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Visualizza Versione Completa : Esicasmo e sufismo.



Eymerich (POL)
29-06-06, 00:43
La teologia ortodossa, in particolare la scuola di «teologia mistica» e l'orientamento «neo-palamita», è consapevole di una marcata differenza fra misticismo, secondo l'accezione cattolica moderna, e mistica esicasta. Tale differenza è sostenuta anche dall'«orientamento tradizionale» a partire da Guénon, che inclina a comprendere l'esicasmo fra le forme, ancora attive, di esoterismo cristiano. Naturalmente il punto di vista dell'esoterismo «tradizionale» non coincide con quello della teologia ortodossa. Non a caso Valsan osservò che, per capire come stanno le cose, «non è ai teologi o ai preti, e neppure a un monaco, che si potrebbe chiederlo». Lo stesso Guénon criticava molti interpreti moderni dell'esicasmo «che si sforzano di 'minimizzare' l'importanza del suo lato propriamente 'tecnico', sia perché ciò risponde realmente alle loro tendenze, sia perché essi pensa*no di sbarazzarsi così di certe critiche che procedono da una misconoscen*za completa delle cose iniziatiche». Reciprocamente, sarebbe facile trova*re passi in cui teologi ortodossi sconfessano esplicitamente la prospettiva guenoniana. Citiamo, a solo titolo di esempio, due grandi studiosi e divulgatori della preghiera di Gesù:
1) O. Clément: «(l'esicasmo) è l'asse discreto ma non segreto di tutta la vita ecclesiale dell'Oriente cristiano» (La prière du coeur, 1980, tr. it. Milano 1984,50); «l'esicasta non è al di là della Chiesa, si colloca al centro di essa» (ibidem, 52); «il ricorso allo scritto (nei testi del XII e XIV secolo) prova che i maestri erano scomparsi, o quasi, e anche che l’esicasmo non è un esoterismo (con le sue linee ininterrotte di maestri e di discepo*li, come il 'sufismo'), ma la realizzazione cosciente del mistero cristiano, sempre suscettibile di rinascere dalla vita sacramentale e dalla penetrazione spirituale delle Scritture» (ibidem, 89).
2) E. Behr-Sigel, (Le lieu du coeur, 1989, tr. it. Milano 1993, 115): «La pratica della preghiera di Gesù da parte di cristiani appartenenti a differenti confessioni non può essere collocata nella prospettiva 'guénoniana' della ‘unità trascendente delle religioni’. Un impiego della preghiera di Gesù al di fuori della confessione di fede di Pietro ci sembrerà sempre più inconsistente e sospetto [...], non vedendo in Gesù che una trasformazione del Divino impersonale, o l'imma*gine interiore del 'Sé'». (Cfr. anche: I. Ioanszcu, L’esperienza della preghiera di Gesù nella spiritualità romena, Città del Vaticano 2002, 84ss.)

Tuttavia, le rispettive dichiarazioni di principio non impediscono che la comparazione storico-religiosa rilevi significative somiglianze morfologiche dell'esicasmo con un esoterismo (in particolare con quello islamico).

Eymerich (POL)
29-06-06, 00:45
La prima riguarda il «padre spirituale» (geron, starec). Questa figura - che nasce dai «monaci del deserto» e che vede in Antonio Abate (ca. 250-356) un paradigma, forse anche un prototipo - viene chiaramente di*stinta, nella Chiesa Orientale, dalla figura del presbitero. A quest'ultimo, ministro, tra l'altro, del sacramento della confessione, si palesano i peccati realmente commessi, per i quali si chiede l'assoluzione. Allo starec invece, al di fuori di qualsiasi contesto sacramentale (dato che nulla esclude che que*sti sia un laico), si manifestano i desideri e le tendenze affioranti nel cuore e nell'immaginazione, anche se nessun peccato, in senso tecnico, è stato com*messo. Ciò che viene manifestato allo starec, insomma, sono soprattutto i logismoì. Questo termine indica i «pensieri», teoricamente neutri, della ra*gione discorsiva: ma nella prassi ascetica sono venuti a significare i pensieri impuri, «intrisi di passioni» e, al limite, le tentazioni connesse ai «vizi capi*tali». In proposito la patristica orientale (soprattutto Evagrio e Massimo il Confessore) ha elaborato una complessa «psicologia del profondo» riguar*dante l'origine (diabolica) dei logismoì, le modalità di azione di questi sullo spirito umano (originariamente immune dal male), i gradi di penetrazione dei «pensieri passionali» nel cuore e quindi dell'«indurimento» di quest'ultimo, l'individuazione della «passione radicale» nell'orgoglio (philautìa) che Massimo il Confessore definisce «amico di sé contro se stesso».

Eymerich (POL)
29-06-06, 00:46
La penetrazione dei logismoì ottenebra e indurisce il cuore, alimenta la philautìa e con essa la coscienza dell' ”io psicologico”: con la sua pulsione carnale (thelema sarkikon); con l'inclinazione appetitiva (prospàteia) che sorge dopo la rappresentazione suscitata dal logismos nel cuore «che ama se stesso»; per ultimo, con la «pretesa di giustizia», con la «giustificazione di sé» (dikaìoma) che induce a trovare addirittura in passi delle Sacre Scritture una discolpa della propria deviazione interiore. Ora, a differenza del sacerdote, lo starec non deve «assolvere dai peccati» il fedele che si rivolge a lui (e che tornerà presumibilmente a peccare nonostante l'atto di contri*zione e le prescrizioni penitenziali); egli deve invece aiutare il suo discepo*lo a sradicare i logismoì dal proprio essere, dissolvendo così la philautìa una volta per tutte. Questo processo di purificazione è concepito come una du*rissima lotta ingaggiata contro il nemico annidatosi nel proprio cuore, co*me una vera e propria «fatica del cuore» (ponos kardìas). In precedenza abbiamo fatto riferimento alle numerose metafore guerriere dell'ascesi che costellano i trattati patristici orientali. In tutto ciò, lo starec svolge una funzione essenziale. Egli dispone della diàkrisis, un termine che significa in*sieme «discernimento» e «discrezione». Senza questo sostegno spirituale e «sottile» i praticanti, abbandonati a loro stessi, cadrebbero quasi inevita*bilmente nell'illusione demoniaca. Per altro verso il possesso della diàkrisis dispensa dalla scienza, sia sacra, sia profana: molti grandi Padri, come Cirillo di Scitopoli, Simeone il Nuovo Teologo, Gregorio dì Nissa, Massi*mo il Confessore, etc., si dichiarano «illetterati» (agràmmatoi) e «ignoranti» (idiotai) anche quando (Massimo il Confessore) dispongono di una cultura enciclopedica, giacché «1a scienza di Cristo non ha bisogno di un'anima dialettica, ma di un'anima veggente; il sapere dovuto allo studio si può pos*sedere senza essere puri: la contemplazione appartiene soltanto ai puri». Inoltre la diàkrisis comprende dei gradi e, per conseguenza, «una gerarchia nei ranghi dei padri spirituali». Il «diacritico» infatti può disporre della «conoscenza del cuore» (kardiognosia), diventare un dioratikòs, provvisto di una sorta di «visione attraverso lo spazio e la materia», così come può di*sporre della correlativa proòrasis, «visione attraverso il tempo», ossia del dono della profezia.

Un punto essenziale sul quale Scrima si è soffermato è quello della «ge*nerazione spirituale» e quindi della successione tradizionale dei «padri spi*rituali». Il «vecchio» è eminentemente «padre», ad onta di ogni limitazione naturale. S. Paolo ricorda: «Potreste infatti avere anche diecimila peda*goghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generati in Cristo Gesù, mediante l'evangelo» (1 Cor 4,15). È stata rilevata la par*ticolare, quasi paterna», amorevolezza delle parole di S. Paolo; ad esempio l'uso di termini come thalpein (1 Cor 3,2) tradotto con «prendersi cura» ma che vale anche come «coccolare», «riscaldare», addirittura «cova*re» (lat. fovére); come trophòs «nutrice» (1 Tes 2,7); e perfino homeiròmenoi (1 Tes 2,8), indicante «un'inclinazione forte, languida, quasi morbosa», dunque un'ardita metafora d'amore rivolta ai figli spirituali. La tradizio*ne patristica è ricca di richiami alla filiazione dei discepoli intesa sia come paràdosis, sia come atto generativo simbolico. Già S. Paolo (Gal 4,19) si ri*volge alla comunità dei Galati come a «figli miei, per i quali continuo a sof*frire i dolori del parto, finché non sia formato in voi il Cristo». La genealo*gia dei Padri spirituali presenta la trasmissione del loro carisma utilizzando il verbo «generare» (cosi Macario genera Ammonas, Ammonas genera Si*soes... Arsenio genera Daniele, etc.). Lo starec è qualcuno che ha rag*giunto un livello spirituale - permanente o meno che sia - nel quale ha realizzato «la discesa della mente nel cuore» e, in virtù dell'illuminazione che ne è conseguita per grazia, può disporre del carisma della paternità. L'idea di paràdosis («tradizione») è, inoltre, ben presente nelle fonti: per Si*meone il Nuovo Teologo, ad esempio, «colui che non è ancora generato non è capace di generare i suoi figli spirituali; ed ancora «Per donare lo Spi*rito Santo bisogna averlo [...]»: espressioni che, come abbiamo visto, concordano perfettamente con quelle di Guenon.

Eymerich (POL)
29-06-06, 00:46
Se dall'esicasmo ci vol*giamo alle turuq islamiche, osserviamo che il richiamo alla tradizione è mol*to avvertito anche nella pratica del sufismo (tacawwuf). La linea di succes*sione fra «maestri» (shuyùkh) è segnata con scrupolosa precisione. Tutte le turuq iniziatiche fanno capo a Maometto. E' attraverso lui, nella sua qualità di Uomo Universale (al-insdn al kamil), che Dio vede tutte le cose. Nelle turuq la benedizione discende, oltrechè dai santi delle rispettive confraterni*te, anche dalla «realtà muhammadiana» che si identifica col Logos universale. Questa «influenza spirituale» (barakah) ha un valore iniziatico, al quale si accompagna la attribuzione del wird («formula di orazione») assieme all’«autorizzazione» (idhn) del maestro a recitarla. Senza questa autorizzazione il praticante non potrebbe fruire dell’aiuto spirituale trasmesso dalla catena iniziatica (silsilah): inoltre, la sua iniziativa puramente individuale rischierebbe di essere in flagrante contrad*dizione con il carattere essenzialmente non individuale del simbolo, donde il pericolo di reazioni psichiche incalcolabili, simili a chi intendesse pra*ticare la «preghiera del cuore» nella sua forma «tecnicizzata» senza il soste*gno del «padre spirituale».

In proposito, alcune fonti accennano al carattere segreto che in origine doveva possedere anche l'esicasmo. Olivier Clément, citando anche l'Avènement philocalique di Scrima spiega alcune allusioni simboliche dei Pa*dri del deserto come riferentisi ad un insieme già costituito ma trasmesso fi*no al XIII secolo per tradizione orale e affidato ad una pratica segreta (ad es. le immagini della colomba e dell'aquila, che suggeriscono la tecnica del sof*fio e della respirazione; il riavvicinamento del cuore e della preghiera «ignea», frequente soprattutto nell'insegnamento pseudo-macariano, etc.). Già Giovanni Cassiano (sec. IV-V) a proposito della «preghiera pura» affermava:

«E' un segreto [...] che ci hanno trasmesso i rari sopravvenuti fra i Padri antichissimi e che noi non riveliamo egualmente che al piccolo nu*mero di anime che hanno veramente sete di conoscerlo».

Analogamente, Niceforo il Solitario e lo pseudo-Simeone «sembrano solamente divulgare delle pratiche molto antiche, radicate nel tufo originario del monachesimo cristiano. Anche Vladimir Lossky nota che Simeone viene definito «Nuovo Teologo» perché «la mistica veniva considerata come la teologia per eccellenza», che tuttavia «appartiene a un fondo per così dire segreto e misterioso, che non deve essere divulgato. Gli scritti di S. Simeone, per esempio, erano destinati solo ai monaci già sperimentati nella vita contem*plativa».

