Frescobaldi
04-08-07, 15:33
Da "Cruciverba" di Leonardo Sciascia
PALERMO FELICISSIMA
Licenziando, nei primi del ’44, quel suo straordinario libro su Milano che s’intitola Ascolta il tuo cuore, città, Alberto Savinio scriveva: “Nell’estate del 1943 questo libro era per essere licenziato alle stampe, quando i bombardamenti di agosto mutarono la faccia di Milano. Per effetto di quel terribile mutamento, questo libro – questo ‘ritratto di città’ ha acquistato purtroppo un valore impreveduto. E’ il ritratto di Milano di prima. E’ Milano quale nessuno rivedrà mai più. Tale la sorte fatidica dei ritratti e quella perché molti temono il ritratto”
La Milano di cui Savinio aveva fatto il ritratto, di cui aveva ascoltato il cuore, era quella che dagli anni di Stendhal arrivava ai suoi: una città stendhaliana nonostante i grattacieli, le invadenti sigle commerciali, la Fiera Campionaria; una città in cui a Savinio è possibile incontrare quella civiltà chiusa, cioè “conchiusa e perfetta”, che pure era finita nel 1914, e non incontrare invece il fascismo. Tra il 1940 e il 1943, camminando a Milano per 358 pagine, guardandola e ricordandola (con la propria memoria e quella di Stendhal, di Manzoni e di altri che l’amarono), a Savinio è possibile questo miracolo: di relegare il fascismo, che a Milano era nato, nella più assoluta invisibilità. Mirabile esempio di una indifferenza cui, e non soltanto nei riguardi del fascismo, inutilmente aspiriamo.Ma fermiamoci alla “sorte fatidica dei ritratti”, e cioè alle ragioni per cui “molti temono il ritratto”. Una volta fatto il ritratto, Savinio vuol dire, il soggetto è votato al rischio di mutare o di scomparire: e da ciò il superstizioso timore, da parte di molti, negli anni in cui Savinio scriveva e fino ad oggi in certe immobili plaghe cittadine, a farsi fotografare; poiché farsi fotografare significa dare la possibilità ad altri di possederci, di condurre sulla nostra immagine operazioni suscettibili di trasferirsi magicamente al nostro corpo: e così le fattucchiere mediano vendetta dalla sedotta al seduttore, dal derubato al ladro, dall’oppresso al prepotente. Ma i ritratti di cui intende Savinio non sono riproduzioni di immagini: vanno ben oltre – al cuore, come il suo di Milano. E trasferita in un simile ritratto, fermata, una realtà può mutare o scomparire – e muta, e scompare. Perché bisogna anche dire, al di fuori della dimensione saviniana (che oggi più facilmente si può denominare borgesiana, stante alla moda di cui in cui è venuto Borges e la spessa ignoranza che permane nei riguardi di Savinio), che la sollecitazione al ritratto sempre proviene da una più o meno avvertita coscienza della precarietà.
Palermo, la Palermo in cui era possibile cogliere qualche riverbero o reliquia di quella che Savinio chiama “civiltà chiusa” - di prima del ’14 e fino ai bombardamenti del ’43 - è scomparsa invece senza lo sdoppiamento e la concausa di un ritratto, senza lasciare di sé immagine e cuore in un libro che si possa paragonare a quello di Savinio su Milano. Ci sono soltanto delle fotografie, e non molte per di più. Non uno scrittore che abbia saputo, in un secolo, ascoltare il cuore di questa città; e non un pittore, tra tanti che ce n’erano, che riesca oggi a dirci più del fotografo loro contemporaneo (soltanto Bruno Caruso, oggi, ne cristallizza qualche memoria degli anni trenta). E ci viene un dubbio, che svolgiamo nel ricordo di un aneddoto. Quando il giudice domandò a Caseario, che aveva ucciso Carnet: “Il presidente in quel momento vi guardava, il suo sguardo non fermò la vostra mano omicida?”, Caseario placidamente rispose: “Il presidente non aveva sguardo”. Ecco: Palermo ha avuto un cuore? O, per uscire dalla suggestione saviniana: Palermo è stata mai una città?
