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Visualizza Versione Completa : Malattie dei poveri,malattie rare, malattie dimenticate



Neva
18-07-07, 22:58
In questa nuova discussione, inserirò periodicamente, articoli, notizie, su malattie rare, su malattie che toccano gli abitanti più poveri del pianeta, e pertanto "malattie dimenticate".

MALATTIE DEI POVERI - MALATTIE DIMENTICATE

I paesi poveri, ogni giorno, fanno i conti con malattie che li uccidono, per le quali non possono curarsi, che spazzano via la vita dei più piccoli e deboli. Sono malattie dimenticate dal mondo ricco, perché non oltrepassano, se non di rado, i confini geografici, climatici o della povertà.
Malattie dimenticate anche dalla ricerca, dall’industria per la produzione di strumenti di prevenzione, diagnosi e terapia, perché interessano solo una parte della popolazione mondiale: una parte che ha poca voce per farsi sentire.
Eppure la leishmaniosi uccide 50 mila persone ogni anno, l’encefalite giapponese ha causato la morte di centinaia di indiani e nepalesi lo scorso anno, soprattutto bambini, la partita con il virus di Marburg in Angola si è chiusa con oltre 300 vittime. Sono solo alcuni esempi, per portare lo sguardo, con una serie di articoli, su quelle malattie che solo di rado, magari quando si avvicina il rischio che approdino ai paesi ricchi, ottengono l’attenzione del resto del mondo.
Ecco un'interessante articolo di Valeria Confalonieri

Si chiama Noma: è la malattia più dimenticata; ogni anno toglie il sorriso,
e la vita, a migliaia di bambini. Nel silenzio.

Cancro orale, o stomatite cancrenosa, o ulcera della povertà. Questa ultima definizione è forse la meno scientifica, ma è quella che racchiude meglio la storia e le caratteristiche della malattia. Il termine «ulcera» evoca infatti dolore, sofferenza, distruzione; il termine «povertà» le persone che colpisce, i più poveri fra i poveri.
Ma anche il nome proprio che le è stato attribuito, «Noma», una volta tradotto rende subito l’idea di cosa si ha davanti. Deriva dal greco nomein e significa divorare. Quello che divora è il volto dei malati, soprattutto bambini sotto i sei anni. Uccidendone sette-otto su dieci e sfigurando i sopravvissuti per tutta la vita.

I numeri incerti
della sofferenza

Noma può essere considerata anche il simbolo delle malattie dimenticate, perché, fra le tante che di rado conquistano i riflettori e l’attenzione dei media, è quella più ignorata. «Quando abbiamo sentito il suo nome per la prima volta, non sapevamo cosa fosse. Quando abbiamo sentito la sua descrizione, non potevamo crederci. E da quando abbiamo visto la devastazione causata dalla malattia con i nostri stessi occhi, non siamo stati più gli stessi» scrive Bertrand Piccard, il presidente di una fondazione (Winds Hope Foundation) che si è occupata della Noma.
Anche le notizie sulla sua diffusione non sono precise. Proprio perché presente nelle zone più povere e isolate; non si ha certezza sulla reale quantità di persone colpite, uccise o sfigurate. Valutazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, che risalgono al 1998, riportano 140 mila casi ogni anno, concentrati soprattutto in Africa, ma anche in Asia e in America Latina. Analisi più recenti segnalano 25 mila nuovi casi l’anno, considerando solo i paesi lungo il confine con il Sahara.
La prevalenza, ovvero il numero di malati in totale, potrebbe essere intorno a 800 mila casi nei tre continenti indicati. Numeri già alti, soprattutto se si considera che i casi reali potrebbero essere molti di più, 10 volte tanto.
Secondo un articolo uscito sulle pagine della rivista medica The New England Journal of Medicine, i casi di Noma (o ulcera della povertà estrema, come la definisce il titolo dell’articolo) che vengono riconosciuti rappresenterebbero solo la punta dell’iceberg: appena il 10% dei malati di Noma viene visto da un operatore sanitario, con conseguente diagnosi della condizione. L’articolo è firmato da Cyril Enwonwu, medico che ha raccontato sulle pagine della rivista la sua esperienza in Nigeria, seguendo i bambini dei villaggi nel nordovest del paese africano.

Volti distrutti,
vite perdute

I pazienti sono soprattutto bambini che non hanno ancora sei anni, in particolare fra uno e quattro anni di età. Tutto comincia con una lesione a carico delle gengive, che non curata, progredisce, allargandosi e coinvolgendo via via i tessuti più profondi. La ferita, dolorosa, si estende quindi alle labbra o alla guancia, distruggendo, «divorando» uno dopo l’altro i tessuti che incontra: lingua, mucose e poi ossa, parti della mascella e della mandibola, fino alla possibile caduta dei denti. La cavità sempre più profonda che viene a formarsi, partita dall’interno della bocca, affiora alla superficie, sfigurando per sempre il viso, e la vita, di bambini nati nella povertà estrema.
I pochi che sopravvivono, avranno comunque la vita, oltre al viso, segnata per sempre. La guarigione della ferita, con esiti cicatriziali, impedirà una normale funzione respiratoria e masticatoria, non potranno più parlare né mangiare come gli altri bambini. Non solo le cicatrici residue deturpano il volto, ma distruggono, divorano, anche la vita sociale degli ex malati: vengono confinati, trattati come i lebbrosi, lasciati ai margini della società. Non li si vuole vedere e li si isola; talora vi sono credenze per le quali la malattia è collegabile agli spiriti, e si sospetta persino che le famiglie con casi di Noma attirino il malocchio.

Le radici nella povertà

Non sono note la cause di questa ulcera. Si pensa possa derivare dalla combinazione di diversi fattori, riuniti dalla parola chiave povertà. La malnutrizione, che comporta carenze importanti, quali quella di vitamine, proteine e ferro, ma anche la scarsa igiene orale, la presenza di lesioni sulle gengive e la contemporanea compromissione del sistema immunitario di difesa dell’organismo.
È stato visto, infatti, che spesso la stomatite cancrenosa compare in bambini che hanno avuto da poco malattie infettive, come il morbillo, la malaria, la varicella, la scarlattina, la tubercolosi, la diarrea. Malattie che hanno lasciato indebolito l’organismo del piccolo, già di base malnutrito e con scarse difese. Infine, per completare l’elenco della possibile somma di cause che concorrono alla Noma, in alcuni casi (ma non in tutti, e non è noto il motivo) è stata trovata anche la presenza di germi, introdotti con acqua e cibo contaminati, altra condizione che si riallaccia alla povertà estrema delle persone colpite dalla malattia, che vivono con misure igieniche scarse o assenti.