Eymerich (POL)
29-06-06, 00:47
Ancora nel XIX secolo il vescovo Brjancaninov osservava che, nel passato, la preghiera compiuta «con arte» (ottenere la discesa della mente nel cuore mediante l'invocazione del Nome, coordinata con visualiz*zazione e ritmo respiratorio) veniva «tenuta segreta come un grande miste*ro di cui non si parla [...]». Ai suoi tempi, invece, non solo i monaci ma tutti i cristiani, grazie alla pubblicazione della Philokalia, avevano e potevano praticare la «preghiera di Gesù». Nell'esicasmo il tema della segretezza si lega - come può notarsi - con la forma «tecnicizzata» della «preghiera del cuore». Come notava lo stesso Valsan, l'invocazione del Nome divino in se stessa non è affatto «esoterica». Essa può (nel contesto islamico deve) essere compiuta da qualsiasi fedele ed in Russia è da molti secoli fra le preghiere più popolari. La situazione cambia quando la formula è inserita in un ambito di pratiche respiratorie, di visualizzazio*ni, di genuflessioni, di posture; esse servono come supporto per una medi*tazione profonda che, attraverso la «fatica del cuore» congiunta alla grazia, può portare all'illuminazione. Ovviamente tali pratiche, come si è detto, non possono essere eseguite senza l'ausilio (la «benedizione») di un «padre spirituale»: questi, oltre a penetrare «dioraticamente» nei logismoì e a con*tribuire a purificarli, darà al discepolo la formula da ripetere, talora per mi*gliaia di volte al giorno. Allo starec spetta il compito di affidare al novizio la ripetizione anche di una sola parte dell'invocazione, ovvero di indicare il numero di invocazioni da ripetere in sostituzione delle liturgie ordinarie. Ora, tutto ciò trova rispondenza nell'ambito dell'esoterismo islamico. In ambedue i casi è esiguo il numero degli aspiranti all'iniziazione» ed an*cor più ristretto quello di coloro che riescono a conseguirla. I principian*ti riceveranno una formula, di solito corrispondente al primo membro del-la shahada; i più avanzati si applicheranno al solo nome di Allah. Stati ul*teriori di rapimento in Dio prevedono espressioni di omaggio all'ineffa*bilità divina, dal semplice Huwa (Lui) a at Haqq (Verità), al-Havy («il Vivente») etc., fino alla massima «concentrazione» in cui potranno essere pronunciate separatamente le lettere componenti il nome di Allah, «o an*che un suono non sostenuto da una lettera». Ad ogni stato raggiunto, la formula dello dhikr di solito cambia, sotto la direzione dello shaykh. Ed ogni stato, o meglio ogni «stazione» (maqàm), è caratterizzata da una illu*minazione e da una «realizzazione» progressiva del mistero (sirr) degli at*tributi divini.

Questa analogia di forme sottende, tuttavia, delle differenze rilevanti. Esse riguardano anzitutto la figura dei «maestri» e la loro linea di successio*ne- Nell'Islam lo shaykh riceve sempre un'iniziazione, a prescindere dalla funzione che lo abilita ad impartire, a sua volta, iniziazioni; in ambito cri*stiano invece il «padre spirituale» riceve un carisma dallo Spirito, che non gli viene trasmesso «iniziaticamente» ossia nell'ambito di una confraternita ristretta da parte di co-iniziati -, ma che egli acquisisce per grazia, attraverso l'assidua frequentazione di un altro «padre» o anche per diretta elargizione divina. Di solito l'«illuminazione» (photismòs) dello Spirito Santo nel cuo*re si affianca al carisma di paternità: lo stato interiore accompagna e giustifi*ca la funzione. E tuttavia anche la funzione di starec si può perdere assie*me a un decadimento complessivo delle qualità spirituali. Inoltre, ancor più che nell'Islam, quella di «padre spirituale» può considerarsi una funzione vicaria. Tutte le turuq fanno capo a Maometto, che ebbe un'estesa famiglia, il che ammette discendenze genealogiche, sovente non solo «spirituali», a partire dal Profeta. Nel Cristianesimo Orientale l'esicasmo fa capo direttamente alla divinità di Gesù, conformandosi all'esortazione evangelica: «Non chiamate nessuno «padre» sulla terra perché uno è il Padre vostro, quello del cielo» (Mt 23,9). Ciò spiega l'umiltà dello starec come requisito assoluto del suo compito, perfino più vincolante dell'obbedienza alla quale è tenu*to l'allievo. «Come potrebbe giudicare gli altri chi invoca continuamente «abbi pietà di me peccatore?»: cosi il padre Eutimio dell'Athos giustificava la sua mitezza nei confronti dei discepoli. Se il discepolo riceverà ordini severi sarà solo per misurare la sua ubbidienza; per il resto, il «padre» appli*ca all'allievo la sua diàkrisis, il discernimento, del quale quest'ultimo è sprovvisto. Tale discernimento non si esprime necessariamente in parole. «Al discepolo che lo interroga, l'anziano risponde generalmente con un apoftegma che è un'autentica parola profetica, una risposta messa da Dio sulle labbra dei padri che ne ha uno ricevuto il carisma». E tuttavia «quando i discepoli non sono nelle disposizioni necessarie per accogliere con fede questa parola, gli anziani ricorrono facilmente al silenzio, a una bat*tuta di spirito, a una risposta volutamente ambigua o enigmatica». Liberi da ogni spirito di dominio e non avendo il compito di garantire il buon andamento di una comunità, essi non esercitano alcuna pressione sulle anime, cercando di essere «un modello, non un legislatore». Questa «discrezio*ne» dei «padri spirituali» - che, come abbiamo visto (supra, p. 147) è un al*tro aspetto della diàkrisis - spiega forse più delle varie (presunte o reali) fasi di «decadenza» il fatto che talvolta, nel corso della storia, la presenza dei «padri spirituali» sembri ridursi fin quasi a scomparire. In realtà essi sono, nella loro funzione, dei «vicari» e quindi, entro certi limiti, «sostituibili» con un accesso diretto alle Sacre Scritture e alla tradizione. Un caso esemplare è rappresentato da Paisij Velickovskij (1722-1794). Quando conduceva la sua vita da monaco, egli era alla ricerca di un padre spirituale: ma dove trovarlo? In una lettera al suo amico Bessarion confessa la sua desolazione e il suo proposito: «Non ci resta che una sola via d'uscita: studiate giorno e notte le Sa*cre Scritture e gli scritti dei Padri, domandare consiglio ai fratelli che pensa*no come noi e ai Padri più anziani, imparare a mettere in pratica i comanda*menti di Dio e ad imitare gli asceti di un tempo». Da questa decisione for*zata nasce l'immenso sforzo compiuto nel monastero romeno di Neamtz, dove Paisij sarà igumeno, per raccogliere manoscritti - quelli del Monte Athos erano particolarmente deteriorati - e per tradurre in slavonico gli scritti dei Padri, assieme allo sforzo di vivere insieme e di mettere in opera ciò che si studiava nel monastero.

Eymerich (POL)
29-06-06, 00:47
Secondo il vescovo Brjancaninov, Paisij avrebbe ottenuto il dono della preghiera del cuore da teodidatta, per un favore speciale della grazia divina, senza seguire la via ordinaria (relazione filiale con uno starec) che invece raccomandava ai suoi discepoli. Proprio per questo non osava insegnare a praticare la «preghiera del cuore» ai fratelli e affidava questi insegnamenti ad altri padri che avevano ottenuto la preghiera per "via normale". Nonostante ciò egli si dichiarava pronto a subire le pene eterne a vantaggio dei «figli spirituali» (anche qui una funzione «vicaria» ad imitazione di Cri*sto!), chiedendo a Dio di consentirgli di vedere da lontano «come il ricco epulone vide Lazzaro, la felicità dei suoi nel Regno celeste».

Dalla «crisi» di paternità spirituale (dovuta largamente al diffondersi dell'illuminismo nel mondo politico e culturale della Russia del '700), Pai*sij promosse dunque una «ripresa» che presto diede i suoi frutti. Da lui se*guirà, come si è visto, una vera e propria «catena» di starcy ispirati: tra que*sti, le «guide» del monastero di Optina - padri Leonid, Macarij ed Amvro*sij - dai quali discenderà la generazione spirituale che condurrà fino ad Ivan Kulygin e, forse, allo stesso Andrei Scrima. La successione degli starcy, a differenza di quella degli «sceicchi» delle confraternite islamiche, può dunque paragonarsi ad un percorso carsico: sembra ad un tratto scomparire per poi riaffiorare, rinvigorita, e continuare il suo cammino. Nulla esclude che se, all'inizio del percorso, la via esicasta era «segreta» es*sa sia divenuta «discreta», ma visibile e praticabile da un relativamente mag*gior numero di adepti, per conservare aperta, anche in climi storici deterio*rati una regolare via verso la «deificazione» (e non la semplice «salvezza») nel mondo cristiano.

Eymerich (POL)
29-06-06, 00:48
Un altro punto in cui le divergenze fra esicasmo e sufi*smo sono più evidenti riguarda l'importanza attribuita alle «tecniche» psico-fisiche. Anzitutto nell'Islam tali tecniche sono molteplici variando a se*conda delle turuq che le praticano, e sono sempre rigorosamente tramanda*te. Inoltre esse costituiscono una componente irrinunciabile del «metodo» operativo, simbolico-rituale. Nell'esicasmo invece le varie applicazioni pratiche della tecnica psico-fisica sono meno formalizzate. Esse raggiungono forse il massimo della loro strutturazione nel trattato di Niceforo, falsamen*te attribuito a Simeone il Nuovo Teologo. Tra l'altro, la pratica dell'«onfaloscopia» suscitò la riprovazione di Barlaam Calabro e dei «tomisti orienta*li» e provocò l'efficace reazione difensiva di Gregorio Palamas. Tuttavia la difesa dei santi esicasti promossa da Palamas riguardava i principi teologici e spirituali e inquadrava strumentalmente, entro tali principi, le pratiche sotto accusa. Col tempo, una linea prevalente di teologi ortodossi ha ridimen*sionato l'importanza delle tecniche psico-fisiche (non senza, peraltro, rico*noscerne e valorizzarne i significati simbolici). Ciò, a nostro avviso, non di-pende tanto dalla misconoscenza delle scienze iniziatiche di cui parla Guénon, quanto dalla cognizione del carattere non essenziale di tali «appoggi», oltreché dal tentativo di non accentuare le distanze rispetto al mondo latino e, soprattutto, dalla consapevolezza dei rischi connessi alla loro utilizzazione in assenza di un «padre spirituale». Senza dubbio la ridotta importanza delle tecniche psico-fisiche è parallela alla diminuita reperibilità di autentici starcy. Ma più che di «decadenza» pura e semplice dell'esicasmo, occorre*rebbe forse parlare di mutate condizioni storico-culturali (e spirituali). Do*po il rinnovamento promosso da Paisij e dalla redazione greca della Phi*lokalia di Macario di Corinto e di Nicodemo Aghiorita (Venezia, 1782), nel Monte Athos vennero redatti diversi trattati anonimi riguardanti la «pre*ghiera del cuore». Uno di questi, L'Insegnamento e metodo della preghiera mentale (ca. 1835), pur presentandosi come un'«epitome priva di una effet*tiva originalità» indica, forse proprio per questo, alcune linee di tendenza consolidate. Vi è sottolineata la portata antiereticale della orazione esicasta e la sua origine apostolica: ma la parte più significativa dell'opuscolo consiste nella trattazione «aggiornata» della tecnica psico-fisica. L'autore si sofferma sui rischi legati all'abuso «diabolico» di queste tecniche e accosta i temerari che le applicano malamente ai «falsi monaci maomettani», ossia ai «dervisci dei maomettani che danzano in cerchio, schioccando la lingua, sbavando ed eruttando numerose bestemmie come il loro maestro Maometto»". Eviden*te è il riferimento ai «dervisci danzanti» risalenti a Jalàl ad-Din Rùmi (XIII sec.): qui, il monaco richiama a suo modo un caso di «dhikr collettivo» mol*to popolare. Paradossalmente però, la sua invettiva sembra confermare una prossimità delle due tecniche, paventando il rischio di una certa «osmosi» che poteva essersi verificata in epoche anteriori, non lontanissime, e che rischiava di presentarsi ancora. Ma l'anonimo estensore del trattatello non si ferma qui. Egli raccomanda anche di praticare l'attenzione nel cuore e non nell'ombelico. In questo modo il monaco travisava la méthodos indicata dallo pseudo-Simeone, ma, di fatto, anche la difesa dell'«onfaloscopia» pro*nunciata da Palamas. Un ridimensionamento complessivo delle tecniche non risparmiava neppure l'esercizio di introduzione e ritenzione forzata del re*spiro. Il «farsi violenza per il Regno dei cieli» viene qui abbassato ad una pratica innaturale che «può recar danno alla salute fisica» fino al punto di «contrarre la tisi» (!), a meno che - come al solito - non vi sia un «maestro spirituale» a guidare il neofita.

