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JohnPollock
11-11-07, 19:46
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JohnPollock
22-01-08, 13:56
All'interno della storia del pensiero economico, la Scuola austriaca occupa una posizione alquanto particolare, specie per coloro che hanno a cuore le ragioni della società di mercato. Grazie alla sua teoria "soggettiva" del valore e alla forte attenzione che essa ha sempre mostrato per le questioni metodologiche, tale corrente di pensiero (inaugurata da Carl Menger nella seconda metà dell'Ottocento e poi variamente rinnovata da studiosi come Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e Murray N. Rothbard) ha infatti investito molte altre discipline sociali e ha così delineato una riflessione assai articolata sulla società libera. Per questo motivo, la tradizione mengeriana oggi annovera non solo economisti, ma anche storici, scienziati politici, filosofi del diritto e della politica.

Al fine di aiutare quanti volessero avvicinare tali idee, l'IBL ha deciso di pubblicare nel proprio sito - con cadenza settimanale - una serie di quindici lezioni redatte da Pietro Monsurrò ("Un'introduzione all'economia austriaca"), le quali offriranno gli elementi essenziali del pensiero austriaco (su scambio, moneta, valore, monopolio, e via dicendo) e darà anche taluni suggerimenti bibliografici per ulteriori approfondimenti.

Questi testi non hanno alcuna pretesa di completezza, né possono certo esaurire in breve spazio temi di notevole complessità e questioni da tempo molto controverse, ma egualmente sono in condizione di offrire un primo contatto con un'impostazione teorica e metodologica che a lungo è stata marginalizzata all'interno degli studi accademici (specie nei decenni dominati dalle lezioni di Keynes o Sraffa) e che solo da pochi anni sta tornando a ricevere la giusta attenzione.

http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?title=yes&codice=0000002055

Ringrazio l'amico -edo-, Liberatarian di ferro, per il suggerimento dattomi.

JohnPollock
22-01-08, 13:59
Capitolo 1

La storia della Scuola austriaca di economia è indissolubilmente legata a quella della rivoluzione marginalista, un radicale avanzamento del pensiero economico avvenuto all’inizio degli anni Settanta dell’Ottocento: tre economisti, l’austriaco Carl Menger, l’inglese William Stanley Jevons, e il francese Léon Walras, formularono un concetto fondamentale, il principio marginale, procedendo alla completa ricostruzione dell’intero edificio dell’economia teorica.

Questa rivoluzione fu portata avanti secondo linee differenti dai tre autori: la Scuola austriaca nasce dall’opera di Menger, mentre l’approccio che ha avuto più successo è stato quello di Walras, da cui discende la teoria economica “accademica”, che chiameremo, un po’ impropriamente, “neoclassica”. Praticamente tutta l’economia moderna è marginalista, ma le differenze tra i due approcci, quello di Menger e quello di Walras, sono tuttora rilevanti.

Il termine “austriaco”, originariamente, fu coniato dagli “economisti” della giovane scuola storica tedesca di economia, con il fine di denigrare Menger e, successivamente, i suoi primi discepoli (come Eugen von Böhm-Bawerk). Ma quando, negli anni Trenta e Quaranta del ventesimo secolo, gli esponenti più importanti della Scuola austriaca di allora, Ludwig von Mises e Friedrich August von Hayek, emigrarono, rispettivamente, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, il legame “geografico” con l’Austria venne a mancare, tant’è che, ormai da diversi decenni, gran parte degli economisti della Scuola austriaca, a partire da Murray Newton Rothbard (il più importante allievo americano di Mises), non sono più di nazionalità austriaca.

Carl Menger (1840-1921)
Carl Menger è stato il fondatore della Scuola austriaca. I suoi contributi spaziano dalla teoria del valore a quella dei prezzi e della produzione, estendendosi anche alla teoria delle istituzioni e alla metodologia delle scienze sociali.
La sua prima importante opera, Principi fondamentali di economia, del 1871, contiene di fatto gran parte dei concetti di base della Scuola austriaca, successivamente approfonditi e integrati dagli autori successivi.