Prevenire è possibile

Bastano due o tre settimane alla Noma per completare la sua opera di distruzione e, se non curata, portare alla morte nel 70-80% dei casi. Ma la causa di tanto dolore potrebbe essere fermata prima, molto prima, con la prevenzione: basterebbe un’educazione sanitaria alle famiglie, un’alimentazione equilibrata dei bambini, una igiene orale corretta e qualche accorgimento igienico in più. Le persone a rischio per questa malattia infatti non la conoscono, non sanno dell’importanza di una diagnosi precoce e di un intervento tempestivo.
Ma anche se si arriva un pochino più tardi, si può ancora intervenire con l’utilizzo di disinfettanti orali e antibiotici. Quando ormai la malattia è avanzata e si sono già formate le cavità, è ancora possibile fare qualcosa, seppur con maggiori difficoltà e costi, con interventi di chirurgia plastica complessi e ripetuti; in ogni caso, raramente è possibile recuperare le caratteristiche del volto.

Farla scomparire

La Noma è una malattia, come si diceva, strettamente connessa alla povertà. Anche i paesi ricchi, che ora non si ricordano nemmeno di cosa si tratti, l’hanno conosciuta. In Europa e nel Nord America era diffusa fino all’inizio del ventesimo secolo. È sparita grazie al miglioramento delle condizioni igieniche in cui vivevano le persone e con la possibilità di una alimentazione più equilibrata e corretta. Vi sono stati ancora casi durante la seconda guerra mondiale, nei campi di concentramento di Auschwitz e Bergen-Belsen, e, in tempi più recenti, con la diffusione di terapie immunosoppressive e dell’Aids, condizioni cioè di marcata riduzione delle difese immunitarie dell’organismo.
Le strade da seguire per fermare e far sparire la Noma ci sono: prima fra tutte la prevenzione, perché, nel silenzio, non tolga più il sorriso dei bambini in Africa, Asia e America Latina.

Valeria Confalonieri

Neva
20-07-07, 17:39
ANSA) - ROMA, 20 LUG - E' stato inaugurato a Roma il nuovo Servizio d'assistenza alle Disabilita' Congenite del policlinico 'Agostino Gemelli'.Il centro, unico in Italia, curera' ogni anno almeno 2mila bambini affetti da malattie rare, perlopiu' genetiche, che comportano disabilita'. 'E' gia' stato designato da Telethon come gruppo coordinatore italiano di trials clinici europei su malattie neuromuscolari -dice il coordinatore del progetto- ed e' in partenza la sperimentazione di un nuovo farmaco'.

Neva
25-07-07, 18:17
Le multinazionali farmaceutiche investono nei
settori dove maggiore è la possibilità di guadagnare,
indipendentemente dai bisogni.
I brevetti sono ostacoli insormontabili.
Insomma, i farmaci sono trattati alla stregua
di un qualsiasi altro prodotto.
Questa politica comporta gravi conseguenze
per una larga fetta dell’umanità.
Ecco la testimonianza di un medico cattolico Carlo Urbani


Un pomeriggio di ottobre del 1999, nella Cambogia nord-orientale. Stiamo percorrendo una pista che costeggia il fiume Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento di un programma di controllo delle malattie parassitarie, gestito dal ministero della sanità con il nostro supporto tecnico. Il programma sembra andar bene, e siamo orgogliosi di aver abbattuto i tassi di mortalità per queste malattie nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta per sgranchirci un po’ e bere dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso villaggio, affacciato su una bella insenatura del grandioso fiume. L’aria è pulita e profumata, e la luce dell’imminente tramonto colora di violetto le acque del fiume, incorniciato dal verde della esplosiva vegetazione. Mi allontano un po’ dalla Toyota, e mi fermo sotto una delle casupole, tutte uguali, tutte estremamente precarie: un pavimento di bambù su quattro alti pali (le case sono così, anche per proteggersi dalle inondazioni), quattro pareti di foglie di palma intrecciate e un tetto, anch’esso di foglie. Una bambina sorridente sta appoggiata alla ripida scala che conduce all’interno, e in alto sua madre - così credo - è seduta intenta a eliminare le scorie da una manciata di riso. Mi sorride. Così mi tolgo le scarpe e salgo.
Seduta sul pavimento, la donna ha sulle gambe un fagotto, che si muove ritmicamente. Lei sposta un lembo degli stracci e scopre un bimbetto (10-12 mesi) ansimante, viso affilato, occhi spalancati e una colata di muco dal naso. Chiamo l’interprete, per avere notizie di quel piccolo visibilmente sofferente. È così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche smesso di succhiare il seno. Lo tocco: è bollente. Avvicino un orecchio al suo dorso: polmonite. Non si lamenta mentre lo esamino, continua solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo di utile in quella condizione: trovo delle compresse di ampicillina e di paracetamolo. Dovrebbero andare. Poi l’interprete spiega alla mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in una ciotola, scioglierla e darne un cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi reidratarlo con acqua, zucchero e sale, poi il paracetamolo… cose banali insomma, una serie apparentemente semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto della mamma sembra indicare tutto il contrario: manovre complicate, quasi impossibili, gesti del tutto estranei alla quotidianità della sua vita. Ci allontaniamo dalla casupola lasciando il rantolo del bambino con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno, ci fermiamo di nuovo. La mamma in lacrime ci dice che la sera prima il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il tramonto e durante la notte ha smesso di respirare.