Le annotazioni dell'anonimo monaco athonita mostrano una perdita del significato simbolico delle pratiche corporali esicaste, non disgiunta da un certo «salutismo» in cui potrebbe scorgersi una qualche influenza occiden*tale: probabilmente il volumetto «fotografa» una situazione di fatto, in cui la pratica andava svincolandosi dal rigoroso rapporto col padre spirituale e, forse, si apriva anche pericolosamente a tecniche esterne. Sta di fatto che an*che i grandi maestri russi del XIX secolo, da Brjancaninov a Teofane il Reclu*so, ridimensioneranno l'importanza degli esercizi respiratori ed esclude*ranno l'onfaloscopia dalla tecnica esicasta, riservando tutta l'attenzione e la concentrazione del praticante al cuore e in particolare alla ricerca del «luogo del cuore»: punto d'incontro fra lo spirito individuale e lo Spirito Santo, al momento del Suo intervento illuminativo elargito per grazia. Questa «semplificazione» non equivale necessariamente a un decadimento. L'erme*neutica del XX secolo ha promosso una comprensione in chiave simbolica di tutte le componenti della tecnica esicasta: dal «cuore» stesso (Vyseslavcev, Guénon), al «respiro», fino alla stessa «onfaloscopia» (Clément); al tempo stesso, sul piano teologico, ha chiarito che la riduzione al «cuore» non equi*vale ad una effusione sentimentale, ma richiama la stretta fusione dell'intel*ligenza e dell'amore, simboleggiata dalla «discesa» dell'intelletto nel cuore. Questo sforzo di comprensione non ha comportato un recupero dell'antica «arte della preghiera»: una tradizione viva si adatta ai tempi e non necessita di ricostruzioni artificiose. Piuttosto, la semplificazione delle tecniche ha comportato una riduzione all'essenzialità dell'esicasmo, che in ogni tempo, e certamente fin dai suoi inizi «segreti», è stato centrato sulla invocazione con*tinua e interiorizzata del Nome di Gesù.

Eymerich (POL)
29-06-06, 00:49
Una simile adattabilità sembra meno evidente nello dhikr. La sua pratica prevede il raggiungimento di condizioni interiori denominate «stati» (ahwal) e «stazioni» (maqamat). Lo hal è una condizione tran*sitoria, puro dono di Dio; maqam invece è il frutto del «lavoro spirituale» dell’iniziato, ottenuto grazie ai suoi sforzi, ed ha un carattere permanente: essa è acquisita una volta per tutte, dal momento che implica il raggiungimento pieno di un grado spirituale. Nell’esicasmo, all'opposto, non vi è nulla (tranne forse lo stato finale di «orazione pura») che possa avvicinarsi a una maqam. Tutto il percorso che intercorre tra l'inizio della pratica e la «preghiera pura» è, semmai, ragguagliabile ad una serie di ahwal, di «stati» spirituali elargiti da Dio, ma revocabili ad ogni istante: in ciò consiste una delle «prove» più dure per l'esicasta. Egli può anche conseguire una théosis in vita: ma sa che questa non è che una «caparra», una anticipazione della vera e piena «deificazione» per assimilazione delle energie divine, che avverrà nel Giudizio finale. Que*sto non significa che l'itinerario dell'esicasta non sia articolato. Come abbiamo visto, esso conosce varie «tappe», anche se non fissate in rigida successione. Lo stato iniziale, legato a una preghiera ancor tutta «mentale», può essere sog*getto alle fluttuazioni della phantasia e può indurre - per insidia del «nemico» - false visioni e perfino stati estatici dai quali i Padri raccomandano di liberarsi. Contro queste perniciose ebbrezze dell'anima viene raccomandata una continua, sobria vigilanza (nèpsis) che accompagnerà il praticante per tutto il percorso. Ciò non impedirà che talvolta il discepolo sia provato dall'«ab*bandono di Dio» (parachòresis), da non confondersi con le «notti dell'anima» del misticismo occidentale. A volte nelle fonti si parla di «abbandono peda*gogico», affinché l'intelletto non si esalti e si procuri l'umiltà necessaria per discendere «nel cuore». Lentamente, grazie allo sforzo ascetico, alla «fatica del cuore» (ponos kardiàs), la preghiera puramente mentale determinerà l'«aper*tura dell'occhio del cuore». Perché ciò accada, come si è detto, dovrà com*piersi una rigorosa purificazione dai logismoì, fino a raggiungere i recessi più profondi della forza basale che inclina verso la materia. Una volta com*pletata questa purificazione non solo morale ma «essenziale», si perverrà all’apatheia, ossia all'«impassibilità attiva», ad una forma di padroneggiamento e non di estinzione del sentimento (condizione, quest'ultima, definita anaisthesìa e considerata per lo più negativa). Questa sensibilitis rigenerata e protet*ta da tentazioni (ma mai del tutto: può sussistere, inconscio, l'«amore di sé», il più insidioso e «basale» dei difetti), viene di solito accompagna*ta, o sigillata, dal «dono delle lacrime» (dakryon doron). Questo, più che uno stato, è un segno indicatore della trasformazione che sta verificandosi nel cuore. In proposito, molte fonti accennano al passaggio da un cuore «di pie-tra» a un cuore «di carne»- I sentimenti si conservano, ma purificati e subli*mati dalla grazia: le lacrime indicano lo <e stupore» dell'anima che comincia ad avvertire, quasi per una seconda nascita, sensazioni di pace, di serenità, di gioia. Da parte di alcuni autori si parla di «battesimo delle lacrime». In Simeo*ne il Nuovo Teologo il dono delle lacrime assume il carattere di un «battesimo dello Spirito»: egli stesso confessa di aver ricevuto la teologia delle lacrime co*me un lascito tradizionale» dal suo padre spirituale Simeone lo Studita e di averlo trasmesso a sua volta al suo discepolo Niceta Stethatos. Come si ve*de, non si tratta di un mero trasporto sentimentale o emozionale, ma di un ve*ro e nuovo carisma dello Spirito, integrabile nella méthodos esicasta. Simeone attribuisce alle lacrime il potere di rinnovare la grazia battesimale: esse sono l'effetto doloroso della penitenza che monda l'anima dalle conseguenze del peccato e scioglie la sua «durezza di cuore» (sklerokardìa) e al tempo stesso sono il segno gioioso della «1uce di conversione» (phòs metànoias) che si manife*sta nel cuore intenerito (divenuto «di carne») e pronto a ricevere lo Spirito.

Questa compresenza di sofferenza e di letizia fa parlare dello stato d'a*nimo che accompagna la ricezione del dono delle lacrime nei termini di una «dolorosa gioia» derivante dalla compunzione (katànyxis). Queste lacri*me non saranno più «psichiche» (ossia legate ai moti passionali dell'anima), bensì «pneumatiche». Queste lacrime, di cui si dice che sono capaci di «spegnere il fuoco della geenna», sono anche fisicamente diverse dal pianto: in quanto sopraggiunte come una gratia gratis data dello Spirito Santo, esse colano, dolci e silenziose, «senza sforzo né contrazione dei mu*scoli della faccia» e in questo senso più che apparire «innaturali» esse son dette appartenere alla più profonda natura dell'uomo.

Non deve dunque sorprendere se le fonti richiamino, in proposito, l'im*magine delle «lacrime del parto». Isacco di Ninive parla del versar lacrime come di «doglie del parto di questo figlio spirituale» nel quale «la grazia, madre comune, si affretta a far nascere misticamente l'anima, immagine di Dio, alla luce del mondo futuro»; e aggiunge che il bimbo che nasce, anco*ra non assuefatto al nuovo mondo, «muove il corpo con il pianto misto a una gioia che supera la dolcezza del miele».

Eymerich (POL)
29-06-06, 00:49
Tutti questi riferimenti ad un «nuovo battesimo» e a una «nuova nascita» sono insieme reali e metaforici. Reali, perché indicano l'avanzamento lungo un cammino di perfezione: metaforici, perché nessuna delle condizioni sopra indicate è assimilabile ad una «iniziazione», nel senso di una trasmutazio*ne ontologica acquisita una volta per tutte. Perfino Giovanni Climaco, che parla del dono delle lacrime come «secondo battesimo», è lo stesso che suggerisce la formula della «perfetta mai perfetta perfezione dei per*fetti».

Dal punto di vista cerimoniale il battesimo ortodosso, impartito a per*sone consapevoli, sotto la forma della triplice immersione, per di più soli*tamente associato a cresima ed eucaristia, presenta una somiglianza morfologica con una iniziazione di tipo «esoterico». Osserva Pavel Ev*dokimov che «il battesimo per immersione riproduce tutta la curva figu*rativa della salvezza [...]. La triplice immersione fa passare attraverso il triduum, e la discesa, poi l'emersione, è ritorno verso il giorno senza declino. In tal modo il sacramento del battesimo è la discesa reale con Cristo nella sua morte, ed è pure la «discesa agli inferi», come affermano Giovanni Crisostomo ed altri Padri. Anche Simeone il Nuovo Teologo è coerente con questa linea dottrinale, laddove osserva che «al momento stesso del battesimo c'è chi ha versato lacrime preso da compunzione per la discesa su di sé dello Spirito»: l'iniziazione battesimale non è necessariamente «virtuale» se si accompagna, da adulti, ad una preparazione e a una con*sapevolezza che l'immissione della grazia ex opere operato può far «fiori*re» speditamente (tanto più se a questo insieme di sacramenti si accompa*gna la «preghiera costante»). D'altronde, al di là di somiglianze di forma, nella sostanza anche il battesimo per aspersione praticato dalla Chiesa d'Occidente ha le stesse valenze simboliche di quello per immersione; il riconoscimento della validità del battesimo ricevuto in una delle due Chiese da parte dell'altra è prova ulteriore dell'equivalenza delle due pra*tiche sacramentali.

