Morfeo
16-02-10, 00:55
I piani segreti dell’esercito svizzero per invadere la penisola diventano un libro
«Poiché non è pensabile una difesa diretta del Mendrisiotto, il Comando dell’Esercito ha l’obbligo di cercare una battaglia decisiva nel Luganese o nel fondovalle di Bellinzona». Va da sé che «il ponte diga di Melide- Bissone sia completamente distrutto ed occupato da parte della fanteria per cautelarsi contro il fuoco di cannoni a Melide e S. Martino».
Sembra il delirio di un cultore delle battaglie vecchia maniera, quelle che si cominciavano a combattere a tavolino spostando truppe di soldatini di piombo sopra plastici che riproducono i rilievi geologici della zona di conflitto. In realtà si tratta di citazioni tratte da un documento secretato per molti anni dall’esercito svizzero e scritto dalla massima autorità militare elvetica d’inizio Novecento.
Il testo, tradotto e ampiamente commentato (il saggio introduttivo è di 200 pagine) da due giovani storici ticinesi – Maurizio Binaghi e Roberto Sala – è ora diventato un libro: «La frontiera contesa. I piani svizzeri di attacco all’ Italia nel rapporto segreto del colonnello Arnold Keller (1870-1918)», edizioni Casagrande, Bellinzona. Il volume verrà presentato proprio oggi all’ Archivio di Stato di Bellinzona alle ore 18.00. Abbiamo chiesto agli autori di anticiparne qualche contenuto, scoprendo che un secolo fa la guerra tra Italia e Svizzera era molto più di una lontana ipotesi. In barba al mito della nostra neutralità.
PAGINA DI CARLO SILINI (CdT di oggi)
Siamo alla fine degli anni Novanta. Durante un corso di ripetizione a Berna a due giovani laureati in storia ticinesi – Binaghi e Sala, appunto – viene chiesto di tradurre in italiano un lungo documento dattiloscritto in tedesco.
Si tratta di un testo pubblicato sotto segreto militare di cui all’epoca esistevano solo due esemplari, oggi conservati uno all’ Archivio federale di Berna e l’altro alla Biblioteca militare. I due militi leggono, traducono e trasaliscono. Scoprono infatti che la Svizzera e l’ Italia tra la fine dell’ Ottocento e l’inizio del Novecento erano pronte ad invadersi l’un l’altra. Tra le loro mani erano finiti i dettagliatissimi piani di Berna sia per difendere il Ticino in caso di invasione, sia per attaccare la grande potenza confinante. È questo, in estrema sintesi, il soprendente contenuto del documento intitolato «Geografia militare della Svizzera e zone confinanti» e firmato nel 1914 da Arnold Keller, di cui Binaghi e Sala (poi aiutati da Michele Bösch, Flavio Maggi, Mattia Piattini e Ivano Tavernelli)hanno tradotto uno solo dei 34 volumi:quello dedicato al nostro Cantone. Alcuni altri volumi della medesima opera, ad esempio uno sul Giura bernese, sono stati pubblicati negli anni scorsi.
Il «pallino» del colonnello
L’autore dell’opera ora riscoperta è garanzia del suo straordinario rilievo. Arnold Keller non era un oscuro funzionario dell’armata svizzera. Per molti anni è stato Capo di Stato Maggiore, la massima autorità militare elvetica. E doveva avere «il pallino» del Ticino, visto che tra il 1909 e il 1914 ha consacrato ben quattro monografie al territorio più a sud della Svizzera. In realtà, più che una manìa, chiariscono Binaghi e Sala, l’attenzione che il colonnello dedicava al nostro cantone dipendeva dalla convinzione del suo assoluto valore strategico. Scriveva infatti Keller:«Delle tre regioni strategiche di cui è composto il fronte svizzero meridionale ( Vallese, Ticino e Grigioni)il Canton Ticino è il più importante per la questione della difesa del territorio».
Ponti, uomini e cavalli
Ma cosa c’è scritto di tanto eccezionale nel suo testo? Il documento secretato, spiegano i due studiosi, è suddiviso in due parti. La prima è una radiografia del Ticino che potremmo definire millimetrica: paese per paese, Keller indica il numero di abitanti e la capacità di accoglienza di soldati e di cavalli (per esempio, a Balerna: 2 mila abitanti, capacità di accoglienza per 4 mila uomini e 140 cavalli). Quando descrive i fiumi spiega, tratto per tratto, quanto sono larghi e profondi, la loro portata media, il tipo di fondo, la condizione degli argini. Fotografiche le descrizioni dei ponti (manufatti fondamentali in caso di guerra).
