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Visualizza Versione Completa : La sola religione rimasta.



Eymerich (POL)
31-05-06, 16:11
In Cina esiste da millenni una religione civile pubblica che nemmeno Mao è riuscito ad abolire: il confucianesimo.
Si può essere buddhisti, taoisti e cristiani - o anche semplicemente atei - ma bisogna assolutamente compiere gli atti rituali del «culto degli antenati».
Oggi il culto continua nei soli riti privati, ma v'erano riti pubblici e grandiosi, eseguiti dall'imperatore e dai funzionari di ogni grado, e un'etica obbligatoria per tutti - ma anche volentieri seguita - che comprende, per esempio, il rispetto dei vecchi, l'assistenza ai genitori, il culto della famiglia intesa come continuità mistica nella vita e nella morte.
I culti confuciani supponevano la presenza di tutti gli antenati, anche gli sconosciuti e dimenticati, come viventi nei discendenti.
I gesuiti di padre Ricci capirono bene che questo culto non era una religione ma una morale civile, e una pedagogia.
Tolta la tonaca, vestirono gli abiti spettanti al loro rango di intellettuali - la veste lucente di seta dei mandarini - e compirono quei riti.
Il Vaticano, troppo estraneo al contesto culturale cinese, sospettò l'idolatria e impose il divieto.
Fu la crisi della penetrazione missionaria cinese: dei portatori di una religione che però non compivano i riti sociali cinesi, restavano radicalmente «stranieri» e non assimilabili.
Oggi il Vaticano ha capito che, se non vuole essere spazzato via del tutto dalla scena del mondo, deve bruciare grani d'incenso alla religione civile universale.


Non sfuggirà infatti che il laico Occidente ha il suo «confucianesimo».
L'Occidente è laico in quanto esige da tutte le altre fedi che si limitino alle sfera privata, non giudichino la società, e compiano il meno possibile di atti esterni; e rigetta l'Islam proprio perché esso resiste a questa riduzione alla coscienza intima e individuale.
Però esige che la sua vera religione venga onorata da tutti in culti aperti e «pubblici».
Di fronte ad essa, non è consentita l'apostasia, e nemmeno il semplice agnosticismo, che invece è raccomandato come atteggiamento laico verso tutte le altre.
E' consentito, anzi applaudito, sostenere pubblicamente che Gesù non è mai esistito, esercitare una critica distruttiva sui Vangeli, proclamare che le cose e le vicende della prima Chiesa non sono andate come essi raccontano; ma nessun dubbio è consentito nella nuova religione.
Essa è protetta dalla per legge da ogni «critica delle fonti», e per legge penale: non c'è segno più chiaro della natura pubblica della fede civile di questo suo essere protetta dallo Stato contro ogni dubbioso o renitente.
Chiunque provi, sulla base di ricerche storiche, a dire che le cose non sono andate proprio come vuole la fede universale, è «revisionista», e quindi espulso dalla comunità.
Ritualmente, ma anche concretamente incarcerato.
Il settimanale Spiegel ha appena intervistato l'iraniano Ahmadinejad.


Costui ha ripetuto in sostanza che, «se» l'olocausto c'è stato veramente, è in ogni caso una colpa degli occidentali, che gli orientali non hanno commesso; e non si vede perché il Medio Oriente debba sopportare la conseguenza storica di questa colpa non sua, ossia lo Stato d'Israele armatissimo, minaccioso e oppressivo verso tutti i suoi vicini.
Come previsto, quest'argomento non è stato ritenuto accettabile.
Verso le altre religioni, specie l'Islam, è incoraggiata la derisione blasfema; ma verso la sola unica vera, non è consentito nemmeno l'agnosticismo.
La semplice professione di estraneità, un semplice «se», bastano a decretare l'accusa di «negazionismo», ossia della suprema eresia, che comporta l'esclusione dal genere umano e la perdita di ogni diritto, anche a quello alla propria difesa legale e militare.
Le altre religioni hanno smesso di bruciare apostati ed eresiarchi; solo la nuova religione prescrive ancora per gli eretici il rogo, non escluso quello nucleare.
Per tutti questi motivi, Benedetto XVI ha fatto benissimo a compiere l'atto di culto richiesto dal nuovo confucianesimo globale.
I cattolici progressisti e conciliari, che spregiano la liturgia come un vecchiume superfluo, dovrebbero ricavare qualche riflessione dai resoconti giornalistici della prima visita del nuovo Papa ad Auschwitz: giornali e TV hanno spiato puntigliosamente fino a che punto Benedetto si conformava alla liturgia della religione totale, e hanno sottolineato i punti in cui è parso discostarsene.