Eymerich (POL)
29-06-06, 00:50
Se si torna al confronto con lo dhikr, si noteranno due fondamentali dif*ferenze: una più rigida «strutturazione» delle condizioni di progresso spiri*tuale e una minore incidenza dell'amore nel processo conoscitivo che porta alla «realizzazione» finale. Per quanto riguarda la prima differenza, la pratica islamica della «preghiera del cuore» (salat al qalb) comporta una inizia*zione preliminare (talqin) consistente nell'attribuzione del wird («formula rituale») da parte del «maestro». Attraverso l'invocazione-«incantazione» inizia la pulitura (tasfiya) dello specchio del cuore dalle immagini sensibili (qualcosa di non lontano dalla rimozione dei logismoì), mediante l'invoca*zione dei Nomi divini in cui solitamente consiste il wird. Quando lo spec*chio del cuore sarà del tutto lucido mediante la pulitura che avviene con l'in*vocazione costante, allora l'individuo otterrà la gnosi intuitiva (ma'rifa) ed avrà accesso agli Attributi divini. Questa è ancora una conoscenza indiretta, una visione (mushàhada) attraverso lo specchio del cuore. L'itinerario iniziatico proseguirà, tuttavia, per ottenere la manifestazione della Luce divina, che avverrà mediante lo dhikr degli ultimi tre dei Nomi divini (Wahid, «Unico», Ahad, «Uno», Samad, «Fonte», «Pienezza onnicomprensiva»). Soltanto allora l'occhio del cuore vedrà (e non più lo specchio rifletterà) la «luce dell'Unità» (nùr al tawhid) realizzando lo stato di isolamento (tajrid), conseguente alla «estinzione dell'estinzione» fana al-fana), nel quale la crea*tura si è spogliata di tutto tranne che di Allah. Questo processo, tuttavia, non conosce soltanto la metodica «lentezza» dell'esicasmo: esso si formaliz*za, come abbiamo detto, in «stati» e «stazioni» senza i quali è di fatto im*possibile conseguire la condizione finale. In questo senso le «stazioni» (maqamat) sono «altrettanti [...] gradi di consapevolezza che conducono all'u*nione e che sono connessi l'un l'altro in ordine gerarchico, sicché, anche quando vengono successivamente trascesi, restano in possesso permanente di colui che, procedendo sulla Via, li ha attraversati»; per questo «il conse*guimento di una maqam superiore presuppone la permanenza, non la priva*zione, della maqam inferiore». Vi è ovviamente una logica in questa suc*cessione gerarchica: se la prima «stazione» è quella del pentimento (tawbat), la seconda quella della conversione (inabat), la terza quella della rinuncia (zuhud) la quarta quella della fiducia in Dio (tawakkul), etc., ciò dipende dal fatto che non è concepibile che qualcuno possa pretendere di convertirsi senza pentimento, o di rinunciare senza convertirsi, o di fidare in Dio senza rinuncia. Dalla differenza tra «stato» e «stazione» dipende anche la diversità di linguaggio propria dei gufi, dal momento che ognuno di essi parla dalla maqam che ha raggiunto (anche se il significato interiore dei loro detti converge sull'identica «realtà»).

Ora, l'esicasmo certamente non conosce «stazioni» paragonabili a quelle dello dhikr: ciò contraddirebbe al presupposto per cui tutto è concesso da Dio per grazia in aggiunta agli sfor*zi compiuti dall'uomo. In un ceno senso però non coincide con l'orienta*mento esicasta neppure lo hal («stato»): Esso ha in comune il fatto di essere una condizione interiore donata da Dio: i «passaggi di stato» dell'esicasmo non sono tuttavia necessariamente effimeri come gli ahwal islamici (che per*ciò necessitano di «stazioni» permanenti). Quella cristiano-orientale è pur sempre una méthodos graduata su «stati» successivi che la grazia abitual*mente concede in risposta alla lotta interiore del praticante. Nell'esicasmo, insomma, si ha una collaborazione convergente e reciprocamente libera fra sforzo umano e grazia divina; nello dhikr si ha invece una progressione di*stinta fra sforzi umani, che portano (se rettamente compiuti) a risultati inde*lebili, e grazie divine che accompagnano il cammino, lo sorreggono e lo sti*molano senza peraltro - proprio per il loro carattere occasionale e transito-rio - graduarne le tappe.

Eymerich (POL)
29-06-06, 00:52
Ed eccoci alla seconda differenza: nel processo di conoscenza (mahabba) che porta a Dio, l'amore (mahabba) ha un posto importante ma non decisivo. È stato osservato che l'amore «pur non essendo uno dei termini centrali del linguaggio coranico nella qualificazione dei rapporti fra Dio e l'uomo» ha tuttavia acquistato un posto centrale nel linguaggio sufi: que*sto lo ha arricchito di tutto il linguaggio erotico della letteratura araba, as*sunto come la più adeguata espressione simbolica dell'esperienza vissuta nell'incontro con Dio, il supremo amante-amato. In tal modo i sufi «han*no prodotto un'importante e varia letteratura erotico-mistica [...]». In ogni caso, sono piuttosto rari i casi di sull che abbiano dato all'amore la precedenza sulla conoscenza; riguardo alla via «aissawita» perseguita da personaggi come Halla'j e, in tempi vicini, da Al-'Alawi, si è detto in precedenza. In generale, è stato affermato che «per coloro che ne hanno sperimentato la realtà (muhaqqiqùn) l'amore è un consumarsi (istihlak) accompagnato dal piacere, mentre la conoscenza è un contemplare (suhud) accompagnato dalla perplessità (haira, 'stato di stupore di fronte alla grandezza divina) ed un annullarsi (fana) accom*pagnato dal timore (hayba)». Rispetto all'esicasmo, insomma, si nota una sorta di scambio fra eros e agape: l'erotismo è assunto come valenza simbolica del desiderio e come cifra simbolico-letteraria dell'«unione». Nulla di ciò nell'esicasmo, che non ha prodotto neppure una poesia erotico-mistica affine, ad esempio, a quelle dei «Fedeli d'Amore» per l'Occi*dente o di «Rumi» per l'Oriente. Come si è notato, e si ribadisce, per l'esicasmo l'amore-carità è talmente importante da costituire un ingrediente della stessa conoscenza. Secondo Evagrio, l'agape è «la figlia dell’apatheia»: la sua acquisizione segna il termine della fase ascetica (prak*tikè) e indica la liberazione dai prodotti di quell'«amore di sé» (philautìa) in cui è riconosciuta la radice di tutti i vizi. Laddove regnano queste pas*sioni «accecanti» non vi è nessun amore e quindi nessuna conoscenza,mentre, all'opposto, «la carità è la porta della gnosi». Ancora una volta occorre ricordare che l'apatheia è un processo di purificazione che non produce insensibilità e che anzi genera un «sentimento spirituale». In termini guénoniani questa espressione può sembrare contraddittoria; ma nei termini esicasti essa indica lo stato psicologico «profondo» che deriva dall'apatheia.

Si è parlato, al riguardo, di «impassibilità attiva»: il lato attivo di essa consiste appunto nel sentimento mondato dalla passionalità, tutto rivolto a Dio. Teofane il Recluso ha trattato estesamente il problema. Egli non iden*tifica certo la vita spirituale con quella dei sentimenti. Nondimeno, essi so*no «1'attività vitale della vita spirituale»; essi assecondano la tripartizione corpo, anima, spirito: il cuore, «centro» dell'essere, quindi anche del senti*re, è il ricettacolo dei sentimenti del corpo e dell'anima, così come anche di quelli spirituali. Questi ultimi restano potenziali fin quando, dopo l'apatheia, si raggiunge una sorta di «connaturalità» con il divino (lo «spiri*to» dell'uomo, risvegliato dall'ascesi, e pronto a ricevere per grazia lo Spiri*to Santo nel «cuore»). A questo punto può determinarsi una cognitio per connaturalitatem, ossia «una conoscenza particolarmente viva associata a un sentimento, fondati sulla unione intima fra due persone».

Eymerich (POL)
29-06-06, 00:52
In questa «fusione senza confusione» i sentimenti spirituali assorbono in sé ogni altro tipo di sentimento, al modo stesso in cui la Presenza divina esclude ogni diversa attrazione. «Il cuore - scrive Teofane - è un vaso, se lo riempi del Divino fino all'orlo, non si può ricevere nient'altro, esso è col*mo». In sintonia con ciò, egli parla anche di «gusto spirituale del cuo*re»: «Come il gusto distingue i cibi, così il sentimento e il cuore distin*guono le cose spirituali». Qualcosa di simile registra anche il sufismo, con il suo concetto di dhawq: esso è il «gusto iniziatico», o anche il «pre*sentimento» delle rivelazioni divine. Ma questa è, ancora una volta, una qualità intellettuale, nella quale il «senso» sostituisce il «sentimento» spiri*tuale. Nell'interpretazione di Teofane invece il «gusto» è una metafora del «sentimento spirituale». Un'altra immagine viva, associata al «gusto», è quella del «calore» del cuore. Su ciò Teofane trae i suoi riferimenti soprat*tutto dallo pseudo-Macario: nelle Omelie Spirituali è scritto spesso che la grazia dello spirito è un fuoco divorante che penetra il nostro intimo. A commento di questi passi, Teofane osserva che la vita interiore va concen*trata in un focolare in cui lo spirito intero dell'adepto si compenetra del «ricordo di Dio» (ossia della «preghiera di Gesù») e si unisce a Lui. «Il calore prodotto dalla discesa della mente nel cuore è una facoltà ancora 'naturale', che può produrre conseguenze sul piano psichico, anziché spiri*tuale: da ciò occorre guardarsi, rifuggendo da tali effetti magici». Al tempo stesso occorre mantenere costante il calore del cuore progressivamente «in*tenerito», in attesa che in questo vaso - non più di pietra ma di carne gra*zie all'invocazione costante del Nome - si riversi «un altro calore, che non è terrestre». Al contrario del fuoco che viene dall'orgoglio e che brucia nell'anima, forzandola a errare da un'azione all'altra, il calore e il fuoco che vengono dallo Spirito stabiliscono la tranquillità interiore e la gioia.

È caratteristico, insomma, che poco prima della ricezione dello Spirito, si combinino simbolicamente - diremmo quasi chimicamente - l'acqua del*le lacrime e il fuoco del sentimento spirituale: le lacrime del pentimento spengono solo il fuoco dell'orgoglio, il fuoco della preghiera accende solo l'amore per lo Spirito. il «catalizzatore» di questa reazione è un mèlange in*timo di sentimenti spirituali: timor di Dio, vigilanza-temperanza (népsis) abbandono alla volontà del Signore.

Ad un certo punto, la preghiera cesserà di essere un atto spesso penoso (la «fatica del cuore»...) per divenire uno stato. Questa trasformazione, non ottenibile per sola volontà umana, sarà il segno certo dell'avvenuta rigenerazione spirituale: Evagrio osserva che “il Signore suole mostrarsi solo quando la preghiera è diventata uno stato".




Enrico Montanari



Tratto da Enrico Montanari, LA FATICA DEL CUORE - Saggio sull'ascesi esicasta - ed. Jaca Book a cui si rimanda per l'approfondimento e le relative note numerose e particolareggiate.

Talib
29-06-06, 15:42
Ho solo dato un'occhiata veloce a questo lungo articolo (mi riservo di leggerlo con più attenzione nei prossimi giorni), ma devo dire che è veramente molto interessante! Tra l'altro capita proprio "a fagiuolo", perchè giusto ieri pomeriggio ho acquistato "Detti e fatti dei Padri del deserto" e "Il Poema Celeste" di Attar :).

Un saluto,
Talib

vescovosilvano
29-06-06, 23:54
Ringrazio Eymerich di aver postato questo testo di Montanari.
Al moderatore chiederei se fosse possibile unire in uno solo i messaggi: così potremmo facilmente copiare il testo.
Quando avrò letto il testo con più attenzione dirò le mie osservazioni.
Intanto mi limito a dire una cosa: quando si parla di non dar peso alla tecnica, non si intende sottovalutarla. Il problema è che nel mondo attuale così frenetico non è facile l'esichia per chi si trova nel mondo e spesso il concentrarsi suilla tecnica opera esattamnte il contrario di quel vuoto di pensieri perchè la mente si soffermi sulla preghiera respirata e questa scenda nel cuore.
Allora si preferisce consigliere la ripetizione attentadella preghiera. Questo porta (anche perchè la preghiera è divisa in due stichi) che il recitarla tranquillamente fa si che dopo un po' di tempo si sincronizza naturalmente sul ritmo del respiro. Quando colui che prega lo nota ci si limita a dirgli "poi scenderà nel cuore" ma non c'è fretta. e ci si accorge che dopo un po' la discesa avviene spontaneamente.
Invece è utilissimo l'utilizzo della corda di preghiera fin dall'inizio non tanto per contare ma perchè il premere tra le dita il pippo di lana favorisce la concentrazione.

Eymerich (POL)
30-06-06, 02:43
Ringrazio il vescovo Silvano del suo prezioso intervento.

Il post è stato diviso per motivi di leggibilità, perchè tutto in blocco faceva pasare la voglia di leggerlo. Se preferisce le spedisco via email il tutto.

Le sue osservazioni su tecnica, attenzione e discesa della preghiera nel cuore sono dal sottoscritto pienamente condivise.
Bisogna evitare gil estremi: da un lato chi vede la tecnica quasi fine a se stessa, dall'altro chi la snobba completamente.
Se non vado errato la posizione espressa dal vescovo Silvano è la medesima assunta dal grande Gregorio Palamas nella diatriba con Barlam; posizione che poi non è "palamita", legata cioè alla sua individualtà, ma "ortodossa" nel significato etimologico della parola, vale a dire "conforme a Verità".

