PDA

Visualizza Versione Completa : Rapporti USA Europa



vandeano2005
24-05-06, 16:47
I L DIBATTITO DI “MAGNA CARTA”


Divergenze transatlantiche in osservazione
al seminario di Lucca

Marina Valensise


Il Foglio 7 giugno 2005


Lucca. Non s’è dovuto aspettare molto al seminario della Fondazione Magna Carta perché scoppiassero le divergenze transatlantiche. Chiusi in conclave, alcuni degli ospiti non hanno resistito a raccontare il dissidio che sin dal primo giorno ha opposto l’ex presidente del Consiglio e già ministro degli Affari Esteri Lamberto Dini alla vicedirettrice dell’American Enterprise Institute, Danielle Pletka. Motivo del contendere il distinguo tra“support” e “promote democracy”, espressione di due opposte strategie politico- militari: quella dei fautori del “soft power”, irradiazione indolore dei valori democratici, e quella dei sostenitori della forza militare in difesa della sicurezza. Il dissidio che ha lacerato le coscienze al momento dell’intervento in Iraq è riesploso a consuntivo di una guerra che oggi alcuni, come Lawrence Korb o Ethan Bronner, considerano “un diversivo”. A Lucca è scoppiato nel battibecco tra il ministro andreottiano, che si chiedeva se non dovessimo cambiare il nostro sistema di valori, e la giovane esperta americana che lo incalzava, cercando di inchiodarlo a cifre e dati, accusandolo di fare sola retorica quando rispondeva che l’Europa ha messo gli Hezbollah sulla lista nera, salvo poi continuare a trattare con loro sottobanco. E pensare che il sottosegretario agli interni Alfredo Mantovano aveva appena ottenuto l’unanimità dei consensi (“vero politico da esportazione”, dicevano gli entusiasti, “parla come un ministro straniero”) smantellando una serie di luoghi comuni. E cioè la fine dell’amicizia con gli Stati arabi che in passato avrebbe tenuto l’Italia al riparo dal terrorismo: premessa falsa e inadeguata al fondamentalismo religioso odierno; il terrorismo come effetto della miseria e dell’oppressione occidentale sul terzo mondo: che dire allora dell’élite benestante di al Quaida o degli eccidi di musulmani in Algeria? La guerra al terrorismo imposta come scontro di civiltà, quando in realtà mira a distruggere l’islam moderato, e dall’islam si diffonde al mondo intero; infine l’assenza di risultati dopo l’opzione delle armi, col dilagare di odio e risentimento: altro assioma infondato, che non tiene conto dei cambiamenti in Afghanistan, in Sudan, in Libia, e persino in Pakistan e in Algeria: “Non un solo Stato dove gli ultrafondamentalisti siano più vicini al potere di quanto lo fossero nel 2001”, ha detto Mantovano.

Un nuovo asse iperliberale

L’indomani la relazione di Paul Berman sulla lotta del liberalismo contro il terrorismo come replica del totalitarismo ha schivato la domanda del sociologo anglocanadese Peter Baher sulla novità del termine e dunque del fenomeno. Ma il vero contrasto transatlantico si è riacceso sulla Russia di Putin. Il russo Viktor Zavslasky ha insistito senza mezzi termini sul complesso industrial-militare, rinvigorito dal nuovo autoritarismo, che ha posto un freno al riformismo, restaurando le vecchie élite sovietiche e conquistandosi l’eufemismo di “managed democracy”. Alla fine ha citato Richard Pipes, il sovietologo preferito di Ronald Reagan. “Le differenze politico- culturali non permettono una partnership di lunga durata e di ampio respiro”.
Il polacco Radek Sikorski, l’ex sottosegretario agli Esteri che da Washington dirige oggi la New Atlantic Initiative, ha insistito sulla corruzione, sul genocidio ceceno(oltre il 20 per cento della popolazione), sul centralismo autocratico e il patriottismo di Stato. “Noi europei”, ha detto, “dovremmo fare opera di chiarezza morale, incoraggiare la svolta democratica di paesi come l’Ucraina, e difendere l’integrità delle nostre istituzioni come il Consiglio d’Europa, di cui la Russia è membro anche se non sembra avere a cuore i diritti dell’uomo”. L’Europa, dopo il no di Francia e Olanda alla Costituzione, resta un attore dai contorni problematici. E tale resterà, secondo il ministro Giorgio La Malfa, se non riacquisterà fiducia, che significa crescita economica e dunque liberalizzazione di mercati e servizi, secondo la direttiva Bolkenstein. “Esattamente l’opposto di quanto si proponevano i no global francesi”, dice Sikorski, che si sta già attivando per il nuovo asse iperliberale anglo-tedesco- polacco-italiano che darà vita al rilancio della Ue.