Potremmo anche rispondere, senza pensarci due volte: si è troppo creduta una città, perché lo fosse davvero; troppo ha tenuto alto l’orgoglio, l’albagia, il disprezzo verso le altre città del regno (parliamo del regno di Sicilia), verso l’altra ed effettiva capitale che era Napoli, verso i paesi e la campagna, perché veramente ci fosse in lei il cuore, il motore, la funzione di una città. Ancora pochi anni addietro, lo ricordiamo, chi veniva da altra città siciliana, e peggio se da un paese, era “regnicolo” e “piedincretati”: quasi in minorità giuridica, oltre che sociale e culturale; e con la vergognosa gleba attaccata alle suole. Si dirà che similmente alle altre città capitali, Roma come Parigi, distinguevano e trattavano i forestieri, i nuovi arrivati gli appena inurbati; ma a Palermo c’era qualcosa di più e di peggio: la presunzione che la città nutrisse, propriamente nutrisse, il regno; che dalla città venisse elargito sostentamento a tutte le altre città e paesi e campagne, ricevendone i morsi avvelenati dell’ingratitudine, del tradimento. Il fatto che tutte le rendite si concentrassero a Palermo, accendendo il lusso e il capriccio delle duemila famiglie feudatarie, e che nel resto della Sicilia regnasse la miseria più nera, dava al palermitano la presunzione che quella ricchezza andasse da loro agli altri, a permettere una squallida sopravvivenza, e non che fosse invece prodotta da coloro cui appena restava quel tanto che permetteva di sopravvivere. Singolare presunzione, e forse unica: e trovava emblematica raffigurazione nell’immagine di un re, Palermo, al cui seno un serpe, il resto dell’isola, si sveglia per succhiare e avvelenare (raffigurazione che certo viene dalla favola del serpe intirizzito che il viandante raccoglie e si mette al petto; e una volta che si riscalda il serpe lo morde).
Del disprezzo della città capitale, i “regnicoli” si vendicavano non vedendola. Forse non deliberatamente, ché è facile immaginare sfiorassero le stupende cose che c’erano, e ancora ci sono, in preda a preoccupazioni burocratiche o giudiziarie; così come Antonio Baldini, il giovedì santo del 1928, si accosta ai monumenti palermitani senza vederli, in apprensione per la moglie partita in idrovolante.
Ma tant’è che nessun ricordo, a parte il Grand Hotel et des Palmes e la pasticceria Gulì, il “regnicolo” di condizione riportava di Palermo; e mirabile invece di Monreale, al punto da farne, proverbialmente, la meta più importante del venire a Palermo en touriste (non disgiunta allora dal tour l’aspirazione all’istruzione se non alla cultura(. “cu va a Palermu e’un vidi Murriali, sceccu va e sceccu torna” – chi va a Palermo e non vede Monreale asino va e asino torna. E questo fa parte dei nostri ricordi. Più in là nel passato, c’è da credere i siciliani non avessero lo stesso atteggiamento nei riguardi della città capitale, e che vi arrivassero guardinghi e diffidenti, non disposti a distrarsi nell’ammirazione, e anzi studiatamente comportandosi con indifferenza di fronte ad ogni cosa bella e per loro nuova; mentre lo straniero, il continentale che si avventurava in un viaggio in Sicilia, si sentiva come in obbligo di vedere anche Palermo, e la vedeva resistendo alla tentazione dei dintorni: sempre più forte di quella della città coi suoi monumenti e le sue istituzioni. E assolto l’obbligo, più in fretta che si poteva, eccolo infatti a trascorrere le sue ore nei giardini periferici, nelle ville, nei paesi vicini. Si sente, nei viaggiatori continentali che hanno lasciato resoconti o diari del loro tour siciliano, che non fosse stato per l’obbligo del reportage (avanti lettera) o comunque della completezza d’informazione sul paese visitato, avrebbero fissato del loro soggiorno a Palermo soltanto delle sensazioni…(continua)