Parlando della Leventina, ad esempio, annota:«Passarella di 500 metri ad est di Airolo, costruita su due luci murate larghe un metro; apertura media 16 metri, larghezza 1 metro, rampe di 10x4 metri, da rinforzare in vista del passaggio di truppa». Strade, clima, orografia, storia, economia: tutto viene computato con perizia enciclopedica. «Non mancano neppure gli stereotipi sul Ticino e sui loro abitanti » fanno notare Binaghi e Sala. Sia quel che sia, la prima parte del volume di Keller è di altissima rilevanza storica già «solo» per il fatto di descrivere in modo così minuzioso e attendibile ( dalle città ai villaggi più piccoli) lo stato reale del Ticino dell’inizio del Novecento.
Eppure i principali motivi di interesse del documento risiedono soprattutto nella seconda parte dell’opera (a cui è stata aggiunta, nel volume «La frontiera contesa», anche la traduzione delle parti strategiche delle altre monografie di Keller sul Ticino meridionale e sui settori di Novara e Como-Milano).
Le reciproche paure
Qui si entra nel vivo di quegli scenari diguerra evocati all’inizio dell’articolo. Sarebbe troppo complicato, in questa sede, descrivere l’esatta collocazione delle varie nazioni europee nello scacchiere delle alleanze e delle inimicizie continentali. Limitiamoci a ricordare che al termine dell’ Ottocento la Svizzera temeva un accordo tra Italia e Germania per spartirsi il nostro Paese. La geografia non dava loro torto:la Svizzera e il Ticino sono il più logico corridoio di «scorrimento» tra il Sud e il Nord dell’ Europa. Alla fine degli anni Dieci l’altro scenario temuto dagli elvetici (ma anche dagli austriaci) erano le mire espansionistiche del nazionalismo italiano. Nell’uno e nell’altro caso la reazione fu quella di prepararsi meticolosamente all’invasione da Sud. Nello stesso tempo Roma paventava una germanizzazione della Confederazione e considerava una minaccia gli apparati difensivi elvetici.
La corsa alle fortificazioni
Nasce in questo contesto un’autentica corsa alle fortificazioni alpine e prealpine da una parte e dall’altra del confine. Ma i primi a cominciare furono gli svizzeri. «Con un notevole sforzo finanziario», si legge nel libro di Binaghie Sala, «si procedette alla costruzione delle opere fortificate lungo la linea di frontiera dal Vallese, al Ticino, fino ai Grigioni». Una scelta che invece di dissuadere il nemico alimentò le paure italiane «spingendo Roma a prendere delle contromisure, come la realizzazione di una barriera fortificata lungo i tratti più esposti del suo fronte settentrionale». A partire dall’11 l’ Italia eresse fortificazioni sul Monte Orfano a difesa degli accessi dalla Val D’ Ossola e dal lago Maggiore e piazzò appostamenti di artiglieria sui monti Piambello, Scerré, Martica, Campo dei fiori, Gino e Sighignola. E la Svizzera realizzò opere di sbarramento «a Gordola, Magadino, Monte Ceneri e sui monti di Medeglia». L’avvicinarsi delle fortificazioni svizzere alla linea di confine (dopo il Gottardo, il Ceneri) venne interpretato dagli italiani come una prova delle mire espansionistiche confederate verso Sud.