Hanno preso nota di quante volte, anziché la parola «olocausto», ha osato il termine «shoah», più liturgico perché tratto dalla lingua sacra, e la cui pronuncia è segno esterno di una più intima adesione alla fede occidentale universale.
Hanno sottolineato compunti che il Papa è entrato ad Auschwitz con le mani giunte e così ha compiuto tutto il liturgico percorso, la via crucis ebraica, «in preghiera fin dal primo istante del suo ingresso» (La Repubblica).
E come non abbia aperto bocca «se non al termine del canto di lutto del Kaddish», canto altamente liturgico.
Hanno notato con compiacimento la frase papale: «Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? E' in questo atteggiamento di silenzio che ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti alla innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte».
Questa frase è stata vista come adesione dovuta alla neo-teologia globale, secondo cui «Dio ad Auschwitz non c'era» perché non è intervenuto a salvare il suo popolo non solo eletto, ma innocente da ogni colpa; da cui discende che da quel momento, tale popolo si autorizza a prendersi da sé ciò che Dio gli aveva promesso e che non ha mantenuto, a cominciare dalla Terra Santa; e a difendersi da sé con 2-300 bombe atomiche.
Per un cristiano, ciò è ovviamente assurdo.


Non solo dove c'è la sofferenza di uomini, là appunto è Cristo crocifisso; ma ad Auschwitz Cristo diede prova della sua presenza, incarnato in padre Kolbe, che diede la vita «per gli amici», mostrando così che l'amore è più grande.
E infatti, Benedetto XVI ha visitato anche la cella di padre Kolbe.
Un piccolo strappo alla liturgia, che viene tollerato perché dopotutto Kolbe ha salvato con la sua vita quella incomparabile di ebrei.
Quel che conta, per il neo-confucianesimo occidentale, è che gli atti del culto pubblico vengano compiuti da ogni religione e da ogni capo religioso.
Atti esterni: sono i segni che contano.
Segni di sottomissione.
Papa Benedetto è stato molto attento.
Come padre Ricci in Cina, ha pronunciato le parole richieste al momento liturgicamente prescritto, per poter poi concedersi qualche verità.
Ha detto che gli ebrei ad Auschwitz sono stati suppliziati come «pecore da macello», espressione che riconosce agli ebrei la loro innocenza radicale anzi sacrale, che li rende immuni da ogni giudizio sui loro atti successivi, anche malvagi.


Il Papa ha confermato che i nazionalsocialisti «con l'annientamento di questo popolo volevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell'umanità che restano validi in eterno».
Non era quello il momento di sottilizzare che Gesù negò quello che gli ebrei gli ripetevano, «nostro padre è Abramo», e anzì asserì che «vostro padre è il diavolo».
Nella liturgia del neo-confucianesimo non c'è spazio per parole in libertà ed espressioni private come ce n'è in abbondanza nella liturgia cattolica post-conciliare.
Come prescritto, si doveva assolutamente stabilire che uccidere ebrei equivale ad «uccidere Dio», magari ritraendosi dall'enunciare il corollario evidente, che dunque gli ebrei e Dio sono una cosa sola.
In compenso, il Papa ha potuto insinuare parole cristiane.
La memoria dei milioni di morti non vuole, ha detto, «provocare in noi l'odio: ci dimostrano anzi quanto sia terribile l'opera dell'odio».
Il ricordo delle vittime, ha continuato, vuole «portare la ragione a riconoscere il male come male e a rifiutarlo; suscitare in noi il coraggio del bene, della resistenza contro il male».
Questo è infatti cristiano.
Anche se, prudentemente, è stato opportuno farlo citando non Cristo, ma Sofocle.