vandeano2005
30-05-06, 18:11
I principi ispiratori
della politica estera americana

di Leonardo Tirabassi


Ragionpolitica
30 maggio 2006

In un articolo interessante e documentato di Lucio Caracciolo su Limes a proposito della Cina («In Africa il nuovo colonialismo ha gli occhi a mandorla - La Cina prende risorse in cambio di soldi e protezione politica - L'America non sa cosa fare») riportato dal Foglio di lunedì 16 maggio, si nota appunto come davanti all'iniziativa cinese di penetrazione in quel continente, gli Stati Uniti siano senza iniziative precise. In una parola, manchino di una politica estera unitaria e coerente. Davanti al Celeste Impero che sa che cosa vuole, innanzitutto materie prime e petrolio di cui ha una sete senza fine, che ha appeal in quel continente in nome di una comune appartenenza al club dei paesi in via di sviluppo (!), che non pone nessuna attenzione allo stato dei diritti umani, vi è un'America in stallo. Anzi che reagisce all'invasione cinese «in ordine rigorosamente sparso» e, anzi, «con le mani legate dai suoi stessi principi» codificati dalla dottrina Bush dell'espansione della libertà.
Quello che qui ci interessa non è però affrontare il tema dell'espansionismo cinese, bensì il modo di agire in politica estera degli Stati Uniti. Caracciolo solleva tre osservazioni: l'azione americana è confusa, in ritardo e ispirata da motivi ideali che ne limitano la forza e la spregiudicatezza. Non sono accuse di poco conto, anche perché riguardano le relazioni tra tre soggetti fondamentali: un continente, il Paese più popolato del mondo e l'unica super potenza mondiale. E la conclusione che emerge, anche se accennata in modo implicito, è chiara: gli Stati Uniti dovrebbero essere più disinvolti, meno moralisti, più realisti. Partiamo da quest'ultima osservazione. Sembra la più forte: davanti ad un avversario spregiudicato che gioca a tutto campo e con tutti gli strumenti, bisogna essere altrettanto spregiudicati, altrimenti i contendenti giocano nello stesso campo a due giochi diversi con regole diverse: rugby contro calcetto a cinque. Ecco, credo che questa obiezione sia assolutamente insulsa e dimostri un tipico modo di ragionare italiano. Essa cioè è caratteristica e rappresenta una sorta di trappola del «doppio legame», come avrebbe detto Paul Watzlawick citando, a mo' di esempio, una storiella, mi sembra, yiddish. Una mamma regala al figlio due camice scozzesi, una rossa e una blu, il ragazzo ne indossa una, quella rossa. E la madre allora in lacrime, «perché non hai messo quella blu, forse non ti piaceva, ho sbagliato a comprarla?». Cioè, se sono cinico e realista, sbaglio perché sono immorale; se al contrario le mie azioni si ispirano a saldi valori, allora risulto inefficiente e manco di sano realismo machiavellico. Non c'è scampo al mio destino di soccombente! E questo tipo di ragionamento è un leit motiv degli intellettuali di sinistra post comunisti: «se Berlusconi fosse realmente liberista lo voterei, ma, essendolo poco, allora voto Unione, cioè chi sicuramente è statalista! Ma se in Italia ci fosse davvero Margaret Thatcher, scapperei». E così verso gli Stati Uniti: una volta accusati di essere dei bonaccioni moralisti e un po' sempliciotti e quindi disposti a sparare troppo in fretta in nome dei principi; un'altra di essere dei loschi figuri che tramano con tutte le dittature.