Eymerich (POL)
30-06-06, 02:45
Ho solo dato un'occhiata veloce a questo lungo articolo (mi riservo di leggerlo con più attenzione nei prossimi giorni), ma devo dire che è veramente molto interessante! Tra l'altro capita proprio "a fagiuolo", perchè giusto ieri pomeriggio ho acquistato "Detti e fatti dei Padri del deserto" e "Il Poema Celeste" di Attar :).

Un saluto,
Talib

Quanti bei ricordi: due ottimi libri non 'è che dire :) Il primo, tra l'altro, è la mia lettura preferita prima di addormentarmi.
Dicono che certi testi servano a fare.... "bei sogni".

vescovosilvano
30-06-06, 15:39
San Gregorio Palamas è un Grande-grande, il Vescovo Silvano è piccolo piccolo!
A proposito: sapete che è uscito presso Bompiani il secondo Volume dell'opera omnia di San Gregorio Palams, che non era previsto ma è nato dall'insistenza del Prof.Reale sul traduttore che, come sapete, non è del mestiere ma è uno psicanalista. Posso assicurarvi che la traduzione è una delle migliori che conosca, in Italiano senz'altro la migliore. Il Terzo ed ultimo volume è in preparazione e dovrebbe uscire a breve.
Tutti i volumi hanno una amplia introduzione (spesso condivisibile) ed il testo greco a fronte.
Contestualmente presso le Paoline è uscita una amplia antologia dello stesso padre. NOn ne posso dare un giudizio perchè non mi è ancora arrivata.
Ancora ha riedito l'interoduzione a Palama di Meyendorff. Quest'opera è troppo ispirata dalla vione del personalismo "alla francese" penetrata nella scuola di Parigi, per cui in alcuni punti va corretta. (vedi anche le osservazioni del teologo greco p.Romanidis riportate in nota nel II volume dell'edizione Bompiani).
Qiqaion ha pubblicato le sue omelie con titolo "Oh se squarciassi i cieli e scendessi"

Eymerich (POL)
30-06-06, 15:43
Aggiungo:

"L' uomo mistero di luce increata. Pagine scelte", ed. Paoline. Breve e denso volumetto, dotato di una buona ma sintetica introduzione. Sono presenti alcune brevi opere di Palamas, e stralci della lettera a Xene. Adatto anche ai non addetti ai lavori. Scarso l'apparato di note.

vescovosilvano
01-07-06, 00:27
presso le Paoline è uscita una amplia antologia dello stesso padre

Ci riferivamo allo stesso libro, di cui non ricordavo il titolo.
Grazie per averlo inserito.

Eymerich (POL)
01-08-06, 17:40
1. Il sufismo come forma di meditazione




A) Il metodo di meditazione



In generale per sufismo si intende la corrente fondamentale del misticismo islamico. L'ideale del sufi è da una parte l'ascetismo e il distacco dal mondo, dall'altra l'unione con Dio.



a) Il distacco


L'ascesi richiede il distacco da ogni possesso, esemplificato da una frase di al-Ghazali (il dottore del sufismo, nato a Tus nel Khorasan nel 1058/59, morto nel 111): "noi possediamo soltanto ciò che non possiamo perdere in un naufragio". Ma è necessario anche il distacco dal corpo, essendo l'uomo una manifestazione divina imprigionata in un corpo limitante, come afferma al-Hallaj (mistico nato a Tur nel sud-ovest dell'Iran, giustiziato a Bagdad nel 922); in modo simile si esprime al-Ghazali: "Io sono un uccello, questo corpo era la mia gabbia, ma sono volato via lasciandolo come un segno ".
Attuando il distacco dalle cose materiali, bisogna liberarsi anche da quell'insieme di pensieri e meccanismi emotivi che formano l'universo mentale di un animo non ancora purificato.


- Silenzio mentale e purificazione del cuore



Dio è uno, come rimarca l'Islam, e quindi l'unione con Lui passa per la riduzione della molteplicità apparente all'unità e con l'eliminazione dalla mente di tutto ciò non è Dio. L'unione con Lui può verificarsi solo nel silenzio dei pensieri quando, secondo le parole di Attar (mistico iraniano del Khorasan morto verso il 1230), "la mente si arresta spossata".

Dunque il primo passo da compiere, afferma al-Ghazali, consiste nel "purificare completamente il cuore da tutto ciò che non è Dio", e il secondo nella "totale immersione del cuore nel ricordo di Dio".

Secondo Ibn al-Arabi, che molti considerano una figura apice del sufismo, l'uomo unisce in se medesimo la forma dell'universo e la forma di Dio, e giunge alla perfetta realizzazione di ciò, cioè alla realizzazione dell' "uomo perfetto", attraverso tre stadi; il primo grado è detto "Illuminazione dei Nomi", il secondo "Illuminazione degli Attributi", il terzo corrisponde alla "Illuminazione dell'Essenza", che deifica l'Uomo Perfetto, colui che realizza l'unità con Dio; il suo cuore diviene il Trono di Dio, ed egli è la Copia di Dio.





b) Il dhikr


Nella sua autobiografia, al-Ghazali spiega che la via del sufi è "sgombrare il cuore da ciò che non è Dio altissimo, ciò che si ottiene per mezzo del ricordo di Dio". Per mantenere vivo il ricordo (dhikr) di Dio, normalmente si utilizza la tecnica della ripetizione di un Suo nome, per cui "dhikr" ha finito con l'indicare la ripetizione di un'invocazione.

Il dhikr è divenuto il principale metodo di concentrazione della mistica musulmana, e viene realizzato attraverso la ripetizione di una formula, un nome di Dio, che varia a seconda delle confraternite o della singola persona; generalmente esso viene affidato al discepolo dallo sheik all'atto dell'iniziazione. Soprattutto a partire dal sec. XII, pare per influsso del tantrismo indiano, il metodo si articolò regolamentando le posizioni corporee, le tecniche di respirazione, e la visualizzazione dei centri sottili del corpo, associate all'invocazione.

L'essenziale è dunque la ripetizione del dhikr ma, se esso viene pronunciato dall'intelletto comune, si può ripetere il nome di Dio migliaia di volte senza che succeda nulla; bisogna dunque trovare il giusto atteggiamento, in modo che esso venga ripetuto nel profondo del proprio essere.

Si passa dunque da una prima fase, chiamata dhikr della lingua, perché la ripetizione, che inizialmente richiede un certo sforzo di volontà, scivola poi spontaneamente sulla lingua. La seconda fase è chiamata dhikr del cuore perché il dhikr pronunciato nel cuore e il devoto si sente pervaso dalla divinità. La terza fase è detta dhikr dell'intimo (sirr), nella quale le esperienze precedenti si intensificano fino al raggiungimento dello stato di fanà (estinzione, annientamento), nel quale l'uomo è talmente compenetrato dalla divinità da avere la sensazione che la propria limitatezza individuale scompaia.





B) Il cuore organo della meditazione



a) Il cuore organo della comunicazione spirituale


I sufi distinguono tre organi di comunicazione spirituale: il cuore (qalb) conosce Dio, lo spirito (ruh) che lo ama, l'intimo dell'anima (sirr) che lo contempla.

Il qalb, sebbene misteriosamente connesso con il cuore tisico, non è formato di carne e sangue, e la sua natura è più intellettuale che emozionale; tuttavia mentre l'intelletto non può conseguire la vera conoscenza di Dio, il cuore può conoscere l'essenza di tutte le cose e riflettere l'intero contenuto della mente divina; a ciò si oppongono l'annerimento causato dai peccati e il velo delle immagini sensuali. Cosi il cuore diviene il campo di battaglia tra le armate diaboliche e quelle divine, e la vittoria dipende dal fatto che l'uomo si volga alle illusioni dei sensi o alle divine; per questo il monito del sufi è: "Guardate nel vostro cuore"; "chi conosce stesso conosce Dio, perché il cuore è uno specchio nel quale si riflette ogni qualità divina"". Alla purezza dello specchio corrisponde la sua capacità di riflettere, che i sufi chiamano "occhio del cuore"





b) L'occhio del cuore


L'occhio, come osserva F. Schuon, si presta naturalmente ad una trasposizione simbolica secondo la quale il mondo è come una visione differenziata, e Dio è l'Occhio che vede il mondo e con la sua visione lo crea. L'occhio diviene così il centro metafisico del mondo, del quale è il sole e il cuore; come l'occhio è il sole del corpo, il cuore è il sole dell'anima, e il sole è insieme l'occhio e il cuore del cielo.
Prima dei sufi, l'espressione Oculus Cordis fu usata da Agostino e da altri; sembrerebbe insolubile la questione se esista un nesso di derivazione tra l'Occhio del Cuore della dottrina di Plotino (o monos ophthalmos), quello di Agostino e quello del sufismo.

Quanto alla funzione, l'occhio corporeo vede il relativo, mentre l'Occhio del Cuore vede come vede Dio; esso è unico e centrale, centro dell'individuo in quanto si connette al suo Principio trascendente, identico allora all'Intelletto.

In conclusione, nell'uomo solo il cuore vede; quando guarda attraverso la mente e i sensi vede l'esterno, quando guarda all'interno vede la Realtà divina nell'Intelletto; tra le due visioni vi è incompatibilità, nel senso che non possono essere simultanee.

L'uomo in cerca di Dio deve dunque scendere nel proprio cuore per ritrovare l'unicità dell'esistenza, il Paradiso perduto; l'esito di questo pellegrinaggio è espresso in una frase di Hallaj che sintetizza il suo pensiero (in una forma che gli costò la condanna capitale, ma che poi ritroviamo in quasi tutti i sufi):

"Ho visto il mio Signore con l'Occhio del mio cuore; e dico: Chi sei? Egli mi risponde: Te!"



(In questa affermazione si compendia il cuore della mistica sufica e la radicale differenza con l'esperienza contemplativa cristiana, ebraica (e islamica ortodossa) che salvaguardano sempre la "trascendenza" e l'alterità di Dio rispetto all'uomo. - nota del curatore del sito).





C) Meditazione e luce



a) La luce divina


Secondo un hadith del Profeta (cioè un detto tramandato, e non un versetto Corano), la prima Realtà "creata" da Allah è il Kalam, che Egli creò di Luce (Nur).
Kalam significa "parola", "discorso", e ha finito per designare la teologia, la scolastica dell'Islam, una dialettica razionale pura, l'opposto della "scienza del cuore" di cui parlano gli imam sciti; Kalam Allah è la "Parola di Dio", il "Verbo divino creatore".

Nel Calamo (Kalam) fatto di luce si specchiano le Lettere, insite nell'Essenza suprema, che significano l'insieme dei Nomi o Misteri divini; il Calamo le trascrive in modo manifestato, scrivendo così la Scienza della Creazione.

Il Cosmo presenta tre gradi fondamentali: la terra, il fuoco, la luce; il corpo umano è fatto di terra, gli spiriti, esseri dello "stato sottile", sono fatti di fuoco, gli angeli sono fatti di luce; la terra è oscurità, il fuoco passionalità, la luce è conformità all'Essere, onde, a fortiori, l'Essere è Luce. In un qualche modo si potrebbe dire che la Luce è "Sostanza divina"

I cieli sono creati di Luce, e sono i soli direttamente conformi alla Luce divina, come pure gli angeli, schierati in differenti categorie, furono creati di luce irradiante.




b) L'uomo di luce



Nel sufismo iraniano si parla di luce del nord o di sole che splende nella notte, per intendere la luce che si manifesta nella coscienza ottenebrata dalla materia; è lo schiudersi della sovracoscienza sull'orizzonte della consapevolezza ordinaria; in questo processo non c'è solamente una luce superiore che si manifesta, ma è anche la stessa anima umana, in quanto luce della coscienza, che sorge nella tenebra della sottocoscienza.

La dottrina della trasformazione in luce ha una formulazione particolarmente sviluppata in Najmoddin Kobra. Figura dominante del sufismo dell'Asia centrale, egli mori nel 1221 nella difesa di Kwarezm contro i Mongoli di Gengis Khan (il quale gli aveva offerto di rifugiarsi da lui); tra i suoi discepoli diretti conta lo stesso padre di J. Rumi.

