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Visualizza Versione Completa : Fiabe popolari.



Eymerich (POL)
15-06-06, 14:24
«Le origini della fiaba si perdono nella notte dei tempi». Scrive Zornitza Kratchmarova «Alcuni studiosi del folclore le fanno risalire addirittura a epoche preistoriche, ricollegandole ai riti magici e religiosi dei popoli primitivi.

Cenerentola possiede 700 versioni in tutto il mondo, la più antica delle quali risale a un documento scritto in Cina nel IX Secolo.

Diverse le versioni anche della popolarissima La bella e la bestia; è un racconto che si trova in raccolte basche, svizzere, tedesche, inglesi, italiane, portoghesi, africane, indiane e lituane. Nelle redazioni più antiche la fanciulla infrange un tabù e il mostro “promesso sposo” scompare senza lasciare traccia. Accortosi di amarla, la giovane si sottopone a mille difficoltà pur di ritrovarlo.

Spiega Cecilia Gatto Trocchi dell’Istituto di Studi Antropologici dell’Università di Perugia:

“Solo nella cultura orientale i racconti popolari furono sin dagli inizi oggetto di raccolte scritte (Le mille e una notte). In Europa bisognerà attendere il XVI-XVII secolo. Charls Perrault, che operò alla corte del Re Sole, raccolse ne I racconti di mamma Oca alcune delle più famose novelle della tradizione popolare. Evidente la sua influenza sugli scritti dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm, considerati i fondatori della ricerca sui racconti fantastici”.

I fratelli Grimm, in più occasioni trascrissero fiabe “rivedute e corrette”. Il Cappuccetto Rosso dei due tedeschi, per esempio, pur presentando strette analogie con la versione di Perrault, registra una differenza non da poco: nella stesura del francese la bambina e la nonna muoiono mangiate dal lupo; nella fiaba dei Grimm il tempestivo intervento di un cacciatore salva le vittime dall’orrenda fine[1]».

Queste versioni “rivedute e corrette” hanno, senza dubbio, inferto un grave colpo alla scienza ermetica, perdendo inesorabilmente il suo profondo significato.

Il lupo, divorando la nonna, personificazione della vecchia scienza, e Cappuccetto Rosso, graziosa interprete del fuoco segreto, realizza la base del Magistero.

«Senza dubbio era ermetica anche l’origine della Festa del lupo verde» scrive Fulcanelli «festa popolare la cui usanza è stata mantenuta a lungo a Jumièges e che si celebrava il 24 giugno, giorno dell’esaltazione solare, in onore di santa Austreberthe. Una leggenda racconta che la santa lavava il bucato della celebre abbazia, e che un asino, poi, riportava i panni lavati. Un giorno un lupo sbranò l’asino. Santa Austreberthe condannò il colpevole a fare il servizio della vittima. La festa perpetuava il ricordo di quest’avvenimento. Però non ci viene fornita la ragione per cui al lupo venne attribuito il color verde. Ma possiamo dire con certezza, che il lupo diventa verde sbranando e divorando l’asino, e tanto basta. Il “lupo affamato e devastatore” è l’agente indicato da Basilio Valentino nella prima delle sue Douze Clafs. Questo lupo (lykos) è dapprima grigio e non lascia sospettare il fuoco ardente e la vivida luce che tiene nascosti nel suo corpo rozzo. Il suo incontro con l’asino rende manifesta quella luce: lykos diventa lyke, il primo chiarore del mattino, l’aurora. Il lupo grigio si è colorato ed è diventato un lupo verde, a questo punto è il nostro fuoco segreto, l’Apollo nascente, Lykegenes, il padre della luce».

Anche qui il lupo divora la soma delle conoscenze segrete portata dall’asino, divenendo, così, verde, cioè il colore proprio del mercurio filosofico, dando inizio alle grandi metamorfosi dell’amalgama filosofale.

(di Ermando Danese)

Eymerich (POL)
02-07-06, 02:02
«C’era una volta un brav’uomo che aveva sposato, in seconde nozze, una donna di un’arroganza senza pari. Ella aveva due figlie dello stesso carattere. Anche l’uomo aveva una figlia avuta dalle precedenti nozze. Contrariamente alle due sorellastre, questa fanciulla spiccava per dolcezza e bontà, proprio come la madre morta, la quale era stata la più buona del mondo».



Questa madre è Madre Natura, la Madre o Intelligenza Universale che, ermeticamente, è definita morta quando viene condensata o assimilata. La figlia, dunque, cioè la sua assimilazione, possiede lo stesso carattere o proprietà.

Il padre, in questo caso, rappresenta quel genitore che resta sempre lo stesso, cioè il fisso, mentre la madre, compiuto il ruolo d’illuminazione, muore o sparisce cedendo il posto al bambino ermetico o, secondo la fiaba, alla bambina, proprio come la bella bambina di Collodi, poiché il bambino ermetico occupa il ruolo della femmina nel lavoro.

La seconda moglie, invece, inverte il ruolo dei protagonisti. Mentre il marito sparisce dalla scena, lei diventa la madre grossolana dell’Opera, indicata dalle sue due figlie personificazioni delle proporzioni filosofiche, vale a dire due parti di volatile per una di corpo fisso.



«La matrigna, non sopportando le buone qualità della figliastra, la faceva vestire di stracci, destinandola pure ad assolvere i lavori più umili: pascolare le pecore, pulizia delle camere della signora e figlie, delle scale, dei piatti, ecc. Il suo posto era un cantuccio del focolare, in pratica era sempre in mezzo alla cenere, perciò le sorellastre la chiamavano Cenerentola.

Queste sorellastre abitavano in lussuose camere con letti alla moda, e specchi dove si potevano mirare dalla testa ai piedi. La povera Cenerentola sopportava tutto con infinita pazienza e, nonostante i suoi stracci, era cento volte più bella delle sorellastre, quantunque fossero vestite in ghingheri e da gran signore».



Cenerentola, scrive Canseliet «è chiamata anche Cucendron cioè la c (chi), il raggio delle ceneri». La cenere, essendo il resto del fuoco, nella dottrina di Ermes simboleggia l’illuminazione assimilata.

Lei è presentata povera per indicare, come scrive Fulcanelli «la sostanza miserabile appena materializzata» ma la cui bellezza è innegabile. È anche la nostra pietra nera coperta di stracci che bisogna sottoporre a parecchie levigazioni.

Le pecore che pascolano sono una variante degli gnomi che devono nutrirsi e svilupparsi. Cenerentola interpreta qui il ruolo di quel Buon Pastore che, ci fa sapere San Giovanni (XXI, 15 e segg.), chiede a Pietro, come rappresentante dell’illuminazione sulla terra filosofale, per tre volte di seguito, di pascere le sue pecorelle.

La nobiltà della materia filosofale ci viene indicata dalle due sorellastre riccamente vestite, esse non solo, insieme a Cenerentola, assumono il ruolo delle proporzioni filosofiche ma, ci assicura la fiaba, che si specchiavano interamente.