E' circa cento anni che la loro politica si muove sul sentiero sottile tra realismo-idealismo, veri principi ispiratori di ogni loro agire; è chiaro, non sempre bilanciandoli bene, ogni tanto o per lunghi anni squilibrando l'azione verso l'uno o l'altro termine - si veda durante la guerra fredda l'appoggio a dittature di destra impresentabili in nome dell'anticomunismo, per non parlare del sostegno a regimi non solo disgustosi ma anche senza nessun sostegno popolare, si veda il Vietnam del Sud. Ma non si può notare come, nel corso degli anni, questo «errore» di realismo sia stato corretto. Fu l'«attore» Reagan a raddrizzare la barra, sostenendo nel Terzo Mondo, negli anni Ottanta, partiti e personaggi democratici contro gli avversari filo sovietici, dal Nicaragua alle Filippine.
Oggi, con la formula dell'«idealismo realista», sembra che l'elaborazione della politica estera Usa sia giunta, per lo meno sul piano dei principi, a maturità. Diverso, come sempre, è il discorso dell'applicazione concreta. Per tornare alle accuse di Caracciolo, vediamo adesso il primo punto di debolezza, a cui accennavamo in precedenza, relativo alla «confusione» nella politica estera statunitense dovuta a linee di comando in contraddizione tra loro. Davanti a questa obiezione, c'è poco da controbattere. E' sempre stato così. Questo perché gli Usa sono un Paese complesso e democratico e molteplici gli attori che si muovono autonomamente sull'arena internazionale, perché molteplici sono i centri di potere. Mass media, opinione pubblica, gruppi di pressione, lobby economiche, attori semi istituzionali, dalle Camere di Commercio ai sindacati, alle ONG, think thank, chiese di vario tipo e così via. Questi gruppi formano una rete che guida l'establishment e il processo formale di decisione politica, che a sua volta non risulta certamente lineare. A partire dal ruolo del Presidente che, in modo speciale dopo il Vietnam, vede i propri poteri estremamente limitati dal Congresso e dalle sue commissioni, che in caso di maggioranze diverse da quella che ha eletto il Presidente fanno una loro propria politica estera anche in contraddizione con quella portata avanti dal responsabile istituzionale. La massima carica dello Stato deve, difatti, coordinare i suoni del Segretario di Stato, di quello alla Difesa, del direttore della Cia, del Capo di Stato maggiore, del portavoce del National Security Council (che riunisce tutti i personaggi di cui sopra, compreso il vice presidente) e, infine, dello staff della Casa Bianca.
Il processo decisionale che produce la politica è perciò fluido, dinamico, non sistematico e non razionale. Tutti fattori che creano difficoltà alla concentrazione necessaria del potere per reggere e governare sfide diverse dagli interessi nazionali consolidati nel tempo o quelle impellenti che minacciano la sicurezza immediata della Nazione, come l'Urss ai tempi della Guerra Fredda o il terrorismo dopo l'11 settembre. Non stupisce quindi, e arriviamo al punto di partenza del ragionamento di Caracciolo, che gli Stati Uniti abbiano tempi di reazione lenti, che appunto reagiscano a fatti esterni ex post, che in una qualche modo siano passivi, che intervengano nell'arena internazionale superando una sorta di forza d'inerzia isolazionista che, al pari della vocazione «missionaria», viene da lontano. Ecco allora l'intervento nella Prima guerra mondiale in seguito all'affondamento del Lusitania, quello nella Seconda guerra mondiale dopo l'attacco a Pearl Harbor, lo sviluppo di una politica contro il terrorismo islamico dopo l'11 settembre. Se a questi tre punti si aggiunge che gli Stati Uniti sono l'unico attore su cui ruota l'intero sistema internazionale, cioè l'unica potenza che abbia interessi in tutto il mondo, diventa per noi osservatori lontani più semplice capire e apprezzare, garanzia della nostra libertà, la presunta lentezza e confusione d'azione dell'America.

Eric Draven
28-02-07, 19:33
che ne pensate di queste analisi? Il problema della natura dei rapporti tra Europa e USA è fondamentale per capire se moriremo tutti sotto un burqua o se resteremo liberi...