Egli delinea le tappe dell'ascensione mistica, concomitanti con la crescita degli "organi di luce" del pellegrino mistico; tale crescita moltiplica a ogni tappa le possibilità di percezione visionaria. Poiché il simile non conosce che il simile, Kobra ne deriva che ad essere ricercato è l'Essere divino, e a ricercarlo è una luce che proviene da lui, una particella della sua luce presente nell'uomo; è un principio che incontriamo già in Empedocle ("Il fuoco è visto soltanto dal fuoco"), nel Corpus Hermeticum (11,20), nelle Enneadi di Plotino (VI, 9,11: "Non si vede il Principio se non attraverso il Principio"). A loro volta le parti che costituiscono l'essere umano sono frammenti dei loro corrispettivi cosmici così, nutrendoli, l'uomo fa crescere dentro di sé il proprio inferno di fuoco, o il proprio paradiso di luce.






2. Le ragioni di un’ origine extraislamica del sufismo



Si può constatare che i temi caratteristici del sufismo, sopra accennati, hanno un qualche corrispettivo nell'esicasmo. Tuttavia l'esposizione non serviva a proporre un confronto, dal momento che le analogie tra sufismo ed esicasmo, talvolta eclatanti, sono già state messe in luce da tempo, come negli studi di L. Gardet, ed erano state colte dallo stesso Gregorio Palamas, durante la sua prigionia a opera dei turchi.



Si tratta ora di considerare brevemente cosa è stato detto circa le origini del sufismo, per esaminare se le analogie con l'esicasmo possono avere alla base un'origine comune nella "vera filosofia" degli antichi.

In questo campo c'è stata un'evoluzione nella posizione degli studiosi occidentali. Infatti alcuni dei primi che affrontarono questo argomento conclusero che il sufismo è incompatibile con l'idea islamica della trascendenza di Dio; sarebbe quindi nato dai contatti con le altre religioni. Massignon ha invece insistito sulla fondamentale originalità della mistica musulmana, non solo nel suo sorgere, ma anche nel suo sviluppo, posizione sostanzialmente condivisa da R. Otto.

Questa posizione andrebbe a sua volta rivista osservando che gli elementi coranici, originali o divenuti tali, ricevono poi l'influsso fecondatore di altre tradizioni; "Si deve concludere perciò affermando una ricca vena che dal di fuori si immette nella corrente puramente coranica”. Un apporto determinante verrebbe dal Cristianesimo, il quale domina la storia culturale dell'Oriente, tanto che" chi legga i testi classici della mistica di quei tempi, nel mondo bizantino o nel mondo siriaco, pseudo-Dionigi e Isacco di Ninive, Giovanni Climaco o Massimo Confessore, e li paragoni alle espressioni della mistica musulmana, non saprà staccare i due termini", anche se non ci è dato ancora di conoscere come sia avvenuta questa trasmissione

Ancora maggiore è lo spazio che viene dedicato (sempre nella sintesi di M. Guidi) a sottolineare l'importanza dell'influsso ellenistico.

"Tutta la religione, tutta la cultura musulmana mostra in ogni suo periodo, in vari suoi domini, la traccia di una tradizione assai viva nel mondo antico, quella che per le sue due espressioni principali può dirsi neoplatonico-gnostica".

Il neoplatonismo e il neopitagorismo sono espressione di quel connubio tra orientalismo e grecità che, in una cerchia più ampia di quella filosofica, produsse la religiosità gnostica, figlia di un altro modo di unione di quegli stessi due elementi:


In perfetta analogia con il mondo ellenistico, l'Islam, che ne ripete spesso modi e caratteri, si volge or verso l'una or verso l'altra delle espressioni di questa eredità, facendole in modo diverso prevalere in una figura di collaborazione che a noi non è facile ricostruire; ma certo il filone dotto appare chiaramente penetrare in tutta la storia della filosofia musulmana, nella quale la tradizione aristotelica è profondamente segnata dalla interpretazione neoplatonica, cosi prediletta nella tarda antichità. Gli stessi schemi neoplatonici hanno servito per la costruzione di una mistica razionalistica analoga a quella di Plotino. [...] al-Farabi e Avicenna ne sono insigni rappresentanti. Chi però, scorgendo nella mistica dei Sufi elementi che sembrano richiamare il neoplatonismo, volesse rifarsi unicamente a questo stesso o a altre forme filosofiche per ricostruire la genesi del Sufismo e delle sue elaborazioni, sarebbe fuori strada. Anzitutto molta della materia che in ultima analisi risale al neoplatonismo, è venuta al misticismo emotivo dei Sufi attraverso l'elaborazione dei mistici cristiani che al neoplatonismo si erano in parte ispirati; vi ha inoltre tutta una tradizione, che è quella gnostica, la quale scende giù dall'Ellenismo, si propaga come fenomeno ecumenico in tutto il mondo orientale e vi ispira, con modo diverso da quello della pura tradizione neoplatonica, molti fenomeni religiosi. Per comprendere nella sua interezza la vita spirituale dei Musulmani, è necessario considerarvi profondamente la trasmissione e gli effetti di questa tradizione gnostica. Essa è penetrata specialmente attraverso le sette estreme [...] in Persia la propaganda di queste sette, introdusse una ricca messe di idee gnostiche, che divenivano facilmente popolari ed infiammavano le coscienze. Poi il movimento di quelle varie sette troppo numerose e discordi si concentrò in un grandioso fenomeno, quello del Carmatismo o Batinismo, e i suoi derivati [...]. Una ben organizzata propaganda diffuse il movimento in tutto il mondo musulmano, e la disciplina dell'arcano lo protesse dalle insidie della ostilissima ortodossia; esso divenne così fattore capitale in più campi della vita musulmana. La filosofia, la dogmatica ne risentirono qualche effetto; ma fu soprattutto la mistica, per un'affinità di disposizione, che assorbì da questa eredità della Gnosi molti elementi, i quali, pur avendo una lontana origine comune col neoplatonismo, non vanno certo direttamente ad esso riportati (M. Guidi, La religione dell'Islam).



Sostanzialmente affini sono le osservazioni tratte dagli studi sulle origini del sufismo, sintetizzati nella Storia del sufismo di Mandel, studioso eclettico, sufi egli stesso, tra i fondatori dell'Università Islamica di Cordova, nonché rettore dell'Università Islamica al Bariu.




A) Le origini del sufismo



Secondo gli studiosi islamici il sufismo, come movimento spirituale, nacque come una reazione al pressoché immediato scadimento degli ideali e dei costumi che fece seguito, in particolare nella classe dirigente, alla scomparsa del Profeta, avvenuta nel 632. La prima generazione dei sufi va quindi ricercata tra le persone pie, portate alla critica dei costumi e al ritiro spirituale, e tali sarebbero le caratteristiche del primo sufismo.



a) Islam e monachesimo



In ambito musulmano non ci si interessò dell'origine del sufismo; furono gli studiosi occidentali ad occuparsene, sulla base di alcune considerazioni. Anzitutto che il Profeta stesso si espresse contro l'ingresso della vita ascetica nel mondo islamico, stando alla testimonianza di svariati versetti del Corano, come pure del famoso hadith: "Niente monachesimo nell'Islam"; con monachesimo (rahhaniyya) i commentatori hanno generalmente inteso le automutilazioni, il portare catene di ferro o cilici, l'astinenza dalla carne, il digiuno perpetuo, il celibato e la castità, i pellegrinaggi per devozione, la rinuncia al mondo e ai piaceri della vita. È quindi spontaneo pensare che la disciplina ascetico-spirituale dei sufi abbia avuto origine per influsso di correnti religiose estranee all'islamismo originario.

D'altra parte la vita ascetica esercitava un tale fascino in questa prima epoca, che il primo sufismo fu anacoretico, per giungere progressivamente al cenobitismo; già tra i Compagni del Profeta vi furono alcuni famosi asceti.




b) L'effetto delle conquiste


L'Islam ebbe una fulminea espansione militare: nel 732, esattamente cento anni dopo la morte del Profeta, ebbe luogo la battaglia di Poitiers; in un secolo le truppe islamiche erano arrivate a poche centinaia di chilometri da Parigi, dopo aver conquistato tutto il nord Africa e la Spagna. Verso est l'espansione era giunta al delta dell'Indo nel 713. Tutti questi popoli assoggettati assorbirono l'islamismo alla luce propria tradizione, dando una notevole spinta al suo lato mistico: il sufismo.

Le conquiste portarono dunque l'Islam a contato diretto con l'impero bizantino, in parte inglobato, e quello sasanide, completamente assoggettato, entrambi forniti di una tradizione spirituale molto sviluppata. Gli antenati dei sufi si trovarono cosi a contatto con i monaci cristiani, nonché con gli eredi dei filosofi greci che erano emigrati in Persia.

Più che in qualsiasi altro luogo, il sostrato ellenistico, cristiano, ebraico e manicheo emerge in questa mistica formatasi storicamente e geograficamente fuori dalla culla dell'Islam.





B) L'influsso cristiano



a) Il monachesimo


Allo spiritualista islamico dei primi tempi si presentavano più vie: quella degli asceti, quella dei penitenti, quella dei predicatori erranti, la Via del biasimo, infine quella ancor vaga del sufismo. Gli antesignani di questo si trovarono a contatto con i monaci della Palestina, gli stiliti della Siria, gli asceti della Tebaide; è quasi inevitabile che sulla formazione di questo movimento spirituale, ancora fluido, abbia in qualche modo influito il monachesimo cristiano in piena fioritura. "Qui si potrebbero trovare i lontani possibili ascendenti del sufismo, che in definitiva potremmo anche trovare prossimo alle correnti dell'origenismo e del messalianesimo del monachesimo di Siria".

Il monachesimo cristiano del Vicino Oriente fu permeato dagli scritti di Clemente Alessandrino e Origene, ed è certo che alcuni maestri sufi ne conoscevano i testi, come conoscevano le Centurie gnostiche e l'Antirrhetico dell'origenista Evagrio, opere che giunsero fino ai confini orientali dell'Iran; origenista era anche Stefano bar Sudailè, che nel Libro di Ieroteo parla dell'ascesa dell'anima a Dio; queste opere fornirono spunti e materiale che furono alla base di molti testi dovuti a scrittori sufi, lungo tutto il corso storico dell'Islam.





b) Il messalianesimo



E’ significativo che la letteratura siriaca abbia svolto il tema dei gradi dell'evoluzione mistica, che sarà uno dei temi basilari del sufismo; in Siria erano attivi anche i messaliani o euchiti (presenti anche in Iraq), tra il sec. IV e il IX; li caratterizzava la preghiera continua, con una pratica affine alla ripetizione dei Nomi di Dio del sufismo; furono combattuti dall'ortodossia bizantina, e ciò contribuì all'ingresso nei loro territori dell'Islam, cui aderirono perché più permissivo; secondo Teodoreto di Ciro, essi si riunivano per danzare, tanto da essere soprannominati i "coreuti"; questa è anche una caratteristica di molti ordini sufi, in particolare dei mevlevì di Konia.

È significativa l'adesione dei messaliani all'Islam e quindi la possibilità che abbiano direttamente contribuito alla nascita del sufismo, tanto più considerando che una delle principali accuse rivolte agli esicasti fu proprio di essere dei messaliani. Ancora nel sec. XIV alcuni monaci bogomili, diretti discendenti dei messaliani, risiedevano al monte Athos.





Conclusione



Nel complesso si può constatare che sembra riconosciuto un influsso del monachesimo cristiano sulla formazione del sufismo, ma in modo particolare da parte dell'origenismo, nel quale è ben nota la componente ellenistica.



C) L'influsso ellenistico



Nelle filosofie occidentali - aristotelismo, neoplatonismo, stoicismo, ermetismo, gnosticismo - i sufi trovarono termini, espressioni, delucidazioni, e perfino l'itinerario mistico delle proprie esposizioni. Ciò non sfuggì ai contemporanei, e i sufi vennero sospettati di eresia dai teologi ortodossi e per la verità si potevano rintracciare nel sufismo influenze del neoplatonismo, della gnosi e del monachesimo.

