PDA

Visualizza Versione Completa : la deportazione dei giapponesi



Combat
06-03-07, 18:16
Roger Daniels, Prisoners without Trial. Japanese Americans in World War II, Hill and Wang, New York 2004, pp. 162.

Tra l'aprile e l'ottobre 1942 120.000 persone di origine giapponese (di cui oltre due terzi cittadini americani) furono forzatamente trasferite dalle loro abitazioni sulla costa occidentale degli Stati Uniti e internate in 10 campi di concentramento in base alle disposizioni contenute nell'Executive Order 9066 emanato dal presidente Roosvelt il 19 febbraio 1942, dieci settimane dopo l'attacco a Pearl Harbor. Il provvedimento legislativo conferiva al ministro della Guerra e alle autorità militari la facoltà di definire “le aree militari” da cui allontanare gli abitanti al fine di prevenire atti di sabotaggio o spionaggio.

In questo volume Roger Daniels, uno tra i più autorevoli studiosi della discriminazione razziale negli Stati Uniti1 ed in particolare del trasferimento forzato dei giapponesi nel secondo conflitto mondiale2, ricostruisce le fasi e le responsabilità della deportazione di massa inserendole nel contesto della discriminazione antica che colpì gli immigrati dai paesi asiatici.

Il volume, infatti, prende l'avvio dall'immigrazione dei lavoratori cinesi negli ultimi decenni dell'Ottocento, il gruppo più numeroso tra gli immigrati di origine asiatica a cui per lungo tempo nell'opinione corrente furono assimilati, anche per quanto riguarda il pregiudizio razzista, i giapponesi. Insediati soprattutto in California (90.000 persone su un totale di 130.000), allo scoppio del conflitto i giapponesi erano occupati in gran parte nell'agricoltura, nel settore dei servizi e del commercio.

Benché il quattordicesimo emendamento alla Costituzione americana (1868) avesse stabilito che tutte le persone nate negli Stati Uniti o naturalizzate dovessero godere della piena cittadinanza, gli immigrati di origine asiatica subirono pesanti discriminazioni. I giapponesi di prima generazione (Issei), furono definiti “stranieri non naturalizzabili” e perciò, a differenza dei loro figli (Nisei), non potevano aspirare alla cittadinanza né a possedere terre. Gli stessi sindacati non accoglievano i giapponesi, in particolare gli Issei, nelle loro file. Si spiega così il maggiore isolamento in cui visse la comunità giapponese rispetto ad altre nazionalità immigrate e la più accentuata frattura generazionale in una comunità in cui i giovani erano numerosi (nel 1940 l'età media era di 21 anni). Fieri della loro condizione di cittadini, i giovani Nisei erano desiderosi di distinguersi dai loro stessi padri che tendevano ad escludere dalle loro organizzazioni come la Japanese American Citizens League. Allo scoppio del conflitto i Nisei, sottovalutando il razzismo diffuso, vollero dimostrare la loro lealtà agli Stati Uniti e si arruolarono numerosi nell'esercito americano (alla fine del 1941 erano circa 3.000 le reclute di origine giapponese).

Ancor prima dell'attacco a Pearl Harbor, i provvedimenti contro i cittadini stranieri di nazionalità nemica colpirono maggiormente i giapponesi rispetto alle altre minoranze. In base all'Alien Registration Act, un provvedimento approvato dal Congresso alla metà del 1940 che limitava i diritti civili ai cittadini stranieri di nazionalità nemica e imponeva l'obbligo di registrazione, 695.363 italiani, 314.715 tedeschi e 91.858 giapponesi furono considerati “enemy aliens”. Di questi si stima che 11.000 siano stati internati; 8.000 (il 72%) erano di origine giapponese.

Solo per questi ultimi - sostiene l'autore - si può parlare di internamento. Per tutti gli altri, oltre 110.000 persone, si trattò di trasferimento forzato di massa. Per questa ragione Roger Daniels ritiene sia più corretto parlare di carcerazione (incarceration) anziché di internamento e di campi di concentramento anziché di relocation centres3.

Migliaia di stranieri di nazionalità tedesca e italiana i cui nomi comparivano negli elenchi del governo vennero internati ed in molti casi li seguirono le mogli che avevano la cittadinanza americana e i bambini. Tuttavia, nessun cittadino bianco, italiano o tedesco per nascita od origine, fu privato della libertà dal governo senza un'ordinanza o un regolare procedimento giudiziario (p. 51).