Menger chiarì che lo scopo della teoria economica era lo studio dei beni “scarsi”, i beni cioè che servono al perseguimento degli obiettivi degli uomini, ma che non sono disponibili in quantità sufficiente per realizzarli tutti. Di conseguenza, l’essenza dell’economia è l’azione in condizioni di scarsità, e quindi ogni individuo agisce economicamente quando economizza i mezzi in vista dei suoi fini.

Da questo principio Menger derivò l’intera teoria dei prezzi, operando un ribaltamento concettuale radicale rispetto alle precedenti teorie, secondo cui il costo di ogni merce dipendeva dalle spese monetarie necessarie a completarne la produzione. Il tutto era una pseudo-spiegazione, in quanto non era chiaro da cosa derivassero i costi di produzione stessi. Menger ribaltò la faccenda, dividendo i beni in “ordini”: i beni del prim’ordine sono quelli che soddisfano un bisogno immediato, quelli del secondo ordine sono quelli necessari a produrre i beni del prim’ordine, eccetera. I beni del prim’ordine sono il “fine” dell’economia, in quanto i beni di ordine superiore rappresentano solo mezzi per raggiungere lo scopo, il conseguimento del fine. Ne deriva che il valore di un mezzo di produzione dipende dal contributo che può effettivamente dare alla produzione dei beni del prim’ordine, e non viceversa.

Viene quindi a ribaltarsi anche il rapporto tra fattori soggettivi e fattori oggettivi: sono la valutazione del fine, e la valutazione dell’adeguatezza del mezzo, due elementi “soggettivi”, perché individuali, che determinano i costi, e non sono gli immaginari costi “oggettivi” a determinare i prezzi. Il prezzo che i consumatori sono disposti a pagare per consumare oggetti nella cui produzione è l’acciaio determinano il valore delle miniere di ferro.

Sempre dal principio del valore soggettivo si riesce a spiegare il perché dello scambio. Se si ritenesse, infatti, che il valore sia una caratteristica della merce, e non una valutazione dell’individuo che quella merce domanda o offre, lo scambio non avrebbe nulla da contribuire al valore: solo la produzione sarebbe un atto significativo per l’economia. Ma non è vero: se un individuo ha due fette di pane, e un altro ha due fette di prosciutto, scambiando una fetta di pane con quella di prosciutto possono ottenere entrambi un panino intero: il risultato è vantaggioso per entrambi. Ma questo perché il valore è soggettivo: se fosse oggettivo, insito nella merce, lo scambio non potrebbe influenzare il valore. Se lo scambio dovesse avvenire solo tra merci di ugual valore (altrimenti, chi darebbe via un qualcosa per ottenerne un’altra di valore inferiore?), a cosa servirebbe?

Tra gli altri contributi fondamentali, di Menger, va ricordata la teoria dell’origine della moneta, e, più in generale, delle istituzioni sorte per via evolutiva. La teoria di Menger parte da una situazione di baratto, inefficiente e poco produttiva, e mostra come alcune merci cominciano ad essere usate come pseudo-monete, fino alla creazione di un sistema monetario completo… opera dell’azione umana, ma non del progetto umano. Tale struttura di spiegazione può essere estesa per spiegare anche l’origine del linguaggio, del diritto e di molte altre istituzioni umane.

L’altra opera fondamentale di Menger è Sul metodo delle scienze sociali, del 1883. In quest’opera, Menger difende la teorizzazione economica contro gli attacchi della giovane scuola storica tedesca di economia, che voleva studiare l’economia basandosi soltanto su fatti storici, senza alcuna attenzione per la teoria e l’astrazione. L’essenza del problema deriva dal fatto che l’osservazione di un fenomeno economico come la moneta richiede già di per sé una teoria: nella storia si è usata come moneta il sale, l’oro, addirittura le sigarette… i concetti sottostanti al fenomeno della moneta non derivano dall’osservazione (oro e sale hanno poco in comune), ma dalla riflessione teorica. La necessità della teoria e la complessa relazione tra teoria e storia rappresentano un tema fondamentale per tutti gli austriaci, ed è uno dei fattori caratterizzanti di questa Scuola.

Eugen von Böhm-Bawerk (1851-1914)
Böhm-Bawerk fu il più noto allievo diretto di Menger, ed è celebre per la sua opera Capitale e interesse (1884), soprattutto per il secondo libro, “La teoria positiva del capitale”, in cui espone la sua teoria del valore, dei prezzi, del capitale e del mercato. È anche noto per opere minori, come la critica puntuale del sistema economico marxista, esposta in La conclusione del sistema marxiano.