Le vie attraverso le quali si ebbe il trapasso dell'eredità antica furono diverse, e vanno esaminate separatamente; in ogni caso già il nome "sufismo" è forse uno spiraglio sull'origine di questo movimento spirituale. È comunque significativo che l'enciclopedico al-Masudi, tratteggiando una sintetica storia della filosofia, indica una linea che va da Atene ad Alessandria, e di qui a Baghdad, passando per Antiochia e Harran; ed effettivamente Baghdad divenne il maggiore centro del sapere scientifico attivo nel mondo islamico. Vi erano coltivate l'astronomia, la cosmologia, l'alchimia, la matematica e la medicina, le quali costituivano un corpo di conoscenze che conteneva il frutto dello sforzo intellettuale delle scuole di Atene e di Alessandria.



- L' origine del termine "sufi"



L'etimologia generalmente accettata fa derivare il termine "sufi" dall'arabo "suf" che vuol dire lana, allusione all'abito e al mantello di lana bianca distintivi dei sufi; secondo altri sembrerebbe più convincente la spiegazione che vi scorge una trascrizione del greco sophos; benché attestata da Biruni, è poco condivisa ma, secondo Corbin, bisogna tenere conto della grande abilità dei grammatici arabi nel trovare un'etimologia semitica a parole di importazione straniera.



Lanfranco Rossi

Senatore
03-08-06, 01:59
Poiché l'argomento è esicasmo e sufismo, va detto che Lanfranco Rossi ha studiato soprattutto il primo termine della coppia in un suo lavoro davvero pregevole (i filosofi greci padri dell'esicasmo, ed. il leone verde; di cui le pagine qui riportate costituiscono un'appendice).

Eymerich (POL)
06-12-06, 02:02
L’apertura dell’«occhio del cuore»
nella pratica esicasta e nel sufismo: elementi distintivi

L'esicasmo può dirsi una forma di esoterismo?



Enrico Montanari

L'inabitazione dello Spirito nel cuore è il punto di arrivo della pratica esicasta; ma, in un certo senso, è anche un punto di partenza. Solo a partire da questo momento, infatti, lo «stato» acquisito è permanente: e lo è pro*prio perché alle forze umane si è congiunta una influenza spirituale al di là delle contingenze storiche e biologiche. Spiega Isacco di Ninive: «Dal mo*mento in cui quest'uomo è diventato preghiera [...] lo stesso Spirito non smette di pregare in lui». Se prima, per necessità o per stanchezza, l'uo*mo poteva abbandonare la preghiera, ora è la preghiera a non abbandona*re lui. Si dice talvolta che la preghiera si interrompe: in realtà ciò che si fer*ma è lo sforzo umano teso al conseguimento della katàstasis, dello «stato» di preghiera. In proposito viene detto che «l’uomo dimentica la propria do*manda», stante il fatto che fino a quel punto la «preghiera del cuore» era un grido, un'implorazione, una «domanda» rivolta a Dio in attesa di una sua risposta.

Isacco di Ninive aggiunge che, in questa condizione, l'uomo resta come «un corpo senza respiro», ossia in uno stupore estatico silenzioso e gioio*so: lo spontaneo prodursi della preghiera in lui viene sovente paragonato al mormorare continuo di un ruscello di acqua pura. La mente che, nella «preghiera di Gesù», era «discesa» nel cuore per purificarsi dai logismoi viene ora illuminata e «conosce» i misteri divini in virtù della deificazione ottenuta per grazia. Si è detto che «la carità è la porta della gnosi» (Eva*grio), ma questa proposizione non contiene sfumature irrazionalistiche o anti-intellettualistiche. Più l'intelligenza s'impregna della luce e dell'amore trinitario, più si affina, si espande e conosce pensieri che Esichio di Batos paragona a dei delfini: «il cuore libero da immaginazioni finisce col pro*durre in sé pensieri santi e misteriosi, così come su un mare calmo si vedo*no saltare i pesci e volteggiano i delfini». Il «corpo senza respiro» finisce così col «respirare» nell'unità divino-umana, come per una pregustazione, gia in vita, della gloria del cielo. Da questo «essere presso» Dio (synousìa) scaturisce un nuovo «dialogo», dal momento che il vedere-conoscere stabi*lisce una vicinanza e immediatezza più grande rispetto al «parlare». Per comunicare con Dio la creatura deificata per grazia non userà il pensiero umano, logico-discorsivo. Tuttavia questa «eloquente mutezza» è contras*segnata dai Padri con un termine che nell'Atene democratica indicava la libertà di parola» (parrhesìa). Nel nuovo contesto parrhesìa è quella «fami*liarità» con Dio che permette di passare dai filosofemi della teologia alla ca*rità vivente: è la «confidenza» e la «franchezza» che nascono dal vedere Dio che si concede come «interlocutore» (synòmilos). Questa può sem*brare, ma non è, una conseguenza della recuperata condizione «edenica». L'esicasta non «torna» nel Paradiso terrestre: egli ri*nasce in Cristo, nuovo Adamo, non come se fosse il vecchio Adamo.

All'estremo opposto dell'arditezza della parrhesìa, troviamo la «pruden*za» (phrònesis) dei Padri. In rapporto ad essa, la condizione dei «perfetti» è considerata alla stregua di un limite matematico. È assai frequente - al pun*to di costituire un topos della letteratura esicasta - il tema dell'estrema ra*rità di coloro che ottengono la «preghiera pura»: si parla di uno su mille praticanti o, più spesso, di uno in una generazione. Questi numeri sim*bolici indicano una selezione severa, che tuttavia non dipende da predesti*nazione o da predeterminazioni elitarie. Nell'esicasmo la ricerca dello «sta*to di preghiera» non è riservato ai monaci anacoreti. I Detti dei Padri abbondano di esempi in cui lo Spirito rivela ai praticante che c'è qualcuno, fra gli uomini comuni, che si trova più avanti di lui sulla via della perfezione: un caso famoso riguarda lo stesso Antonio Abate. Tecnicamente, la sele*zione risponde all'esigenza di umiltà che deve accompagnare ogni momen*to della pratica dell'orante. Teologicamente, essa dipende dalla condizione di «persona», comune a chi incontra ed a Chi viene incontrato lungo la via dell'amore-conoscenza. A parte ciò, non è mancato chi ha ravvisato «stupe*facenti analogie» tra lo stato di «preghiera pura» e lo dhikr nella sua espressione più profonda, ossia nello «dhikr dell'intimo» (sirr): questo ter*mine corrisponde al «segreto», ineffabile e per ciò stesso incomunicabile, procurato al sufi che raggiunge il tawhid, ossia «''identità suprema dell'io del servo con il Sé divino». Nel commento di Al-Ghazali sui Nomi divini si afferma: «Ciò che lo schiavo ottiene da questo nome è deificazione, (ta'al*luh: cfr. la théosis degli esicasti), ovvero il suo cuore e la sua aspirazione so*no dedicati a Dio, tanto che egli non vede altro che Lui». Sul piano feno*menologico, si riscontrano anche altre analogie. Come nell'esicasmo, nello dhikr più elevato l'invocazione si fa costante e indipendente dalla volontà di chi prega. Anch'essa «sgorga» e «mormora» come un ruscello dal cuore dell'adepto: «Tutto l'essere del sufi diventa una 'lingua che dhikra', senza parola pronunciata e in un'effusione di luce».



Anche a questo livello, tuttavia, debbono riscontrarsi elementi distintivi che in qualche misura attenuano le «stupefacenti analogie» fra i due stati fi*nali.



Anzitutto, il sufismo prevede criteri selettivi pregiudiziali. In esso - nonostante le frequenti «aperture» al popolo minuto - è d'uso separare la «via degli eletti» (la tariqa) dalla via degli «uomini comuni»; prospetti*va, questa, che non trova riscontro nell'esicasmo. Se questa è una delle ragioni per negare che l'esicasmo sia una for*ma di esoterismo cristiano, lo è altrettanto per affermare che il sufismo è una forma di esoterismo islamico. Schuon, dal suo punto di vista, soleva di*re che «nell'Islam non c'è santità al di fuori dell'esoterismo, mentre nel Cri*stianesimo non c’è esoterismo al di fuori della santità»



Questa differenza si lega ad un'altra, ancor più importante dal punto di vista della «realizzazione» finale. Essa concerne le modalità di approccio all'interlocutore divino: l'incontro spirituale cristiano, anche a livello di esicasmo, riguarda sempre una persona. Ricorda K. Ware: «La 'preghiera di Gesù non è [...] un incantesimo ipnotico, ma è una frase densa di significa*to, un'invocazione rivolta a un’altra persona». A queste parole fa eco Clé*ment, secondo il quale la breve formula ripetuta incessantemente «non è un mantra efficace di per sé, come in India, ma una parola rivolta a qualcuno […] un aggancio con colui che S. Agostino chiamò il Maestro interio*re». Questa «persona» (hypòstasis) è certo al di sopra dell'individuo crea*to di natura umana che si suole definire con lo stesso termine. Nondimeno, l'incontro fra l'uomo e il Dio trinitario è sempre, misteriosamente, persona*le. A coloro che credono di ridurre il concetto di persona ad un puro nome, obiettando che esso è un prodotto della cultura occidentale, è facile rispondere che nessun altro termine ha potuto offrire l’adattabilità, la plasticità necessarie ad esprimere, insieme con altre valenze (filosofiche, giuridi*che, morali), una profonda valenza spirituale riguardante uno stesso sogget*to. L’idea di persona esprime ad un tempo la libertà del rapporto spirituale («Dio può tutto - scriveva Evdokimov - salvo costringere l'uomo ad amar*lo»), la coscienza della graduale partecipazione alla vita divina, e l'unità psichica (in prospettiva escatologica, psico-fisica) dell'integrazione-trasfigu*razione nel divino.

Varie fonti sottolineano le differenze rispetto anche al buddhismo, che conce*pisce l'uomo come un aggregato provvisorio di elementi: tra questi, gli stes*si atti di «coscienza» (vijnana). Come si ricorderà, anche il sufismo pre*vede che l'«ego» del praticante si «estingua» in Allah, ovvero «a tutto ciò che non è Allah. Nell'esicasmo invece «l'unione con Dio, di cui parlano i Padri, non si risolve in una disintegrazione della persona umana nell'Infinito divino: essa è, al contrario, il compimento del suo destino libero e perso*nale». La serie di mortificazioni» (= purificazioni) che l'adepto dovrà attraversare non equivalgono alla «morte iniziatica» in senso stretto: l'esica*sta fa posto nel suo cuore (nel «luogo del cuore» metafisicamente identifi*cato) allo Spirito, la cui grazia lo trasfigura, «deificandolo».



Infine, la terza differenza principale riguarda il tipo di «liberazione» fi*nale. Come si è notato, l'esicasmo fa propria una tradizione patristica che prevede la possibilità del raggiungimento di una «divinizzazione» nel corso della stessa vita, consistente nella immedesimazione in Cristo attraverso l'accesso nel cuore dello Spirito Santo. Va però ricordato nuovamente che questa «liberazione in vita» esicasta è sottoposta a una duplice limitazio*ne: anzitutto la théosis ricevuta da vivi secondo la «capacità» di ciascuno non è che la «caparra» (arrhabòn) di ciò che verrà concesso al momento del Giudizio finale; inoltre la conoscenza-identificazione riguarda esclusivamente le «energie» increate che procedono dalla Trinità e non l'essenza divina (il che non impedisce che il santo divenga increato secondo la gra*zia»). «La divina caligo sta sempre a significare l'inconoscibilità di Dio, sottratto agli sguardi dall'oltranza del suo bagliore accecante [...]. Ma l'oc*chio puro, l'occhio del cuore nudo, contempla i raggi e se ne impregna; raggi-energie o idee divine che, scendendo dal Principio dei principi, manifestano l'essenza incomunicabile». Nonostante la somiglianza-affinità (homòiosis) che si acquista a partire dalla semplice «immagine» divina impressa nell'uomo-creatura, l'eterogeneità delle nature (divina e umana) per*siste, invalicabile.