«Lo specchio» spiega Fulcanelli «firma della materia grezza fornita dalla Natura, diventa luminoso riflettendo la luce. Soggetto dei Saggi e Specchio dell’Arte sono dei sinonimi ermetici, che nascondono ai profani il vero nome del minerale segreto. I Maestri dicono che in questo specchio l’uomo vede la Natura completamente svelata. Grazie ad esso si può conoscere l’antica verità nel suo tradizionale realismo. Dato che la Natura non si mostra mai direttamente ed apertamente al ricercatore, ma soltanto attraverso questo specchio che fa da intermediario o che conserva la sua immagine riflessa».



«Un giorno la matrigna decise di sbarazzarsi per sempre di Cenerentola, così pensò di farle portare, sul luogo del pascolo, del lino grezzo da filare, imponendole di finire l’opera prima del ritorno. In questo modo, sicura che non sarebbe stata in grado di terminare il lavoro, pensava in cuor suo che era un ottimo pretesto per ucciderla.

Cenerentola, mentre pascolava le pecore, si mise di buona lena a lavorare ma, vedendo che non avrebbe mai potuto portare a termine un simile compito, scoppiò a piangere. Nel gregge delle pecore lei aveva una simpatica amichetta a quattro zampe: una graziosa capretta che, sentendola piangere, smise di pascolare e corse subito a consolarla.

“Perché piangi tanto piccola Cenerentola?”, le chiese.

“La mia matrigna, la mia matrigna”, ma piangeva così forte che non poteva finire la frase.

“Ti ha dato del lavoro più grande del solito, vero?”, l’aiutò a dire la capretta.

“Sì! Vuole che gli porti a termine la filatura di questo lino grezzo prima che torni a casa, cosa impossibile”.

“Tu fammi l’erbetta, e io ti filo e ti annaspo con le mie cornette”, rispose la capretta.

Così fu, mentre Cenerentola tagliava l’erbetta, la capretta non solo filava ma vi ricavava pure una matassa.

Tornata a casa, quale fu la meraviglia della matrigna vedendo Cenerentola con in mano la matassa del lino filato.

“Ma com’è possibile?” pensò “non esiste persona che possa fare tanto. Domani glie ne farò portare il doppio”.

Il giorno dopo Cenerentola tornò a pascolare le pecore con il doppio di lino grezzo. Vedendola ancora corrucciata, la capretta tornò a dirle:

“Tu fammi l’erbetta, e io ti filo e ti annaspo con le mie cornette”.

Cenerentola tornò a casa con due matasse di lino filato. La meraviglia della matrigna arrivò al limite. “Domani” pensò “non solo glie ne farò portare il triplo, ma voglio vedere personalmente come può svolgere un simile lavoro”.

L’indomani, Cenerentola, col triplo di lino grezzo, tornò sul pascolo con le sue pecore, e subito si presentò la sua simpatica amichetta a quattro zampe:

“Tu fammi l’erbetta, e io ti filo e ti annaspo con le mie cornette”.

Mentre la capretta filava e annaspava, e Cenerentola era intenda a farle l’erba, arrivò la matrigna a spiare in che modo veniva svolto il lavoro.

“Ecco come riesce a filare tutto quel lino” pensò “molto bene, questa sera stessa farò uccidere la capretta”.

Appena Cenerentola tornò a casa con le tre matasse di lino filato, la matrigna le ordinò:

“Metti a riscaldare l’acqua perché bisogna uccidere la capretta”.

A questa notizia Cenerentola corse singhiozzando dalla sua adorabile capretta, e tra i singhiozzi le rivelò le ultime intenzioni della matrigna.

“Non preoccuparti per me” tornò a consolarla la povera bestiola “sicuramente ti manterrà a lavare le mie visceri, qui vi troverai una pallina d’oro, prenditela, e ogni volta che avrai bisogno di qualcosa, chiedigliela e sarai esaudita”.

Lasciata con infinita tristezza l’amichetta al suo destino, Cenerentola fu inviata a lavare le sue visceri e, come promesso, vi trovò la pallina d’oro che subito mise in tasca».



In questo passo si fa comprendere all’artista che egli non potrà mai svolgere da sé l’immane compito della Grande Opera, ma dovrà chiedere aiuto al fuoco o artigiano segreto (artifex in opere), qui indicato dalla giovane capra — variante ermetica del bambino appena nato o del vaso appena realizzato — che filerà per conto del filosofo.

«La nostra anima» chiede Fulcanelli «non tesse forse il nostro corpo?».

Il compito dell’artista si riduce a fare l’erbetta, cioè a curare con l’attenzione che la sua capretta abbia di che nutrirsi, giacché l’erba verde è sinonimo ermetico di fuoco solare, per questo l’Eterno dice nella Genesi (I, 30):

«A tutti gli esseri, nei quali vi è l’alito di vita, Io do come nutrimento l’erba verde».

Il fuoco solare e il fuoco segreto li ritroviamo espressi nelle cornette della capretta; sono i due volatili che portano avanti e perfezionano l’Opera. Infatti, loro producono le tre matasse, allegoria delle tre operazioni principali.

Infine, la necessaria uccisione della capretta è la traduzione allegorica dell’uccisione della chimera, siccome nella tradizione ermetica, come sappiamo, uccidere significa assimilare, indica la realizzazione della materia preparata o pietra dei filosofi.

«La parola greca khimaira, chimera» spiega Fulcanelli «significa anche giovane capra (cabalisticamente khi-méter[2]), e possiede tutte le facoltà richieste per diventare il famoso ariete dal Vello d’Oro, il nostro Elisir[3] ».

La pallina d’oro, che Cenerentola riceve, è proprio la variante del vello d’oro.

«Nella lingua degli Adepti» insegna Fulcanelli «si chiama vello d’oro la materia preparata per l’Opera, e lo stesso nome viene dato anche al risultato finale. Cosa, questa, assai esatta, perché queste sostanze si differenziano solo per purezza, fissità e maturità. Pietra dei filosofi e Pietra Filosofale sono dunque due cose simili, per quel che riguarda la specie e l’origine, ma la prima è cruda, mentre la seconda, che deriva dall’altra, è perfettamente cotta e digerita».



«La matrigna sospese l’idea di sbarazzarsi di Cenerentola perché un importante avvenimento catturò la sua attenzione. Il re, dovendo sposare suo figlio, inviò dei banditori in tutte le parti del regno, affinché tutte le più belle fanciulle potessero partecipare a delle feste da ballo per quell’importante scopo.

La matrigna sperava in cuor suo che una delle sue figlie fosse la preferita, e fece in modo che potessero apparire più belle possibile.

Cenerentola, dal suo cantuccio del focolare, chiese se potesse partecipare al ballo del palazzo reale, ma fu severamente sgridata dalla matrigna.