Il Papa ha parlato dei «sentimenti che Sofocle mette sulle labbra di Antigone di fronte all'orrore che la circonda: 'sono qui non per odiare insieme ma per insieme amare'».
Un bellisssimo colpo: non occorre essere cristiani per capire che non si deve continuare ad odiare, che l'intera umanità, anche i nemici, sono chiamati ad amare insieme.
Che a questo deve tendere un culto della memoria.
Notevole, e degno della riflessione dei catto-progressisti, è il tono con cui giornali e TV hanno riportato l'evento cultuale.
Resoconti tutti rigorosamente uguali.
Stesse sottolineature compunte dei medesimi momenti del rito, stessa commossa unzione, stesse parole.
Evidentemente consci, i giornalisti, che non stavano facendo cronaca ma essi stessi partecipavano alla liturgia.
Come i fedeli della Messa di un tempo rispondevano con parole prescritte, anch'essi hanno recitato i responsorii consacrati dalla neo-tradizione.
Non hanno raccontato, ma suonato sull'organo i motivi sacrali, senza alcuna variazione («ne varietur», era scritto sugli spartiti dell'antico gregoriano).
Non più osservatori, ma popolo di fedeli partecipanti al rito centrale della sola religione a cui loro e tutti noi, Papi e imam, siamo obbligati ad aderire.


E infatti la cronaca-liturgia è stata accompagnata da liturgiche rievocazioni della shoah, dai vecchi storici filmati; tutti volti a riconfermare la fede nella «unicità» dell'evento e della sofferenza eletta.
Alla quale è vietato congiungere, ed anche lontanamente paragonare, i milioni di morti nelle tragedie del secolo breve.
Benedetto tuttavia ha ricordato anche i polacchi, i russi (20 milioni di morti nella seconda guerra mondiale) e i «rom» vittime della stessa mano.
Ciò è consentito, purchè non si facciano paragoni fra queste stragi e l'unica shoah.
Se mai, La Repubblica si è permessa di notare ciò che mancava nell'elenco del Papa: «nessuna traccia degli omosessuali deportati nel lager».
Ma i tempi non sono ancora maturi per una liturgia pubblica e obbligatoria di quest'altro, subordinato «agnello sofferente» della modernità.
Però sul cuore del rito, per sapere fino a che punto il Papa aveva rispettato i canoni, i giornalisti non hanno osato esprimere giudizi proprii.
Si sono rivolti - tutti nessuno escluso - ad esponenti della comunità ebraica; com'è giusto, essendo questa l'oggetto del culto, nonché la fondatrice della fede civile globale, e dunque la sola autorità giudicante della congruità degli ufficii.
Così, i cronisti hanno riportato che dalla comunità era venuto «qualche appunto».


Per esempio, si è notato, il Papa non ha ripetuto una pubblica condanna dell'antisemitismo «attuale».
La cosa non deve stupire: anche la Chiesa cattolica conosce la distinzione fra peccato «originale» e peccato «attuale».
Come infatti ogni discendente di Adamo porta le conseguenze del peccato «originale» anche se non compie peccati «attuali» personali (e nel cristianesimo ne va lavato col battesimo), così nella nuova religione totale tutti i non-ebrei (anche i lontanissimi persiani) sono colpevoli in quanto discendenti di Hitler; ed essendo la loro natura indebolita dal peccato originale, sono inclini a commettere quell'antico peccato anche oggi.
Per esempio, se obiettano alle 200-300 atomiche di Israele, e all'oppressione che fanno soffrire ai palestinesi, i non-ebrei si macchiano di «antisemitismo».
Per questo l'anti-sionismo è smascherato costantemente come una maschera dell'antisemitismo.
E se un palestinese hizbullah spara e uccide un ebreo, non compie un omicidio, ma un sacrilegio, perché ripete la colpa originaria.
Perciò tutti, anche il Papa, devono costantemente «mettere in guardia» dall'antisemitismo, dal negazionismo e dal revisionismo.
A questo si congiunge il secondo «appunto».
Infatti Benedetto, ha rilevato il capo della comunità ebreo-polacca Kadlcik, non ha ricordato «tutte le altre sofferenze patite dagli ebrei prima e dopo l'olocausto».