Attaccare per difendersi
Ma torniamo alle operazioni militari previste da Keller. In caso di un attacco italiano il colonnello aveva già messo in conto la perdita del Mendrisiotto, ritenuto indifendibile. Così si spiega la lucida determinazione a distruggere completamente il ponte diga di Melide: per impedire o quanto meno frenare l’avanzata dei nemici verso Nord. Keller ipotizzava una battaglia decisiva nel Luganese o nel fondovalle di Bellinzona. In caso di sconfitta l’ultimo baluardo, quello cruciale, sarebbe stato il Gottardo. È il peggiore dei casi ipotizzato: la perdita del Ticino. Fin qui i piani difensivi. Perché Keller non si era limitato ad immaginare un attacco dei soldati del tricolore. Aveva stabilito anche un piano d’attacco svizzero verso l’ Italia. Le opzioni erano fondamentalmente due. La prima prevedeva la riconquista della Valtellina e della Val D’ Ossola, che del resto erano state svizzere per secoli. Non si trattava, tuttavia, di una conquista motivata da intenti espansionistici svizzeri:riannettere quei territori sarebbe servito soprattutto per «coprire» i fianchi del Ticino e riuscire a difenderlo. Solo così, infatti, le truppe dei Grigioni e del Vallese avrebbero potuto raggiungere il Ticino senza attraversare un territorio nemico. Valtellina e Val D’Ossola, inoltre, sarebbero poi servite come «merce di scambio» in occasione di futuri accordi di pace per riavere indietro i territori «forzatamente abbandonati» in Ticino e in Vallese. La seconda opzione è da capogiro: un’invasione svizzera della Lombardia fino a conquistare Milano!
Sarebbe delirante se non si tenesse conto che questa ipotesi era prevista da Keller unicamente nel caso in cui la Svizzera si alleasse con il potente Impero austro-ungarico. Fantastoria? Mica tanto. «Quando a Keller subentrò Sprecher von Bernegg», spiegano Binaghi e Sala, «lo Stato Maggiore svizzero aveva già preparato una trattato di alleanza con Vienna. Mancava solo la firma».
Mica tanto neutrali
Fin qui i contenuti principali del documento di Keller. Ineludibile a questo punto, una domanda: e la nostra neutralità? Possibile che i vertici dell’ Esercito svizzero fossero tanto propensi ad azioni – l'alleanza con l’ Austria o l’invasione dell’Italia – così palesemente contrarie al caposaldo elvetico della neutralità? Più che probabile, osserva Maurizio Binaghi: «Contrariamente a quello che si pensa oggi l’idea di neutralità, in quegli anni non era intoccabile, diciamo piuttosto che era funzionale alla sicurezza del Paese. Nel momento in cui la neutralità non fosse sembrata sufficiente a garantire la pace in Svizzera, si poteva benissimo rinunciarvi».
Che dire, invece, dell’ambiziosissimo piano di aggressione all’ Italia?
Roberto Sala ci ricorda che «a ridosso della prima guerra mondiale per gli eserciti europei era una ‘moda’ assai diffusa quella di preparare accurati piani offensivi. E la Svizzera non sfuggiva a questa regola».
Come andò a finire
Lasciamo per ultima la domanda più importante:perché non andò a finire così? Perché non invademmo la Valtellina e/o la Val D’Ossola e/o la pianura padana? Nel rapporto tra politica e potere militare, alla fine, la spuntò la politica. Il potere militare aveva il dovere di preparare dei piani per garantire la tranquillità o la vittoria della Svizzera. Ma spettava poi sempre al potere politico avallare o meno quei progetti. «Quando nel maggio del 1915 l’ Italia entrò in guerra, Berna dovette decidere in fretta cosa fare.», spiegano gli storici ticinesi, «L’esercito, allora guidato dal Capo di Stato Maggiore Sprecher von Bernegg – il successore di Keller – e dal generale Ulrich Wille (molto vicino ai tedeschi) premeva per accrescere il numero di truppe sul confine meridionale. Ma il Consiglio federale non lo assecondò. Molto probabilmente fu decisivo il fatto che in governo ci fosse anche un ticinese: Giuseppe Motta».
È vero che la storia non si fa coi «se» e coi «ma», tuttavia, a leggere i piani segreti del nostro Paese per difendersi o per attaccare l’ Italia, non si può fare a meno di pensare che se nel lontano 1915 il governo federale non avesse trattenuto il suo braccio armato, forse oggi il Mendrisiotto sarebbe provincia di Como. Oppure la Valtellina e la Val D’Ossola sarebbero due distretti del nostro Cantone. O, addirittura, Milano sarebbe la maggior città della Svizzera. Fantastoria e fantastorie, probabilmente, che il libro «La frontiera contesa» – colmando un vuoto storiografico sul Ticino tra Ottocento e Novecento – ci permette ora di valutare come qualcosa di molto più concreto di semplici fantasie. E di cui i chilometri di fortificazioni di montagna – monumenti alla reciproca diffidenza italo svizzera – sono i silenziosi, mimetizzati testimoni.