“Dove pensi di andare tu, brutta Cenerentola” le disse “così sempre sporca di cenere e vestita di stracci?”.

Pertanto, il compito di Cenerentola, nei giorni che seguirono, fu quella di aiutare a vestire e pettinare le due sorellastre che sceglievano un vestito dietro l’altro.

Mentre le vestiva e le pettinava, esse dicevano:

“Cenerentola, ti piacerebbe andare al ballo?”.

“Ah, signorine, voi mi prendete in giro, sapete benissimo che non sono degna di questa festa”.

“Dici bene: ci sarebbe solo da ridere nel vedere una Cenerentola come te a una festa da ballo”.

Finalmente il gran giorno arrivò: le due sorelle partirono alla volta del palazzo reale e Cenerentola le seguì con gli occhi più a lungo che poté; poi, quando non li vide più scoppiò a piangere, e se ne tornò nel suo cantuccio del focolare. In quel momento tutta la sua condizione gli apparve nella pura e dura realtà e pianse accoratamente, non c’era più nemmeno la sua piccola amichetta: l’adorabile capretta che poteva consolarla. A questo pensiero si ricordò del dono che le aveva fatto. Trasse di tasca la pallina d’oro e, seguendo il suggerimento avuto, le chiese:

“Pallina d’oro, pallina d’oro, dammi un bel vestito con il sole davanti e la luna dietro”.

Immediatamente si ritrovò addosso un meraviglioso vestito secondo il suo desiderio, sia l’abito, sia i disegni del sole e della luna, sembravano brillare di luce propria, inoltre i suoi capelli erano stati raccolti in una splendida acconciatura, e calzava un paio di scarpette di vetro che erano una meraviglia.

Contentissima, Cenerentola pensò di recarsi anche lei alla festa da ballo, ma la pallina d’oro la prevenne e, con la voce dell’adorabile capretta, le disse:

“Quando scoccherà la mezzanotte, quest’incantesimo avrà termine”.

Messa così in guardia, Cenerentola si recò al palazzo reale».



In questo passo Cenerentola simboleggia il fisso che partecipa alla realizzazione dei due volatili dell’amalgama filosofale. Lei piange pure inconsolabilmente interpretando la Mater Dolorosa che si strugge per la spiritualità.

Il suo vestito da ballo reca i simboli dei lavori primari della Grande Opera.

«Ermes» scrive Fulcanelli «indicando la materia basica e fissa con il geroglifico solare, e il suo solvente col simbolo lunare, spiega il fatto in poche parole: “Il sole, egli dice, è suo padre, la luna sua madre”».

Per questo Cenerentola reca il sole davanti al suo vestito, simbolo della materia primitiva che l’artista ha davanti a sé all’inizio della pratica.



«Il figlio del Re, essendogli stato annunciato l’arrivo di una principessa sconosciuta, andò a riceverla; le offrì la mano e la condusse nella sala da ballo; si fece allora un gran silenzio: gli strumenti musicali smisero di suonare e le danze furono interrotte. Tutti gli occhi erano rivolti a contemplare la grande bellezza della sconosciuta, e ognuno esclamava sottovoce: “Oh! quant’è bella!”

Tutte le dame avevano gli occhi addosso a lei, ne esaminavano l’acconciatura ma soprattutto il vestito, per farsene uno uguale il giorno dopo, sempre che fosse stato possibile trovare una stoffa così bella e una modista così valente.

Il figlio del re la mise al posto d’onore: quindi andò a prenderla per farla ballare. Ella ballò con tanta grazia, che tutti l’ammirarono ancora di più.

Il tempo passò in fretta. Cenerentola, accortasi che stava per scoccare la mezzanotte, fatta subito una gran riverenza a tutta la società, scappò via come il vento».



Qui Cenerentola personifica la filosofia ermetica che si manifesta nella sua incomparabile bellezza. Nella danza mistica essa rivela tutte le sue ricchezze, le impensabili risorse cui l’uomo può attingere. Il suo recondito messaggio all’umanità, poi, si può prendere bellamente a prestito dalle parole di Krishnamurti:

«Occorre una rivoluzione radicale. La crisi mondiale la esige. Le nostre vite la esigono. La esigono gli eventi quotidiani, le finalità, le angosce quotidiane. I nostri problemi la esigono. Occorre una rivoluzione fondamentale, radicale, perché tutto intorno a noi è crollato. Sebbene apparentemente vi sia ordine, in realtà vi è una lenta decadenza, vi è distruzione: l’onda della distruzione sormonta continuamente l’onda della vita.

Perciò occorre una rivoluzione, ma non una rivoluzione basata su un’idea. Tale rivoluzione sarebbe solamente la continuazione dell’idea, non una trasformazione radicale. Una rivoluzione fondata su un’idea comporta spargimento di sangue, distruzione, caos. Dal caos non si crea l’ordine; non si può deliberatamente produrre il caos e sperare di cavarne l’ordine. Vedendo nella sua interezza questa catastrofe — la ripetizione ininterrotta della guerre, il conflitto senza fine tra le classi, tra i popoli, l’atroce ineguaglianza economica e sociale, ineguaglianza nelle capacità e nei compensi, l’abisso tra chi è straordinariamente felice, imperturbabile, e chi è invece preso nell’odio, nella miseria — vedendo tutto questo, occorre una rivoluzione, una rivoluzione completa, non è così?[4]».



Inoltre, particolare fondamentale del passo della fiaba, sono le dame che cercano di possedere anche loro lo stesso vestito della filosofia, cioè la psiche, grazie alla sua comprensione, tende a nobilitarsi. È nella sua natura elevarsi, innalzarsi, comprendere quando si trova davanti a qualsiasi difficoltà.

Riportiamo ancora una volta questo importante passo di Fulcanelli:

«Noi abbiamo detto che la qualità dello spirito, poiché è una qualità aerea e volatile, lo obbliga sempre ad innalzarsi, e che la sua natura è una natura che risplende non appena si trova separata dalla grossolana opacità corporale che l’avvolge. Tuttavia, questo spirito pronto a liberarsi non appena gli vengono forniti i mezzi, non può abbandonare completamente il corpo, ma si riveste con un abito più consono alla sua natura».

E questo abito è tutto. È la base tangibile della nostra Pietra, penserà il nostro fuoco segreto, la nostra capretta, a compiere il resto.

L’antica scienza, quindi, ci assicura che la comprensione è per qualsiasi essere umano. «Poiché» leggiamo ne Le fate di Perrault «spontaneamente si è portati verso chi ci somiglia», cioè la nostra intelligenza tende spontaneamente verso la saggezza, a riflettere, a comprendere.
[....]
Cenerentola, deve per questo svegliarsi, abbandonare il castello a mezzanotte, simbolo ermetico dell’illuminazione primitiva.



