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Visualizza Versione Completa : I Democratici hanno perso la guerra



vandeano2005
23-05-06, 00:26
Sull’aborto è guerra,e per il National Review i Democratici l’hanno persa


Un’inchiesta della rivista conservatrice americana



Giulio Meotti


Il Foglio 27 aprile 2006

Roma. “Abortion on demand and without apology – Patriarchy’s got to go – Dead women can’t cook your meals”. La stagione degli slogan è stata sostituita da quella sulle cifre: ogni anno negli Stati Uniti vengono eseguiti 1.3 milioni di aborti (245 ogni 1.000 nascite). Nel vocabolario liberal “we”, “you” e “I” hanno poi rimpiazzato “donne”, “ragazze madri” e “teenagers”. Dall’Iowa al North Carolina, dall’Oregon all’Ohio lo slogan è sempre lo stesso: “Who decides?”. E’ tramontato anche il tempo dell’argomento “morti clandestine”. Ai primi di aprile il Center for Disease Control ha diffuso i dati relativi al 1972, l’anno prima della sentenza Roe vs. Wade che ha sancito il diritto all’aborto: 39 donne morte negli aborti clandestini, contro “le migliaia” citate dalle organizzazioni abortiste. Un’ecografia, la scritta cubitale “Life Undeniable” e la frase “Perché i Democratici stanno perdendo le guerre dell’aborto”. Non è un volantino pro-life, ma la copertina della National Review, da sempre magazine di una destra non appiattita sulle posizioni di quella religiosa. L’autore dell’inchiesta, Ramesh Ponnuru, ha appena scritto un libro, “The Party of Death” (Regnery).
Per i Democratici, che hanno perso il vantaggio sull’istruzione fra il 1999 e il 2002, quando George W. Bush ha spostato il centro del dibattito dall’abolizione del Dipartimento dell’Istruzione al No Child Left Behind Act, è diventato sempre più difficile negare che il sostegno al “diritto di aborto” li stia affossando. “L’aborto non è mai stato normalizzato nella cultura. Il popolo si rifiuta di vederlo come un’altra procedura medica. Nei primi anni del dibattito era una pratica diffusa per i sostenitori dell’aborto legale sminuire il feto umano chiamandolo ‘ammasso di tessuti’ o ‘protoplasma’. Ma quando sempre più persone hanno visto le ecografie del proprio figlio (non ancora disponibili nel 1973, ndr), hanno capito che queste descrizioni erano grossolanamente inadeguate”. Anche gli ultimi sondaggi, seppur ambivalenti, segnalano un’inversione di tendenza. “Se si danno tre opzioni per la politica sull’aborto – aborto legale in ogni circostanza, legale solo in casi di stupro, incesto o di pericolo per la donna, illegale in ogni circostanza – la maggioranza sceglierà le due più restrittive”. Una larga maggioranza è a favore di un periodo di attesa, le notifiche ai genitori e il divieto dopo il terzo mese di gravidanza. Legale o illegale, ma sempre “in poche circostanze”.
Nel settembre del 1995 la Gallup registrava il 56 per cento di pro-choice contro il 23 di pro-life; nel 1997 erano scesi da 47 a 44. Lo stesso vale per gli studenti. Nel 1992 il 67 per cento sosteneva l’aborto legale. Nel 2004 solo il 54, la più bassa percentuale dai tempi della sentenza Roe. In un sondaggio Zogby di gennaio il settanta per cento delle studentesse alla high school ha detto che non prenderebbe in considerazione l’aborto se rimanesse incinta. Le organizzazioni filo-abortiste hanno dunque il sostegno solo di un quarto degli americani. “Alienano milioni di americani difendendo l’indifendibile.
Per trent’anni gli abortisti hanno esaltato l’aborto su richiesta, mentre le giovani americane stavano diventando sempre più pro-life”. L’economista Michael New della Heritage Foundation ha dimostrato in una serie di inchieste che attraverso metodi come notifiche ai genitori, consenso informato e restrizioni temporali i tassi di aborti sono molto diminuiti. “John Kerry chiarì la sua visione in un’intervista a Peter Jennings – continua Ponnuru – Era sua ‘opinione personale’ che la fertilizzazione forma ‘un essere umano’. Ma ‘non è ancora una persona’. E per difendere la sua posizione, Kerry ha preso residenza nella terra di Peter Singer, dove il concetto di ‘umano non-persona’ ha un senso”.