Il problema maggiore affrontato da Böhm-Bawerk è la spiegazione del fenomeno dell’interesse; egli introdusse il concetto di preferenza temporale, cioè la preferenza per le merci presenti rispetto a quelle future. Da questa preferenza, chi fornisce oggi strumenti di produzione (e quindi si astiene dal consumare subito) è disposto a farlo perché in futuro ritiene che avrà a disposizione una quantità di merci superiore a quella che si è astenuto oggi dal consumare. È infatti difficile immaginare che le persone preferiscano dodici uova domani piuttosto che oggi, mentre è possibile che siano disposte a sacrificarne dodici oggi per averne tredici domani.

L’opera di Böhm-Bawerk fornì le basi per la teoria di Knut Wicksell dell’interesse “naturale”. Le idee di Wicksell, un economista svedese, furono poi riportate nella tradizione austriaca da Ludwig von Mises, consentendo finalmente di integrare teoria monetaria e teoria del capitale.

Una delle critiche più frequenti a Böhm-Bawerk riguarda la nozione di “tempo di produzione”. Böhm-Bawerk, ritenendo l’interesse il “prezzo del tempo”, e la dotazione di capitale di una società come una sorta di “tempo totale immagazzinato” dalle generazioni tramite gli investimenti, ritenne di poter descrivere la struttura della produzione tramite un “valor medio” del tempo impiegato nella produzione. La critica successiva ha poi smontato le basi teoriche di questa visione semplificata, che però è ancora molto utile come prima approssimazione: Böhm-Bawerk è infatti considerabile il primo “macroeconomista” della Scuola austriaca, aprendo una linea di pensiero che, attraverso Friedrich August von Hayek, è arrivata fino ai nostri giorni con gli studi di Roger Garrison (un altro che, come si evince dal nome, di austriaco ha le idee di Menger, ma non certo la nazionalità).

Ludwig von Mises (1881-1973)
Ludwig von Mises fu allievo di Böhm-Bawerk, ed è una figura centrale nell’evoluzione delle teorie della Scuola austriaca, per via dei suoi innumerevoli contributi in vari ambiti del pensiero economico, come anche politico ed epistemologico.

La prima importante opera di Mises fu, nel 1912, Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione. In quest’opera, Mises introdusse la teoria della moneta nella teoria del capitale di Böhm-Bawerk, e risolse il problema del “Circolo austriaco”, una tautologia che aveva impedito ai suoi predecessori di dare una spiegazione di come si determina il valore della moneta: il “teorema di regressione” di Mises sistematizza logicamente la teoria mengeriana dell’origine della moneta. Nella stessa opera, Mises elabora le idee di alcuni economisti inglesi dell’Ottocento, tra cui David Ricardo, sulle cause del ciclo economico, interpretandole alla luce della teoria austriaca del capitale, elaborando quindi per la prima volta ciò che diverrà poi la “teoria austriaca del ciclo economico”, tuttora uno degli aspetti più caratteristici delle teorie austriache.

Nel 1920, con il suo saggio “Il calcolo economico in un’economia socialista”, Mises dimostrò l’impossibilità di creare un sistema dei prezzi in assenza di un libero mercato dei fattori di produzione, e quindi l’impossibilità di far funzionare un’economia dove il capitale è nelle mani dello stato (socialismo: proprietà pubblica dei beni di produzione). Dato il ruolo fondamentale del calcolo economico, e quindi del sistema dei prezzi, nella coordinazione del sistema di mercato, Mises dimostrò che il socialismo era impossibile (più precisamente: era impossibilitato a gestire un’economia complessa, come quella attuale, e quindi a produrre beni e servizi per le masse).

Mises tornò su questi argomenti svariate volte, fino a sistematizzare l’intero suo edificio teorico, incluse le sue idee politiche, nel monumentale L’azione umana, del 1949, che di fatto include tutti i suoi contributi economici, politici e metodologici.