«Cenerentola, tornata a casa e ricoperta nuovamente di stracci, si rimise nel suo cantuccio del focolare. Più tardi, sentendo bussare alla porta, andò ad aprire: erano tornate pure le sorellastre. Fecero subito un gran parlare della meravigliosa sconosciuta che era apparsa al castello, dello stupore che aveva suscitato in tutti i presenti la sua bellezza, il suo splendido vestito e l’incantevole modo di ballare. Speravano di poterla rivedere ancora la sera dopo giacché se n’era andata all’improvviso. Cenerentola, in cuor suo, ascoltava felice quei commenti.

La sera dopo le due sorellastre partirono nuovamente per il palazzo reale, Cenerentola le seguì ancora con lo sguardo ma questa volta con la gioia nel cuore. Rimasta sola, trasse nuovamente di tasca la pallina d’oro e le chiese:

«Pallina d’oro, pallina d’oro, dammi un vestito con tanti campanelli d’oro».

Immediatamente si ritrovò vestita secondo il suo desiderio, con una meravigliosa acconciatura e con le solite graziose scarpette di vetro.

Ringraziata mentalmente l’adorabile capretta, la cui voce tornò ad avvertirla sulla durata dell’incantesimo, partì anche lei per il castello; all’arrivo il giovane principe le corse subito incontro felice di poterla rivedere. Il nuovo abito suscitò maggiore meraviglia in tutti i presenti, e il principe ballò nuovamente con lei per l’intera serata: lei ballava sempre con tale grazia che non finiva mai di stupire.

Come la sera prima, intorno alla mezzanotte, fatta un inchino a tutti i presenti, Cenerentola scappò nuovamente dal castello».



È la seconda volta che Cenerentola si reca al castello, ci troviamo nella seconda fase del Magistero, la cui realizzazione è indicata dal suo vestito, emblema parlante della pietra dei filosofi. Dopo l’unione mistica dei due principii filosofici, del sole e della luna, essa è ora fatta di campanelli d’oro. Facciamo notare che questi campanelli stanno ad indicare il compimento della Grande Opera, espressione musicale del grande prodigio della Natura, però ricordiamo che la pietra dei filosofi e la Pietra Filosofale sono indicate allo stesso modo.

Il ballo di Cenerentola, ora, traduce la danza mistica, allegoria dell’evoluzione della pietra.



«Tornate a casa prima Cenerentola e poi le sorellastre, queste continuarono ad elogiare la sconosciuta che era apparsa nuovamente al castello, e si stupivano del fatto che abbandonasse sempre improvvisamente il ballo. Cenerentola, fingendo la loro stessa ammirazione, chiese a una delle sorellastre:

“Dio mio, che cosa pagherei per poterla vedere pure io. Potresti prestarmi il tuo vestito giallo, quello di tutti i giorni?”.

“Prestare il mio vestito a una brutta Cenerentola come te” rispose la sorellastra “bisognerebbe proprio dire che avessi perso il giudizio”.

La sera dopo le due sorelle tornarono al ballo e Cenerentola trasse per la terza volta di tasca la pallina d’oro, e le chiese:

«Pallina d’oro, pallina d’oro, dammi un vestito con tanti campanelli d’oro».

Puntuale come sempre l’incantesimo avvenne, e nuovamente Cenerentola si trovò vestita secondo il suo desiderio, la stessa meravigliosa acconciatura e le solite splendide scarpette di vetro. Ricevuto ancora l’avvertimento di andarsene prima di mezzanotte, si avviò verso il castello.

Il figlio del Re, smanioso, la stava aspettando sulla soglia. Già dalla prima sera si era perdutamente innamorato di lei. La condusse subito in sala da ballo e ballarono come sempre sotto l’ammirazione dei presenti. Il Principe, visto che per ben due volte la sconosciuta Principessa era fuggita intorno a mezzanotte, pensò che questa volta non doveva lasciarsela scappare, giacché era l’ultima serata di festa. Non la lasciò un minuto; e in tutta la serata non fece altro che dirle un monte di cose appassionate e galanti. Cenerentola si abbandonò alle parole del Principe dimenticandosi la raccomandazione della pallina d’oro; tant’è vero che sentì battere il primo tocco della mezzanotte, quando credeva che non fossero ancora le undici; allora s’alzò e fuggì via con la leggerezza di una cerbiatta.

Il principe le corse dietro ma non poté raggiungerla; fuggendo ella perdette una delle sue scarpine di vetro, e il Principe lo raccolse con grandissima cura».



È lo stadio della terza operazione del Magistero, tutti i giorni è ora dominato dal colore giallo, seguito a quello verde del mercurio filosofico, in attesa del colore rosso fuoco proprio della Pietra Filosofale. Tuttavia, come sappiamo, il Donum Dei è qui firmato dal vestito di Cenerentola.



«Quando le due sorelle tornarono dalla festa, Cenerentola chiese loro se si erano divertite e se la bella Principessa vi era andata anche lei: loro risposero di sì ma che era scappata allo scoccare della mezzanotte, e così in fretta che aveva lasciata cadere una delle sue scarpine di vetro, la scarpetta più carina del mondo. Il figlio del Re l’aveva raccolta e non aveva fatto altro che guardarla per il resto della festa; certamente doveva essere innamorato pazzo della bella Principessa.

Dissero il vero. Infatti, pochi giorni dopo, il figlio del Re fece proclamare, a suon di tromba, ch’egli avrebbe sposato solo colei che avesse potuto calzare perfettamente quella scarpina, e che tutte le ragazze del regno avrebbero dovuto provare a calzarla. Il gentiluomo incaricato di provare la scarpina iniziò subito il compito affidatogli, ma le fanciulle, nobili e non, provarono inutilmente a calzarla. Fu la volta pure delle due sorelle che fecero tutto il possibile per far entrare il piede nella scarpina, ma non vi riuscirono. Cenerentola, dal suo cantuccio del focolare, chiese se almeno potesse provare pure lei. Le sorellastre scoppiarono a ridere e la canzonarono; il gentiluomo, però, disse cha la cosa era giustissima, poiché lui aveva ricevuto l’ordine preciso di provarla a tutte le fanciulle.

Cenerentola si alzò e, traendo la pallina d’oro, le chiese mentalmente il solito vestito. Immediatamente apparve agli occhi degli astanti la bella sconosciuta Principessa che avevano ammirata per tre sere di seguito. Tutti s’inchinarono con stupore al suo cospetto. Tuttavia a un piede mancava una scarpina di vetro, e immediatamente il gentiluomo incaricato si affrettò a fargliela calzare. Le sorellastre chiesero il suo perdono per tutti i maltrattamenti che le avevano fatte subire. Cenerentola disse, abbracciandole, che le perdonava di tutto cuore e le raccomandò di volerle sempre bene. Poi, vestita com’era, fu condotta dal giovane Principe che, felicissimo di averla ritrovata, pochi giorni dopo la sposò».



Questo sposalizio è l’unione mistica del Cielo e della terra, Del Creatore e della creatura, dell’Illuminazione e della psiche.