Nel mondo islamico la situazione si presenta in modo parzialmente diverso. Anche l'Islam eredita - e rielabora - la teologia «apofatica» dello pseudo-Dionigi. Anch'esso non ammette la possibilità di conoscere l'«essenza» divina (Dhat); questa «rimane inaccessibile muovendo dal relativo». Al-Ghazali osserva che «nessun essere creato può avere una visione della realtà dell'Essenza (Dhat) di Lui, se non nello stupore e nello sbalordimento [dell'impotenza]. Quindi l'unica possibilità di conoscenza [di Dio] con*siste nella conoscenza dei nomi e degli attributi di Lui». La possibilità di una «conoscenza-identificazione» con i Nomi (Asma') e con le Qualità (Ci*fat) divine è molto simile alla posizione cristiano-orientale. In questo senso anche il sufismo parla di «nube oscura» (‘ama) impartecipabile agli esseri creati. La conoscenza avviene mediante le Qualità, che corrispondono pressappoco alle enérgeiai divine nel senso che costituiscono «il contenuto increato delle cose create»

E tuttavia, ferma restando questa corrispondenza di fondo, varia il mo*do d'interpretare l'obiettivo spirituale. Meta dell'esicasta è Cristo, ipostasi incarnata della Trinità, col quale si cerca una «fusione senza confusione», realizzata per amore-gnosi, scevra da sentimentalismo. Meta del sufi è inve*ce l'«Uomo Universale» (al insan al kamil). Questo termine designa sia un'entità spirituale, sia un grado iniziatico. Dal punto di vista divino, esso è il «prototipo unico» (al-Ulmudhaj al-farid), al quale Allah ha asservito ogni cosa creata, a causa della perfezione (o «universalità», kamal) della sua «forma» (curah). Dal punto di vista umano esso è il grado raggiunto da tutti gli uomini che «abbiano realizzato l'Unione o l'identità Suprema, come i grandi mediatori spirituali, particolarmente i profeti e i “poli” fra i santi». Nel contesto islamico anche l’Identità suprema si ottiene grazie alla “realtà muhammadica” (al-haqiqa al muhammadiya) che secondo Ibn ‘Arabi fu la prima cosa venuta in esistenza dopo la “polvere primordiale” (al-haba).

Il Profeta è l'Uomo Perfetto (O Universale) che è «un istmo» (barzakh) fra il mondo e Dio [...]; è la linea di separazione fra il grado divino e il gra*do delle cose cui è data esistenza, simile alla linea che separa l'ombra dal sole. In questo senso «il sufi, mediante l'identificazione con la «realtà eter*na di Maometto» viene trasformato nell'Uomo Perfetto (o Universale) e ri*torna nello stato in cui era prima della creazione, quando esisteva come pu*ro spirito nello stato della più pura unione con Dio».

Anche il «profeta Gesù», in ambito islamico, riveste particolare importanza. Tra l'altro egli è il «Sigillo della santità universale» (khatam al-Wilayat al-'Amma) poiché dopo la sua seconda venuta alla fine del ciclo attuale, chiuderà il «ciclo della santità»: quando il suo respiro e quello dei suoi compagni saranno ritirati da questo mondo, non vi saranno più individui qualificati con i gradi elevati di santità e non si potrà più raggiungere il grado spirituale di Uomo Uni*versale; gli uomini diverranno progressivamente simili alle bestie ed è su questa umanità che si leverà l'Ora.

Questa funzione di Sidna 'Aissa (Gesù), elevata al punto di riguardare il destino del più alto grado dell'iniziazione sufi (relativo al raggiungimento della «stazione di prossimità», (maqam al-qurba) è, ovviamente, ben diversa da quella rivestita da Gesù nel Cristianesimo. L'Islam esclude la divinità di Cristo in base al rifiuto della «specificazione di luogo» (hulul) dell'identità Suprema: non si ammette cioè che l'essenza possa venir circoscritta entro una forma contenuta in uno spazio.

Nella dottrina esposta da Guénon questo postulato islamico comporta una serie di «aggiustamenti»: il principio dell'equivalenza delle tradizioni lo porta talora a conciliare sul piano simbolico principi dogmatici , od anche semplicemente storici, che alcune tradizioni presentano come divergenti. Così, egli accetta pienamente la realtà storica della morte di Cristo sulla croce, ma al patto di considerarla per i suoi aspetti «simbolici», aggiungen*do che «è solamente a questa stregua che i fatti storici hanno per noi un qualche interesse». Ciò lo induce a postulare una sorta di doppio livello di unione col divino: quella con Cristo-Gesù, propria dei mistici occidenta*li moderni, nella quale Gesù è assunto «sotto l'aspetto 'individualizzato' dell'Avatara»; e quella con il Cristo-«principio», o Logos, in tutto corri*spondente all'«Uomo Universale». Ne deriverebbe, per corrispondenza simmetrica, che se nel misticismo (exoterico) l'unione è limitata alla individualizzazione «avatarica» di Gesù, nell'esicasmo (esoterico) l'unione do*vrebbe realizzarsi, al sommo, con lo stesso Logos. Tuttavia Guénon non esplicitò mai questa conclusione: d'altronde la dottrina esicasta esclude chiaramente qualsiasi identificazione in essentia con il Logos, limitando la théosis umana alla identità a livello dell'energia» (tautòtes kat’ enérgeian). *A parte ciò vi è il fatto, ben rilevato da Jean Borella, che la stessa equivalen*za di Cristo con un Avatara è assurda, dal momento che non è la «natura» divina, bensì l'ipostasi (o persona) del Figlio che si fa carne: per questo il Fi*glio poteva assumere la natura - e quindi divenire una «persona» - umana, mentre non poteva assumere la natura di esseri non personali, quali pesci, tartarughe o cinghiali, cosa invece possibile per l'Avatara hindu. Infine, l'esicasta non può identificarsi con una figura equivalente al grado di «Uomo Universale», poiché quest’ultimo, pur essendo la suprema “forma” (curah) riassuntiva dell’Universo, è pur sempre forma non generata ma creata da Dio, laddove Cristo è generato ma non creato dal Padre.



Al termine della nostra analisi, possiamo finalmente tentare di dare ri*sposta ad uno dei problemi che ci siamo posti: l'esicasmo può dirsi una for*ma di esoterismo? Se si valuta la questione sul piano della consapevolezza, si registra soltanto la coscienza, propria della mistica cristiano-orientale, di differenziarsi rispetto al «misticismo» occidentale post-medievale. Quanto all’*esoterismo, esso è talora scientemente negato da alcuni teologi orto*dossi: per il resto, esso è affermato da esoteristi sulla base di osservazioni di teologi (cfr. Guénon da Lossky, Valsan da Behr Sigel, etc. ), ovvero dipende da sporadiche allusioni (Dumitriu, Scrima), allusioni che, attentamente considerate, si risolvono anch'esse in interpretazioni (stavolta a dire invertita: il teologo (Scrima) interpreta sulla base dell’esoterista (Guènon), etc.). Ma le interpretazioni richiedono comunque riscontri che non possono scaturire dall'autorità di chi le sostiene.

Qualche maggiore indicazione, come abbiamo visto, può fornirla la comparazione storico-rellgiosa, ove si tenga conto delle affinità e delle di*scordanze riscontrabili fra esicasmo e metodi spirituali analoghi nella forma e vicini nello spazio e nel tempo, come è, principalmente, il sufismo. Su questa base, la risposta alla nostra domanda può dirsi negativa se per esote*rismo s'intende quanto Guénon sosteneva in un articolo del 1935, nel quale sottolineava la differenza di natura e non di grado dell'esoterismo ri*spetto all'exoterismo corrispondente. È invece probabilmente positiva, se si prendono come riferimento le ultime posizioni assunte da Guènon ri*guardo al tema specifico ma anche, in generale, quelle da lui affermate nell’articolo del 1931, L'écorce et le noyau, non a caso rivolto specificamente all'esoterismo islamico e riunito poi in una raccolta riguardante esoterismo islamico e taoismo. Non meno dello dhikr Allah, e pur con le differenze indicate, la preghiera del cuore, nella sua formulazione più estesa e praticata («Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore») è un'orazione «quintessenziale» (per la sua «equivalenza» ri*spetto alle preghiere liturgiche, per l'esaltazione del Nome, per la mortifi*cazione dell'«ego»). Essa non presuppone una «lingua sacra» Originaria e non dà importanza al suono delle parole, ma al loro senso (anche se è un senso che Occorre far discendere nel cuore). E’ un riconoscimento della Pre*senza del Signore Gesù, nell'ambito trinitario (come «Cristo» per unzione dello Spirito Santo, come «Figlio di Dio»); è un'ammissione d'insufficienza di sé e, per conseguenza, una potente chiamata in soccorso nella lotta con*tro i «pericoli dell'anima». Come l'invocazione di Allah rappresenta lo zahir ed il batin (ossia il lato esteriore e quello più interno della tradizione islamica), così la preghiera del cuore è insieme una giaculatoria fra tante ed il «nocciolo» dell'esicasmo. Ciò può spiegare l'originaria «segretezza» cui accenna Clément, ma anche il riserbo e la «discrezione» che sempre han*no circondato questa pratica spirituale. E può spiegare anche la similarità formale con dottrine di altre tradizioni, certamente esoteriche, come il sufismo (selezione dei praticanti, cura da parte di un «maestro», metodo e gra*dualità fissati per tradizione, trasformazione ontologica degli adepti, etc.). Sotto questo aspetto non si può sottovalutare la tecnica connessa al «lavoro spirituale». Di questa, diversi studiosi hanno rile*vato l'utilità e persino la «necessità» in prospettiva simbolica. Tuttavia l'elemento-base di questo metodo, il «centro del centro», resta l'invocazio*ne del Nome. Se questa ha potuto divenire oggetto di culto fanatico (onomatolatria), se ne è stato (e ne è!) possibile un uso improprio o blasfemo, essa rappresenta nondimeno il cardine dell'esicasmo, il solo elemento che non potrebbe venire rimosso senza disgregare l'insieme.

Questa invocazione-giaculatoria, presa in se stessa, non risentì delle po*lemiche dei «tomisti orientali» e, indirettamente, fu considerata compatibi*le con le orazioni cattoliche, dal momento in cui venne riconosciuto (1782) il carattere non eretico della Philokalia. Oggi la preghiera del cuore rap*presenta la principale ragione di successo della Philokalia in Occidente. Forse non contribuirà al ravvivamento di un «esoterismo cristiano», ma può contribuire ad un riavvicinamento ecumenico tra Ortodossia e Cattoli*cesimo, anche nei termini indicati da Scrima nell'Avènement philocalique. Del resto, la preghiera di Gesù non è mai stata del tutto ignorata in Europa. Tra l'altro, l'«orazione cordiale» ne rappresenta un effimero quanto significativo equivalente.

Forse, potremmo spingerci ad accostamenti più arditi. In termini fun*zionali la «fatica del cuore» compiuta dall'esicasta corrisponde a ciò che l'i*slamismo definisce «grande guerra santa» (jihad al-akbar): essa è la lotta contro i nemici interiori, per una purificazione che prelude all'illuminazio*ne e all'Unione. Ma anche nell'Occidente medievale sorsero Ordini mona*stici che puntavano ad una forma di «guerra santa»: ci riferiamo in partico*lare ai Templari. Sulla fama «sulfurea» immeritatamente imputata ai vertici dell'Ordine, così come sulle posteriori mistificazioni dell'esotero-occultismo o sulle recenti, lucrose affabulazionì alla Umberto Eco, non è qui il ca*so di soffermarci. Eppure, a prescindere da degenerazioni e da postume deformazioni, anche quella condotta dai Templari fu, a suo modo, una «guerra santa». Anche per essi venne raccomandato anzitutto l'abbattimen*to dei «nemici interiori». E soprattutto anch'essi, sulla scorta dell'esorta*zione di Bernardo di Chiaravalle, posero al centro della lotta il Santo Nome, al punto di assumere come canto di battaglia un verso dei Salmi: Non nobis Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam.


Enrico Montanari





Tratto da Enrico Montanari, LA FATICA DEL CUORE - Saggio sull'ascesi esicasta - ed. Jaca Book a cui si rimanda per l'approfondimento e le relative note numerose e particolareggiate.


[FONTE] (http://www.esicasmo.certosini.info/ESICASM/occhio.htm)