Kadlcik ha rilevato che al contrario, Giovanni Paolo II ha sempre ripetuto: «Le sofferenze degli ebrei non sono cominciate nel '41 e non sono finite nel '45».
Questo è un punto teologico della più evidente importanza per la nuova religione: non deve ridursi, come il confucianesimo, ad un culto degli antenati.
Chi vuole essere ammesso ai benefici sociali del rito pubblico, non basta dunque che celebri l'olocausto.
Deve proclamare il concorso della sua colpa in ciò che gli ebrei hanno sofferto «prima e dopo».
Che non significa solo riconoscere che quella degli ebrei è una sofferenza metafisica, non paragonabile ad alcun'altra; si deve anche capire, anzi far propria intimamente l'idea che gli ebrei stanno soffrendo anche oggi per colpa nostra attuale; e per questo si armano, spingono gli USA a incenerire l'Iraq e l'Iran, e calpestano i palestinesi.
Israele è infatti minacciata «nella sua stessa esistenza» (recita la neo-liturgia) in modo permanente - ne segue che, per cercare di vivere tranquilla, e alleviare almeno un poco la propria sofferenza, deve per forza destabilizzare attorno a sé una vastissima popolazione umana, spargendo morte e uranio impoverito, distruggendo colture e civiltà inferiori nel raggio di migliaia di chilometri.
Perché «Dio ad Auschwitz non c'era» e diciamolo pure, non c'è nemmeno altrove.
Dunque spetta ad Israele farsi Dio.
E se per questo devono far soffrire altri, non importa: le sofferenze altrui valgono infinitamente meno di quella eterna e sacra degli eletti.


Furio Colombo, autorizzato dalla sua triplice veste di giornalista, ebreo e vittima, non ha avuto bisogno di raccogliere le lagnanze degli eletti.
Le ha espresse lui stesso con la dovuta crudezza su L'Unità, sotto il titolo «Un papa revisionista».
Il Papa è revisionista perché ha provato a dire che anche i tedeschi sono stati vittime ingannate da una dittatura criminale.
«Ha parlato da tedesco», e non da vero adepto della fede pubblica.
«Ha nominato Stalin fra i mali del mondo, mai Hitler».
«Non ha ricordato la Rosa Bianca».
Ha fatto una lista delle «altre vittime» che non è piaciuta, perché ha dato l'impressione di confondere tra quelle il popolo eletto.
Eccetera, eccetera.
L'accusa peggiore, per le conseguenze che comporta, è la prima.
Infatti il rabbino Di Segni ha sottolineato la frase sul popolo tedesco, «come fosse egli stesso vittima e non, invece, parte dei persecutori».
Altri hanno ricordato che i tedeschi furono «i volonterosi carnefici di Hitler», ed è una risposta adeguata nel quadro della liturgia, di fronte al maldestro revisionismo pontificale.
In questo revisionismo, c'è il seme di un giudizio «laico» in quanto storico, che non può essere ammesso nella religione pubblica: come c'è una sola vittima collettiva e innocente, ci dev'essere un colpevole collettivo e metafisico, eterno, fissato dal rito una volta per tutte.


In ogni caso, forse Benedetto ha evitato il peggio, evitando di menzionare la sofferenza attuale inflitta ai palestinesi, la fame, il soffocamento, la mancanza di cure.
Quella sofferenza è laica e banale; fa parte della cronaca, non della storia sacra.
Queste lagnanze tuttavia ci dicono qualcosa di inquietante.
Una religione pubblica sconta e ammette l'inevitabilità di una qualche ipocrisia, di solito le basta il compimento degli atti esterni di latria, la cerimonia.
Qui, gli oggetti del culto pretendono dal Papa l'adesione intima della coscienza al sacro racconto, al sacrificio fondante dell'ebraismo supremo; senza riguardo per la fede di cui il Papa è capo, il cui racconto sacro, il cui sacrificio fondante, ai loro occhi non merita rispetto e non vale nulla.
Nessuno ha rivendicato il diritto del Papa al suo proprio racconto, perché questo deve restare intimo e privato - come un sogno o un delirio - e non pretendere lo status di religio riconosciuta.
Questo ci dice chiaramente che il culto dell'olocausto non è solo la religione civile dell'epoca; è la sola religione rimasta.
Non si contenta di cerimonie, esige riti sacramentali.


E inoltre, questa religione civile non è così innocua (o benefica) come il confucianesimo.
Essa ha conseguenze politiche su tutta l'umanità, nel nostro oggi.
E conseguenze gravi, in termini di guerre ed oppressioni.
A questo punto, rifiutarsi di bruciare il grano d'incenso al nuovo Cesare-Dio non sarà uno stretto dovere, per dei cristiani?
Qualche giovane prete, angosciato, mi ha scritto in questo senso.
Ma non ne accusiamo Benedetto: dopo il Concilio, siamo tutti ormai abituati a dare poca importanza agli atti rituali, abbiamo perso il senso del loro valore sacramentale.
Per questo è facile aderire alla religione civile totalitaria.
Senza la piena consapevolezza di ciò che questo significa.
Per tornare cristiani, bisogna percorrere una lunga strada a ritroso.
Per adesso, siamo confuciani.

Maurizio Blondet