Cosa ha di particolare questa storia? Nulla, assolutamente nulla. Rivela semplicemente quanto accade ogni giorno, in migliaia di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi piede in Africa, fresco di studi di medicina tropicale. Aspettavo con ansia di vedere malati affetti da quei misteriosi e «affascinanti» morbi esotici. Rimasi quasi deluso quando, nella prima giornata di consultazioni mediche, vidi solo bambini gravemente malati o prossimi al decesso per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie: sono queste le prime cause di morte nei paesi in via di sviluppo. Il 95% dei decessi sono dovuti a malattie infettive, per le quali esistono efficaci trattamenti. Ma un terzo della popolazione mondiale non ha accesso ai farmaci basici. Gran parte di queste malattie sarebbero facilmente curabili; però, proprio là dove più servono, i farmaci relativi non sono disponibili, spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza tra bisogni e offerta risiede in rigide leggi di mercato, in base alle quali i prezzi dei farmaci, protetti da brevetto, sono fissati sulla disponibilità a pagarli nei mercati dei paesi industrializzati. Alla base di gran parte dei disastri sanitari, dell’impossibilità a gestire epidemie o endemie, a prevenirle, a impedire la morte per banali infezioni, alla base di tutto possiamo affermare oggi con certezza che c’è un problema di farmaci. Vediamo di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci utili in medicina tropicale, che siano poco tossici, a basso costo ed efficaci per debellare le malattie (parassitarie, ad esempio), causa di sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni, tra i 1.233 nuovi farmaci offerti dal mercato internazionale, solo 11 avevano come indicazione malattie tropicali, e di questi 7 venivano dalla ricerca veterinaria. Per cui appena lo 0,3% della ricerca farmaceutica contemporanea è indirizzata alle malattie ai vertici di ogni classifica mondiale di morbosità e mortalità. Perché? Semplice, perché queste malattie imperversano in mercati poco remunerativi. Le priorità sono, quindi, più di ordine economico-commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono investiti sulla ricerca di nuove pillole contro l’obesità e l’impotenza, dall’altro quasi niente per malattie tropicali. Se poi talvolta (e c’è l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un farmaco attivo su una malattia tropicale, spesso il fabbricante decide di non commercializzarlo, poiché la sua vendita sarebbe poco remunerativa nei paesi dove i pazienti interessati sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci già disponibili, efficaci e semplici da somministrare scompaiono improvvisamente, come è stato il caso della sospensione oleosa di cloramfenicolo, usata per trattare la meningite meningococcica (malattia capace di uccidere in 24 ore). Tale farmaco era l’alternativa al trattamento con ampicillina, che richiede 4 infusioni endovenose al giorno, contro un paio di iniezioni intramuscolari in tre giorni per il cloramfenicolo. Una bella differenza, per trattare pazienti in strutture sanitarie carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della eflornitina. Questo farmaco serve per trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi, più conosciuta come malattia del sonno (trasmessa dalla famosa mosca tse-tse). Bene, mentre il vecchio farmaco usato (un derivato dell’arsenico estremamente tossico e somministrabile in dolorose iniezioni) diveniva anche inefficace per l’insorgenza di ceppi di parassiti resistenti, appare questo nuovo ritrovato. Sfortunatamente due anni fa la ditta produttrice, detentrice del brevetto, ha deciso di sospenderne la produzione per motivi commerciali. E i circa 300 mila malati si vedono rioffrire il vecchio melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo mercato globalizzato.

Uno dei problemi principali è causato dal brevetto che protegge il farmaco. Il brevetto rappresenta un diritto sacrosanto dell’industria per salvaguardare i frutti dei sui investimenti in sperimentazioni. Accade però che i brevetti si tramutino in micidiali armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di sviluppo, ma in realtà detentori di tecnologie sufficienti per una produzione farmaceutica. Nazioni come India, Thailandia, Sudafrica o Brasile sono in grado di produrre farmaci utili per le loro popolazioni e quindi rivenderli a prezzi accessibili. Il prezzo di farmaci come il fluconazolo, efficace in gravi infezioni fungine, crolla così dai 20 dollari al giorno per un trattamento in Kenya, dove è importato, a meno di un dollaro al giorno in Thailandia, dove è prodotto da una azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una norma che si chiama compulsory licensing, o licenza obbligatoria (vedi box).
A questo punto, la domanda che sorge è: etica e sviluppo economico del settore farmaceutico sono obiettivi incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche internazionali (ad esempio, British Medical Journal e JAMA) sostengono che l’etica è compatibile con l’economia. Per questo i medici, che operano in questi contesti, sono stanchi di dover pensare, di fronte all’ennesima morte di un loro paziente: «Mi spiace. Stai morendo a causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’AIDS mostra poi cifre apocalittiche. Il 95% dei malati di Aids nel mondo non ha accesso a farmaci efficaci per restituire salute e dignità. Ma (fatto ancor più grave) i trattamenti per ridurre significativamente la trasmissione verticale dell’infezione da madre sieropositiva a figlio al momento del parto non sono disponibili proprio nei paesi dove questa modalità di trasmissione sta segnando le nuove generazioni, condannando a morte entro 5-8 anni un bambino già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina, efficaci anche se somministrati per solo 4 settimane intorno alla data del parto, sono vittime delle stesse regole di mercato. Spietati brevetti ne permettono la vendita a prezzi proibitivi e ne impediscono la produzione da parte di altre aziende. Se è vero, si può sempre applicare la licenza obbligatoria. Ci ha provato la Thailandia iniziando a produrre Azt per le sue donne (tantissime) incinte e sieropositive. Il farmaco ha avuto il costo abbattuto del 7000%.
La reazione degli USA, dove risiede la ditta detentrice del brevetto, è stata: non possiamo impedirtelo, ma possiamo però ridurre le importazioni dalla Thailandia... Cosa questa insostenibile in questo momento di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano troppo; farmaci che esistono, ma non vengono prodotti, germi che divengono resistenti ai comuni trattamenti (TBC, leismaniosi, tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca farmaceutica ha altri obiettivi… e le cifre di morte e malattia continuano ad avere parecchi zeri nei paesi dei poveri del mondo. Quello che basterebbe è esigere un «diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

Neva
29-07-07, 22:03
La lebbra
L'hanseniasi o lebbra
E' una malattia contagiosa causata dal Mycobacterium leprae, bacillo isolato nel 1873 da Gerhard Armauer Hansen. Da allora la malattia è definita Hanseniasi o Morbo di Hansen ed i malati Hanseniani. Anche se la malattia è perfettamente curabile ancora oggi le si accompagna spesso un pesante stigma sociale che vede le persone che ne sono affette, anche se guarite completamente, considerate "diverse" e socialmente emarginate.
Perché lo stigma
E' dovuto al retaggio della paura secolare per una malattia che a lungo ha evocato terrore a causa dell'incurabilità e delle tremende mutilazioni che provoca. Le deformità provocate dall'hanseniasi sono devastanti ed inconfondibili. Solo una cura precoce e tempestiva può evitarle.
Come si manifesta la malattia
Il bacillo distrugge i nervi periferici provocando insensibilità, che espone la persona a ferite e conseguente distruzione dei tessuti. Se non trattata provoca danni progressivi e permanenti a pelle, nervi, arti ed occhi. In realtà nessuno può dire esattamente quanti siano i malati nel mondo. Quelli diffusi sono i dati provenienti da zone in cui sono presenti servizi sanitari funzionanti. Ma chi può dire oggi quanti malati ci siano in paesi lacerati da guerre o con infrastrutture allo sfascio? Di fatto quando si avviano piani di ricerca dei casi di lebbra in aree poco raggiungibili si continuano a scoprire numerose persone affette dalla malattia. Tra loro la percentuale dei bambini rimane relativamente alta e prevale la forma tubercolare, cioè il tipo di lebbra che provoca molto rapidamente le disabilità. Tutto ciò indica una morbilità ancora elevata.
La cura
Solo nel 1940, con il dapsone, si cominciò ad avere una cura, ma il farmaco andava assunto per tutta la vita ed aveva il solo effetto di rallentare l'avanzata della malattia. E' dai primi anni '80, con l'introduzione della polichemioterapia (rifampicina, clofazimina e dapsone), che finalmente dalla lebbra si può guarire. L'Organizzazione Mondiale della Sanità - OMS raccomanda la polichemioterapia dal 1981. Da 5 a 20 anni è il periodo d'incubazione del bacillo che causa la malattia. Da 6 mesi a due anni dura il periodo di trattamento farmacologico. Si stima che più di 6 milioni di persone subiscano oggi le conseguenze fisiche e sociali della malattia.