Il processo di internamento infatti, pur nella sua ingiustizia, conservava una parvenza di legalità e ad ogni internato era garantita un'udienza in seguito alla quale molti furono rilasciati. Il trattamento riservato agli internati, posti sotto la direzione dell'Immigration and Naturalization Service, era rispettoso delle convenzioni di Ginevra.

Mentre coloro che furono colpiti dall'internamento erano accusati o sospettati per le loro azioni, i cittadini di origine giapponese furono deportati in massa esclusivamente a causa della loro origine. Mentre inoltre le regolamentazioni sull'internamento dei cittadini stranieri di nazionalità nemica riguardavano solo gli uomini adulti oltre i 14 anni, nel caso dei giapponesi si fece ricorso alla carcerazione di tutta la popolazione, incluse le donne e i bambini. Si trattò di una forma di pulizia etnica, nella storia americana paragonabile soltanto al trasferimento forzato delle popolazioni indiane.

I cittadini di origine giapponese della costa del Pacifico furono discriminati anche rispetto alla comunità giapponese delle Hawaii, una comunità numerosa (oltre 150.000 persone) che rappresentava 1/3 della popolazione complessiva. Tuttavia nelle Hawaii, a causa del ruolo indispensabile svolto nell'economia delle isole dai giapponesi, solo una minoranza subì provvedimenti repressivi.

Se la deportazione di massa dei cittadini di origine giapponese della costa occidentale ebbe inizio dopo oltre due mesi dall'attacco a Pearl Harbor, gravissime limitazioni delle libertà civili furono attuate già a partire dal dicembre 1941: i conti bancari vennero bloccati, fu proibito l'espatrio e, in deroga alle garanzie costituzionali che impedivano la perquisizione senza un mandato, vennero perquisite tutte le abitazioni in cui fosse presente un solo Issei. E mentre i leaders della comunità venivano arrestati, i giovani Nisei venivano scartati alle visite di leva ed allontanati dalle file dell'esercito.

La stampa ebbe un ruolo di primaria importanza nel creare e diffondere un clima di odio nei confronti dei cittadini di origine giapponese. Valga per tutti l'esempio del giornalista Westbrook Pegler che nei giorni immediatamente successivi a Pearl Harbor, propose che per ogni ostaggio ucciso dalle potenze dell'Asse gli Stati Uniti avrebbero dovuto uccidere per rappresaglia 100 vittime scelte tra gli internati nei campi di concentramento americani che Pegler contava venissero istituiti per italiani, tedeschi e giapponesi (p. 29).

Il provvedimento legislativo presidenziale che diede l'avvio al processo di trasferimento forzato di una intera comunità fu sanzionato sia dall'organo legislativo che dalla Corte Suprema. La posizione di Owen Robert, giudice della Corte Suprema, è estremamente significativa. Inviato dal presidente nelle Hawaii per indagare sulle ragioni della sconfitta, dichiarò che esse si dovevano far risalire all'impreparazione delle forze armate, ma, in seguito a pressioni delle autorità militari, diede grande importanza all'azione di spionaggio. Cosa ancor più grave, affermò che l'FBI non aveva svolto un'azione di controspionaggio efficace a causa degli eccessivi scrupoli verso la Costituzione.

Lo studio di Daniels è particolarmente attento al ruolo svolto dalle autorità militari nella decisione della deportazione di massa, in primo luogo a quello del generale DeWitt, comandante militare della costa occidentale da cui venne la prima proposta di trasferimento forzato, nonché alle loro responsabilità nel diffondere false notizie sullo spionaggio, come nel caso dell'ammiraglio Frank Knox.

Altra figura chiave nella decisione dell'internamento forzato è quella di Allen Gullion, comandante della polizia militare, le cui responsabilità per la prima volta Roger Daniels, avvalendosi delle intercettazioni telefoniche conservate presso gli archivi militari, ha ricostruito nel dettaglio. Guillion, che dalla metà del 1940 aveva approntato un piano per il controllo dei civili, fece riferimento a “rapporti degni di fede” che testimoniavano l'attività di spionaggio e propose di deportare in campi da istituire nella Sierra Nevada tutti i giapponesi privi della cittadinanza accompagnati dalle loro famiglie. Nel dicembre 1941 Gullion fece pressioni perché il controllo degli “enemy aliens” passasse dalla sfera civile a quella militare ed ottenne dal Ministero della giustizia progressive erosioni dei diritti costituzionali dei cittadini di origine giapponese.