In opere come I problemi epistemologici dell’economia (1933) e Teoria e storia (1957), Mises elaborò le idee metodologiche di Menger, ponendo le basi per una metodologia generale individualista e soggettivista per le scienze sociali, di cui Mises sviluppò soprattutto la parte economica. Il fatto che suoi seguaci, come l’italiano Bruno Leoni, siano riusciti ad estendere le sue intuizioni metodologiche anche a campi come la teoria del diritto e dello Stato mostra comunque la generalità dei suoi assunti.

Friedrich August von Hayek (1899-1992)
Hayek è il più famoso degli economisti austriaci, perché nel 1974 vinse il Premio Nobel per l’Economia: a tutt’oggi è l’unico esponente della Scuola ad averlo vinto. I suoi contributi maggiori sono nella teoria del capitale, del ciclo, del calcolo economico, del processo di mercato e dell’uso della conoscenza nella società.

Come Mises, è famoso anche, se non soprattutto, per i suoi studi di filosofia e teoria politica. Concentrandoci però sull’aspetto economico, le opere più note sono Prezzi e produzione (1931), sulla teoria del capitale e del ciclo economico, e Individualism and Economic Order (1947) che contiene molti saggi sul calcolo economico, il processo di mercato, il ruolo della concorrenza e l’uso dell’informazione.

Hayek è noto soprattutto per i suoi contributi alla comprensione del processo di mercato, un’altra idea tipicamente austriaca. In saggi come “The Use of Knowledge in Society” e “Competition as a Discovery Procedure”, analizzò il ruolo che le informazioni, disperse tra migliaia e milioni di attori, e “incanalate” dal processo di mercato, svolgono nella coordinazione della produzione nelle economie avanzate. L’idea del mercato come un processo di scoperta, anziché come un equilibrio economico generale, fa parte del patrimonio teorico della Scuola austriaca, come si può vedere in opere come Concorrenza e imprenditorialità di Kirzner, basate sulle idee di Mises e Hayek sull’imprenditorialità e il processo di mercato.

In Prezzi e produzione introdusse anche i cosiddetti “triangoli di Hayek”, che sono una descrizione semplificata della produzione grazie ai quali si mostra come il tempo sia necessario a trasformare i beni di produzione in beni di consumo. Il ruolo del tempo nella produzione è uno degli argomenti in cui maggiore è la distanza della Scuola austriaca dall’economia ortodossa.

Passando senza complessi, come Mises stesso, dalla teoria economica alla filosofia politica, Hayek sviluppò le teorie evoluzioniste sulla nascita delle istituzioni che Menger aveva introdotto, e che i suoi successori avevano tralasciato. Insieme a Bruno Leoni, è stato, tra gli austriaci, quello che più si è interessato ai temi della nascita e dell’evoluzione del diritto.

La discussione sulle effettive differenze tra Mises e Hayek è ancora aperta: per alcuni i due autori sono molto simili, e si differenziano per l’enfasi posta su determinati argomenti; per altri la distanza è invece radicale. La mia opinione è che Hayek abbia sviluppato le idee di Mises, contribuendo quindi ad alcuni temi che Mises aveva trascurato, tralasciato, o comunque non approfondito. Gli scritti di Hayek sulla concorrenza, l’informazione e la struttura del capitale sono fondamentali.

Murray Newton Rothbard (1926-1995)
Come Mises e Hayek, anche Rothbard è noto sia come pensatore politico che come teorico dell’economia (e anche come storico economico; si veda in particolare un volume come La grande depressione, del 1963, sulla storia economica della crisi del ’29). Probabilmente Rothbard è più noto come pensatore politico che come economista, essendo uno dei padri del libertarismo, ma anche come economista i suoi contributi sono numerosi e interessanti.

Le sue idee di teoria economica sono quasi tutte racchiuse in Man, Economy, and State, del 1962. In quest’opera Rothbard sistematizza e rielabora l’intero edificio economico austriaco, introducendo diverse innovazioni rispetto ad un’opera “gemella” come L’azione umana di Mises, del 1949.