Neva
21-08-07, 18:58
Farla scomparire una volta per tutte


Quarant’anni fa si pensava di averla sotto controllo e che appartenesse al passato. Ma la framboesia non è mai sparita e conta mezzo milione di casi nel mondo.

Un nome pressoché dimenticato per una malattia infettiva che sembrava scomparsa, ma che non lo era e ha ricominciato a diffondersi: framboesia (yaws in inglese). Deriva dalla parola francese framboise, per l’aspetto delle manifestazioni sulla pelle caratteristiche di questa infezione, che ricordano il lampone: colore rosso vivo e superficie irregolare.
I numeri non sono altissimi: per quanto le stime non possano essere precise, oggi nel mondo sarebbero circa 500 mila le persone con questa infezione. Cinquecentomila casi, però, di una malattia che 40 anni fa si pensava di avere sotto controllo.

ANCORA UNA VOLTA INFANZIA E POVERTA'

La framboesia è una malattia infettiva causata da un batterio, di nome Treponema pertenue, che appartiene alla stessa famiglia del batterio responsabile della sifilide (il Treponema pallidum); al contrario di quest’ultima però, non è una malattia venerea. I treponemi della framboesia si trovano principalmente nella pelle: le lesioni ulcerative della cute ne sono piene e il passaggio del batterio avviene a seguito del contatto pelle contro pelle o attraverso lesioni per traumi, escoriazioni eccetera. La malattia è diffusa soprattutto fra i bambini, al di sotto dei 15 anni di età, che rappresentano i due terzi dei malati; la fascia di età con un maggior numero di casi è fra i 6 e i 10 anni.
Dal punto di vista climatico e geografico, la si trova diffusa soprattutto in ambienti caldi, umidi, nelle aree tropicali di Africa, Asia e America Latina, in particolare nelle comunità povere, nelle zone rurali, che vivono in condizioni di sovraffollamento e con scarsa igiene e inadeguato apporto di acqua.

CICATRICI E INVALIDITA'

L’infezione da Treponema pertenue coinvolge in particolare la pelle e le ossa. Una volta che il batterio è arrivato nell’organismo, a seguito del contatto diretto con la pelle di una persona infetta, dopo circa 2-4 settimane si forma una lesione nel punto di ingresso. La ferita iniziale è piena di treponemi e, dopo 3-6 mesi, va incontro a una cicatrizzazione naturale. Se il paziente non viene curato, compaiono in seguito numerose lesioni in tutto il corpo e possono manifestarsi dolori e lesioni alle ossa.
Nello stadio più avanzato della malattia, dopo 5 anni circa dall’infezione iniziale, il paziente può avere conseguenze invalidanti al volto (che può rimanere sfigurato), alle ossa, alle mani e ai piedi. Raramente la framboesia è causa di morte, ma in assenza del trattamento appropriato (che prevede un’unica iniezione di un antibiotico economico ed efficace, e le ricadute con ripresa della malattia sono rare), un paziente su dieci riporta le conseguenze invalidanti prima accennate, per la distruzione di pelle e ossa causata dall’infezione, con deformità in particolare di gambe, naso, palato e mascella.

TORNATA DALLA CENERI

Fra il 1950 e il 1970, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef) hanno portato avanti una campagna per il controllo della framboesia in 46 Paesi. Grazie a quella campagna, sono stati raggiunti con la terapia 50 milioni di persone e nel 1970 la prevalenza della malattia era crollata del 95%.
Il successo ottenuto in 20 anni ha ridotto il controllo sulla presenza e diffusione di questa infezione. Negli anni ‘70, riporta l’Oms, sono stati smantellati i programmi verticali indirizzati alla eliminazione della framboesia e le iniziative contro questa malattia sono state incluse nelle altre attività di sanità di base. Piano piano si è arrivati a un’attenzione sempre minore nei confronti della framboesia che, alla fine degli anni ‘70, è tornata a far parlare di sé.
Gli sforzi compiuti negli anni ‘80, soprattutto nell’Africa occidentale, sono falliti nel giro di pochi anni, per una mancanza di volontà politica e di risorse insufficienti; dal 1995 si sono rinnovati gli sforzi per eliminare la framboesia in diverse zone del mondo, ma senza un coordinamento globale degli interventi.
Attualmente non è noto il numero esatto di casi di framboesia in tutto il mondo, perché in molti paesi, a partire dal 1990, non è prevista la segnalazione dei casi. Secondo una valutazione dell’Organizzazione mondiale della sanità, negli anni ‘90 la prevalenza globale, cioè il numero complessivo di persone con questa malattia, era pari a 2 milioni e mezzo, delle quali 460 mila nuove infezioni.
Nonostante non sia possibile sbilanciarsi su una cifra di diffusione attuale, vengono segnalati ogni anno 5 mila nuovi casi di infezione nel Sudest dell’Asia, e in particolare in Indonesia (4 mila casi) e Timor Est (mille casi), cui si aggiungono pochi casi in India.
Inoltre, anche se non si hanno resoconti precisi, la framboesia dovrebbe essere ancora presente in alcuni paesi dell’Africa subsahariana e nelle regioni del Pacifico occidentale: nel 2005 sono stati segnalati circa 26 mila casi in Ghana e 18 mila in Papua Nuova Guinea. Infine, non si sa quanti siano i casi di questa malattia nelle Americhe.