Politicamente Scorretto: Quando volevamo attaccare l’ Italia (http://politicamentescorretto85.blogspot.com/2008/11/quando-volevamo-attaccare-l-italia.html)
«Poiché non è pensabile una difesa diretta del Mendrisiotto, il Comando dell’Esercito ha l’obbligo di cercare una battaglia decisiva nel Luganese o nel fondovalle di Bellinzona». Va da sé che «il ponte diga di Melide- Bissone sia completamente distrutto ed occupato da parte della fanteria per cautelarsi contro il fuoco di cannoni a Melide e S. Martino».
Sembra il delirio di un cultore delle battaglie vecchia maniera, quelle che si cominciavano a combattere a tavolino spostando truppe di soldatini di piombo sopra plastici che riproducono i rilievi geologici della zona di conflitto. In realtà si tratta di citazioni tratte da un documento secretato per molti anni dall’esercito svizzero e scritto dalla massima autorità militare elvetica d’inizio Novecento.
Il testo, tradotto e ampiamente commentato (il saggio introduttivo è di 200 pagine) da due giovani storici ticinesi – Maurizio Binaghi e Roberto Sala – è ora diventato un libro: «La frontiera contesa. I piani svizzeri di attacco all’ Italia nel rapporto segreto del colonnello Arnold Keller (1870-1918)», edizioni Casagrande, Bellinzona. Il volume verrà presentato proprio oggi all’ Archivio di Stato di Bellinzona alle ore 18.00. Abbiamo chiesto agli autori di anticiparne qualche contenuto, scoprendo che un secolo fa la guerra tra Italia e Svizzera era molto più di una lontana ipotesi. In barba al mito della nostra neutralità.
PAGINA DI CARLO SILINI (CdT di oggi)
Siamo alla fine degli anni Novanta. Durante un corso di ripetizione a Berna a due giovani laureati in storia ticinesi – Binaghi e Sala, appunto – viene chiesto di tradurre in italiano un lungo documento dattiloscritto in tedesco.
Si tratta di un testo pubblicato sotto segreto militare di cui all’epoca esistevano solo due esemplari, oggi conservati uno all’ Archivio federale di Berna e l’altro alla Biblioteca militare. I due militi leggono, traducono e trasaliscono. Scoprono infatti che la Svizzera e l’ Italia tra la fine dell’ Ottocento e l’inizio del Novecento erano pronte ad invadersi l’un l’altra. Tra le loro mani erano finiti i dettagliatissimi piani di Berna sia per difendere il Ticino in caso di invasione, sia per attaccare la grande potenza confinante. È questo, in estrema sintesi, il soprendente contenuto del documento intitolato «Geografia militare della Svizzera e zone confinanti» e firmato nel 1914 da Arnold Keller, di cui Binaghi e Sala (poi aiutati da Michele Bösch, Flavio Maggi, Mattia Piattini e Ivano Tavernelli)hanno tradotto uno solo dei 34 volumi:quello dedicato al nostro Cantone. Alcuni altri volumi della medesima opera, ad esempio uno sul Giura bernese, sono stati pubblicati negli anni scorsi.
Il «pallino» del colonnello
L’autore dell’opera ora riscoperta è garanzia del suo straordinario rilievo. Arnold Keller non era un oscuro funzionario dell’armata svizzera. Per molti anni è stato Capo di Stato Maggiore, la massima autorità militare elvetica. E doveva avere «il pallino» del Ticino, visto che tra il 1909 e il 1914 ha consacrato ben quattro monografie al territorio più a sud della Svizzera. In realtà, più che una manìa, chiariscono Binaghi e Sala, l’attenzione che il colonnello dedicava al nostro cantone dipendeva dalla convinzione del suo assoluto valore strategico. Scriveva infatti Keller:«Delle tre regioni strategiche di cui è composto il fronte svizzero meridionale ( Vallese, Ticino e Grigioni)il Canton Ticino è il più importante per la questione della difesa del territorio».
Ponti, uomini e cavalli
Ma cosa c’è scritto di tanto eccezionale nel suo testo? Il documento secretato, spiegano i due studiosi, è suddiviso in due parti. La prima è una radiografia del Ticino che potremmo definire millimetrica: paese per paese, Keller indica il numero di abitanti e la capacità di accoglienza di soldati e di cavalli (per esempio, a Balerna: 2 mila abitanti, capacità di accoglienza per 4 mila uomini e 140 cavalli). Quando descrive i fiumi spiega, tratto per tratto, quanto sono larghi e profondi, la loro portata media, il tipo di fondo, la condizione degli argini. Fotografiche le descrizioni dei ponti (manufatti fondamentali in caso di guerra).