Rothbard introdusse nel corpus teorico della Scuola austriaca la teoria dei costi di transazione di Coase, ottenendo quindi una teoria delle istituzioni (nella fattispecie, delle imprese in un libero mercato) che integrava le tematiche (misesiane) del calcolo economico e quelle (coasiane) dei costi di transazione e della natura dell’impresa. Rothbard estese tale tematica fino ad applicare la teoria del calcolo economico all’organizzazione industriale, alla critica dell’economia delle cooperative, e al tema della dimensione ideale delle imprese, e quindi del monopolio, ponendo le basi per una teoria austriaca dell’impresa che ancora oggi è un’area di ricerca molto attiva.

Per quanto riguarda i monopoli, la sua teoria differiva radicalmente da quella di Mises, che accettava l’idea che i monopoli imponessero un danno ai consumatori e fossero un difetto dell’economia di mercato. Per Rothbard, non è possibile dimostrare che un prezzo sia monopolistico, in quanto non esiste un mercato concorrenziale con cui confrontare tale prezzo con un eventuale “prezzo concorrenziale”. Ad esempio, come mostrato da Pascal Salin in “Cartels as efficient production structures” (tradotta in italiano in appendice al volume La concorrenza), una struttura del mercato apparentemente poco competitiva in quanto caratterizzata da una certa concentrazione può essere necessaria per offrire determinati beni e servizi ai consumatori. Del resto, se in un mercato nessuna impresa entra, è perché nessuna ritiene che ne valga la pena… come succede in tutti i mercati.

Tra concorrenza e monopolio ci sono differenze di grado e non c’è nessun modo per rendere la situazione di mercato migliore senza danneggiare alcuno. La teoria del mercato come processo rende futili i tentativi di giudicarlo con i criteri statici dell’economia neoclassica.




Pubblicato il 20/01/2008

JohnPollock
28-01-08, 02:59
Capitolo 2 - La teoria soggettiva del valore

di Pietro Monsurrò


La teoria del valore soggettivo è la base delle teorie economiche della Scuola austriaca. Il punto di partenza è l’individuo: soggetto pensante, dotato di conoscenze, che agisce in vista di un fine. L’azione umana è comportamento dotato di senso, comprensibile in quanto avente uno scopo, ed è il mattone fondamentale dell’intera realtà sociale. La generalità di questo approccio è tale da consentire l’applicazione del metodo austriaco a qualunque sfera delle relazioni sociali, anche al di fuori dell’economia: Bruno Leoni, ad esempio, la usò per indagare la natura e le forme del diritto e del potere, e Menger per spiegare l’origine di una varietà di istituzioni, quali il diritto e il linguaggio.

Prasseologia e catallassi
Mises introdusse due termini per indicare lo studio sistematico della logica dell’azione umana: prasseologia (da praxis, azione, e logos, scienza) e catallassi (da catallattein, che significa “scambio”, ma anche “rendere da nemico amico” e “ammettere nella comunità”). La prasseologia è lo studio della logica generale dell’azione individuale (la teoria del valore e dello scambio). La catallassi invece applica i principi della prasseologia allo studio di una classe più limitata di fenomeni, come la moneta, i prestiti, il reddito dei fattori (interesse, salario, rendita), il ciclo economico.

La specificità del campo di studio non deve far pensare che lo stesso metodo non possa essere applicato ad altre aree di indagine. L’azione umana è sempre azione economica, diceva Mises: ogni volta che un individuo sceglie, affronta dei vincoli, e quindi deve “economizzare” le risorse: che siano l’influenza politica, il denaro, gli eserciti, o il tempo da dedicare allo studio, la scarsità è onnipresente.

L’azione umana e l’individualismo metodologico
L’individuo è per la Scuola austriaca essenzialmente “homo agens”: un individuo che agisce in vista di determinati fini, impiega certi mezzi, e decide in base alle conoscenze che ha, o ritiene di avere, riguardo l’ambiente in cui opera.
L’individuo agisce perché cerca di ottenere un miglioramento della sua situazione: ritiene che, agendo, può realizzare determinati fini che reputa importanti. Per farlo, deve fare i conti con la scarsità dei mezzi: si può apprezzare sia il mare che la montagna, ma non si può stare contemporaneamente in entrambe i luoghi. L’individuo deve scegliere, e scegliere significa selezionare i fini da realizzare, e i mezzi da adottare per conseguirli.