La scarpina di vetro, per usare le parole di Fulcanelli, «rappresenta quel cristallo sconosciuto, il sale della sapienza», la nostra Pietra. La prova della scarpetta di cristallo fa intendere, al ricercatore, che qualsiasi piede grossolano non può in alcun modo calzare quell’Illuminazione che si adatta soltanto a una psiche perfettamente nobilitata.

Inoltre, la fiaba ci dice che Cenerentola, riccamente vestita, è tuttavia priva di scarpetta, così, sotto il velo dell’allegoria, insegna pure che il lavoro della capretta, o nostro fuoco segreto, è limitato. È la traduzione della costruzione della Grande Piramide, dove gli Antichi omisero di costruirvi la cuspide, poiché il resto è esclusiva opera di Dio: il suo Dono, come leggiamo nella Bibbia[7]:

«La Pietra che i costruttori hanno tralasciata è diventata testata d’angolo. Ciò è opera del Signore ed è una meraviglia agli occhi nostri».

(di Ermando Danese)

harunabdelnur
14-07-06, 18:35
Ottimo lavoroz:a

eliodoro
15-07-06, 15:12
Tempo fa, dopo aver letto alcuni suoi articoli, riuscii a mettermi in contatto telefonico con Ermando Danese. Si tratta di persona gentile e disponibile, estimatore di Fulcanelli, Canseliet e perfino di quel poco che ha scritto Lucarelli. Tuttavia...per sua stessa ammissione, si sente maggiormente predisposto ad un analisi speculativa ( mistico-simbolica ) che non maggiormente "operativa" ( di cui non si interessa affatto, pur riconoscendone l'assoluta validità ). In certi suoi pur begli articoli si salta da Fulcanelli a Krishnamurti con estrema facilità, ma si tratta comunque di scritti godibili e anche utili.

Eliodoro

Eymerich (POL)
19-07-06, 17:35
Tempo fa, dopo aver letto alcuni suoi articoli, riuscii a mettermi in contatto telefonico con Ermando Danese. Si tratta di persona gentile e disponibile, estimatore di Fulcanelli, Canseliet e perfino di quel poco che ha scritto Lucarelli. Tuttavia...per sua stessa ammissione, si sente maggiormente predisposto ad un analisi speculativa ( mistico-simbolica ) che non maggiormente "operativa" ( di cui non si interessa affatto, pur riconoscendone l'assoluta validità ). In certi suoi pur begli articoli si salta da Fulcanelli a Krishnamurti con estrema facilità, ma si tratta comunque di scritti godibili e anche utili.

Eliodoro

Avevo in effetti notato un certo intellettualismo. Ed anche alcuni suoi "accostamenti" mi erano parsi poco felici, tanto che li avevo tralasciati sostituendo il testo mancante con i [...] puntini. Ti ringrazio per questa conferma alle mie impressioni.


P.S.: se volessi aprire tu un 3d sull'alchimia e magari i suoi rapporti con altre discipline realizzative simili sarebbe alquanto interessante. :) :)

eliodoro
19-07-06, 18:24
P.S.: se volessi aprire tu un 3d sull'alchimia e magari i suoi rapporti con altre discipline realizzative simili sarebbe alquanto interessante. :) :)

Ti ringrazio per la fiducia...ma si tratta di "argomenti" che scatenano troppi interrogativi per poter stare dietro a troppe repliche...e in questo periodo di caldo afoso l'ultima cosa che desidero è ribattere allo junghiano di turno innamorato delle tesi "svizzere" o all'evoliano tantrico o al kremmerziano o al mistico-immaginale...Qualche volta sul forum Tradizionalismo- esoterismo -gnosi ho accennato a qualcosa ...ma sono anche un gran pigro. Conosco sicuramente persone che potrebbero aprire un 3d in modo molto competente e non salottiero...ma so che non lo farebbero mai. Su qualche altro forum, ogni tanto, mi produco in qualche interventino all'acqua di rose..ma si tratta di un forum dove l'uditorio è , in piccola parte, ben allenato. Vi scriveva anche lo scomparso Lucarelli.

Ah...splendida e brutta malattia è..l'Alchimia.

Ciao

Eliodoro

P.S.

Di "discipline realizzative " simili all'alchimia c'è solo...l'Alchimia e questo è valso, soprattutto in passato,in Occidente, in Egitto, In Cina, in Medio Oriente, in India...etc etc

Vurdak
20-07-06, 18:51
E' molto bello l'articolo sulle fiabe popolari e sull'iniziazione apparsa sulla rivista di thule italia di marzo.