PALERMO FELICISSIMA
Licenziando, nei primi del ’44, quel suo straordinario libro su Milano che s’intitola Ascolta il tuo cuore, città, Alberto Savinio scriveva: “Nell’estate del 1943 questo libro era per essere licenziato alle stampe, quando i bombardamenti di agosto mutarono la faccia di Milano. Per effetto di quel terribile mutamento, questo libro – questo ‘ritratto di città’ ha acquistato purtroppo un valore impreveduto. E’ il ritratto di Milano di prima. E’ Milano quale nessuno rivedrà mai più. Tale la sorte fatidica dei ritratti e quella perché molti temono il ritratto”
La Milano di cui Savinio aveva fatto il ritratto, di cui aveva ascoltato il cuore, era quella che dagli anni di Stendhal arrivava ai suoi: una città stendhaliana nonostante i grattacieli, le invadenti sigle commerciali, la Fiera Campionaria; una città in cui a Savinio è possibile incontrare quella civiltà chiusa, cioè “conchiusa e perfetta”, che pure era finita nel 1914, e non incontrare invece il fascismo. Tra il 1940 e il 1943, camminando a Milano per 358 pagine, guardandola e ricordandola (con la propria memoria e quella di Stendhal, di Manzoni e di altri che l’amarono), a Savinio è possibile questo miracolo: di relegare il fascismo, che a Milano era nato, nella più assoluta invisibilità. Mirabile esempio di una indifferenza cui, e non soltanto nei riguardi del fascismo, inutilmente aspiriamo.Ma fermiamoci alla “sorte fatidica dei ritratti”, e cioè alle ragioni per cui “molti temono il ritratto”. Una volta fatto il ritratto, Savinio vuol dire, il soggetto è votato al rischio di mutare o di scomparire: e da ciò il superstizioso timore, da parte di molti, negli anni in cui Savinio scriveva e fino ad oggi in certe immobili plaghe cittadine, a farsi fotografare; poiché farsi fotografare significa dare la possibilità ad altri di possederci, di condurre sulla nostra immagine operazioni suscettibili di trasferirsi magicamente al nostro corpo: e così le fattucchiere mediano vendetta dalla sedotta al seduttore, dal derubato al ladro, dall’oppresso al prepotente. Ma i ritratti di cui intende Savinio non sono riproduzioni di immagini: vanno ben oltre – al cuore, come il suo di Milano. E trasferita in un simile ritratto, fermata, una realtà può mutare o scomparire – e muta, e scompare. Perché bisogna anche dire, al di fuori della dimensione saviniana (che oggi più facilmente si può denominare borgesiana, stante alla moda di cui in cui è venuto Borges e la spessa ignoranza che permane nei riguardi di Savinio), che la sollecitazione al ritratto sempre proviene da una più o meno avvertita coscienza della precarietà.
Palermo, la Palermo in cui era possibile cogliere qualche riverbero o reliquia di quella che Savinio chiama “civiltà chiusa” - di prima del ’14 e fino ai bombardamenti del ’43 - è scomparsa invece senza lo sdoppiamento e la concausa di un ritratto, senza lasciare di sé immagine e cuore in un libro che si possa paragonare a quello di Savinio su Milano. Ci sono soltanto delle fotografie, e non molte per di più. Non uno scrittore che abbia saputo, in un secolo, ascoltare il cuore di questa città; e non un pittore, tra tanti che ce n’erano, che riesca oggi a dirci più del fotografo loro contemporaneo (soltanto Bruno Caruso, oggi, ne cristallizza qualche memoria degli anni trenta). E ci viene un dubbio, che svolgiamo nel ricordo di un aneddoto. Quando il giudice domandò a Caseario, che aveva ucciso Carnet: “Il presidente in quel momento vi guardava, il suo sguardo non fermò la vostra mano omicida?”, Caseario placidamente rispose: “Il presidente non aveva sguardo”. Ecco: Palermo ha avuto un cuore? O, per uscire dalla suggestione saviniana: Palermo è stata mai una città?