La cosa può apparire ovvia. Eppure, nelle scienze sociali esistono altre scuole di pensiero: il collettivismo metodologico, ad esempio, non fa agire gli individui, ma classi, nazioni o altre entità astratte. Ma i collettivi non sono in grado di darsi un significato e un obiettivo, perché “solo l’individuo pensa, solo l’individuo ragiona, solo l’individuo agisce” (Mises, Socialismo): è l’individuo che dà senso alla realtà sociale, e solo il riferimento all’azione individuale ne consente la comprensione.

Altre tradizioni del pensiero sociale affermano invece che, essendo i fini non conoscibili, in quanto i processi mentali non possono essere osservati, le scienze sociali, se desiderano essere scientifiche, devono fare a meno di riferirsi agli stati di coscienza: questa dottrina si chiama comportamentismo. La prasseologia è l’esatto opposto: è il processo mentale sottostante che dà senso all’azione umana, anche quando non lo conosciamo.

Conoscenze e intelligenza
Se non fosse per l’irritante uso dei formalismi matematici, qualsiasi testo di microeconomia neoclassica dirà più o meno le stesse cose che abbiamo detto finora. Ma nel ruolo che i processi mentali giocano nella teoria economica la Scuola austriaca si differenzia radicalmente dalla corrente neoclassica.
Per i neoclassici questi fattori non giocano alcun ruolo nell’economia teorica, perché non è possibile descriverli matematicamente: nella teoria dell’equilibrio generale, tutti gli individui sono onniscienti e tutti gli individui devono solo risolvere problemi di ottimizzazione, mentre, nella teoria dei giochi, seppure più complessa e quindi più realistica, è ancora una volta il meccanismo e non la creatività e l’intelligenza a farla da padrone.

La scelta austriaca è più realistica ma più problematica: i processi mentali non possono essere trasformati in sistemi di equazioni, perché ciò che l’individuo conosce, pensa, crede e vuole, e come prende decisioni, non è in genere noto. Di conseguenza, non è possibile creare una teoria generale dell’azione umana in grado di predire le azioni individuali: ma l’azione segue una logica, quindi è possibile comprendere qualcosa sull’azione umana senza riferimento alle azioni particolari di un individuo. Ad esempio, è possibile capire come funziona il mercato senza bisogno di sapere cosa c’è nella testa di ogni singolo consumatore e produttore.

Ogni azione individuale ha determinate caratteristiche formali: un fine, un processo decisionale che impiega conoscenze, teorie ed informazioni, una mente più o meno creativa e intelligente che elabora tutti questi fattori, e un insieme di mezzi impiegabili per raggiungere l’obiettivo. Conoscere tutto ciò è molto più di non sapere nulla, ma molto meno di conoscere i dettagli sui fini, i mezzi, le teorie, le informazioni e le decisioni di ognuno.

Il valore dei beni
Cosa dà valore ad un oggetto? Il suo essere in grado di realizzare un fine, o, per la precisione, la convinzione, di un individuo, che l’oggetto sia utile al suo perseguimento. Una banconota ha valore perché può essere impiegata per comprare merci: in un’isola deserta non avrebbe alcun valore, perché non potrebbe avere alcuna funzione. L’acqua ha molto valore nel deserto, ma molto meno in una città servita da numerosi acquedotti.
Il valore è frutto di una valutazione soggettiva dell’adeguatezza del mezzo alla luce del fine perseguito. La moneta ha valore solo se esiste un mercato; una sigaretta ha valore solo per chi fuma, e solo per chi ha un accendino; un’auto ha più valore se si abita in un luogo isolato, e se non si hanno altri mezzi di trasporto.

Tutti questi esempi mostrano che il valore è un qualcosa di attributo alle “cose” viste come mezzi, cioè una valutazione soggettiva. Il fatto che sia soggettivo non significa che sia arbitrario: l’ambiente naturale ovviamente vincola il raggio d’azione dell’individuo. Ma è sempre quest’ultimo che valuta, che lega mezzi e fini, che elabora teorie e che escogita soluzioni. L’economia non ha a che fare con la descrizione dell’ambiente circostante, altrimenti sarebbe una branca della geologia, della biologia, o dell’ingegneria: l’economia si occupa di capire come le azioni individuali si aggregano per formare, come risultato, gli scambi, i mercati, i cicli economici, eccetera.