Le fiabe popolari, soprattutto quelle di magia, sono il ricordo di un’antica cerimonia: il rito d’iniziazione.
Questo era celebrato presso le comunità primitive ed a tutt’oggi è celebrato presso etnie primitive.
Questi riti festeggiavano in modo solenne il passaggio
dei ragazzi dall’infanzia all’età adulta. Essi erano
sottoposti a numerose dure prove con le quali dovevano dimostrare di saper affrontare da soli le avversità dell’ambiente, d’essere maturi per iniziare
a far parte della comunità degli adulti.Dopo aver superato le prove, i ragazzi, come in una solenne rappresentazione teatrale, guidati dal Sacerdote-Sciamano-Stregone, dovevano morire, per solennizzare
l’uscita, il trapasso, dallo stato infantile, quasi una metamorfosi che da larva pota alla crisalide e da qui all’insetto adulto. Questa morte era procurata con l’assunzione di sostanze stupefacenti per mezzo delle quali si otteneva l’incoscienza, e contemporaneamente,
assistiti dal Sacerdote il primo contatto col modo degli Dei. Al risveglio vi era l’accoglienza fra gli adulti.
Altri Popoli celebravano il cuore del passaggio dai due stati col cruento sacrificio di giovani, prescelti fra le caste più nobili.
Col passere del tempo e col cambio di tradizioni, il rito d’iniziazione venne a perdersi, ma se conservò il ricordo col racconto orale. Tale usanza perdurante nei secoli divenne patrimonio indelebile della cultura
popolare a tal punto intimo ed incorruttibile da divenire quello che oggi chiamiamo Fiaba.
L’ambientazione della fiaba è sempre popolare, descrive
la vita quotidiana (da cui in ogni modo è nata) trasportandone le credenze e le paure ataviche.
Il rito d’iniziazione è rimasto più presente nelle fiabe nordiche e quella che meglio di tutte ne conserva le tematiche è Hansel e Gretel.
In tale racconto i genitore dei due ragazzi sono particolarmente
severi, retaggio di quella antica severità crudele che imponeva l’abbandono dei figli all’inizio dei riti d’iniziazione affinché affondassero le prove senza il loro aiuto (senza genitori si diventa adulti).
Il grave senso di paura che permea l’animo di Hansel
e Gretel è quello di chi deve iniziare un percorso ignoto che non è detto che possa concludersi felicemente.
L’astuzia che dimostra per tutta la fiaba Hansel è proprio
quella astuzia, scaltrezza e coraggio che deve venir fuori da un bambino perché possa superare le prove impostogli.
Il bosco, sempre presente, è uno dei luoghi centrali
dei riti, un posto lontano tenebroso, un luogo dal quale è facile perdersi e contestualmente è difficile venirne fuori, un posto dove si può incontrare il mistero.
Come nella fiaba Hansel e Gretel stanno per morire
di fame cosi nei riti d’iniziazione si lasceranno i giovani a senza cibo per lungo tempo: un modo per temprarne la fibra e per acuire l’ingegno.
La presenza d’animali magici che aiutano i due bimbi
nella fiaba è il ricordo della presenza di persone scelte della tribù che accompagnavano i giovani nel percorso dei riti iniziatici, a volte queste persone erano
simbolicamente travestite.
La figura centrale quella orrifica della fiaba: lo stregone,
l’orco, la strega è il ricorso del sacerdote Capo dei riti quella figura che compariva alla fine delle varie
prove che doveva sancire il momento di trapasso fra le due fasi della vita dei giovani. La sua dimora era nascosta nel folto del bosco una dimora particolare
costruita con materiali particolari. Materiali che appartengono o al mondo dei desideri infantili, vedi la casa di dolce della strega di Hansel e Gretel, oppure
al mondo dell’occulto come le streghe popolari italiche.
Il loro aspetto, orrendo in ricordo delle maschere rituali che i sacerdoti portavano, i loro modi erano duri e il culmine del rito era il produrre la Morte dei giovani, preparare il trapasso fra le due stagioni della
vita, così la strega della fiaba vuole uccidere i bambini,
e notiamo non c’è solo la morte ma il pasto del sacrificato, l’unione fra chi conduce e il condotto al nuovo mondo quello dello stato adulto.
La morte della strega oltre che essere un’edulcorazione
della fiaba, una sorta di pausa nel racconto oramai lontano dalla sua vera natura, porta dentro di sé il sacrifici rituale che il re sacerdote doveva sostenere
anticamente come massimo rito propiziatorio
per il benessere della società ed anche quei riti meno cruenti che propiziavano le nuove stagioni di raccolto e caccia che le comunità arcaiche intraprendevano
Hansel e Gretel terminate le prove trovano un tesoro,
il ricordo degli amuleti che avrebbero accompagnato
nella nuova vita.
In fine i due nuovi adulti, tornati a casa rimediano ai guai della loro famiglia retaggio, questo dell’essere ora adulti, in grado di lavorare per il bene della comunità
tribale.
Abbiamo visto come dentro una fiaba conosciuta vi siano i ricordi di una vita perduta che però e parte importante, architrave, del nostro DNA.

Jera - www.thule-italia.org

Eymerich (POL)
26-07-06, 13:11
«C’era una volta un giovane che era andato in servizio al palazzo reale, ben presto le sue capacità e la sua condotta lo misero in buona luce agli occhi del Re; questo generò l’invidia dei vecchi servitori che iniziarono a tramare per farlo soccombere.

Uno di loro si ricordò che un vecchio mago teneva la catena del suo camino interamente d’oro, così ebbero l’idea di dire al Re che il giovane si era vantato di riuscire a prenderla. Si recarono, quindi, dal Re, riferendogli tale menzogna.

Il Re fece chiamare al suo cospetto il giovane e gli chiese conferma di quanto gli era stato detto. Il giovane smentì quelle accuse asserendo pure che non aveva mai sentito parlare di quella catena; tuttavia il Re ora desiderava la catena e gli fece capire che contava sulla sua valenza per entrarne in possesso.

Preso commiato dal Re, il giovane si aggirò preoccupato per la reggia, sapeva che il desiderio di un Re era un ordine e così, pensieroso, si ritrovò nelle scuderie. Qui il Re possedeva un cavalluccio fatato che, vedendolo talmente preoccupato e assorto, gli chiese cosa avesse. Riavutosi dalla sorpresa che un cavallo potesse parlare, si decise a confidargli i suoi guai.

“Zucchero, confetti e non te ne incaricare”, gli disse il cavalluccio.

“Che cosa intendi dire?”, gli chiese il giovane.

“Se tu mi procurerai dello zucchero e dei confetti” aggiunse il cavalluccio “io ti porterò al castello del mago, poiché so dove si trova; non solo, ma ti insegnerò pure il modo per prendere la catena d’oro”.

Figuriamoci la gioia del giovane servitore. Si fece annunciare subito dal Re e gli chiese che per riuscire nella sua impresa aveva bisogno di zucchero e confetti. Il Re restò un po’ perplesso per la strana richiesta, tuttavia acconsentì che gli fosse dato quanto chiedeva.

“Ora che hai procurato quanto mi occorre” disse il cavalluccio “è necessario che attendiamo la notte, in modo che il mago si addormenti”.

Appena fatta notte, salito in groppa al cavalluccio, questo partì come il vento, il castello del mago era piuttosto lontano ma ben presto lo raggiunsero.

“Io aspetto qua sotto” disse il cavalluccio “tu sali sul tetto del castello, scendi dal camino, non preoccuparti della fuliggine che ti annerisce, è necessario! Spicca la catena senza fare il minimo rumore e portala qui”.

Il giovane, anche se un po’ intimorito dal palazzo del mago, fece esattamente quanto il cavalluccio gli aveva detto. Così, presa la catena d’oro e, ritornato dal cavalluccio, si mise subito in sella e questo partì alla stessa velocità con cui era venuto.

Il giorno dopo il giovane si presentò al Re con la catena d’oro del camino del mago, suscitando stupore in tutta la corte, la gioia del Re e l’aumento dell’invidia degli altri servitori».



Il cavallo, ermeticamente, indica il portatore della filosofia e, per estensione, la filosofia stessa. Fulcanelli precisa che è «simbolo di rapidità e leggerezza e indica la sostanza spirituale».

Lo zucchero e i confetti — che in sostanza sono la stessa cosa — traducono l’allegoria ermetica dell’acqua ignea e del fuoco acquoso.

La scienza accompagna sempre l’artista, personificato dal giovane protagonista che si muove durante la notte ermetica; e costui è anche il nostro soggetto dei saggi che si annerisce nella condensazione.

La catena del camino possiede un’importante ruolo nella tradizione popolare. Era usanza, un tempo, in caso di temporali, buttarla in mezzo all’aia per calmare il cattivo tempo. Il camino, infatti, è la variante dell’athanor dei filosofi. La catena d’oro del mago addormentato, cioè della psiche grezza, indica la luce che bisogna estrarvi.



