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Burton Morris
06-05-09, 19:47
“A futura memoria (se la memoria ha un futuro)”.
L. Sciascia

LA PESTE ITALIANA

Dopo la rovina del Ventennio fascista
il Sessantennio partitocratico di metamorfosi del Male
Una storia di distruzione
dello Stato di diritto e della Democrazia
e di (re)instaurazione di un regime (neo)totalitario



‘‘Nei Paesi democratici, la scienza dell’associazione è la scienza-madre; il progresso di tutte le altre dipende dal progresso di quella”.
“Una nazione che non domanda al suo Governo altro che il mantenimento dell’ordine è già schiava nel fondo del cuore”.
A. de Tocqueville


‘‘Lo Stato perirà nel momento in cui il potere legislativo sarà più corrotto dell’esecutivo’’.
C.L. Montesquieu


A cura di:
Gruppo di Iniziativa di Satyagraha 2009
per lo Stato di diritto e la Democrazia cancellati in Italia
coordinato da Antonella Casu e Marco Cappato

Introduzione

Dal primo gennaio 1948, nel momento stesso della sua entrata in vigore, inizia immediatamente il processo di snaturamento e svuotamento della Costituzione; da qui i partiti cominciano a impadronirsi del sistema politico e a cancellare lo Stato di diritto; da qui parte la negazione dei fondamentali diritti civili e politici dei cittadini italiani.

Il “partito plurale”, naturale prosecutore ed erede del “partito singolare” fascista, governa sapientemente, alla Costituente, l’afflato radicalmente riformatore, democratico, antifascista scaturito dalla sconfitta del nazifascismo nella guerra del 1939-45. La nascente partitocrazia veste l’abito della democrazia e ne assume il lessico, come armi utili a salvare l’essenziale: il proprio “libero arbitrio” non sorretto da alcun ordinamento e non sottoposto ad alcuna legge. Questo “Partito della Prima Repubblica” agisce da subito, nella sua organizzazione, contro la funzione costituzionale fissata dall’articolo 49 della Carta fondamentale.

Per quasi un quarto di secolo, gli italiani sono privati di due dei tre principali strumenti istituzionali che la Costituzione aveva previsto per l’esercizio della sovranità popolare. Tanto la scheda referendaria quanto quella per le elezioni politiche regionali sono sottratte, fino al 1970, alla vita democratica della Repubblica.

La Costituzione assegna ai cittadini il potere di partecipare all’attività legislativa principalmente attraverso tre tipi di voto: quello elettorale nazionale, per scegliere i membri delle due Camere; quello elettorale regionale, per le 20 assemblee legislative in base alla nuova suddivisione territoriale dello Stato; infine quello referendario, per vagliare ed eventualmente correggere, mediante l’abrogazione totale o parziale, le leggi varate dal Parlamento.

Questi tre voti, nel loro insieme, rappresentano la straordinaria intuizione innovativa dei Costituenti, che storicamente hanno vissuto l’esperienza dei regimi totalitari, e che quindi decidono di fondare il nuovo sistema democratico su questi tre pilastri. Alla tradizionale istituzione parlamentare essi aggiungono altri due strumenti di esercizio della sovranità popolare.

In queste pagine, è descritta una lunga e continuata strage di leggi, di diritto, di principi costituzionali, di norme e di regole che avrebbero dovuto governare la convivenza civile della democrazia italiana.

Con un’avvertenza: la strage di legalità ha sempre per corollario, nella storia, la strage di persone.

Da 60 anni, in Italia, al regime fascista del Partito-Stato ha fatto seguito il regime “sfascista” dello Stato dei Partiti. Da 60 anni, una puntuale e sistematica violazione della Costituzione viene dolosamente consumata contro il popolo italiano, quel “demos” che vive deprivato delle condizioni minime di conoscenza e legalità, necessarie per esercitare il potere sovrano in forma legittima. In Italia non c’è democrazia, ma partitocrazia, oligarchia, vuoto di potere, arroganza del potere, prepotenza e impotenza. Non esiste Stato di diritto, ma arbitrio di regime.

L’ultimo arrivato Silvio Berlusconi e i suoi detrattori e accusatori sono in realtà l’espressione (finale?) di una identica vicenda politica. Sono affratellati da un comune destino, per ora illegale e drammatico, domani probabilmente anche violento e tragico. Lo sbocco è quasi obbligato.

Il nostro tentativo, la nostra lotta, sono tutti racchiusi in quel “quasi”. La nostra speranza è di rappresentare una speranza: l’alternativa radicale possibile di una democrazia fondata sulla libertà di associazione e partecipazione, sulla libertà di informazione e conoscenza, sulla libertà della persona. Soprattutto sul rispetto del diritto e della legge, come fonte suprema di legittimità delle istituzioni.

Qui di seguito, raccontiamo quella illegalità e questa battaglia. E’ il nostro contributo alla ricostruzione della verità. E’ una storia diversa dalla “storia ufficiale”. E’ una lettura diversa di fatti ed eventi certi, documentabili e precisamente documentati, e proprio per questo pressoché sconosciuti, ignorati, nascosti.

La nostra azione è diretta e nonviolenta, di dialogo. Lottiamo per scongiurare la violenza tremenda e tragica che vediamo inesorabilmente avanzare.

Portiamo al petto una stella gialla, con umiltà e con dolore, come toccò in sorte agli ebrei europei poco più di 60 anni or sono. La nostra stella gialla è un’esclamazione e un richiamo, affinché quel “segno” non sia nuovamente premonitore e anticipatore della umiliazione e della condanna di milioni di esseri umani. Già una volta, nel 1938, la democrazia europea morì a Monaco. Poco dopo perirono non “solo” 6 milioni di ebrei, ma 60 milioni di uomini, donne, vecchi e bambini di tutta Europa.

Questo non è un libro. E’ un “Satyagraha”, cioè la ricerca della verità. E la sua forza.
La storia scritta in queste pagine è anche la nostra storia, ma è soprattutto la “vostra” storia.
E’ la nostra “lettura”. Coraggio, e buona lettura.


Capitolo 1

FATTA LA COSTITUZIONE NE INIZIA LA DISAPPLICAZIONE

Da subito i partiti che nell’Assemblea Costituente hanno elaborato e votato la Costituzione, si adoperano per svuotarla, vanificarla, impedirne l’attuazione: le regole democratiche che i deputati costituenti hanno posto alla base della Carta fondamentale dello Stato sono, da subito ed ampiamente, disattese. E' così che parte la prima cancellazione dello stato di diritto . Coloro che con calore si proclamano custodi della Costituzione e che la dichiarano intoccabile, dimenticano di confrontarsi con essa e di ricordare tutte le violazioni che la Carta fondamentale ha subito fin dalla sua entrata in vigore il 1° gennaio 1948.

1.1 La mancata abrogazione della legislazione fascista

Da quella data, 1° gennaio 1948 e per molti anni ancora, coesistono una Carta fondamentale con intenti democratici e, di fronte ad essa, tutta la legislazione ordinaria, approvata durante il fascismo, ampiamente incostituzionale. Inutilmente si chiede, da parte del Partito d’Azione oltre che di pensatori e studiosi, l’abrogazione della legislazione fascista e la modifica, per gradi della preesistente legislazione dello stato liberale. Questo ritardo genera in molti casi la “assuefazione” alla logica che ispira le leggi del regime: ne è un esempio la riforma della legge sulla stampa del 1963 che, istituendo l’Ordine, ribadisce e ulteriormente irrigidisce l'esistenza e le regole dell'Albo dei giornalisti, istituito nel 1923 da Mussolini per controllare la stampa e impedirne la libertà.