CON RINNOVATO VIGORE

Le caratteristiche della framboesia ne fanno una malattia che può scomparire dalla faccia della terra. Secondo gli esperti, come riportato dall’Oms, può essere controllata ed eliminata perché si tratta di un’infezione che interessa solo gli esseri umani (non vi è un passaggio attraverso gli animali), e la sua diffusione è ormai limitata a poche zone nel mondo, focolai localizzati dove programmare e mettere in atto interventi mirati. Inoltre, è disponibile un trattamento efficace, che prevede una singola iniezione di antibiotico: in questo modo non solo si ottiene la guarigione dei malati, ma viene anche bloccata la trasmissione del Treponema pertenue da una persona all’altra.
Infine, la diagnosi clinica è facile con un minimo di formazione del personale sanitario e le esperienze del passato in diversi paesi, e più di recente in India, hanno dimostrato che quella dell’eliminazione è una strada percorribile con successo.
A fine gennaio 2007, l’Organizzazione mondiale della sanità, con un comunicato, ha richiamato l’attenzione sulla framboesia, sottolineando come stia riemergendo nei contesti poveri e nelle popolazioni isolate di Africa, Asia e Sudamerica.
Lorenzo Savioli, direttore del dipartimento dell’Organizzazione mondiale della sanità sulle «Malattie tropicali dimenticate», ha sottolineato come sia inaccettabile la persistenza nel ventunesimo secolo di questa malattia infettiva, per la quale è disponibile una terapia non costosa ed efficace.
Ritornano dunque, ad anni di distanza dalla campagna del 1950, gli sforzi per eliminare la framboesia e le sue devastanti conseguenze, trattando tutti i casi di malattia e le persone che ne sono venute a contatto, interrompendone così la trasmissione e prevenendo le possibili complicanze invalidanti.
L’obiettivo complessivo è quello di ridurre al minimo la sofferenza e le conseguenze socioeconomiche della framboesia nelle popolazioni ove è presente, incoraggiati in questo dai successi ottenuti in India in tempi recenti. Nel Sudest dell’Asia è stato messo come termine per l’eliminazione della malattia il 2012, in particolare in India, Indonesia e Timor Est; inoltre, si stanno confrontando sul tema i paesi dove la framboesia è ancora diffusa, per sviluppare una strategia globale che si spera porti al successo, come quarant’anni fa.
«Una volta per tutte», però, conclude il comunicato dell’Oms. Senza riabbassare la guardia.

Neva
13-10-07, 11:55
Oncocercosi (cecità del fiume)

Ha fatto perdere la vista a 270 mila persone, ne ha infettate oltre 17 milioni. E 9 casi su 10 sono in Africa. L’oncocercosi, o cecità del fiume, è seconda in classifica come causa infettiva di cecità, la principale in numerosi paesi africani. In alcune zone dell’Africa occidentale, un uomo su due con più di 40 anni di età non vede più per causa sua. Anche se di rado minaccia la vita delle persone infettate, è responsabile di sofferenza cronica e condiziona l’esistenza dei malati.
Ma la cecità del fiume è anche una malattia che testimonia come sia possibile intervenire in contesti difficili, in paesi poveri. Un programma di controllo della diffusione dell’oncocercosi, avviato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel 1974, in collaborazione con Banca mondiale, Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) e Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), è stato ufficialmente chiuso nel 1992, sulla base dei risultati raggiunti in 10 paesi su 11 che partecipavano al progetto. Unica esclusa la Sierra Leone, dove gli interventi erano stati interrotti a causa della guerra civile.

LA MAPPA DELLA CECITÀ

L’oncocercosi è una malattia infettiva che colpisce occhi e pelle. È causata da un parassita, un verme introdotto nel corpo umano dal morso di un tipo di mosca: la mosca nera. Il nome cecità del fiume, o cecità fluviale (dall’inglese river blindness), deriva dalla maggiore facilità di essere punti in prossimità di fiumi o torrenti, dove le mosche nere si riproducono.
La malattia è presente in 35 paesi in tutto il mondo: 28 in Africa occidentale e centrale, dove si trova la grande maggioranza dei casi, sei in America Latina (Brasile, Colombia, Ecuador, Guatemala, Messico e Venezuela) e uno nella penisola arabica (Yemen).

IL VERME RESPONSABILE

Il responsabile della cecità del fiume si chiama Onchocerca volvulus, un verme parassita, la cui prima osservazione risale al 1875. Il parassita può sopravvivere nel corpo umano fino a 14 anni. Le femmine adulte del verme producono milioni di larve microscopiche.
Mentre i vermi adulti si aggregano in noduli sotto la pelle, le larve si diffondono nei tessuti circostanti e nell’organismo fino all’occhio, causando i sintomi e segni della malattia: prurito intenso, lesioni della pelle, maggiore o minore colorazione cutanea, e, a livello oculare, infiammazione, sanguinamenti e altre complicazioni fino alla perdita della vista.
Le ripetute lesioni nel corso degli anni, oltre alla cecità, possono lasciare segni permanenti anche sulla pelle (pelle a leopardo e a lucertola).
L’Onchocerca volvulus è un parassita quasi esclusivo dell’uomo e la mosca nera rappresenta un vettore della malattia, che con le sue punture può trasmettere l’infezione da una persona malata a una sana. Infatti, quando la mosca nera punge una persona infetta, può ingerire le larve che, dai noduli, si diffondono nei tessuti sottocutanei.

UNA VITA SEGNATA DALLA MALATTIA

Ma gli effetti dell’infezione non sono solo direttamente collegati alle manifestazioni cliniche e alla sofferenza causata dalla malattia. Infatti, la cecità del fiume può rappresentare un ostacolo allo sviluppo economico delle zone in cui è diffusa. La paura di essere morsi dalla mosca nera e di contrarre l’infezione ha portato le popolazioni ad abbandonare i terreni fertili nelle zone dell’Africa occidentale, in prossimità dei fiumi. Questi spostamenti hanno avuto un impatto economico negativo, valutato intorno agli anni ‘70 pari a una perdita di 30 milioni di dollari l’anno.
Inoltre, gli effetti invalidanti della malattia sulla visione e le alterazioni permanenti sulla pelle hanno ripercussioni dal punto di vista psicologico e di integrazione sociale per il malato e per i suoi familiari. Accanto alla invalidità causata dalla riduzione o perdita della vista, anche gli effetti della malattia a livello cutaneo condizionano la vita, interferendo con le relazioni sociali, facilitando l’isolamento del paziente, aumentando le sue difficoltà.