Potremmo anche rispondere, senza pensarci due volte: si è troppo creduta una città, perché lo fosse davvero; troppo ha tenuto alto l’orgoglio, l’albagia, il disprezzo verso le altre città del regno (parliamo del regno di Sicilia), verso l’altra ed effettiva capitale che era Napoli, verso i paesi e la campagna, perché veramente ci fosse in lei il cuore, il motore, la funzione di una città. Ancora pochi anni addietro, lo ricordiamo, chi veniva da altra città siciliana, e peggio se da un paese, era “regnicolo” e “piedincretati”: quasi in minorità giuridica, oltre che sociale e culturale; e con la vergognosa gleba attaccata alle suole. Si dirà che similmente alle altre città capitali, Roma come Parigi, distinguevano e trattavano i forestieri, i nuovi arrivati gli appena inurbati; ma a Palermo c’era qualcosa di più e di peggio: la presunzione che la città nutrisse, propriamente nutrisse, il regno; che dalla città venisse elargito sostentamento a tutte le altre città e paesi e campagne, ricevendone i morsi avvelenati dell’ingratitudine, del tradimento. Il fatto che tutte le rendite si concentrassero a Palermo, accendendo il lusso e il capriccio delle duemila famiglie feudatarie, e che nel resto della Sicilia regnasse la miseria più nera, dava al palermitano la presunzione che quella ricchezza andasse da loro agli altri, a permettere una squallida sopravvivenza, e non che fosse invece prodotta da coloro cui appena restava quel tanto che permetteva di sopravvivere. Singolare presunzione, e forse unica: e trovava emblematica raffigurazione nell’immagine di un re, Palermo, al cui seno un serpe, il resto dell’isola, si sveglia per succhiare e avvelenare (raffigurazione che certo viene dalla favola del serpe intirizzito che il viandante raccoglie e si mette al petto; e una volta che si riscalda il serpe lo morde).
Del disprezzo della città capitale, i “regnicoli” si vendicavano non vedendola. Forse non deliberatamente, ché è facile immaginare sfiorassero le stupende cose che c’erano, e ancora ci sono, in preda a preoccupazioni burocratiche o giudiziarie; così come Antonio Baldini, il giovedì santo del 1928, si accosta ai monumenti palermitani senza vederli, in apprensione per la moglie partita in idrovolante.
Ma tant’è che nessun ricordo, a parte il Grand Hotel et des Palmes e la pasticceria Gulì, il “regnicolo” di condizione riportava di Palermo; e mirabile invece di Monreale, al punto da farne, proverbialmente, la meta più importante del venire a Palermo en touriste (non disgiunta allora dal tour l’aspirazione all’istruzione se non alla cultura(. “cu va a Palermu e’un vidi Murriali, sceccu va e sceccu torna” – chi va a Palermo e non vede Monreale asino va e asino torna. E questo fa parte dei nostri ricordi. Più in là nel passato, c’è da credere i siciliani non avessero lo stesso atteggiamento nei riguardi della città capitale, e che vi arrivassero guardinghi e diffidenti, non disposti a distrarsi nell’ammirazione, e anzi studiatamente comportandosi con indifferenza di fronte ad ogni cosa bella e per loro nuova; mentre lo straniero, il continentale che si avventurava in un viaggio in Sicilia, si sentiva come in obbligo di vedere anche Palermo, e la vedeva resistendo alla tentazione dei dintorni: sempre più forte di quella della città coi suoi monumenti e le sue istituzioni. E assolto l’obbligo, più in fretta che si poteva, eccolo infatti a trascorrere le sue ore nei giardini periferici, nelle ville, nei paesi vicini. Si sente, nei viaggiatori continentali che hanno lasciato resoconti o diari del loro tour siciliano, che non fosse stato per l’obbligo del reportage (avanti lettera) o comunque della completezza d’informazione sul paese visitato, avrebbero fissato del loro soggiorno a Palermo soltanto delle sensazioni…(continua)