1.2. La tardiva e parziale attuazione dell’ordinamento costituzionale

L'Ordinamento dello Stato delineato nella Costituzione non è stato attuato prontamente in tutti gli organi previsti. In particolare i ritardi nell’attuazione della Costituzione hanno riguardato proprio gli istituti pensati dal costituente come correttivi alla forma di governo parlamentare, in quanto limiti strutturali al potere della maggioranza: il controllo di costituzionalità delle leggi e sui conflitti tra poteri dello Stato (la Corte costituzionale), l’autonomia dell'ordine giudiziario nell'esercizio della giurisdizione (il Consiglio superiore della magistratura), le autonomie territoriali con potestà legislativa (le Regioni), il controllo popolare sulle scelte legislative di maggioranza (il referendum abrogativo).
Le Regioni e la loro mancata attuazione costituiscono la clamorosa inadempienza del dettato degli articoli 114-133. I più illuminati costituzionalisti e docenti insistono affinché le elezioni per i consigli regionali si tengano contemporaneamente a quelle per il primo Parlamento repubblicano. E’ invece approvata la VIII disposizione transitoria, la quale stabilisce che le elezioni regionali siano “indette” entro un anno dalla entrata in vigore della Costituzione, cioè il 1° gennaio 1949. Si giunge però al mese di dicembre 1948 senza nessuna novità in proposito. Si hanno in quel mese due iniziative: la prima è di rinvio - unica ipotesi a quel punto possibile – contenuta nel disegno di legge costituzionale presentato dal repubblicano Giulio Bergmann al Senato, che intende prorogare all’8 ottobre 1949 il termine stabilito dalla VIII disposizione; la seconda, del Governo, che presenta due disegni di legge il 10 dicembre, firmati dal Presidente del Consiglio. Uno intende dettare “Norme per la elezione dei consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali”, viene accompagnato dalla procedura d’urgenza. L’altro ha come scopo quello di provvedere alla normativa per la costituzione e il funzionamento delle Regioni”. Sui due testi inizia in Commissione un dibattito inconcludente e contraddittorio.
In questo clima viene presentata alla Camera, il 16 luglio 1949, dal democristiano Roberto Lucifredi, la proposta di legge (n. 699) “Proroga del termine per l’effettuazione delle elezioni dei consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali”. Tra rinvii e dimenticanze solo dopo 22 anni di ritardo vengono eletti i consigli delle Regioni ordinarie, che si aggiungono a un ordinamento già esistente, con un danno mai più recuperato per la architettura ordinamentale disegnata dai costituenti.
Il Senato, previsto nel dibattito in seno alla Commissione dei 75 e nelle sue successive articolazioni come la Camera delle autonomie, si riduce nella composizione e nelle funzioni a una copia della Camera dei deputati. Nell'art. 60 della Costituzione ha una durata diversa: sei anni invece di cinque. Ma l’elezione delle due Camere per la seconda legislatura repubblicana si svolge contemporaneamente il 7 giugno 1953: l'artificio è quello dello scioglimento anticipato del Senato. Si introduce di fatto una rilevante modifica istituzionale senza neppure darle la dignità di un’apposita legge costituzionale preceduta da un dibattito parlamentare. Solo nel febbraio 1958 (alla vigilia delle elezioni per la terza legislatura) dopo un improduttivo dibattito sulle diverse proposte di riforma della seconda Camera, si approva la legge 64 del 27 febbraio 1958 che stabilisce in cinque anni la durata del Senato, cancellando ulteriormente la diversificazione tra le due Camere.
Il Referendum popolare abrogativo è un istituto previsto e fortemente sostenuto da grande parte dei costituenti, ma per la legge applicativa si dovrà aspettare fino al 1970. Il voto referendario si affianca con pari dignità a quello elettivo nello schema di Costituzione che il presidente della Costituente, Meuccio Ruini, presenta alla Commissione dei 75 in seduta plenaria il 28 novembre 1946, a conclusione dei lavori delle sottocommissioni. Si legge infatti, in quello schema sotto il titolo III sui “Diritti politici”: diritto di voto; di referendum; di iniziativa legislativa; di petizione”.
Il testo della Costituzione inserisce l’istituto referendario nella sezione che riguarda “La formazione delle leggi”, viene quindi riconosciuto al popolo - soggetto cui appartiene la sovranità ex art. 1 - di partecipare al potere legislativo attraverso la possibilità di abrogare in tutto o in parte le leggi approvate dal Parlamento.
L'art. 75, circostanziato e preciso, stabilisce - comma secondo - le leggi sulle quali non è possibile chiedere il referendum, sancendo così che su tutto il resto il ricorso a questo istituto è ammissibile. Il quinto e ultimo comma dell'art. 75 recita: “La legge determina le modalità di attuazione del referendum”. Dunque sono solo le modalità di attuazione sulle quali deve intervenire la legge ordinaria. L'unico controllo che il legislatore costituente affida alla magistratura riguarda la regolarità delle firme e delle procedure di raccolta e, nel merito, che il contenuto delle leggi sottoposte a referendum abrogativo non sia compreso nelle tre fattispecie di legge (solo tre) stabilite nel secondo comma dell'art. 75. E' noto come le diverse leggi per così dire attuative dell'art. 75 che si sono susseguite nel tempo (sempre più restrittive fino a quella che consente al ministro “competente” di chiedere la sospensione degli effetti abrogativi del referendum per sei mesi, confondendo così oltretutto il potere esecutivo con quello legislativo) abbiano calpestato il diritto, l'impegno civile e politico e la volontà di milioni di elettori.
La Corte costituzionale, l’organo fondamentale cui spetta il vaglio di legittimità costituzionale delle leggi e da cui avrebbe dovuto dipendere una rapida e manifesta soluzione di continuità con la legislazione del regime fascista, viene istituita solo nel 1956, otto anni dopo la promulgazione della Costituzione. Il Consiglio Nazionale dell’ Economia e del Lavoro (Cnel) entra in funzione nel 1957, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 1958. L’interregno precedente all’attuazione di parti fondamentali della Costituzione repubblicana rischia di pregiudicare la natura e la tenuta democratica della giovane Repubblica, con il mantenimento in vigore dei codici e della legislazione fascista e la pericolosissima distinzione operata dalla Corte di Cassazione – nel suo interim di vicarietà fino all’istituzione della Corte costituzionale – nel distinguere tra norme costituzionali prescrittive e norme meramente programmatiche.
I partiti e i sindacati. Appena approvata, la Costituzione della Repubblica incontra nei partiti i suoi più fieri avversari. Il Parlamento dei partiti si caratterizza, per dolo od omissione, come principale organo anticostituente. I fondamenti formali della nuova Costituzione: sovranità popolare e Stato di diritto, sono soppiantati da quelli di fatto di “sovranità partitocratica” e “costituzione materiale”, gli unici, sin da subito e ancora oggi - dopo sessant’anni - vigenti. Dopo il Ventennio fascista si volta pagina, ma non vi è vera e propria soluzione di continuità. Accade solo che al partito unico del Fascio subentri il “fascio” unico dei partiti: tutti e subito consociati contro la volontà popolare e la legge scritta. Non è un caso che la “disattuazione attiva” di parti fondamentali della Costituzione operata dal Parlamento, che perdura tutt’oggi, riguardi anche e innanzitutto quelle relative alla disciplina dei partiti (articolo 49) oltre che dei sindacati (articolo 39). Per i partiti la Costituzione impone il “metodo democratico” come condizione essenziale per la loro esistenza, ma tale imperativo - in mancanza di una legge attuativa - è rovesciato in pratica nel suo contrario, per le mancate garanzie accordate, all’interno dei partiti, ai diritti fondamentali previsti dalla Costituzione stessa. Nel caso dei sindacati, si decide di non procedere alla loro registrazione in nome di una “intangibile” autonomia che si presume sarebbe violata dai controlli della Corte dei conti.

1.3 Il processo di ulteriore degenerazione partitocratica

Nei decenni successivi, questo processo degenerativo – che costituisce l’oggetto di questo documento - ha via via investito tutti gli organi e le istituzioni repubblicane.
Il Presidente della Repubblica, cui la Costituzione assegna il compito supremo di garanzia della Costituzione nei rapporti fra poteri dello Stato – un compito regolato dalla attribuzione di precisi poteri - si trasforma gradatamente, dopo la presidenza provvisoria di De Nicola e il primo settennato di Luigi Einaudi, in un organo di mediazione tra le forze politiche.
Il Parlamento, se si escludono fino agli anni 70 alcune lontane, importanti eccezioni (diritto di famiglia, statuto dei lavoratori), rinuncia ad affrontare le riforme e legifera soprattutto attraverso leggi di emergenza e il crescente ricorso dei governi ai decreti legge, mentre i parlamentari vedono limitare e subordinare alla disciplina di partito la loro funzione di rappresentanti della volontà popolare “senza vincoli di mandato”; l’obbligo di pubblicità dei lavori parlamentari rimane lettera morta fino all’avvio delle trasmissioni clandestine delle sedute a opera di Radio Radicale nel ‘76.
Per quanto riguarda i partiti, la mancata attuazione della norma costituzionale riguardante il loro funzionamento democratico viene aggravata dalla approvazione della legge sul finanziamento pubblico, concepita in modo da sottrarli a ogni controllo pubblico.
La stessa Corte costituzionale, dopo aver esercitato per un quindicennio un rigoroso sindacato di costituzionalità, viene sempre più condizionata dai partiti nella sua composizione e nella sua giurisprudenza, come dimostrano le decisioni contraddittorie prese in materia di ammissibilità dei referendum, nelle quali essa ampiamente travalica i compiti attribuiti dall’art.75 della Costituzione.
Lo stato della Giustizia, sia penale sia civile, fa sì che l’Italia sia il Paese più condannato dalla Corte europea dei diritti umani, in particolare per la durata dei suoi processi, e ha come conseguenza una sistematica impunità e incertezza del diritto.

Burton Morris
06-05-09, 19:47
DAL FASCISMO ALLA PARTITOCRAZIA


Due citazioni.

1949: Giuseppe Maranini, dalla lezione inaugurale dell'Anno Accademico universitario di Firenze, 1949-1950 dal titolo: ‘’Governo parlamentare e partitocrazia’’.

“Le nuove forze associative scaturenti dalla lotta economica si politicizzano influendo sulla vita dei partiti in modo così decisivo da rendere ormai anacronistiche e impossibili libere e spontanee correnti di opinione, quali una volta erano in sostanza i partiti. I partiti dell'epoca nuova, si presentano come organismi disciplinati, dotati di burocrazia, finanza, stampa, inevitabilmente collegati alle organizzazioni economiche, sindacali, lobbistiche delle quali riflettano le lotte e gli interessi. Veri Stati nello Stato, ordinamenti giuridici cioè autonomi, essi mettono in crisi con il loro particolarismo e talvolta con il loro illiberalismo il debole Stato liberal-parlamentare, al quale si presenta un compito ben più grave di quello per il quale era attrezzato; non si tratta più di difendere l’individuo contro l’individuo, ma si tratta di difendere l’individuo e la legge contro potenti organizzazioni. Queste a loro volta traggono sempre nuovo alimento dal senso di panico potenziale che pervade gli individui a causa della carenza di diritto garantito dallo Stato. L'individuo, sentendosi indifeso dall’ordinamento statale, cerca negli ordinamenti minori e particolari la sua garanzia e a quegli ordinamenti paga il tributo di obbedienza che lo Stato non sa più esigere”.


1993: Giuliano Amato, dal discorso di dimissioni da Presidente del Consiglio, 22 aprile 1993.

(occorre) “far morire quel modello di partito-Stato che fu introdotto dal fascismo e la Repubblica aveva finito per ereditare, limitandosi a trasformare un 'singolare' in 'plurale'.