Il valore non è quantificabile: neanche la moneta è misura di valore, come si evince dal precedente esempio dell’inutilità della banconota in un’isola deserta. Non ha senso chiedersi di quanto si preferisce una gita al mare o una in montagna: scegliere la prima rivela che si preferisce, in quel contesto, il mare alla montagna, ma non rivela quanto la si preferisce, perché non esiste un “quanto” di preferenze: il valore è ordinale. La scala di preferenze non è misurabile: non ha senso dire che si apprezza la montagna due volte meno del mare, ha invece senso dire che nella scala di preferenze viene prima il mare e poi la montagna.

Le preferenze, le scelte, i processi mentali di due persone diverse non possono essere confrontati: non ha alcun senso chiedersi se una persona preferisca il mare più di quanto un’altra preferisca la montagna. Possiamo ritenere, psicologicamente, che una persona che conosciamo apprezzerà un certo regalo: ma questo processo di empatia, un giudizio euristico, che tutti gli uomini effettuano tutti i giorni, non ha basi nella teoria: è un giudizio di valore. Infatti è l’individuo che compra il regalo, e non quello che lo riceve, che valuta, anche se il regalo è per il secondo.

Tempo e rischio
L’azione umana avviene sempre nel tempo: l’individuo agisce per il futuro, non per il passato. E i risultati dell’azione umana non sono mai certi: l’azione è sempre rischiosa (anche l’inazione, trattandosi sempre di una scelta).

Ogni bene richiede tempo per essere prodotto, ed ogni bene sarà utile solo per un tempo determinato. Nel momento in cui si comincia a produrre, in ogni momento in cui si decide di continuare la produzione, e nel momento in cui si consuma ciò che si è prodotto, il rischio che le proprie aspettative verranno deluse è sempre presente. Tempo di produzione e tempo di fruizione sono legati indissolubilmente al rischio: un errore che si può correggere domani è meno grave di un errore i cui effetti saranno presenti per dieci anni.

Eppure, tempo e rischio non vanno confusi: anche se si conoscessero con certezza i risultati di un’azione, il fatto di dover attendere per raggiungere il risultato implica comunque un costo, non è quindi soltanto il rischio a rendere l’attesa costosa. Si parla in questo caso di preferenze temporali: è sempre meglio realizzare i propri obiettivi prima che dopo; è meglio un uovo oggi che un uovo domani.
Per preferire un uovo oggi a qualcosa domani serve qualcosa in più di un altro uovo: magari due uova, o una gallina. Una bassa preferenza temporale indica che il presente vale poco più del futuro; un’elevata preferenza temporale indica, al contrario, che il futuro vale molto meno del presente. Le preferenze temporali giocano un ruolo fondamentale nell’economia perché sono il principale fattore dietro il fenomeno dell’interesse sul capitale.

Costi soggettivi
Come il valore è soggettivo, anche i costi lo sono: se decido di andare al mare, il fatto di aver dovuto rinunciare alla montagna rappresenta un costo. Il valore della vacanza al mare è superiore a quello di quella in montagna, ma scegliere di andare al mare comporta comunque il costo-opportunità (inteso come opportunità perduta) di non poter andare in montagna.

Una persona dotata del dono dell’ubiquità potrebbe fare entrambe le cose assieme: non sarebbe costretto a scegliere tra mare e montagna, perché la sua presenza in un luogo non impedirebbe la sua contemporanea presenza in un altro. In questo caso, l’andare al mare non implica il costo-opportunità di non potere andare in montagna.

Se con una moneta possiamo comprare un tramezzino oppure un sandwich, la scelta del primo implica il costo di non poter avere il secondo. Il costo, come il valore, è soggettivo: il costo è il valore dell’alternativa preferita tra quelle che sono state scartate. Tutti i costi sono costi-opportunità: se voglio il tramezzino, devo dar via il sandwich, quindi il tramezzino mi costa un sandwich.

Il principio marginale
Supponiamo di stare in un deserto e di aver sete: vediamo in lontananza un qualcosa che brilla, e ci avviciniamo sperando che di trovare un’oasi. Ci avviciniamo, ma, con grande disappunto, scopriamo che si tratta solo di una miniera di diamanti.
Supponiamo ora di passeggiare in una città, e di vedere in lontananza un qualcosa che brilla. Ci avviciniamo sperando che sia un diamante, ma, ancora una volta con grande disappunto, scopriamo trattarsi solo di un bicchiere d’acqua.