«I vecchi servitori, ancora più arrabbiati e invidiosi, cercarono di trovare un altro mezzo per sbarazzarsi del giovane. Quello che aveva sentito parlare del mago si ricordò pure che, oltre alla catena d’oro, il mago possedeva una coperta fatta di campanelli d’oro, con la quale era solito coprirsi durante la notte. Così, se per il giovane servitore era stato facile prendere la catena dal camino, non altrettanto sarebbe stato impossessarsi di una simile coperta da sopra al corpo del mago, per quanto ardito potesse essere. Tutti gli altri convennero che aveva perfettamente ragione. Pertanto si recarono nuovamente dal Re, asserendo che ora il giovane, esaltato dall’impresa che aveva appena portata a termine, si vantava che era in grado d’impossessarsi anche della coperta di campanelli d’oro del mago.

Il Re fece nuovamente chiamare il giovane e, nonostante questi affermasse il contrario, gli fece intendere che avrebbe senz’altro gradito la coperta di campanelli d’oro.

Ripreso commiato dal Re, il giovane, visibilmente turbato, si recò immediatamente dal cavalluccio fatato e gli raccontò ogni cosa.

“Zucchero, confetti e non te ne incaricare”, gli disse il cavalluccio.

“Forse non hai capito che questa non è un’impresa facile come l’altra volta”, tornò a ripetergli il giovane.

“Ogni impresa ha la sua soluzione” rispose il cavalluccio “e io ho un buon metodo, tu procurati dell’ovatta che questa sera partiamo”.

Il giovane si fece annunciare dal Re e gli chiese che aveva bisogno di ovatta, zucchero e confetti. Il Re, abituato ormai a queste strane richieste, fece consegnare al giovane quanto chiedeva.

La sera stessa partirono sempre velocissimi, arrivati al castello del mago, il cavalluccio disse:

“Io aspetto sempre qui, tu entra piano nel palazzo, recati nella camera del mago e avvicinati al suo letto senza temere, lui dorme della grossa, inizia a mettere l’ovatta a ogni campanello con gran cautela, fai scorrere così la prima fila e man mano tutte le altre, e grazie alla tua destrezza riuscirai”.

Mentre il cavalluccio aspettava sotto, il giovane riuscì ad entrare nel palazzo, trovata la camera, col cuore in gola si avvicinò al letto dove dormiva il mago; si fece coraggio e con la massima cautela mise dell’ovatta al primo campanello. Vedendo che l’operazione era più facile a farsi che a dirsi, senza abbandonare la dovuta cautela, fece alacremente l’intero lavoro. Assicuratosi che nessun campanello suonasse, presa l’intera coperta tornò soddisfatto dal cavalluccio, salito in groppa ripartirono come il vento.

A corte vi fu un festeggiamento per la bella coperta di campanelli d’oro e per la difficoltà dell’impresa. I vecchi servitori, lividi in volto, furono costretti a servire il giovane assurto ora al grado di cavaliere».



Questa fiaba è ancora più espressiva della precedente, al riguardo della coperta di campanelli d’oro — come il vestito di Cenerentola — simbolo della pietra dei filosofi. I campanelli qui vengono otturati con l’ovatta, essi non possono ancora suonare, facendo intendere all’ermetista che egli si trova soltanto all’inizio della Grande Opera, variante allegorica del campanile di Saint-Victor che aveva appena suonato la prima ora del giorno.

La seconda operazione ermetica è sottolineata dalla cautela del protagonista. È un periodo ingrato che richiede la massima attenzione del filosofo.



«A corte non ancora finivano i commenti che i vecchi servitori tornarono a tramare nell’ombra.

“Se è riuscito in una simile impresa” disse uno di loro “difficilmente possiamo escogitare qualcosa di meglio”.

“Vi sarebbe qualcosa di meglio, o di peggio, a secondo i punti di vista naturalmente” soggiunse un altro “dalle mie parti esisteva la leggenda della Bella del Mondo, ma non si sapeva né se era vera né dove si trovasse. Possiamo spedire il bel favorito alla sua ricerca, e chissà che non ce lo togliamo per sempre dai piedi”.

“Perché no” disse un terzo “potrebbe stare via per tutta la vita alla ricerca di qualcosa che non esiste”.

Detto, fatto. Si recarono nuovamente dal Re e riferirono la leggenda della Bella del Mondo, una fanciulla che nessuno era mai riuscito a trovare, siccome in quella corte c’era ora un cavaliere sì valente, sua Maestà poteva sperare di conoscerla…

Questa nuova notizia incuriosì ancora il Re, egli fece prontamente chiamare il giovane cavaliere e lo mise a conoscenza del suo ultimo desiderio.

Il giovane, piuttosto perplesso, si recò nuovamente dal cavalluccio fatato.

“Zucchero, confetti e non te ne incaricare”, gli disse il cavalluccio.

“Conosci anche dove si trova la Bella del Mondo?”, chiese il giovane.

“Sì!” rispose il cavalluccio “ma è un posto lontanissimo e ci vorrà del tempo anche per un cavallo come me per raggiungerlo”.

“Cosa devo procurarmi” chiese il giovane “oltre allo zucchero e ai confetti per te?”.

“Armati di pazienza e sbrigati perché partiamo subito”.

Fatta provvista di zucchero e confetti, il giovane saltò in groppa e il cavalluccio partì spedito come un fulmine.

Camminarono a lungo, ad un tratto il cavalluccio si fermò sopra un pendio che dava sul mare.

“Vedi quel pesciolino inseguito da un pesce più grosso?” chiese al giovane “salvagli la vita perché un giorno di tornerà assai utile”.

Il giovane scese prontamente da cavallo, raccolta una grossa pietra la buttò nel mare, il tonfo nell’acqua spaventò il pesce più grande che si dileguò subito.

Risalito a cavallo ripartirono velocemente, dopo un buon tratto di strada il cavalluccio si fermò ancora.

“Vedi quella gazza disturbata dal falco nel suo nido?” chiese “salvale la vita poiché lei ti sarà utile”.

Il giovane scese ancora da cavallo e, raccolto un altro sasso, lo lanciò verso il falco che spaventato fuggì via. Ripartirono e camminarono ancora per molto tempo, finché il cavalluccio tornò nuovamente a fermarsi.

“Vedi quella formica che cerca di passare il fossato su un filo di paglia?” chiese “le altre che sono passate prima hanno spostato pericolosamente la paglia che sta per cadere, salvale la vita giacché avrai bisogno anche di lei”.

Smontato nuovamente da cavallo, il giovane prese il filo di paglia con tutta la formica e lo mise sull’altra riva del fossato.

Ripartirono e dopo ancora tanto cammino arrivarono in una radura dominata da un rilievo su cui sorgeva un castello.

“Dentro quel castello vive la Bella del Mondo” disse il cavalluccio “adesso lascia fare a me”.

Il cavalluccio iniziò nel prato una serie di acrobazie, e dopo un po’ una bellissima fanciulla si affacciò da una finestra del castello per godersi lo spettacolo. Le evoluzioni acrobatiche continuarono, il repertorio del cavalluccio sembrava non aver fine.