L'autore non tratta che di sfuggita delle condizioni di vita nei campi, il cuore del capitolo La vita dietro al filo spinato è dedicato alle forme di resistenza nei campi -“una resistenza nonviolenta nelle migliori tradizioni americane”(p. 58) - e soprattutto alle sfide legali rivolte al governo da quattro giovani Nisei nel 1942, casi che l'autore sviluppa nel saggio che compare in questo numero della rivista e al quale rimando.

Nei campi alcuni reagirono con la violenza, in primo luogo verso coloro che avevano accettato di collaborare con il governo, tuttavia il più vasto movimento di protesta fu quello contro la campagna per l'arruolamento tra i giovani detenuti nei campi intrapresa dal governo. Il rifiuto ad entrare nelle file dell'esercito americano e a dichiarare la propria fedeltà agli Stati Uniti, dichiarazione alla quale molti si piegarono nella convinzione che fosse l'unico modo per poter rientrare in California, si accompagnò spesso a manifestazioni di sdegno e di risentimento per la sottrazione dei diritti civili. Coloro che furono definiti “sleali” vennero concentrati nel campo di Tule Lake, un campo disciplinare da cui passarono 18.000 persone.

Le sofferenze patite, il senso dell'ingiustizia in molti casi fecero nascere o rafforzarono sentimenti di lealtà al Giappone. Se infatti circa 3.600 giovani accettarono di arruolarsi nell'esercito americano, ben 5.766 furono i Nisei che rinunciarono alla cittadinanza. Privati della libertà, del reddito, della possibilità di lavorare la terra, molti Issei persero tutto ciò che avevano e chiesero il rimpatrio.

Il processo di svuotamento dei campi fu lungo e graduale; iniziato nel 1944, alla fine del conflitto con il Giappone, il 14 agosto 1945, gli internati erano 44.000, nel 1946 2.806. La maggior parte si trasferì in zone lontane dalla costa occidentale: Chicago, Denver, Salt Lake City e New York dove non vi erano mai state comunità giapponesi. Molti tuttavia non vollero lasciare i campi; l'esperienza della detenzione aveva scavato un solco troppo profondo nella loro vita.

Non c'è dimostrazione più significativa degli effetti distruttivi della crudeltà dell'uomo sull'uomo del fatto che migliaia di internati, persone che avevano fatto parte di una comunità libera e autosufficiente, siano rimaste così profondamente ferite dal trattamento subito durante la guerra da parte del loro stesso governo, da dover essere letteralmente cacciate dai campi (p. 87).

La lunga strada del processo di riconoscimento e di indennizzo (a partire dal 1988 ad ogni sopravvissuto furono concessi 20.000 dollari accompagnati da una lettera ufficiale di scuse) costituisce l'ultima parte del volume. La commissione nominata dal Congresso nel 1980, The Wartime Relocation and Internment of Civilians nel 1980, ai cui lavori Roger Daniels partecipò in qualità di esperto, pubblicò il suo rapporto Personal Justice Denied nel 1983. Fonte indispensabile per gli studiosi, il rapporto raccoglie numerosissime testimonianze dei sopravvissuti; persone che in maggioranza non avevano mai parlato della loro esperienza, sia per la difficoltà di ripercorrere con la memoria un periodo tanto doloroso, sia per quegli aspetti culturali giapponesi che impongono ai singoli di non essere causa di vergogna o disgrazia per la comunità. Dal punto di vista politico le conclusioni della Commissione furono assai radicali:

La promulgazione dell' Executive Order 9066 non fu dettato dalle necessità militari e le decisioni che ne conseguirono non derivarono da un'analisi delle condizioni militari. Le profonde cause storiche che determinarono quelle decisioni vanno individuate nel pregiudizio razzista, nell'isteria di guerra e nel fallimento di guida politica.

Cause che pesano tuttora come un oscuro presagio anche sul nostro futuro.