“Quella che noi chiamiamo la degenerazione progressivamente intervenuta nei partiti italiani, quel loro lasciare vuota la società”, quel loro divenire poco alla volta “erogatori di risorse disponibili attraverso l'esercizio del potere pubblico, questa degenerazione è stata il ritorno o la progressiva amplificazione di una tendenza forte della storia italiana e che nella storia italiana era nata negli anni Venti e Trenta, con l'organizzazione di 'quel' partito”. “È dato di fatto che il regime fondato su partiti che acquisiscono consenso di massa attraverso l'uso della istituzione pubblica è un regime che nasce in Italia con il fascismo e che ora viene meno. E non a caso. Nello stesso momento viene meno quel regime economico fondato sull'impresa pubblica che era nato negli anni Trenta. Ed è un regime economico e un regime di partiti che attraversa per certi aspetti pure un cambiamento importante, pure fondamentalissimo, come quello del passaggio tra quel regime e la Repubblica e che viene meno ora”.

Capitolo 2

IL FURTO DELLA SCHEDA REFERENDARIA

La Costituzione prevede che il cittadino partecipi all’attività legislativa utilizzando diverse schede di voto: quelle propriamente elettorali, per scegliere i membri del Parlamento, dei Consigli regionali e delle amministrazioni locali; e quella referendaria, per correggere o cancellare le leggi sbagliate del Parlamento. Il voto referendario abrogativo di leggi, è la straordinaria invenzione dei Costituenti i quali, storicamente, hanno vissuto l’esperienza del regime fascista e quindi affrontano con diffidenza l’istituzione parlamentare. Tuttavia per più di vent’anni, la scheda referendaria non viene posta in attuazione: incomincia da qui, immediatamente, il processo di snaturamento e svuotamento della Costituzione; da qui i partiti cominciano a impadronirsi del “sistema” politico e a cancellare lo Stato di diritto.

2.1 La rivoluzione del referendum e la sua tardiva attuazione

La “convenzione antireferendaria” del sistema politico italiano si manifesta anzitutto con il ritardo con cui un istituto “rivoluzionario” come il Referendum trova attuazione: il Parlamento provvede a varare la legge applicativa del referendum solo il 25 maggio 1970 . Tale “conquista” è il prezzo pagato alla Chiesa come riparazione preventiva all’approvazione della legge sul divorzio che da lì a poco sarebbe stata approvata. Ma con la legge attuativa del referendum, il Parlamento non si limita ad applicare il dettato costituzionale, introduce una serie di altri limiti extra-costituzionali – principalmente di tipo temporale - tra cui l’impedimento a votare sui referendum nell’anno precedente lo scioglimento delle Camere o nei sei mesi successivi alle elezioni politiche. Proprio in forza di queste norme restrittive, nel 1972, per la prima volta nella storia repubblicana (l’escamotage si ripete nel 1976 e nel 1987)4 si sciolgono anticipatamente entrambe le Camere, per impedire la consultazione referendaria che potrà svolgersi solo due anni dopo. In questo lasso di tempo i partiti del cosiddetto “arco costituzionale” rappresentati in Parlamento si mobilitano per tentare di approvare proposte legislative, come quelle del liberale Aldo Bozzi, della indipendente di sinistra Tullia Carrettoni e del socialista Renato Ballardini, che, modificando la legge sul divorzio, possano impedire lo svolgimento del referendum.
Finalmente, nel 1974, il referendum si svolge, registrando un’ampia partecipazione al voto (87,7%) e la maggioranza dei cittadini – certo comunisti, socialisti, laici ma anche democristiani e missini – con quasi il 60% dice “no” non solo all’abrogazione della legge sul divorzio, ma anche alle indicazioni delle segreterie dei loro partiti, o alle esitazioni dimostrate prima del voto. Nel periodo immediatamente successivo anche i partiti “vincitori” tornano a riproporre, ad esempio col deputato Pci Alberto Malagugini e altri, il divieto di fare referendum prima di tre anni dalla pubblicazione della legge da abrogare e ipotizzano che la consultazione referendaria venga sospesa per sei mesi nel caso alle Camere si esaminino provvedimenti legislativi “riguardanti la materia”.

2.2 Il Golpe del ’78 e la giurisprudenza anticostituzionale

Il perfezionarsi dell’opera di sterilizzazione dell’istituto referendario si ha però solo con la giurisprudenza della Corte costituzionale, a cui – occorre ricordare - non la Costituzione, ma una successiva legge costituzionale ha demandato il compito di giudicare dell’ammissibilità dei referendum, ai sensi dell’elenco tassativamente circoscritto dall’articolo 75 secondo comma della Costituzione, che stabilisce che non possono essere sottoposte a referendum solo le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
Con la sentenza n. 16 del 2 febbraio del 1978, si inaugura la giurisprudenza anti-referendum e anti-Costituzione della Corte costituzionale. Nel giudicare l’ammissibilità di otto referendum radicali volti ad abrogare, tra l’altro, il Concordato tra Stato e Chiesa, la Corte si distacca da una lettura tassativa dei limiti previsti dall’art.75 per sostenere l’esistenza - sulla base di una lettura “logico-sistematica” delle norme costituzionali – di una miriade di ulteriori limiti, frutto di un’interpretazione estensiva di quelli espressamente enunciati dalla Costituzione, ravvisandone sempre di nuovi di carattere implicito.
Nella stessa occasione il Comitato promotore dei referendum viene implicitamente riconosciuto come potere dello Stato e due mesi dopo, con un’ordinanza, ottiene il formale riconoscimento di soggetto competente a dichiarare definitivamente la volontà dei sottoscrittori. Tale riconoscimento non comporta però alcun potere sostanziale, in quanto esso si esaurisce al momento del voto referendario e non gli è riconosciuta alcuna legittimazione a preservarne l’esito da eventuali successivi travisamenti, ad esempio, parlamentari. Infatti, nel caso del referendum sul finanziamento pubblico dei partiti, la Corte dichiara inammissibile il ricorso del Comitato promotore contro la normativa approvata successivamente dal Parlamento che di fatto lo reintroduce.
Negli anni successivi la giurisprudenza perfezionerà un “complesso di ragioni di ammissibilità” talmente articolato da rendere tecnicamente impossibile soddisfarle tutte, lasciando così il giudizio finale sulle leggi da abrogare, non al popolo italiano, ma al mero arbitrio della Corte . Tale situazione è efficacemente sintetizzata dal Presidente emerito della Corte costituzionale Livio Paladin che in tema di ammissibilità del referendum afferma che “l’unica certezza è l’incertezza”. Sta di fatto che, nella storia repubblicana, a fronte dei 26 referendum validi, dei 20 che non raggiungono il quorum e degli 8 impediti da leggi sulla materia approvate in fretta e furia dal Parlamento, la Corte costituzionale boccia ben 48 quesiti referendari. La mannaia della Corte si abbatte su temi di grandissima rilevanza politica e civile, impedendo ai cittadini di pronunciarsi su Concordato tra Stato e Chiesa, Tribunali Militari, smilitarizzazione della Guardia di Finanza, modifica in senso uninominale delle leggi elettorali di Camera e Senato e del Csm, responsabilità civile dei magistrati, termini ordinatori e perentori, Servizio sanitario nazionale, pubblico registro automobilistico, patronati sindacali, cassa integrazione, ritenuta d’acconto, sostituto d’imposta, collocamento al lavoro, tempo determinato, part time, lavoro a domicilio, pensioni di anzianità, monopolio Inail, carcerazione preventiva, legalizzazione delle droghe leggere.

2.3 Il popolo vota, il regime fa il contrario, il quorum è fatto mancare

Il diritto costituzionale al referendum viene negato ai cittadini anche con il sovvertimento di esiti di consultazioni referendarie, in cui la volontà popolare si è espressa a stragrande maggioranza e in modo inequivocabile.
Nel 1987, ad esempio, nel referendum in tema di responsabilità civile del magistrato, il “Sì” ottiene una percentuale dell’80%. L’anno successivo il Parlamento approva una legge che di fatto introduce la completa irresponsabilità civile e personale del magistrato trasferendola allo Stato.
Nel 1993 viene soppresso tramite referendum il ministero dell’agricoltura e abrogata la legge sul finanziamento pubblico dei partiti, rispettivamente, con il 75% e il 90% dei voti validi. Quattro mesi dopo viene istituito il ministero per le politiche agricole e nel 1997, analogamente, il finanziamento pubblico dei partiti è reintrodotto attraverso il meccanismo volontario della destinazione del 4 per mille dell’Irpef. Il gettito effettivo è molto inferiore alle aspettative e, nel 1999, i partiti corrono ai ripari ripristinando il loro finanziamento pubblico attraverso i già esistenti rimborsi per le spese elettorali, quintuplicandoli. Una sorte simile è riservata al referendum sul maggioritario del 1993 (vedi parte corrispondente), sulla privatizzazione della Rai e sulle trattenute automatiche per l’iscrizione al sindacato del 1995 (reintrodotto dall’accordo bilaterale tra Confindustria e sindacati).
Il tradimento parlamentare del voto popolare, spesso indiscutibilmente maggioritario, è la ragione principale della disaffezione dei cittadini alle consultazioni referendarie successive, alle quali fanno mancare il necessario quorum di partecipazione. Ai mancati raggiungimenti del quorum contribuisce anche la tecnica utilizzata dal Governo, anno dopo anno, di fissare lo svolgimento del voto referendario in date oggettivamente “balneari”, cioè sempre più verso l’ultima domenica utile tra quelle che la legge dispone (“in una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno”).
Come se non bastasse, anche quando la maggioranza dei cittadini si reca alle urne, accade che il quorum non sia raggiunto sol perché alla sua determinazione concorrono anche elettori che sono morti o “dispersi”. È il caso del referendum del 18 aprile 1999 sull’abolizione della quota proporzionale nella legge elettorale della Camera dei deputati, quando a decidere l’esito non sono gli oltre 21 milioni di italiani che si recano al voto e che si pronunciano al 91,5% per il “Sì”, ma i 150.000 voti mancanti al raggiungimento del quorum. A decidere l’esito del referendum è in realtà il computo di 2.351.306 cittadini italiani residenti all’estero, dei quali però solo 13.542 (lo 0,5% degli aventi diritto) hanno ricevuto effettivamente il certificato elettorale.
La riprova dell’effettivo raggiungimento del quorum nel 1999 si ha l’anno successivo quando in vista del referendum del 21 maggio, a seguito di una iniziativa nonviolenta dei radicali, si ottiene la revisione straordinaria degli elenchi elettorali, in particolare di quelli dei residenti all’estero. Il risultato è la cancellazione da tali liste di oltre 350.000 persone tra deceduti e irreperibili. Se tale cancellazione fosse stata effettuata l’anno precedente, il quorum sul referendum sarebbe stato raggiunto e avremmo avuto un sistema pienamente uninominale nella legge elettorale della Camera dei deputati.
L’illegalità che connota le consultazioni referendarie è confermata e aggravata nel 2005, con il referendum sulla legge 40. In tale occasione, la previsione costituzionale di referendum abrogativo è materialmente cassata attraverso l’ammissione solo di quesiti parziali e indecifrabili e la bocciatura invece del chiarissimo quesito unico, totalmente abrogativo. Per di più, in tale occasione, la campagna referendaria avviene in aperta violazione di norme in materia di propaganda elettorale e, in particolare, dell’art. 98 del Testo Unico delle leggi elettorali, che vieta ai ministri di qualsiasi culto di “indurre gli elettori all’astensione”. Nel referendum sulla legge 40, infatti, dalle più alte gerarchie della Chiesa cattolica fino alle parrocchie dei paesi più sperduti durante la Messa, l’appello al non voto è ufficiale, ripetuto, documentato, veicolato da tutti i mezzi di informazione pubblici e privati.
In definitiva, l’istituto referendario così come disegnato dalla Costituzione repubblicana, è ormai distrutto. Agli italiani è concesso l’uso della “seconda scheda” solo in forma plebiscitaria e quando le componenti del Regime italiano lo scelgono.