Parlando della Leventina, ad esempio, annota:«Passarella di 500 metri ad est di Airolo, costruita su due luci murate larghe un metro; apertura media 16 metri, larghezza 1 metro, rampe di 10x4 metri, da rinforzare in vista del passaggio di truppa». Strade, clima, orografia, storia, economia: tutto viene computato con perizia enciclopedica. «Non mancano neppure gli stereotipi sul Ticino e sui loro abitanti » fanno notare Binaghi e Sala. Sia quel che sia, la prima parte del volume di Keller è di altissima rilevanza storica già «solo» per il fatto di descrivere in modo così minuzioso e attendibile ( dalle città ai villaggi più piccoli) lo stato reale del Ticino dell’inizio del Novecento.
Eppure i principali motivi di interesse del documento risiedono soprattutto nella seconda parte dell’opera (a cui è stata aggiunta, nel volume «La frontiera contesa», anche la traduzione delle parti strategiche delle altre monografie di Keller sul Ticino meridionale e sui settori di Novara e Como-Milano).
Le reciproche paure
Qui si entra nel vivo di quegli scenari diguerra evocati all’inizio dell’articolo. Sarebbe troppo complicato, in questa sede, descrivere l’esatta collocazione delle varie nazioni europee nello scacchiere delle alleanze e delle inimicizie continentali. Limitiamoci a ricordare che al termine dell’ Ottocento la Svizzera temeva un accordo tra Italia e Germania per spartirsi il nostro Paese. La geografia non dava loro torto:la Svizzera e il Ticino sono il più logico corridoio di «scorrimento» tra il Sud e il Nord dell’ Europa. Alla fine degli anni Dieci l’altro scenario temuto dagli elvetici (ma anche dagli austriaci) erano le mire espansionistiche del nazionalismo italiano. Nell’uno e nell’altro caso la reazione fu quella di prepararsi meticolosamente all’invasione da Sud. Nello stesso tempo Roma paventava una germanizzazione della Confederazione e considerava una minaccia gli apparati difensivi elvetici.
La corsa alle fortificazioni
Nasce in questo contesto un’autentica corsa alle fortificazioni alpine e prealpine da una parte e dall’altra del confine. Ma i primi a cominciare furono gli svizzeri. «Con un notevole sforzo finanziario», si legge nel libro di Binaghie Sala, «si procedette alla costruzione delle opere fortificate lungo la linea di frontiera dal Vallese, al Ticino, fino ai Grigioni». Una scelta che invece di dissuadere il nemico alimentò le paure italiane «spingendo Roma a prendere delle contromisure, come la realizzazione di una barriera fortificata lungo i tratti più esposti del suo fronte settentrionale». A partire dall’11 l’ Italia eresse fortificazioni sul Monte Orfano a difesa degli accessi dalla Val D’ Ossola e dal lago Maggiore e piazzò appostamenti di artiglieria sui monti Piambello, Scerré, Martica, Campo dei fiori, Gino e Sighignola. E la Svizzera realizzò opere di sbarramento «a Gordola, Magadino, Monte Ceneri e sui monti di Medeglia». L’avvicinarsi delle fortificazioni svizzere alla linea di confine (dopo il Gottardo, il Ceneri) venne interpretato dagli italiani come una prova delle mire espansionistiche confederate verso Sud.
Attaccare per difendersi
Ma torniamo alle operazioni militari previste da Keller. In caso di un attacco italiano il colonnello aveva già messo in conto la perdita del Mendrisiotto, ritenuto indifendibile. Così si spiega la lucida determinazione a distruggere completamente il ponte diga di Melide: per impedire o quanto meno frenare l’avanzata dei nemici verso Nord. Keller ipotizzava una battaglia decisiva nel Luganese o nel fondovalle di Bellinzona. In caso di sconfitta l’ultimo baluardo, quello cruciale, sarebbe stato il Gottardo. È il peggiore dei casi ipotizzato: la perdita del Ticino. Fin qui i piani difensivi. Perché Keller non si era limitato ad immaginare un attacco dei soldati del tricolore. Aveva stabilito anche un piano d’attacco svizzero verso l’ Italia. Le opzioni erano fondamentalmente due. La prima prevedeva la riconquista della Valtellina e della Val D’ Ossola, che del resto erano state svizzere per secoli. Non si trattava, tuttavia, di una conquista motivata da intenti espansionistici svizzeri:riannettere quei territori sarebbe servito soprattutto per «coprire» i fianchi del Ticino e riuscire a difenderlo. Solo così, infatti, le truppe dei Grigioni e del Vallese avrebbero potuto raggiungere il Ticino senza attraversare un territorio nemico. Valtellina e Val D’Ossola, inoltre, sarebbero poi servite come «merce di scambio» in occasione di futuri accordi di pace per riavere indietro i territori «forzatamente abbandonati» in Ticino e in Vallese. La seconda opzione è da capogiro: un’invasione svizzera della Lombardia fino a conquistare Milano!