LE POSSIBILITà DI SUCCESSO

Come accennato all’inizio, la cecità del fiume rappresenta una testimonianza di come sia possibile intervenire, per interrompere la trasmissione di una malattia anche in contesti poveri. Nel 1974, viste le conseguenze drammatiche della diffusione della malattia nell’Africa occidentale, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), insieme con Banca mondiale, Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) e Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), ha costituito il Programma di controllo dell’oncocercosi (Onchocerciasis Control Programme, Ocp).
L’obiettivo era quello di proteggere dalla malattia 30 milioni di persone in 11 paesi: Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Ghana, Guinea Bissau, Guinea, Mali, Niger, Senegal, Sierra Leone e Togo. Inizialmente il programma seguito dall’Onchocerciasis Control Programme prevedeva soltanto l’utilizzo di insetticidi, sparsi da elicotteri e aerei sulle zone ove si riproducevano le mosche nere, per eliminarne tutte le larve e interrompere così la trasmissione dell’infezione da uomo a uomo.
A questo, nel 1987, si aggiunse la possibilità di trattare direttamente la malattia nella popolazione con un farmaco efficace, reso disponibile dall’azienda produttrice. In alcune zone sono stati messi in atto entrambi gli interventi, in altre utilizzata solo la terapia.
Nel dicembre del 2002 l’Onchocerciasis Control Programme è stato ufficialmente concluso. È stato calcolato che questo intervento ha evitato 600 mila casi di cecità e ha permesso a 18 milioni di bambini di nascere in zone sotto controllo per quanto riguarda il rischio di oncocercosi.
Inoltre, dal punto di vista dell’economia dei paesi inclusi nel programma e degli effetti negativi conseguenti all’abbandono delle zone a rischio di infezione da parte della popolazione locale, sono stati recuperati 25 milioni di ettari di terreno.

ESPERIENZE
AFRICANE E AMERICANE

Sempre in Africa, nel 1995 ha visto la luce un nuovo programma di trattamento (African Programme for Onchocerciasis Control, Apoc), per contrastare la malattia in altri 19 paesi del continente, non coinvolti dall’Onchocerciasis Control Programme: Angola, Burundi, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo Brazzaville, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Guinea Equatoriale, Gabon, Kenya, Liberia, Malawi, Mozambico, Nigeria, Ruanda, Sudan, Tanzania e Uganda.
In questo programma vengono coinvolte direttamente le comunità locali, per contrastare la malattia nei singoli villaggi. I progetti dell’Apoc, nel 2003, hanno trattato 34 milioni di malati in 16 Paesi e l’obiettivo è arrivare a curare 90 milioni di persone ogni anno, proteggere la popolazione a rischio (pari a 109 milioni) e prevenire così 43 mila casi di cecità l’anno.
Infine, anche per l’America Latina, dal 1992 vi è un programma di eliminazione, chiamato Onchocerciasis Elimination Program for the Americas (Oepa), per eliminare la malattia e interromperne la trasmissione, utilizzando il farmaco per curarla nei sei paesi ove è diffusa (Brasile, Colombia, Ecuador, Guatemala, Messico e Venezuela).
I risultati del 2002 mostrano una copertura, con il trattamento, almeno dell’85% in cinque paesi, più bassa solo in Venezuela (65%).


Valeria Confalonieri


Fonti
o Centers for Disease Control and Prevention:
www.cdc.gov/ncidod/dpd/parasites/onchocerciasis/factsht_onchocerciasis.htm
o Malattie dimenticate:
http://www.malattiedimenticate.net/patologie/cecit%e0%20del%20fiume.asp
o Organizzazione mondiale della sanità:
www.who.int/topics/onchocerciasis/en/
www.who.int/blindness/causes/priority/en/index3.html
o The Unicef-Undp-World Bank-Who Special Programme for Research and Training in Tropical Diseases:
www.who.int/tdr/diseases/oncho/http://www.missioniconsolataonlus.it/cerca.php?azione=det&id=2334 (http://www.who.int/tdr/diseases/oncho/http://www.missioniconsolataonlus.it/cerca.php?azione=det&id=2334)

Neva
15-01-08, 19:53
AFRICA - Valeria Confalonieri
Dicembre - 2007
Il ritorno dell'ebola


La febbre emorragica di ebola è stata segnalata di nuovo nella Repubblica Democratica del Congo, con un’epidemia iniziata prima dell’estate.

Ancora una volta si è fatto vivo, e ha portato paura e morte. Paura, perché i virus che causano le febbri emorragiche, come Ebola e Marburg, portano con loro non solo la preoccupazione della morte, ma anche lo spavento per qualcosa di contagioso, che non si capisce; per la vista di uomini in tute bianche, completamente coperti, con guanti, stivali, maschere, che vengono in casa per vedere malati o per portare via i morti. Morti che non possono essere toccati dai parenti, che vengono seppelliti secondo precise norme per bloccare la diffusione della malattia.

Epidemia dimenticata
L’allarme è scattato in settembre nella Repubblica Democratica del Congo, dove l’epidemia di febbre emorragica da virus Ebola, a quanto sembra più contenuta di quella del simile virus di Marburg di qualche anno fa in Angola, ha seminato preoccupazione e morte. Ma se l’epidemia di Marburg in Angola aveva trovato un po’ di spazio nelle cronache italiane, davvero poca risonanza ha avuto questa nuova comparsa del virus Ebola, dimenticata e relegata al paese lontano.
Non sono noti i numeri precisi delle persone infettate e di quelle che hanno perso la vita a causa del virus, e quindi le dimensioni dell’epidemia attuale. Secondo gli ultimi conteggi di inizio ottobre, dall’inizio di maggio ci sarebbero stati oltre 380 casi sospetti, fra cui 176 morti.
L’aggettivo «sospetti» viene mantenuto, perché solo in una minima percentuale di casi è stato possibile avere la conferma di laboratorio. Il dato numerico è ulteriormente in sospeso perché in questo stesso periodo l’Ebola non è l’unica infezione che circola: è stato infatti trovato un altro germe, la Shigella, responsabile di un’infezione intestinale con dissenteria. Oltre alla Shigella, l’Ong Medici senza frontiere segnala come nella zona vi siano altre malattie con manifestazioni simili a quelle iniziali della febbre di Ebola, come malaria e febbre tifoide.
In ogni caso, all’inizio di ottobre i casi di Ebola confermati dagli esami di laboratorio erano 24 e l’ultima vittima del virus risalirebbe al 22 settembre: un paziente morto nel reparto di isolamento allestito da Medici senza frontiere a Kampungu, un villaggio nella zona più colpita del paese.

La febbre mortale
Il virus responsabile della febbre emorragica di Ebola viene trasmesso dal contatto con materiale infetto, come sangue, vomito, diarrea e così via. Possono dunque essere pericolose per la trasmissione della malattia anche le cerimonie funebri, per il contatto diretto dei parenti con la persona cara morta a causa dell’Ebola.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riporta come, dopo un periodo di incubazione che può variare da due giorni a tre settimane, l’infezione si manifesti con febbre, debolezza importante, dolori muscolari, mal di gola, spesso seguiti da vomito, diarrea, manifestazioni sulla pelle, disturbi alla funzione del rene e del fegato e, in alcuni casi, emorragie interne ed esterne. Da qui il nome di febbre emorragica.
La malattia è mortale nel 50-90% dei casi. Non vi sono terapie specifiche, se non cure di supporto, per esempio, per la disidratazione; al momento non sono nemmeno disponibili vaccini. I casi in cui si sospetta l’infezione da virus Ebola vengono isolati, per impedire la diffusione del contagio. Nella Repubblica Democratica del Congo, per esempio, Medici senza frontiere ha allestito a Kampungu un centro di isolamento, che prevede tre diverse parti: una dove vi sono i casi da isolare, una dove il personale si veste con le tute che lo isolano e si sveste dopo il contatto con i malati, e una per la disinfestazione.