SCHEDA 1: LE CONSULTAZIONI REFERENDARIE

I referendum abrogativi su scala nazionale in Italia sono stati in totale 59. A questi vanno aggiunti 4 referendum non abrogativi, elencati in fondo alla pagina. Ecco l'elenco delle consultazioni referendarie nella Repubblica Italiana:

Anno Referendum Affluenza Quorum SÌ NO Risultato Descrizione
12 maggio 1974
Divorzio
87,7% raggiunto 40,7% 59,3% NO Abrogazione della legge Fortuna-Baslini, del 1970, con la quale era stato introdotto in Italia il divorzio.

11 giugno 1978
Ordine Pubblico
81,2% raggiunto 23,5% 76,5% NO Abrogazione della legge Reale: norme restrittive in tema di ordine pubblico.

11 giugno 1978
Finanziamento Partiti
81,2% raggiunto 43,6% 56,4% NO Eliminazione del finanziamento dei partiti da parte dello Stato (primo tentativo).
17 maggio 1981
Ordine Pubblico
79,4% raggiunto 14,9% 85,1% NO Abrogazione della legge Cossiga, che era stata concepita per affrontare l'emergenza terrorismo in Italia.
17 maggio 1981
Ergastolo
79,4% raggiunto 22,6% 77,4% NO Abolizione della pena dell'ergastolo.
17 maggio 1981
Porto d'Armi
79,4% raggiunto 14,1% 85,9% NO Abolizione delle norme sulla concessione di porto d'arma da fuoco
17 maggio 1981
Interruzione gravidanza 1
79,4% raggiunto 11,6% 88,4% NO Abrogazione di alcune norme della legge 194 sull'aborto per rendere più libero il ricorso all'interruzione di gravidanza. Promosso dai Radicali.

17 maggio 1981
Interruzione gravidanza 2
79,4% raggiunto 32,0% 68,0% NO Abrogazione di alcune norme della legge 194 sull'aborto per restringere i casi di liceità dell'aborto. Di segno opposto al primo quesito. Promosso dal Movimento per la vita.

9 e 10 giugno 1985
Scala Mobile
77,9% raggiunto 45,7% 54,3% NO Abolizione della norma che comporta un taglio dei punti della scala mobile. Promosso dal PCI.

8 novembre 1987
Responsabilità Giudici
65,1% raggiunto 80,2% 19,8% SI Abrogazione delle norme limitative della responsabilità civile per i giudici.

8 novembre 1987
Commissione Inquirente
65,1% raggiunto 85,0% 15,0% SI Abolizione della commissione inquirente e del trattamento dei reati dei ministri.

8 novembre 1987
Nucleare 1
65,1% raggiunto 80,6% 19,4% SI Abrogazione dell'intervento statale se il Comune non concede un sito per la costruzione di una centrale nucleare.

8 novembre 1987
Nucleare 2
65,1% raggiunto 79,7% 20,3% SI Abrogazione dei contributi di compensazione agli enti locali per la presenza sul proprio territorio di centrali nucleari.
8 novembre 1987
Nucleare 3
65,1% raggiunto 71,9% 28,1% SI Esclusione della possibilità per l'Enel di partecipare alla costruzione di centrali nucleari all'estero.
3 giugno 1990
Caccia 1
43,4% non raggiunto 92,2% 7,8% non valido Disciplina della caccia
3 giugno 1990
Caccia 2
42,9% non raggiunto 92,3% 7,7% non valido Accesso dei cacciatori a fondi privati
Anno Referendum Affluenza Quorum SÌ NO Risultato Descrizione
3 giugno 1990
Uso Pesticidi
43,1% non raggiunto 93,5 6,5% non valido Abrogazione dell'uso dei pesticidi nell'agricoltura. Promosso dai Verdi.

9 e 10 giugno 1991
Preferenza Unica
62,5% raggiunto 95,6% 4,4% SI Riduzione del sistema delle preferenze nelle liste per la Camera dei deputati, portandole da tre a una.
18 e 19 aprile 1993
Controlli Ambientali
76,8% raggiunto 82,6% 17,4% SI Abrogazione delle norme sui controlli ambientali effettuati per legge dalle USL.

18 e 19 aprile 1993
Stupefacenti
77,0% raggiunto 55,4% 44,6% SI Abrogazione delle pene per la detenzione ad uso personale di droghe leggere. Promosso dai Radicali.

18 e 19 aprile 1993
Finanziamento Partiti
77,0% raggiunto 90,3% 9,7% SI Abolizione del finanziamento pubblico ai partiti (secondo tentativo).
18 e 19 aprile 1993
Casse di Risparmio
76,9% raggiunto 89,8% 10,2% SI Abrogazione delle norme per le nomine ai vertici delle banche pubbliche.
18 e 19 aprile 1993
Partecipazioni Statali
76,9% raggiunto 90,1% 9,9% SI Abrogazione della legge che istituisce il Ministero delle Partecipazioni Statali.

18 e 19 aprile 1993
Leggi Elettorali Senato
77,0% raggiunto 82,7% 17,3% SI Abrogazione della legge elettorale per il Senato per introdurre il sistema maggioritario.

18 e 19 aprile 1993
Ministero Agricoltura
76,9% raggiunto 70,2% 29,8% SI Abrogazione della legge che istituisce il Ministero dell'Agricoltura.

18 e 19 aprile 1993
Ministero Turismo
76,9% raggiunto 82,3% 17,7% SI Abrogazione della legge che istituisce il Ministero del Turismo e Spettacolo.

11 giugno 1995
Rappresentanze Sindacali 1
57,2% raggiunto 49,97% 50,03% NO Liberalizzazione delle rappresentanze sindacali (abolizione del monopolio confederale).
11 giugno 1995
Rappresentanze Sindacali 2
57,2% raggiunto 62,1% 37,9% SI Rappresentanze sindacali nella contrattazione pubblica: modifica dei criteri di rappresentanza in modo che questa vada anche alle organizzazioni di base.
11 giugno 1995
Pubblico Impiego
57,4% raggiunto 64,7% 35,3% SI Contrattazione collettiva nel pubblico impiego: abrogazione della norma sulla rappresentatività per i contratti del pubblico impiego.
11 giugno 1995
Soggiorno Cautelare
57,2% raggiunto 63,7% 36,3% SI Abrogazione della norma sul soggiorno cautelare per gli imputati di reati di mafia.
11 giugno 1995
Privatizzazione RAI
57,4% raggiunto 54,9% 45,1% SI Abrogazione della norma che definisce pubblica la RAI, in modo da avviarne la privatizzazione.

11 giugno 1995
Autorizzazione Commercio
57,2% raggiunto 35,6% 64,4% NO Abrogazione della norma che sottopone ad autorizzazione amministrativa il commercio.

11 giugno 1995
Orario degli Esercizi Commerciali
57,3% raggiunto 37,5% 62,5% NO Abrogazione della norma che impedisce la liberalizzazione degli orari dei negozi.


Anno Referendum Affluenza Quorum SÌ NO Risultato Descrizione
11 giugno 1995
Contributi Sindacali
57,3% raggiunto 56,2% 43,8% SI Abrogazione della norma che impone la contribuzione sindacale automatica ai lavoratori.
11 giugno 1995
Elettorale Piccoli Comuni
57,4% raggiunto 49,4% 50,6% NO Legge elettorale per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti: estensione ai Comuni più grandi dell'elezione diretta del sindaco già prevista per i piccoli.
11 giugno 1995
Concessioni per la Radiodiffusione Televisiva
58,1% raggiunto 43,1% 56,9% NO Abrogazione delle norme che consentono la concentrazione di tre reti televisive.
11 giugno 1995
Interruzioni Pubblicitarie
58,1% raggiunto 44,3% 55,7% NO Abrogazione delle norme che consentono un certo numero di break pubblicitari in tv.