Bruna Bianchi

Kim S.
06-03-07, 20:51
Beh, innanzitutto c'é da considerare prima di tutto che quando un paese è in guerra, non si preoccupa molto di ciò che in tempi normali era stato definito "politically correct"... :rolleyes:
Inoltre i provvedimenti presi contro i giapponesi, che ovviamente in tempo di pace possono sembrare eccessivamente duri, vanno considerati alla luce del fanatismo nazionalista dimostrato dai giapponesi verso il proprio impero, successivamente all'attacco del 7 dicembre (Pearl Harbor)... ovviamente non tutti i giapponesi la pensavano allo stesso modo, ma in tempo di guerra è consigliabile essere prudenti nel concedere fiducia a tutti coloro che hanno contatto con il nemico...
Già che ci siamo, comunque, visto che si parla di WWII e di giapponesi, ti sei mai documentato su ciò che facevano agli Americani quando li prendevano come prigionieri (POWs)? su come facevano scempio dei loro corpi, su come trattavano i soldati nei campi di prigionia? Rifletti un po' e poi valuta l'articolo alla luce di entrambi i fattori, e il provvedimento apparirà meno duro di quanto pensi.

Eric Draven
07-03-07, 01:38
la seconda guerra mondiale è stato il conflitto più basato sull'odio razziale mai combattuto,su tutti i fronti. Quindi è semplice scoprire l'acqua calda il citare i campi di concentramento per giapponesi. semmai la conclusione,in cui si cita il risarcimento (magari tardivo,magari insufficiente) ai superstiti giapponesi,mi ha fatto tornare in mente la vicenda dei prigionieri italiani: immagino che qui ci sarà chi ne saprà più di me e visto che il fatto ci tocca personalmente sarebbe bello approfondire il discorso....

Zapatista
07-03-07, 09:47
In secondo luogo direi che avendo a che fare con quei matti dei Giapponesi avrei fatto anch'io ugule...

Combat
07-03-07, 11:26
l'importante è che sia chiaro che le deportazioni non sono state fatte solo da una parte.

Gilbert
07-03-07, 12:11
Anche cittadini italiani e tedeschi, furono rinchiusi in campi di prigionia negli Stati Uniti.
Gli italiani se non erro erano tra i 30 ed i 50 mila.

Eric Draven
07-03-07, 20:04
e sui prigionieri itailani che collaborarono con le truppe americane c'è una storiella che farebbe ridere se non fosse la solita farsa all'italiana....

Kim S.
07-03-07, 21:01
:eek: ...E cioé? :confused: Non credo di averla mai sentita...

unknow (POL)
07-03-07, 21:15
l'importante è che sia chiaro che le deportazioni non sono state fatte solo da una parte.


verissimo.
La differenza sostanziale e che l'altra parte non gassava i deportati :rolleyes:

Andrea I Nemesi (POL)
07-03-07, 23:39
verissimo.
La differenza sostanziale e che l'altra parte non gassava i deportati :rolleyes:
E non li trattava da insetti solo perchè si erano fatti prendere prigionieri, e non li faceva morire di stenti e di fatiche, perchè considerati "barbari" (nel caso dei giapponesi...)

Kim S.
08-03-07, 00:33
E non li trattava da insetti solo perchè si erano fatti prendere prigionieri, e non li faceva morire di stenti e di fatiche, perchè considerati "barbari" (nel caso dei giapponesi...)

E non li torturava in modi orrendi, e non mutilava i loro corpi, una volta morti (sempre nel caso dei giapponesi...)

Eric Draven
08-03-07, 01:53
Dunque riussunta,magari male: come si può vedere su diversi documentari dell'istituto Luce,ai prigionieri italiani degli americani che accettarono l'offerta di collaborare con le truppe alleate,veniva riconosciuta una diaria,cioè una paga giornaliera (mi pare 90 centesimi al giorno,ma potrei sbagliare). al termine del conflitto e dopo che in Italia si instaurò un governo legittimamente eletto, il governo americano trasferì alla Banca d'Italia i soldi per pagare gli ex-prigionieri che avevano lavorato per le truppe alleate. Nei filmati dell'istituto Luce,si vede la cerimonia con l'ambasciatore americano che consegna al ministro del tesoro italiano i documenti attestanti l'avvenuto megabonifico e l'elenco con le generalità e gli importi dovuti ai beneficiari. Ebbene,di quei soldi,i beneficiari non hanno mai visto un centesimo,i soldi sono spariti. ancora oggi i pochi ancor viventi e gli eredi dei defunti continuano a chiedere giustizia:non per le cifre in sè,che sicuramente saranno state modeste in valore (ma nel 46-47 anche 300 dollari avrebbero fatto comodo in un paese in ginocchio),ma per il principio. Esiste anche un'associazione,mi pare con sede a Trieste,di questi italiani, truffati dal loro Stato. E poi mi vengono a dire perchè gli americani non ci considerano.... meditare gente.