Primi casi ad aprile
La conferma ufficiale dell’epidemia di febbre emorragica da Ebola nel paese africano è arrivata solo il 10 settembre ma, come riporta Medici senza frontiere, già dalla fine di aprile erano stati segnalati casi di una malattia sospetta. La conferma di laboratorio della presenza del virus Ebola è arrivata dai laboratori di Atlanta negli Stati Uniti e di Fancesville in Gabon.
Oltre all’identificazione dei casi sospetti e delle persone venute in contatto con possibili malati, alle misure di isolamento e all’utilizzo di pratiche sicure nel seppellire i morti, è stato portato avanti un lavoro di informazione sulla popolazione rispetto alla malattia, l’epidemia e come si diffonde il contagio, come riconoscere i primi sintomi e chi avvisare.
Gruppi di persone addette alla comunicazione, giornalisti, utilizzo di trasmissioni radio: grazie a queste ultime, l’Oms stima di avere raggiunto oltre il 60 per cento della popolazione locale. Sono stati svolti anche lavori di informazione con gruppi della società civile, non solo per mettere sull’avviso rispetto ai possibili rischi di trasmissione dell’infezione, ma anche per tranquillizzare, ridurre la paura e il panico nei confronti di questa malattia.
http://www.missioniconsolataonlus.it/cerca.php?azione=det&id=2511

Neva
23-09-08, 19:43
Il matrimonio precoce e la fistola


Almeno 2 milioni di giovani donne nel mondo in via di sviluppo subiscono le conseguenze dolorose, umilianti e devastanti della fistola ostetrica. È una lacerazione che mette in comunicazione la vagina della donna con la vescica, il retto o entrambi, favorendo il passaggio di urina e di feci. Si manifesta in seguito a complicanze del parto generalmente dovute alle dimensioni troppo piccole del bacino o a quelle troppo grandi del bambino o al suo cattivo posizionamento. Le ragazze o le giovani donne che soffrono di fistole sono ostracizzate dalle loro comunità e spesso abbandonate dalle famiglie. La fistola, che un tempo era molto diffusa in Europa e in America, è stata sradicata dalla medicina moderna all’inizio del XX secolo. È tuttavia ancora comune nelle aree in via di sviluppo, dove la malnutrizione e l’arresto della crescita aumentano l’incidenza dei parti distocici, dove le pratiche culturali e la povertà favoriscono i matrimoni e le gravidanze precoci e dove l’assistenza sanitaria non è accessibile. Spesso le giovani donne sono costrette a rimanere incinte subito dopo il matrimonio e possono incontrare diversi ostacoli nell’accesso ai servizi di contraccezione. A dispetto dell’esistenza di leggi contro il matrimonio precoce in diversi paesi, nel mondo in via di sviluppo 82 milioni di ragazze si sposeranno prima di compiere 18 anni. In tutto il mondo, ogni anno sono circa 14 milioni le donne e le ragazze che partoriscono tra i 15 e i 19 anni. Le gravidanze nell’adolescenza sono rischiose, e più la ragazza è giovane, più è alto il rischio. Le bambine sotto i 15 anni hanno cinque volte più probabilità di morire di parto delle donne tra i 20 e i 29 anni. Molte di quelle che sopravvivono a un parto distocico si ritrovano con una fistola. Pertanto, ritardare la prima gravidanza delle donne è una strategia fondamentale per ridurre l’incidenza della fistola e la mortalità materna.
La fistola si può prevenire e trattare con un intervento chirurgico che costa 300 dollari. Nel 2003, il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA) ha lanciato la Campagna globale per l’eliminazione della fistola in risposta alle nuove testimonianze degli effetti devastanti della fistola ostetrica sulla vita delle donne. La campagna coinvolge una vasta gamma di partner e attualmente è attiva in 30 paesi dell’Africa subsahariana e dell’Asia meridionale e in alcuni stati diversi ostacoli nell’accesso ai servizi arabi. L’obiettivo a lungo termine è far diventare la fistola un evento altrettanto raro nei paesi in via di sviluppo quanto lo è oggi nei paesi industrializzati.
La campagna mira alla prevenzione della fistola, al trattamento delle donne che ne sono affette e alla reintegrazione delle donne nelle loro comunità dopo la guarigione. Nel Niger, 600 operatori sanitari delle comunità sono stati formati nella prevenzione della fistola. In Nigeria, 545 donne sono state sottoposte a interventi chirurgici e dozzine di medici e infermiere sono stati formati a trattare la fistola. Nel Ciad, centinaia di donne sono state aiutate a sviluppare nuove competenze e hanno ricevuto un piccolo contributo dopo l’intervento.
Ogni paese che aderisce alla campagna attraversa tre fasi. Innanzitutto si valutano le esigenze nazionali per determinare le dimensioni del problema e le risorse necessarie. In secondo luogo si formula una risposta nazionale basata sulle esigenze identificate. Infine si implementano programmi incentrati sulla prevenzione, il trattamento e la reintegrazione nelle comunità delle persone curate.
http://herta1971.splinder.com/archive/2008-09

Neva
25-09-08, 18:58
Malattie rare

Epidermolisi Bollosa, passi avanti con Telethon La fragile pelle dei bambini farfalla