“Penso che fra poco la bella fanciulla venga a chiederti di provarmi” disse il cavalluccio “tu dovrai insistere che lo può fare soltanto cavalcando insieme a te”.

Infatti, dopo un po’ la fanciulla si recò nel prato, e la sua straordinaria bellezza non poté non turbare il giovane cavaliere.

“Potrei provare quel magnifico cavalluccio?”, chiese.

“Purtroppo questo cavalluccio non ama le persone estranee” rispose il giovane “quindi consiglio vivamente di cavalcarlo insieme”.

La bella fanciulla acconsentì e, una volta montati entrambi in groppa, il cavalluccio partì spedito come suo solito. Vistasi rapita la Bella del Mondo si disperò, pianse, ma il cavalluccio filava via senza darsene cura. Nei suoi gesti disperati si strappò la collana e le tante perle che la componevano si dispersero per terra. Poco dopo anche un fermacapelli d’oro seguì la stessa sorte della collana. La fanciulla continuava a disperarsi e il cavalluccio a filare come il vento. Nella sua disperazione si tolse dal dito anche un prezioso anello di diamante che, da un promontorio, finì nel mare sottostante. Soltanto dopo molto tempo, nonostante la velocità del cavalluccio, arrivarono finalmente al palazzo reale.

Tutti furono stupiti sia dell’esistenza della Bella del Mondo sia della sua enorme bellezza, anche gli stessi vecchi servitori. Il Re volle riceverla subito, la consolò e si scusò per averla fatta rapire, ma la sua fama era così suggestiva che non aveva potuto fare a meno di conoscerla.

“Il nostro comportamento è stato sì sconveniente” aggiunse il Re “che puoi chiederci qualsiasi cosa ripaghi il tuo patimento. Possiamo farti riaccompagnare subito, se vuoi, ma ti preghiamo di restare ospite nella nostra reggia per qualche giorno; se poi qui per te è piacevole potrai restarvi per sempre allietandoci con la tua bellezza. Inoltre, se vorrai, potremmo anche darti in sposa al cavaliere più valente del regno, vale a dire quello che ti ha trovata”.

La Bella del Mondo provava ugualmente lo stesso turbamento che provava il giovane per lei, tuttavia non le perdonava il fatto d’averla rapita, e di essere stata insensibile alle sue lacrime, sebbene ubbidisse a un ordine sovrano. Per questo mise una condizione: affinché il provetto cavaliere potesse avere la sua mano, avrebbe dovuto mostrare pure valenza verso di lei, riportandogli l’anello di diamante, il fermacapelli d’oro e la collana di perle che lei aveva perduto per causa sua.

Il Re restò dispiaciuto per una proposta così assurda, comunque fece convocare ugualmente il giovane.

“Hai superato tre importanti prove” gli disse “noi non ti chiederemo più niente. Abbiamo anche chiesto alla Bella del Mondo di concederti la sua mano, ma per questo vuole che superi delle prove impossibili per rifarsi del fatto che l’hai rapita”.

“Maestà” disse il giovane “la Bella del Mondo mi piace così tanto e certo non speravo minimamente nella sua mano, per lei supererei qualsiasi prova”.

Però, quando il Re gli fece conoscere il genere di prove, si sentì smarrito. Come ritrovare quegli oggetti perduti durante il lungo tragitto? Capì soltanto che la Bella del Mondo non sarebbe mai stata sua. Così, sconsolato, se ne tornò dal suo cavalluccio fatato, e si confidò con lui raccontandogli le ultime novità che avevano turbato il suo animo. Potete immaginare come si sentì quando ascoltò la nota frase:

“Zucchero, confetti e non te ne incaricare”.

“Come, come”, chiese sbalordito “tu saresti in grado di ritrovare anche quegli oggetti?”, e senza attendere risposta corse dal Re a procurarsi lo zucchero e i confetti. Il Re, che lo aveva visto andarsene poco prima rassegnato, restò sorpreso per quella richiesta che, tuttavia, fece subito esaudire. Sua maestà si convinse che la mente del giovane era presa da follia d’amore e solo per questo partiva per un’impresa irrealizzabile. E mentre il Re pensava queste cose, il cavalluccio già filava via come il vento.

Arrivarono fino al mare, il cavalluccio si fermò e fece scendere il giovane.

“Guarda nel mare” gli disse “vedi quel piccolo pesce che sta arrivando? È lo stesso al quale salvasti la vita. Porta in bocca qualcosa: è l’anello di diamante che ha ritrovato per te, va a prenderlo”.

Felice come non mai, il giovane entrò in acqua e prese dalla bocca del pesce il prezioso anello, lo ringraziò e tornò dal cavalluccio. Ripartirono e dopo un buon tratto di strada il cavalluccio tornò a fermarsi.

“Ricordi questo posto?” gli chiese “è lo stesso dove salvasti la vita alla gazza. Sali fino al suo nido, lei vi ha lasciato un regalo per te”.

Il giovane salì sull’albero e, arrivato al nido della gazza, quale fu la sua sorpresa nel trovarvi il fermacapelli d’oro. Ringraziato mentalmente l’uccello, scese a terra e ripartirono. Finalmente il cavalluccio si fermò vicino a un nido di formiche.

“Scava in quel nido” gli disse “perché lì sono state raccolte le perle, e la formica cui salvasti la vita ha trovato l’ultima perla della collana della Bella del Mondo”.

Il giovane fece celermente quando il cavallo gli aveva detto, recuperato tutte le perle ripartirono per il palazzo reale.

Questa impresa causò maggiore stupore delle precedenti. Il Re, contento più che mai, volle che si celebrassero subito le nozze tra il giovane e la Bella del Mondo, inviando banditori ad ogni angolo del regno, affinché tutti partecipassero al grande festeggiamento».



La terza operazione filosofale e il coronamento della Grande Opera, in questa fiaba sono state messe in sottofondo. È stato dato maggiore rilievo all’insegnamento del millenarsimo.

La Bella del Mondo non è altra che la Regina del Mondo, la Bella Addormentata, che insieme al cavaliere atteso saranno i due sposi futuri.

Tutto il passo appena letto è l’allegoria lampante delle più assurde difficoltà che i due dovranno superare. Difficoltà talmente inconcepibili che sbalordirono lo stesso profeta Isaia, tanto che lasciò scritto (LIII, 1): «Chi mai l’avrebbe creduto quel che ci fu annunciato».

Lei, nonostante le sofferenze, resterà affascinata da particolari rivelazioni della scienza antica, come insegna le acrobazie del cavalluccio fatato.

È necessario, inoltre, che i due cavalchino insieme, in questo modo l’una riveste l’altro. È la variante allegorica dell’antichissima favola di Babilonia[8], dove la sposa Samhat veste col suo vestito anche lo sposo Enkidu:

«Ella divise le sue vesti, con una vi vestì lui e con l’altra si coprì lei stessa».

Ed è quanto viene detta pure, in un inno, alla Regina Mundi: «Tu vestis solem et sol vestit».