11 giugno 1995
Raccolta Pubblicità TV
58,1% raggiunto 43,6% 56,4% NO Modifica del tetto massimo di raccolta pubblicitaria delle televisioni private.
15 giugno 1997
Privatizzazione
30,2% non raggiunto 74,1% 25,9% non valido Abolizione dei poteri speciali riservati al Ministro del Tesoro nelle aziende privatizzate.
15 giugno 1997
Obiezione di Coscienza al Servizio Militare
30,3% non raggiunto 71,7% 28,3% non valido Abolizione dei limiti per essere ammessi al servizio civile in luogo del servizio militare.
15 giugno 1997
Caccia
30,2% non raggiunto 80,9% 19,1% non valido Abolizione della possibilità per il cacciatore di entrate liberamente nel fondo altrui.
15 giugno 1997
Carriere Magistrati
30,2% non raggiunto 83,6% 16,4% non valido Abolizione del sistema di avanzamento nella carriera dei magistrati.
15 giugno 1997
Ordine dei Giornalisti
30,0% non raggiunto 65,5% 34,5% non valido Abolizione dell’Ordine dei giornalisti. Promosso dai Radicali.

15 giugno 1997
Incarichi Extragiudiziali dei Magistrati
30,2% non raggiunto 85,6% 14,4% non valido Abolizione della possibilità per i magistrati di assumere incarichi al di fuori delle loro attività giudiziarie.
15 giugno 1997
Ministero Politiche Agricole
30,1% non raggiunto 66,9% 33,1% non valido Abrogazione della legge che istituisce il Ministero delle Politiche Agricole.

18 aprile 1999
Quota Proporzionale
49,6% non raggiunto 91,5% 8,5% non valido Abolizione della quota proporzionale nelle elezioni della Camera dei Deputati.

21 maggio 2000
Finanziamento Partiti
32,2% non raggiunto 71,1% 28,9% non valido Eliminazione del rimborso spese per consultazioni elettorali e referendarie
21 maggio 2000
Quota Proporzionale
32,4% non raggiunto 82,0% 18,0% non valido Abolizione della quota proporzionale nelle elezioni della Camera dei Deputati

21 maggio 2000
Elezione del CSM
31,9% non raggiunto 70,6% 29,4% non valido Abolizione del voto di lista per l’elezione dei membri togati del CSM.
21 maggio 2000
Separazione Carriere Magistrati
32,0% non raggiunto 69,0% 31,0% non valido Separazione netta della carriera di un magistrato pubblico ministero da quella di un giudice. Promosso dai Radicali.

21 maggio 2000
Incarichi Extragiudiziali
32,0% non raggiunto 75,2% 24,8% non valido Abolizione della possibilità per i magistrati di assumere incarichi al di fuori delle loro attività giudiziarie.

Anno Referendum Affluenza Quorum? SÌ NO Risultato Descrizione
21 maggio 2000
Licenziamento - Art. 18
32,5% non raggiunto 33,4% 66,6% non valido Abrogazione dell'art.18 dello Statuto dei Lavoratori. Promosso dai Radicali.

21 maggio 2000
Trattenute Sindacali
32,2% non raggiunto 61,8% 38,2% non valido Abrogazione della possibilità di trattenere dalla busta paga o dalla pensione la quota di adesione volontaria a un sindacato o associazione di categoria attraverso un patronato.
15 giugno 2003
Reintegrazione dei lavoratori
25,5% non raggiunto 86,7% 13,3% non valido Estensione del diritto al reintegro nel posto di lavoro per i dipendenti licenziati senza giusta causa. Promosso da Rifondazione Comunista.

15 giugno 2003
Servitù coattiva di elettrodotto
25,6% non raggiunto 85,6% 14,4% non valido Abrogazione dell'obbligo per i proprietari terrieri di dar passaggio alle condutture elettriche sui loro terreni. Promosso dai Verdi.

12 e 13 giugno 2005
Procreazione medicalmente assistita I
25,4% non raggiunto 88,0% 12,0% non valido Limite alla ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni.

12 e 13 giugno 2005
Procreazione medicalmente assistita II
25,5% non raggiunto 88,8% 11,2% non valido Norme sui limiti all'accesso alla procreazione medicalmente assistita.

12 e 13 giugno 2005
Procreazione medicalmente assistita III
25,5% non raggiunto 87,7% 12,3% non valido Norme su finalità, diritti, soggetti coinvolti e limiti all'accesso alla procreazione medicalmente assistita.

12 e 13 giugno 2005
Procreazione medicalmente assistita IV
25,5% non raggiunto 77,4% 22,6% non valido Divieto di fecondazione eterologa.


A questi vanno aggiunti altri quattro referendum su scala nazionale per i quali non era previsto alcun quorum di validità:
• Il c.d. Referendum istituzionale del 2 giugno 1946 in cui il popolo è chiamato a scegliere tra Monarchia (10.718.502 voti pari al 45,7%) e Repubblica (12.718.641 pari al 54,3%), dove vota comunque l'89,1% degli aventi diritto;
• il Referendum consultivo del 1989 sul conferimento del mandato costituente al Parlamento europeo, tenuto il (18 giugno 1989): i voti favorevoli sono 29.158.656 (88,0%) e i contrari 3.964.086 (12,0%) con l'80,7% di votanti;
• il Referendum costituzionale del 2001 sulla modifica del Titolo V della Costituzione, tenuto il 7 ottobre 2001: i favorevoli sono 10.433.574 (64,2%) e i contrari 5.816.527 (35,8%), con il 34,1% di votanti.
• il Referendum costituzionale del 2006 sulla modifica della Parte II della Costituzione, tenuto il 25 e 26 giugno 2006. Si tratta del secondo referendum costituzionale confermativo della storia repubblicana, per approvare o bocciare la riforma voluta e approvata nella XIV legislatura esclusivamente dal centro-destra: favorevoli il 38,3% e contrari il 61,7%, con il 53,6% dei votanti.

Burton Morris
06-05-09, 19:49
SCHEDA 2: I REFERENDUM RESPINTI DALLA CORTE COSTITUZIONALE


Reati opinione e associazione 1977
Concordato 1977
Abolizione Tribunali Militari - 1 1977
Abolizione Tribunali Militari - 2 1977
Reati opinione e associazione 1980
Caccia 1980
Legalizzazione non droghe 1980
Smilitarizzazione Guardia Finanza 1980
Localizzazione centrali nucleari 1980
Caccia - 1 (2) 1986
Caccia - 2 (2) 1986
Sistema Elettorale CSM 1986
Legge elettorale Senato (3) 1990
Legge elettorale Comuni (3) 1990
Legge Elettorale Senato - 2 (Corel) 1992
Pubblicità RAI-TV (4) 1994
Tesoreria Unica (4) 1994
Sostituto d’imposta 1994
Servizio Sanitario Nazionale 1994
Cassa Integrazione straordinaria 1994
Legge Elettorale Camera 1994
Legge Elettorale Senato 1994
ENEL: liberalizzazione produzione 1995
Assistenza Sindacale Patti in Deroga 1995
Legge elettorale Camera 1995
Legge elettorale Senato 1995
Legalizzazione droghe leggere 1995
Sistema elettorale CSM 1995
Smilitarizzazione Guardia Finanza 1995
Responsabilità civile Magistrati 1995
Aborto di Stato 1995
Limitazione pubblicità RAI-TV 1995
Ritenuta d’acconto 1995
Servizio Sanitario Nazionale 1995
Scuola Elementare 1995
Pubblico Registro Automobilistico 1995
Collocamento al lavoro 1999
Tempo determinato 1999
Part time 1999
Lavoro a domicilio 1999
Sostituto d'imposta 1999
Smilitarizzazione della guardia di Finanza 1999
Pensioni di anzianità 1999
Servizio sanitario nazionale 1999
Monopolio Inail 1999
Responsabilità civile dei magistrati 1999
Carcerazione preventiva 1999
Termini ordinatori e perentori 1999
Patronati sindacali 1999
Legge 40/2004 2004



Capitolo 3

UNA REPUBBLICA FONDATA SUL REGIME DEI PARTITI (PARASTATALI E NON DEMOCRATICI)

L’ Articolo. 49 della Costituzione recita “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.” Mentre per i referendum i partiti pongono regole particolarmente restrittive, per quanto riguarda se stessi non stabiliscono alcuna regola: l’unico intervento legislativo è quello per garantirsi finanziamento di Stato.

3.1 Giuseppe Maranini e la partitocrazia

Giuseppe Maranini10 pone fin dall’immediato dopoguerra il problema della partitocrazia. A suo avviso, il neonato regime repubblicano rischiava di essere travolto dalla debolezza delle istituzioni formali rispetto alle istituzioni di fatto (partiti e sindacati) e per questo sollecita il rafforzamento degli istituti di garanzia da porre a presidio della Costituzione. Riconoscendo il pregio della presenza di una Corte costituzionale e di una piena indipendenza della magistratura, ritiene necessario affiancare a questi poteri di garanzia il rafforzamento del prestigio delle istituzioni, garantendone una piena autonomia rispetto ai partiti. Alla base pone la necessità di una regolamentazione giuridica dei partiti e la necessità di far emergere un profilo coerentemente parlamentare della forma di governo, ovvero quella di rafforzare i poteri impliciti del Presidente, la riforma del sistema elettorale in senso uninominale maggioritario, per innescare una dinamica di competizione aperta nel sistema politico. Introduce il termine “partitocrazia” proprio ponendo l’attenzione sul fatto che i partiti hanno il potere di controllare lo Stato senza essere controllati.
La formulazione dell’art. 49 è il frutto della convinzione, formatasi tra i Costituenti, secondo cui la funzione dei partiti politici e delle altre formazioni sociali dovrebbe favorire l’affermazione di una democrazia matura, che per il tramite degli stessi partiti garantirebbe contemporaneamente la proposta politica e una funzione di controllo dell’azione dei rappresentanti. Questo secondo aspetto, complementare al primo, da svolgere al di fuori delle sedi istituzionali, si fonda sulla necessità di una partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica del Paese, non limitandosi al mero momento elettorale, ma garantendo loro una partecipazione continua alla vita politica, nonché l’esercizio effettivo dei diritti politici.