C’è qualcosa di strano in questi due scenari, oltre al fatto che l’individuo in questione ha problemi di vista? No. Nella prima situazione, il diamante non ha alcuna utilità… mentre l’acqua è una questione di vita o di morte; in questo caso, l’individuo ha tutte le ragioni di preferire una pozzanghera ad un’intera miniera di diamanti. Ma, nella seconda situazione, l’acqua diventa un bene privo di valore o quasi: ce n’è tanta, e non c’è bisogno di dannarsi per ottenerla, visto che in genere basta aprire il rubinetto per averne a volontà. D’altra parte, un grosso diamante, nel secondo caso, ha un valore notevole: potremmo del resto venderlo e comprarci tutta l’acqua che vogliamo.

Il valore deriva da una valutazione individuale, e dipende dal contesto in cui si opera. Il principio marginale ci ricorda questa ovvietà: sono i fini più importanti i primi ad essere soddisfatti, con i mezzi di cui si dispone. Ma se la quantità di un mezzo aumenta, è possibile perseguire anche fini che precedentemente erano stati scartati: se si era scelto di posticipare la realizzazione di questi, è perché erano meno importanti, quindi si può dire che quantità addizionali di mezzi valgono sempre di meno all’aumentare della loro disponibilità.

Si potrebbe andare oltre, ed avere a disposizione una quantità tale di una particolare risorsa da non aver bisogno di scegliere come impiegarla: in questo caso, la risorsa non sarebbe più scarsa, e non avrebbe più valore marginale. Il valore marginale è il valore di un’unità aggiuntiva della risorsa: nel caso di una risorsa non scarsa, il valore marginale è nullo, perché non esiste nulla che si possa fare con un’unità aggiuntiva della risorsa. Nel caso di risorse scarse, al contrario, c’è sempre qualcosa che si sarebbe potuto fare e che non era stato fatto, fino a quel momento, per mancanza di mezzi: finché c’è costo opportunità, quindi, c’è valore.

Non ha senso chiedersi quanto valga l’acqua in sé: ciò che ha senso chiedersi è quanto valga una quantità maggiore d’acqua rispetto a quanta è già in nostro possesso; bisogna chiedersi se vale la pena agire per ottenerne di più, o se possiamo darne via un po’ per ottenere qualcosa a cui diamo maggior valore. L’azione individuale riguarda la singola bottiglia d’acqua, non l’acqua in sé: il valore totale non esiste, in quanto il valore è una categoria dell’azione umana.

Il principio marginale viene spesso anche interpretato per indicare che “il passato è passato”: l’individuo agisce oggi, ieri è dato, e domani si conosceranno le conseguenze di ciò che si fa oggi (e quelle di lungo termine di quello che si è fatto ieri). Ma ciò che deve interessare l’individuo agente non è il passato, che non può influenzare, ma il futuro, che ancora dipende da come agisce. L’aver investito una fortuna in un’attività che si è successivamente rivelata fallimentare non dimostra che occorra investire ancora di più, né che sia necessario smettere: quello che occorre chiedersi è se, data la situazione attuale, valga la pena o meno continuare ad investire. Gli eventi passati influenzano la situazione odierna, ma solo in quanto dati del problema: non sono mai oggetto d’azione, quindi non possono né avere valore né rappresentare un costo.

Un accendino è un bene complementare alla sigaretta: questo concetto tornerà frequentemente nei prossimi articoli. Questo esempio è vietato ai minori per via delle leggi correnti sul fumo.
In questo caso, i due beni, che possono alternativamente svolgere la stessa funzione, si dicono sostitutivi.
Il modello, assolutamente non austriaco, del “homo oeconomicus” farebbe pensare agli individui come esseri perfettamente egoisti, cosa ovviamente non vera nella realtà sociale: quel che conta in questa discussione è che anche interessarsi dell’“utilità” altrui non rende possibile effettuare giudizi interpersonali di utilità. Questi giudizi si basano sempre su giudizi di valore individuali e non sono mai oggettivi.

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