Sarebbe delirante se non si tenesse conto che questa ipotesi era prevista da Keller unicamente nel caso in cui la Svizzera si alleasse con il potente Impero austro-ungarico. Fantastoria? Mica tanto. «Quando a Keller subentrò Sprecher von Bernegg», spiegano Binaghi e Sala, «lo Stato Maggiore svizzero aveva già preparato una trattato di alleanza con Vienna. Mancava solo la firma».
Mica tanto neutrali
Fin qui i contenuti principali del documento di Keller. Ineludibile a questo punto, una domanda: e la nostra neutralità? Possibile che i vertici dell’ Esercito svizzero fossero tanto propensi ad azioni – l'alleanza con l’ Austria o l’invasione dell’Italia – così palesemente contrarie al caposaldo elvetico della neutralità? Più che probabile, osserva Maurizio Binaghi: «Contrariamente a quello che si pensa oggi l’idea di neutralità, in quegli anni non era intoccabile, diciamo piuttosto che era funzionale alla sicurezza del Paese. Nel momento in cui la neutralità non fosse sembrata sufficiente a garantire la pace in Svizzera, si poteva benissimo rinunciarvi».
Che dire, invece, dell’ambiziosissimo piano di aggressione all’ Italia?
Roberto Sala ci ricorda che «a ridosso della prima guerra mondiale per gli eserciti europei era una ‘moda’ assai diffusa quella di preparare accurati piani offensivi. E la Svizzera non sfuggiva a questa regola».
Come andò a finire
Lasciamo per ultima la domanda più importante:perché non andò a finire così? Perché non invademmo la Valtellina e/o la Val D’Ossola e/o la pianura padana? Nel rapporto tra politica e potere militare, alla fine, la spuntò la politica. Il potere militare aveva il dovere di preparare dei piani per garantire la tranquillità o la vittoria della Svizzera. Ma spettava poi sempre al potere politico avallare o meno quei progetti. «Quando nel maggio del 1915 l’ Italia entrò in guerra, Berna dovette decidere in fretta cosa fare.», spiegano gli storici ticinesi, «L’esercito, allora guidato dal Capo di Stato Maggiore Sprecher von Bernegg – il successore di Keller – e dal generale Ulrich Wille (molto vicino ai tedeschi) premeva per accrescere il numero di truppe sul confine meridionale. Ma il Consiglio federale non lo assecondò. Molto probabilmente fu decisivo il fatto che in governo ci fosse anche un ticinese: Giuseppe Motta».
È vero che la storia non si fa coi «se» e coi «ma», tuttavia, a leggere i piani segreti del nostro Paese per difendersi o per attaccare l’ Italia, non si può fare a meno di pensare che se nel lontano 1915 il governo federale non avesse trattenuto il suo braccio armato, forse oggi il Mendrisiotto sarebbe provincia di Como. Oppure la Valtellina e la Val D’Ossola sarebbero due distretti del nostro Cantone. O, addirittura, Milano sarebbe la maggior città della Svizzera. Fantastoria e fantastorie, probabilmente, che il libro «La frontiera contesa» – colmando un vuoto storiografico sul Ticino tra Ottocento e Novecento – ci permette ora di valutare come qualcosa di molto più concreto di semplici fantasie. E di cui i chilometri di fortificazioni di montagna – monumenti alla reciproca diffidenza italo svizzera – sono i silenziosi, mimetizzati testimoni.
Politicamente Scorretto: Quando volevamo attaccare l’ Italia (http://politicamentescorretto85.blogspot.com/2008/11/quando-volevamo-attaccare-l-italia.html)