La stratega Donna Brasile ha confessato sul New York Times: “Ho dei problemi nello spiegare alla mia famiglia che non stiamo uccidendo esseri umani”. L’amministrazione Clinton, la prima militante nel diritto all’aborto, nel 1993 approvò il più vasto finanziamento dell’aborto. Ma nelle 1.342 pagine la parola aborto non veniva mai usata, sostituita da “servizio per la donna incinta” e “interruzione di gravidanza”. Dieci anni fa i pro-life erano sulla difensiva di fronte ai Democratici che tentavano di approvare il Freedom of Choice Act, un provvedimento che avrebbe esteso “a qualunque circostanza” il diritto di abortire.
Per qualsiasi ragione, o senza nessuna, a seconda di come si vuole vederla. Dieci anni dopo hanno scelto un pro-life, Harry Reid, a guida della minoranza al Senato, e in Pennsylvania hanno candidato l’antiabortista Robert Casey Jr. contro il cattolico Rick Santorum (nel 1992 i Democratici negarono al padre di Casey il diritto di parlare alla convention). Nel Michigan il governatore democratico Jennifer Granholm ha stabilito che le cliniche abortiste devono mettere a disposizione delle donne le immagini del feto. Gli abortisti non hanno ovviamente gradito.
Alla politica del grande colpo, come l’agognato Human Life Amendment, la maggioranza dei repubblicani ne preferisce una dei piccoli passi. Lontani da Washington, almeno per un po’, decapitalizzando il dibattito, come quello sul darwinismo. “Le restrizioni dell’aborto cresceranno in modo rivoluzionario anche senza rovesciare la Roe”, dice il professor David Garrow. A partire dalla metà degli anni Ottanta due terzi degli stati hanno bandito o ristretto l’uso dei fondi federali per l’aborto. Il caso era nato il 9 gennaio del 1989, quando la Corte Suprema annunciò che avrebbe preso in considerazione il caso Webster v. Reproductive Health Services, sull’uso di strutture e fondi pubblici per l’aborto. Uno degli slogan preferiti degli abortisti diceva: “Ehi Bush, speravamo che tua madre avesse una scelta”.
I pro-choice persero e William Rehnquist disse che “niente nella Costituzione chiede agli stati di entrare o rimanere nel business degli aborti”. Gli occhi oggi sono puntati sul destino della legge del South Dakota, che ha approvato un attaccco frontale all’impianto della sentenza Roe. Due ore dopo il voto, l’associazione abortista Naral spedì ai militanti una e-mail: “Il tuo stato sarà il prossimo?”. Nel caso in cui la Corte suprema decidesse di rivedere i parametri della Roe, ventidue stati sono pronti a varare una legge restrittiva sull’aborto, dal sud degli Stati Uniti a cinque stati che attraversano la Rust Belt, dalla Pennsylvania all’Ohio. Sedici manterranno la legislazione attuale, dalla costa ovest a nord-est (New York, New Jersey e California registrano, da soli, oltre metà degli aborti ogni anno).
Dodici nel midwest adotteranno una posizione intermedia. Nelle elezioni di novembre nel Michigan ci sarà un referendum che chiede di dare cittadinanza al feto, per proteggerlo. Politicamente il dato che secondo Ponnuru dovrebbe preoccupare i Democratici è che quei ventidue stati, che restringerebbero il diritto all’aborto, ospitano oltre metà della popolazione e la loro importanza rappresentativa è destinata a surclassare quella degli stati liberal, visto l’abisso nei tassi di natalità. Nel South Dakota gli abortisti tenteranno la strada del referendum, che ha poche chance di successo. In questo caso la controversia si rifugerebbe nelle corti, fino a quella più nobile, Washington. Le sorprese non sono escluse. Prendiamo il Tennessee, uno stato molto retrittivo sull’aborto: da due giorni non si possono più produrre targhe con la scritta “Choose Life”, in seguito alla sentenza di una corte d’appello.
“Non dobbiamo ‘vincere’ il dibattito, ma batterci per il diritto di averne uno, che significa rovesciare la tirannia giudiziaria della sentenza Roe – scrive Ponnuru – Il giudizio corrente quindici anni fa che l’opposizione all’aborto fosse un handicap per i repubblicani, è stato rovesciato completamente. Nei giorni successivi alla morte di Terri Schiavo, un democratico avvisò: ‘Non possiamo essere solo il partito della morte’. Giusto. Ma è un destino dal quale i Democratici sembrano non essere in grado di salvarsi”.

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