3.2 Oligarchie di partito e negata libertà di associazione

Nel momento in cui i partiti – con la sola eccezione dei Radicali - inseriscono nel proprio statuto il divieto di iscrizione ad altre formazioni politiche, di fatto eliminano il diritto costituzionale alla libertà di associazione.
Il processo di partecipazione democratica è ulteriormente limitato attraverso la promulgazione di leggi elettorali che consentono alle oligarchie di partito di nominare i candidati che saranno eletti grazie a liste bloccate senza preferenze. Contemplando la compatibilità di incarichi istituzionali con incarichi di responsabilità politica nel partito, inoltre, i partiti portano gli eletti a rispondere innanzi tutto al partito prima ancora che al popolo elettore, disattendendo così quanto stabilito dall’articolo 67 della Costituzione che recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.12
L’introduzione nel 1974 (Legge n. 195) di finanziamenti pubblici ai partiti come pura elargizione istituzionalizza, a carico dello Stato, il sostentamento delle strutture dei partiti piuttosto che il sostegno all’iniziativa politica. Tale legge riconosce i contributi ai partiti rappresentati in Parlamento, penalizzando quindi le nuove formazioni politiche e la partecipazione all’interno dei partiti che, dotati di ingenti risorse pubbliche, rafforzano l’apparato burocratico divenendo sempre più oligarchici.
La giustificazione data per l’istituzione dei finanziamenti pubblici ai partiti, a fronte degli scandali per tangenti emersi nel 1965 con il caso Trabucchi e nel 1973 con lo scandalo petroli, era rassicurare l’opinione pubblica che il sostegno dello Stato avrebbe risolto le esigenze finanziarie dei partiti organizzati, stroncando la corruzione e la collusione con i grandi interessi economici. La legge viene approvata in soli 16 giorni con il consenso di tutti i partiti, fatta eccezione per i liberali.
Gli scandali degli anni successivi (caso Lokheed, Sindona e altri) dimostrano che la legge non ha avuto alcun effetto moralizzatore.

3.3 Referendum del 1978

L’11 giugno 1978 gli elettori sono chiamati al voto sul referendum proposto dai Radicali per l’abrogazione della Legge 195/74. I partiti che invitano a votare “No” rappresentano il 97% dei voti e i Radicali l’1,1. Il referendum non passa, ma la percentuale dei voti favorevoli è molto alta, il 43,6%. I promotori del referendum abrogativo del finanziamento pubblico ai partiti sostengono che lo Stato deve favorire tutti i cittadini attraverso i servizi, le sedi, le tipografie, la carta a basso costo e quanto necessario per “fare politica”, non per garantire le strutture e gli appartati di partito, che devono essere autofinanziati dagli iscritti e dai simpatizzanti.
Il sistema dei partiti continua a ignorare l’orientamento prevalente dell’opinione pubblica e del loro stesso elettorato e nel 1980 tenta il raddoppio del finanziamento pubblico, che viene in quel momento bloccato a causa della contemporanea esplosione dello scandalo Caltagirone (finanziamenti elargiti dagli imprenditori a partiti e a politici).
Nel 1981, con la legge 659, vengono introdotte le prime modifiche. L’ostruzionismo parlamentare radicale volto a bloccare l’istituzione dell’indicizzazione dei finanziamenti e a ottenere maggiore trasparenza dei bilanci dei partiti nonché controlli efficaci, fa sì che il testo approvato, pur prevedendo il raddoppio dei finanziamenti pubblici, preveda anche il divieto per i partiti e per i politici (eletti, candidati o aventi cariche di partito) di ricevere finanziamenti dalla pubblica amministrazione, da enti pubblici o a partecipazione pubblica e una qualche forma di pubblicità sui bilanci. I partiti non sono tenuti alla redazione di un vero e proprio bilancio, ma al solo deposito di un rendiconto finanziario relativo alle entrate e alle uscite dell’anno e non sono soggetti a effettivi controlli.
Nel 1982, su sollecitazione dei radicali Marcello Crivellini ed Emma Bonino, che contestano lo schema di bilancio predisposto dalla Presidenza della Camera perché non prevede la situazione patrimoniale dei partiti, la Presidente Nilde Iotti risponde: “Poiché la legge n. 659 del 1981 non prevede la compilazione di un rendiconto economico, ma solo di un rendiconto di entrate e spese finanziarie, il collegamento del rendiconto finanziario con la situazione patrimoniale diviene particolarmente disagevole e la pubblicazione congiunta dei due documenti potrebbe disorientare i lettori dei bilanci dei partiti.” E ancora: “Poco significativi, anzi fuorvianti, per l’opinione pubblica, sono i valori delle attività e passività e la cifra del netto patrimoniale, che i lettori dei bilanci più sprovveduti tenderebbero a identificare con la “potenzialità economica” dei partiti. In qualche caso, poi, si avrebbe un deficit patrimoniale anziché un patrimonio netto (per il prevalere delle passività sulle attività), che potrebbe mettere in imbarazzo alcuni partiti nei confronti dell'opinione pubblica”.

3.4 Dall’abolizione del finanziamento al rimborso elettorale

Il finanziamento pubblico ai partiti13 viene abolito nell’aprile del 1993 con il 90,3% dei voti espressi sul referendum radicale. Ma nel dicembre dello stesso anno viene “aggiornata” la legge sui rimborsi elettorali, definiti “contributo per le spese elettorali”,14 subito applicata tre mesi dopo, in occasione delle elezioni del 27 marzo 1994. Nel giro di pochi mesi, il rimborso è erogato in un’unica soluzione per un ammontare complessivo nella legislatura che tra, Camera e Senato, è pari a 47 milioni di euro. La stessa norma viene applicata in occasione delle successive elezioni politiche del 21 aprile 1996.
Nel 1997, con la legge15 recante: “Norme per la regolamentazione della contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici”, di fatto si reintroduce il finanziamento pubblico ai partiti.16 All'atto della dichiarazione annuale dei redditi delle persone fisiche, ciascun contribuente può destinare una quota pari al 4 per mille dell'imposta sul reddito al finanziamento dei movimenti e partiti politici, senza poter indicare a quale partito. La data per l’erogazione in favore dei partiti viene fissata entro il 31 gennaio di ciascun anno. Per poterla applicare da subito, si inserisce una norma transitoria17 che consente di erogare le somme già a partire dal 1997 fissando il fondo, per l’anno in corso, in 82.633.000 euro e stabilendo che per gli anni successivi tale fondo è calcolato sulla base delle dichiarazioni dei contribuenti e che in ogni caso non può superare i 56.810.000 euro. Intanto per il 1997, dopo meno di un mese dall’approvazione della legge, i partiti incassano nuovamente il finanziamento pubblico.
Con la stessa legge, si introduce l’obbligo di redigere un bilancio per competenza, comprendente stato patrimoniale e conto economico.18 I controlli continuano a essere affidati alla Presidenza della Camera. E’ soggetto al controllo della Corte dei Conti solo il rendiconto delle spese elettorali.
L’adesione alla contribuzione volontaria per destinare il 4 per mille ai partiti sarà scarsissima.19
Nel giugno 1999 viene emanata una nuova legge20, che ancora una volta cela dietro il titolo “Norme in materia di rimborso delle spese per le consultazioni elettorali e referendarie” un vero e proprio finanziamento pubblico: infatti è un rimborso elettorale solo teorico, non avendo alcuna attinenza diretta con le spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali.
I fondi sono quattro, oltre a quello previsto per le consultazioni referendarie: uno per la Camera, uno per il Senato, uno per le elezioni al Parlamento europeo e uno per le elezioni regionali. Il fondo si costituisce in occasione della consultazione elettorale e si eroga in rate annuali; in caso di scioglimento anticipato della legislatura si interrompe l’erogazione. L’ammontare da erogare, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa ammonta a 193.713.000 euro.
Il 16 maggio 2001 si vota e i partiti iniziano a percepire questo cospicuo “rimborso elettorale”.
A luglio 2002, si emana la legge (21) recante “Disposizioni in materia di rimborsi elettorali”. Il fondo diventa annuale, sopravvive la norma che prevede l’interruzione dell’erogazione in caso di fine anticipata della legislatura rispetto alla naturale scadenza. L’ammontare da erogare, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa passa da 193.713.000 euro a 468.853.675 euro.
Il 26 febbraio 2006, con la legge n. 5122 l’erogazione è dovuta per tutti e cinque gli anni di legislatura indipendentemente dalla sua durata effettiva. Con quest’ultima modifica l’aumento è esponenziale. Con lo scioglimento anticipato della XV legislatura, i partiti iniziano a percepire il doppio dei fondi, giacché contestualmente introitano le quote annuali relative alla XV e alla XVI legislatura.


