’uomo. E’ un luogo dove non ti devi chiedere cosa può fare l’America per te, ma cosa tu puoi fare per l’America. E’ un congresso di bravi cittadini. Insomma, è un’utopia. La stessa, forse, che nell’euforia dell’indipendenza, in quella festa di bandiere e tacchini che è il 4 luglio, avevano i padri fondatori: i Washington, i Franklin, i Jefferson, i Madison, i Paine. E’ l’America dei 10 emendamenti. Newton è un sogno, ma ben presto diventa un affare. L’architetto è un vecchio rimbecillito. La città è il frutto di un avvocato bianco, Austin Swope, e di un imprenditore nero, Earl Wooten. Tutti e due credono nel progetto e nell’integrazione.

Tutti e due lavorano per realizzarlo. Le case vengono vendute in fretta, la sera le finestre restano aperte rassicuranti, pigri fili di fumo si levano dai comignoli e le biciclette vengono lasciate senza timore sotto i porticati. Ma tutto questo dura poco.
La paura frega tutti. I bianchi non si fidano dei neri, i ricchi dei poveri, i vecchi dei nuovi, reciprocamente, gli stessi sogni non si fidano dei propri sogni e così sognano incubi che ingoiano vecchi sogni e generano nuovi incubi. Anche l’avvocato e l’imprenditore, l’amico bianco e l’amico nero affogano nel sospetto. Basta poco per avvelenare un’amicizia, basta che l’amico pensi che l’amico ti sta soffiando il posto che tu hai desiderato per tutta la vita. Basta che l’amico veda nell’amico l’arroganza del potere. E’ così che il bianco si vede sempre più bianco e il nero sempre più nero. E’ così che i propri figli vedono negli occhi dei figli degli altri quello che fino ad allora avevano non voluto vedere. Il finale è la sconfitta di tutti. E’ la morte dell’ingenuità, che in questo caso ha il volto di una ragazza bella, soda, sincera e solare.

Come nella realtà i sogni cadono nella legge del sospetto. E’ la dottrina dell’1 per cento che Ron Suskind attribuisce all’amministrazione Bush. Se c’è un 1 per cento di possibilità che il sospetto sia vero, colpisci. In questo tempo e in questa storia l’America non può rischiare. E’ così che l’America sta ergendo un muro intorno a se stessa. E’ lo stesso muro che svela i sospetti dei protagonisti della Città Nuova. L’utopia s’infrange contro un muro di confine, quello che deve tenere fuori dal quartiere modello le scorribande degli altri, gli indesiderati. Il muro è il confine che l’America non ha mai avuto, abituata ad avere come frontiera solo l’ultimo orizzonte, quello che ti porta sempre un passo in più verso Occidente. Ma muro o non muro, ora, è il destino dell’America. Il muro è sicurezza, il non muro è libertà. Ma il muro serve appunto a difendere la libertà. E’ davvero un bel dilemma. Si può essere tolleranti con gli intolleranti? Si possono aprire le porte agli stranieri che corrompono la tua stessa identità? Si può abbracciare il nemico radicale e l’immigrato invadente? Forse sì, ma solo fino a quando non hai paura. Dicono che quel muro della città nuova lo stanno costruendo adesso. E’ solo uno dei tanti, forse solo più tangibile. E’ un muro di frontiera, un muro grigio di cemento armato che segue il confine con il Messico.

Zarskoeselo
22-10-06, 17:21
Ragazzi avete dimenticato Katherine Anne Porter, Truman Capote, Willa Cather e altri... Truman ha dato alla letteratura americana una sferzata di calbro mastodontico...che poi ha ingelosito altri mostri sacri (per me non alla sua altezza) quali Norman Mailer e Gore Vidal. E non dimentichiamo Harper Lee.
A proposito, ritengo l'ultimo film su Capote davvero lento, riduttivo e grigio: ottima l'interpretazione del protagonista, ma nel complesso, dopo aver letto e riletto a sangue freddo tanto da impararlo a memoria, il film risulta insoddisfacente e piatto.