di Sara Ficocelli

Li chiamano i "bambini farfalla" perché la loro pelle è fragile come le ali dell'insetto. Per graffiarli può bastare una stretta di mano, un abbraccio può addirittura ferirli in modo grave. I piccoli affetti da Epidermolisi Bollosa, una patologia genetica rara appartenente al gruppo delle affezioni ereditarie della pelle, sono bambini come tutti gli altri, solo che per loro venire coccolati, giocare al parco, andare in bicicletta o fare sport è un sogno quasi impossibile. La ricerca scientifica promette però interessanti sviluppi: due anni fa, grazie al lavoro dell'équipe del professor Michele De Luca dell'Università di Modena, è stato eseguito con successo il primo trapianto al mondo di pelle geneticamente modificata e, sempre in Italia, con il contributo della Fondazione Telethon, è stato finanziato un programma di terapia genica presso l'Istituto di Ingegneria dei Tessuti di Pomezia, in provincia di Roma. Si tratta del primo progetto mondiale di terapia genica per questa patologia.
Il punto di riferimento di tutti coloro che sono affetti da questa malattia (circa un malato ogni 17mila persone, per un totale di 5 milioni di individui colpiti) è la Debra International, associazione con sede nel Regno Unito e che in Italia trova diretta corrispondenza nella Debra Italia Onlus, fondata nel 1990 da un gruppo di genitori di bambini malati. In Italia questa malattia colpisce un bambino su circa 82mila nati e proprio per questo è "orfana" dal punto di vista degli investimenti, che si rivolgono a patologie più diffuse. "Epidermolisi" significa rottura della pelle e delle mucose, e "bollosa" si riferisce alla tendenza a formare bolle, vesciche e scollamenti che si riempiono di siero, dovuti a traumi o frizioni anche minimi. Sul sito della Debra si possono vedere foto di bambini bellissimi ma con il viso deturpato da ferite di ogni tipo. Hanno imparato a convivere con il dolore fin dai primi giorni di vita. Essere genitori di un bambino farfalla è una sfida che spesso fa sentire soli ma i bambini, a dispetto della fragilità della loro pelle, sono forti.
Ass. DEBRA Italia, Via Arno, 96, Roma Tel. 068547113 www.debraitaliaonlus.org Centri diagnostici: Lab. Genoma Roma 06/85358425;IDI, Roma 066646473;
Univ. Milano 0255035334; Univ. Brescia 0303717241; Univ. Bari 0805478927
http://www.repubblica.it/supplementi/salute/2008/09/25/medicinasanitagrave/020rar59320.html

Neva
04-12-08, 15:14
Appello all'Onu delle autorità, non più in grado di fronteggiare l'epidemia
I casi accertati sono oltre 12.500, più di cinquecento finora le vittime
Zimbabwe, dichiarato stato di emergenza
Il colera dilaga, mancano i medicinali

di DANIELE MASTROGIACOMO




http://oas.repubblica.it/RealMedia/ads/adstream_nx.ads/repubblica.it/nz/esteri/interna/1657451160@TopLeft,Top,TopRight,Left,Right,Middle, Middle1,Position1,Bottom,Bottom1,x40,x41,x42,x43,x 44,x45,x46!Left (http://oas.repubblica.it/RealMedia/ads/click_nx.ads/repubblica.it/nz/esteri/interna/1657451160@TopLeft,Top,TopRight,Left,Right,Middle, Middle1,Position1,Bottom,Bottom1,x40,x41,x42,x43,x 44,x45,x46!Left)
http://www.repubblica.it/2008/12/sezioni/esteri/zimbabwe/zimbabwe-colera/ap_14528512_34080.jpg Un bambino in cerca di acqua


HARARE - Lo Zimbabwe dichiara lo stato di emergenza nazionale. Le autorità non sono più in grado di fronteggiare la nuova ondata di colera che rischia di trasformarsi in una vera ecatombe. Da domenica scorsa manca l'acqua potabile in molte regioni del paese, ma soprattutto nella capitale Harare dove la gente vaga con taniche e bidoni alla ricerca delle pochissime fonti di approvigionamento idrico ancora in funzione.

Il rischio di un contagio, incontrollabile, sta destando forte apprensione tra i dirigenti sanitari del paese. Mancano i soldi per acquistare le sostanze chimiche indispensabili a filtrare le condotte, molte delle quali sono inquinate. C'è bisogno soprattutto di solfato di alluminio che viene fornito dal vicino Sudafrica. Ma la montagna di debiti accumulati ha interrotto le forniture. Le industrie di Johannesburg pretendono il pagamento di almeno una parte dei crediti e da quattro giorni hanno sospeso l'invio del materiale chimico.

Dopo aver resistito due settimane, il governo di Harare ha gettato la spugna e per la prima volta, nella sua storia, ha chiesto aiuto alla comunità internazionale. Il ministro della Sanità, David Parirenyatwa, si è rivolto all'Onu fornendo un quadro agghiacciante sullo stato di salute della popolazione. I casi di colera accertato sono 12.546, il numero dei morti è cresciuto a 563, anche se stando ai calcoli dell'Onu sarebbero almeno 565.

Le autorità sanitarie non sono in grado di assistere gli ammalati perché gli ospedali, di fatto, non funzionano da due mesi. I sanitari, medici e paramedici, non percepiscono gli stipendi e sono in sciopero. Molti non si recano neanche più al lavoro, sanno che non ci sono più soldi. Si agisce su iniziativa volontaria e solo la sensibilità dei sanitari e degli infermieri consente di assistere i 450 pazienti gravi che hanno bisogno di una dialisi quotidiana.
http://oas.repubblica.it/RealMedia/ads/adstream_nx.ads/repubblica.it/nz/esteri/interna/1657451160@TopLeft,Top,TopRight,Left,Right,Middle, Middle1,Position1,Bottom,Bottom1,x40,x41,x42,x43,x 44,x45,x46!Middle (http://oas.repubblica.it/RealMedia/ads/click_nx.ads/repubblica.it/nz/esteri/interna/1657451160@TopLeft,Top,TopRight,Left,Right,Middle, Middle1,Position1,Bottom,Bottom1,x40,x41,x42,x43,x 44,x45,x46!Middle)

Con l'arrivo della stagione delle piogge, la situazione è destinata a peggiorare. La gente è esasperata. Non c'è più lavoro, la disoccupazione ha raggiunto vette dell'80%, le banche hanno finito le riserve e non sono più in grado di soddisfare le richieste dei clienti. Testimoni raccontano di lunghe file davanti agli sportelli per prelevare poche decine di dollari.

L'inflazione, ormai di 231 milioni per cento, ha reso la moneta locale come carta straccia; lo Stato ha dato ordine alle banche di distribuire solo cifre irrosorie e una volta a settimana. "Tra oggi e lunedì", ha dichiarato alla radio il ministro della Sanità, "abbiamo bisogno di 40 milioni di dollari per acquistare i prodotti chimici necessari a depurare l'acqua potabile. Abbiamo nelle casse solo 7 milioni che servono alle necessità principali. Ma ci occorre un altro 1,5 milioni per pagare gli stipendi del personale ospedaliero".

L'Unicef è stata autorizzata a distribuire acqua con camion cisterne. Ma i contagi si estendono in modo incontrollato. Il governo ha esortato la gente a non stringersi più la mano: un primo, basilare atto di igiene che dimostra da solo la gravità della situazione. Il rischio, osserva un dirigente Onu di Harare, è il collasso definitivo del paese e la sua messa in quarantena.

(4 dicembre 2008)
http://www.repubblica.it/2008/12/sezioni/esteri/zimbabwe/zimbabwe-colera/zimbabwe-colera.html