10 Giurista e docente, intellettuale che ha percorso le tappe più significative della storia costituzionale d’Italia
11 La libertà di associazione è garantita nello Statuto del Partito radicale del 1967. Art. 2. DEGLI ISCRITTI DELLE ASSOCIAZIONI DEI PARTITI REGIONALI. 2.1. Gli iscritti. 2.1.1. Può iscriversi al partito radicale chiunque, anche non cittadino italiano che abbia compiuto l'età di 16 anni. Le condizioni di iscrizione al partito sono l'accettazione del presente statuto, il versamento delle quote individuali al partito federale nella misura stabilita dal congresso federale, l'impegno ad aderire o a costituire associazioni radicali secondo i propri interessi politici, culturali, sindacali, o altri. Le iscrizioni sono accolte dalla segreteria del partito federale, direttamente o tramite le associazioni radicali, o i partiti regionali.
12 Anche in questo caso fa eccezione il Partito Radicale che nel proprio Statuto sancisce: Art. 5. ELEZIONI ED ELETTI 5.1. In tutte le elezioni cui partecipa con liste proprie (comunali, provinciali, regionali, politiche) il partito si presenta con la denominazione “Partito radicale”. Gli eletti, nell'esercizio della loro attività rappresentativa, non sono vincolati da mandati né da alcuna disciplina. La libertà di voto non è limitata da deliberazioni dei gruppi degli eletti, deliberazioni che hanno valore indicativo.
13 Istituito nel 1974 con la legge n. 195, a prima firma Flaminio Piccoli (Dc) approvata in soli 16 giorni con il consenso di tutti i partiti eccetto il Pli. Nel settembre 1974 il Pli propone un referendum sul quale non vengono raggiunte le firme necessarie. L’11 giugno 1978 gli elettori sono chiamati al voto sul referendum proposto dai Radicali . La maggioranza dei partiti invita a votare “No”, il referendum non passa, ma la percentuale dei “Sì” raggiunge il 43,6%.
14 Legge n. 515 del 10 dicembre 1993
15 Legge n. 2 del 2 gennaio 1997
16 Il Comitato radicale promotore del referendum vinto nel 1993 sull’abolizione del finanziamento pubblico, tenta il ricorso rispetto al tradimento dell’esito referendario posto in essere con la legge 2/97, ma pur essendo stato riconosciuto in precedenza come potere dello Stato, gli viene negata la possibilità di depositare tale ricorso
17 Art. 4 Legge 2/97
18 Finalmente dopo anni di battaglia. Si veda risposta della Presidente della Camera Nilde Iotti ai parlamentari radicali del 1982
19Nel 1998, con l’articolo 30 della Legge n. 146 si introduce un’altra norma transitoria che fissa il tetto in 110 miliardi di lire
20 Legge n. 157 del giugno 1999
21 Legge n. 156 del 26 luglio 2002
22 Legge n. 51 del 26 febbraio 2006 (conversione in Legge del Decreto legge “mille proroghe” n. 273 del 30 dicembre 2005, recante definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi all' esercizio di deleghe legislative.

Burton Morris
06-05-09, 19:49
Capitolo 4

GIUSTIZIA ALL’ITALIANA: UNO STATO “DELINQUENTE ABITUALE”

Dal Codice Rocco alle leggi speciali, dal processo 7 aprile al caso Tortora, dalle riforme negate all’impunità sistematica, le cause della più grande emergenza del Paese che è anche una grande questione sociale e ci attira il record di condanne dalla Corte europea per i diritti umani.

4.1 Codici fascisti, rinvio delle riforme e lentocrazia giudiziaria

In qualsiasi democrazia la Giustizia è il momento nevralgico di uno Stato di diritto. Il mantenimento in vita dei Codici fascisti, la lentezza nella entrata in funzione di importanti istituti costituzionali, la mancanza e il continuo rinvio di qualsiasi riforma da parte del Parlamento ne ha da subito inficiato il carattere democratico. Il parziale e lento adeguamento di alcune norme del Codice Rocco alla Costituzione da parte della Corte costituzionale non ne modifica l’impostazione di fondo, alla quale si sommano strutturali inadeguatezze organizzative.
Fino all’inizio degli anni ‘70 ci si può illudere che si tratti delle conseguenze di una troppo lenta transizione dal regime fascista al sistema democratico e costituzionale, dovuta anche alle inevitabili resistenze conservatrici dei corpi dello Stato. Durante gli anni ‘70 la crisi della giustizia italiana acquisisce invece progressivamente una connotazione che ne aggrava strutturalmente le caratteristiche illiberali. In nome della necessità di una efficace lotta al terrorismo politico e alla grande criminalità organizzata, anziché rafforzare le strutture ordinarie della giustizia, riformare i codici e l’ordinamento, le maggioranze parlamentari di unità nazionale procedono di volta in volta con leggi d’emergenza concentrando poteri speciali intorno alla figura del Pubblico ministero e ad alcuni strumenti straordinari di coordinamento dell’azione penale.
Nel 1978, ad esempio, il processo di Torino ai capi storici delle Brigate Rosse può ancora svolgersi in un contesto di amministrazione ordinaria, malgrado la contemporaneità con i drammatici giorni del sequestro e assassinio di Aldo Moro. Dopo il rifiuto di 135 cittadini chiamati a far parte della giuria, è sorteggiata come giurato popolare il segretario del Partito radicale, Adelaide Aglietta (la prima donna segretario di partito nella storia della Repubblica). Nonostante le minacce di morte, con la sua accettazione Aglietta consente la formazione della giuria e la successiva tenuta di un processo equo e regolare.

4.2 Dal 7 aprile al caso Tortora la politica dell’emergenza e delle leggi speciali

Viceversa, il processo 7 aprile e il processo Tortora sono emblematici della logica emergenziale. Con il primo, nel pieno dell’azione terroristica delle Brigate Rosse, un pubblico ministero di Padova criminalizza (7 aprile 1979) l’intero gruppo dirigente di un movimento extraparlamentare, Autonomia Operaia, con l’imputazione di insurrezione armata e l’accusa di essere la vera “direzione strategica” delle Brigate Rosse. Lo scopo che quel procuratore si propone è quello di impedire ogni possibile collegamento fra la base studentesca e operaia di quel movimento con l’organizzazione militare e clandestina delle Br. Quelle incriminazioni non hanno tuttavia, come i fatti successivi dimostrano, alcun fondamento probatorio. Quei dirigenti e quei militanti di Autonomia Operaia sono probabilmente responsabili in proprio di violenze e di reati anche gravi, ma non facevano parte delle Brigate Rosse e tanto meno ne sono la direzione strategica. E’ un episodio di giustizia sommaria. Non ha alcuna importanza (e neppure si voleva) arrivare al processo e alla condanna. La lunga carcerazione preventiva (cinque anni), consentita dalla legislazione di emergenza, deve assicurare una sorta di condanna senza processo.
Solo lo scandalo dell’elezione del leader del movimento Toni Negri alla Camera dei deputati nella liste radicali costringe i giudici di Padova a cimentarsi con il processo. Nonostante la fuga di Toni Negri in Francia, il processo nei confronti dei suoi compagni si conclude in primo grado con sentenze che non giustificano la lunga detenzione preventiva e che sono successivamente ridotte e in molti casi del tutto annullate in appello e in Cassazione. Uno degli imputati, Emilio Vesce, che diviene in seguito militante e parlamentare radicale, è condannato in primo grado a cinque anni e mezzo e assolto nei gradi successivi: ne aveva scontati cinque di carcerazione preventiva. Quelle incriminazioni e quegli arresti, senza prove e senza processo, fanno tuttavia da battistrada alla legge sui pentiti della cosiddetta lotta armata a cui si ispira poco dopo la successiva legge sui pentiti di mafia e camorra.
Enzo Tortora è la principale vittima di queste leggi e di queste prassi in un processo alla camorra (1983-1986) per il quale viene usata la definizione di “macelleria giudiziaria” (infatti i mandati di cattura del maxi-blitz anticamorra del 17 giugno 1983 sono 856; di questi circa un centinaio i casi di omonimia successivamente accertati). Arrestato, processato e condannato a dieci anni in primo grado in base alle dichiarazioni, prive di qualsiasi riscontro, di alcuni pentiti che lo hanno chiamato in causa come affiliato a un clan camorristico, viene assolto in appello e poi in Cassazione dopo una dura lotta giudiziaria e politica, di cui è protagonista il Partito Radicale. Non in nome di un astratto garantismo ma per combattere i concreti stravolgimenti che leggi e prassi hanno inferto ai diritti e alle garanzie dei cittadini, così come alla giustizia e all’ordinamento giudiziario. Anche in questo caso tuttavia è necessario lo scandalo dell’elezione nelle liste radicali di Enzo Tortora al Parlamento europeo nel 1984 per interrompere l’omertà del mondo politico e giornalistico nei confronti di quel processo e dell’uso che in esso era fatto della legge sui pentiti. A differenza di Negri, Tortora - che ha avuto a Bruxelles la copertura dell’immunità parlamentare - si dimette dal P.E. per affrontare il processo e vedere riconosciuta la sua innocenza.
Il confronto e la lotta giudiziaria e politica intorno al “caso 7 Aprile” e sul “caso Tortora” consentono nell’immediato di limitare i guasti più gravi nella applicazione delle leggi di emergenza, riducono i tempi della carcerazione preventiva (poi denominata eufemisticamente custodia cautelare) e sembrano, sotto la spinta dell’opinione pubblica, aprire la strada a una vera riforma della giustizia come dimostra la larghissima maggioranza popolare che approva nel 1988 il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati.