*-RUDY-*
26-10-06, 04:39
Non può certo mancare un'opera di cui posseggo moltissime edizioni (tra i miei difetti c'è quello di essere bibliofilo:D :D ) tra una con una firma di un certo peso...:-01#44

Certo Rudy non può mancare

come me coi libri di statistica (compro le edizioni vecchie per respirare come si muovevano ai tempi senza le potenze di calcolo che hanno adesso).. ad ogni modo del libro ho profondi ricordi anche particolari, l'ho letto in una fase della mia vita abbastanza personale.. lo consiglio a tutti, certo c'è un po' di pazienza per capire un po' la storia ( o meglio le storie ) ma si viene abbondantemente ripagati in seguito.

*-RUDY-*
26-10-06, 04:42
ne aggiungo un altro che secondo me dovrebbe stare in lista... almeno per l'impatto che ha avuto su almeno due generazioni di americani (e credo almeno una di europei.. quando andavo al liceo andava molto tra quelli poco + grandi di me)..

Jonathan Livingston Seagull, il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach (http://it.wikipedia.org/wiki/Richard_Bach)

Zarskoeselo
26-10-06, 15:14
Neil Diamond, al film, fece una colonna sonora stupenda.

massena (POL)
26-10-06, 16:07
il buio oltre la siepe
uno dei miei preferiti

Dimension7
26-10-06, 22:19
Ci metto Stephen King. E' più commerciale lo so, ma non si può dire che non abbia influenzato la cultura contemporanea, e sono sicuro che tra qualche decina d'anni verrà considerato un classico.

Poi c'è "Seppellite il mio cuore a Wounded Knee", non ricordo l'autore però.

Dimension7
26-10-06, 23:06
Riguardo a "La svastica sul sole", c'è un altro libro uscito da due o tre anni al massimo che ha una tematica simile, parla di cosa sarebbe successo se usa e germania fossero stati alleati, o qualcosa del genere. La copertina rappresente una banconota usa con sopra una svastica. Nessuno ha capito di cosa parlo? L'autore mi pare fosse Roth.

EDIT

Trovato il titolo, è "Il complotto contro l'America". DOmani me lo prendo, sembra interessante. Qualcuno mi saprebbe suggerire qualche titolo di opere di fantastoria?

Zarskoeselo
27-10-06, 02:23
Poi c'è "Seppellite il mio cuore a Wounded Knee", non ricordo l'autore però.

Dee Brown, ma non è assolutamente credibile storicamente. Questo è uno degli esempi di storiografia forzatamente monocorde che ha alimentato una visione sfalsata degli Stati Uniti.

Dimension7
27-10-06, 09:53
Non è credibile storicamente in che senso? Mancano i testimoni, la cifra dei morti è gonfiata, o cosa?

Zarskoeselo
27-10-06, 16:48
Un po' tutto quello che dici. E' un libro apologetico e quindi va preso con le pinze, ma visti tutti gli altri testi sull'argomento (ad esempio, sulla scorta di dati, lettere e documenti gli autori di oggi smentiscono molto di quanto afferma Brown) decisamente è l'ultimo libro che consiglierei a chi volesse farsi una idea sull'epoca.
Aggiungo che se lo prendi come un romanzo, risulta godibile e commovente.

Dimension7
27-10-06, 18:07
Già che ci sei, suggeirsci qualche titolo che secondo te è più affidabile.

Zarskoeselo
27-10-06, 18:18
In italiano non c'è quasi nulla. Qui c'è un clichè, quello di Dee Brown, tranne qualche coraggioso autore fra i quali mi includo, che è costretto a pagare di persona. Se parli inglese ti farò una lista.

Dimension7
28-10-06, 01:06
Se fossero pochi brani, riuscirei a capirli con un po' di sforzo. Ma libri interi no.

Zarskoeselo
28-10-06, 22:06
Peccato...ti devo allora rimandare al mio lavoro, che uscirà l'anno venturo e che conterrà numerosi riferimenti bibliografici.