4.3 Le responsabilità dei politici e della corporazione dei magistrati

Le resistenze della corporazione dei giudici unite alla debolezza della classe politica riescono però sempre a impedire ogni possibilità di riforma. Il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati è di fatto annullato da una successiva legge del Parlamento firmata dal ministro della Giustizia di uno dei partiti – il Psi – che pure ha promosso il referendum. L’unica riforma realizzata, quella del Codice di procedura penale, non produce gli effetti sperati per il mancato adeguamento delle strutture giudiziarie al nuovo Codice e perché il rito accusatorio che esso ha introdotto non tollera i poteri eccezionali attribuiti alle procure e il conseguente squilibrio fra accusa e difesa.
Tranne quello sulla responsabilità civile dei magistrati, poi vanificato da una legge del Parlamento, tutti gli altri tentativi di modificare la situazione per via referendaria sono o impediti dalle sentenze della Corte costituzionale (è così per il referendum abrogativo dei reati d’opinione e di associazione previsti dal Codice Rocco, nel 1978, e per quello che abrogava il sistema proporzionale nella elezione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura, nel 1988) o annullati, nonostante la vasta maggioranza conseguita, per il mancato raggiungimento del quorum del 50% dei votanti (è così per quelli , sugli incarichi extragiudiziari dei magistrati, sul sistema elettorale del Csm e sulla separazione del carriere nel 2000 quando il quorum non è raggiunto in presenza di una campagna astensionista promossa da Berlusconi che pure si dichiara d’accordo su quelle riforme, ma invita gli elettori a disertare le urne perché, una volta eletto, ci avrebbe pensato lui). Ugualmente vani sono i tentativi di procedere per via legislativa. La riforma del Codice Rocco è per trenta anni continuamente rinviata di Governo in Governo, di legislatura in legislatura, indipendentemente dalla composizione della maggioranze parlamentari nonostante il lavoro svolto dalle commissioni di volta in volta nominate dai diversi ministri.
Conserviamo di conseguenza un codice di ispirazione autoritaria ma di grande qualità giuridica, alterato da una congerie di leggi e leggine eccezionali che ne peggiorano la qualità rendendolo ancora più autoritario. Quanto alla Giustizia civile, nonostante il suo evidente dissesto, la riforma del Codice del ‘42 non entra mai neppure nell’agenda politica e nei programmi dei diversi governi.
Alle responsabilità politiche, poi, si contrappongono e sommano le responsabilità della magistratura associata e delle sue correnti che danno una interpretazione sempre più corporativa dell’autonomia dell’ordine giudiziario, interpretata come potere dello Stato chiuso in sé stesso, contro la lettera e lo spirito della Costituzione che invece la finalizza alla indipendenza di giudizio dei magistrati. Il Csm, oltre a divenire il principale sostenitore delle leggi e dei poteri speciali e di prassi più che discutibili nell’uso spregiudicato della legge sui pentiti, durante e dopo Tangentopoli da strumento di autonomia amministrativa e disciplinare e di consulenza nei rapporti con il Governo e con il Parlamento, si costituisce nella pratica in organo di vero e proprio contropotere nei confronti dei poteri esecutivo e legislativo. A questo si aggiunge l’invadente presenza di magistrati negli uffici legislativi di tutti i ministeri e l’occupazione di tutte le direzioni generali del ministero della Giustizia che di fatto limita o annulla la normale dialettica fra ministro della Giustizia e Csm e quella fra potere legislativo e ordine giudiziario. Senza dimenticare le migliaia di arbitrati svolti dai magistrati, che provocano dei “cortocircuiti” patologici fra giustizia e mondo delle imprese, fino a costituire una possibile fonte di corruzione.

4.4 La Giustizia una grande e irrisolta questione sociale

La crisi della Giustizia italiana diviene perciò una grande e irrisolta questione sociale. Un Paese senza giustizia, con 9 milioni di processi pendenti fra civile e penale, e con il 90-95% di reati che restano impuniti per incapacità di individuarne gli autori, è un Paese che si condanna a vivere nella illegalità. La lentezza della giustizia civile ha gravissime ricadute sulla vita economica del paese e allontana gli investimenti stranieri. Occorrono oltre quattro anni in media per ottenere una sentenza in primo grado, una durata che può raddoppiare in caso di appello. Indipendentemente dall’esito formale del giudizio, questi tempi pregiudicano i diritti del creditore e avvantaggiano il debitore, premiano chi ha torto e puniscono chi ricorre alla giustizia per far valere il suo diritto e la sua ragione. Il rapporto Doing Business della Banca Mondiale, che misura l’indicatore di efficienza nella applicazione dei contratti in rapporto al funzionamento del sistema giudiziario, colloca l’Italia al 155mo posto fra 181 paesi.
Le conseguenze che questo disordine normativo e giudiziario produce sul sistema penitenziario sono gravissime in termini di sovraffollamento, inumanità della pena, illegalità costituzionale (la Costituzione all’art.27 stabilisce che la pena non può essere contraria al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato).
E’ politicamente assai lontana quella “marcia per l’amnistia” del Natale del 2005, alla quale partecipano alcuni leader politici e anche l’attuale capo dello Stato. Se approvata, l’amnistia - oltre ad alleggerire la situazione già allora insostenibile del sistema penitenziario - eliminerebbe gran parte dell’arretrato e consentirebbe al sistema giudiziario di riorganizzarsi e ripartire e al sistema politico di affrontare sul piano legislativo le necessarie riforme.
Il Parlamento non ne ha il coraggio. Si approva l’indulto che allevia temporaneamente - solo temporaneamente - il sistema penitenziario ma continua a ingolfare la macchina giudiziaria costretta ad istruire processi sui quali l’indulto ha cancellato la pena e tenuto in vita il reato. Le riforme non si fanno. E si riprende ad affrontare con la solita logica dell’emergenza ogni nuovo problema sociale. Certo è più facile alimentare campagne demagogiche sulla sicurezza che riformare il sistema penale e civile. E’ più facile inasprire le pene e aumentare le tipologie di reato che realizzare e sperimentare quel giusto equilibrio fra reclusione e pene alternative che è da decenni in vigore negli altri paesi europei. E’ più facile riempire le carceri di tossicodipendenti. Ma per questa strada si amplia e non si restringe il perimetro della illegalità, non si danno risposte alla domanda di giustizia e a quella di sicurezza, si alimenta soltanto un clima di intolleranza e di giustizia sommaria contro il diverso e il più debole, si cancella la Costituzione e ci si allontana da quel modello di Stato di diritto che da almeno due secoli si è affermato in Europa.
L’Italia è sempre fra gli Stati più condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per violazioni della Convenzione europea sui diritti umani e in particolare dell’art. 6, che impone agli Stati di garantire una durata ragionevole dei processi. Il 37 per cento di tutte le sentenze di condanna da parte della Corte per inefficienza della giustizia è a carico dell'Italia.
Nel 2008 la Corte emette 82 sentenze contro l’Italia (più che per qualsiasi altro Stato dell’Europa occidentale), delle quale 51 per la lentezza dei processi.
Al 31 dicembre 2008 pendono presso la Corte 4.200 casi riguardanti l’Italia, cioè il 4,3 per cento del totale (solo Russia, Turchia, Romania e Ucraina ne avevano un numero maggiore). Di tali casi, 2.600 sono per la durata eccessiva dei processi, materia per la quale l’Italia ha riportato 999 condanne negli ultimi dieci anni. In tale periodo (1° novembre 1998 – 31 dicembre 2008), la Corte dichiara ammissibili 1.744 casi riguardanti l’Italia – un numero inferiore solo a quello dei casi riguardanti la Turchia.
L'Italia è inoltre lo Stato con il maggior numero di sentenze di condanna della Corte europea di Strasburgo non eseguite sul piano interno: 2.467 su un totale di 3.544 casi pendenti dinanzi al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
Il numero dei procedimenti contro l’Italia a Strasburgo sarebbe ancora più alto se il 18 aprile 2001 non fosse entrata in vigore la Legge 89 (detta ‘Legge Pinto’), che impone di richiedere un indennizzo per l’eccessiva durata dei processi attraverso il ricorso a una Corte di Appello italiana invece che alla Corte europea. Paradossalmente, anche i tempi di questi ricorsi sono però solitamente più lunghi di quelli previsti dalla legge e gli indennizzi sono a volte incongrui, fornendo nuove ragioni per ricorrere a Strasburgo.
Ancora nel marzo 2009, il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa richiama l'Italia a risolvere il problema strutturale dell'eccessiva durata delle procedure giudiziarie nei processi civili, penali e amministrativi. Il Comitato inoltre invita ad adottare urgentemente misure ad hoc per ridurre il numero di cause pendenti davanti ai tribunali e a rivedere la legge Pinto creando un fondo speciale per i risarcimenti e semplificando le procedure per ottenerli.
Nel solo 2008 gli indennizzi ai cittadini per la lentezza dei processi, in base alla legge Pinto, costano allo Stato oltre 32 milioni di euro.

Capitolo 5

UN PRESIDENZIALISMO ABUSIVO, MEDIATICO ED EXTRA-ISTITUZIONALE

La lenta trasformazione delle funzioni e prerogative del Presidente della Repubblica muta il suo ruolo da quello di “garante” e di “custode” a quello di arbitro e mediatore fra le forze politiche. Così come il grande consenso popolare a un bipartitismo sul modello anglosassone viene trasformato dalla partitocrazia in un bipolarismo all’Italiana, che conserva intatto il potere dei partiti, il “Presidenzialismo” viene attuato in forme abusive: attraverso una lenta ma implacabile opera di svuotamento dei poteri istituzionali formali e degli strumenti a disposizione del Presidente (dal potere di grazia allo strumento del “messaggio alla Camere”, a quello del “rinvio” delle leggi al Parlamento), mentre si afferma un potere di fatto di esternazione diretta al popolo per mezzo della televisione. Parallelamente, al ruolo di garante della Costituzione si sostituisce quello di arbitro: perennemente impegnato nella “moral suasion” tra i partiti; fino all’ultimo clamoroso esempio: l’impotenza dimostrata in occasione della paralisi della Commissione di Vigilanza e degli “obblighi costituzionali inderogabili”, inutilmente invocati per mesi dal Presidente Giorgio Napolitano.

5.1 L’esternazione extra-costituzionale

La Costituzione non prevede alcun potere presidenziale di esternazione diverso da quelli formali che si esercitano attraverso i messaggi al Parlamento (artt. 74 e 87 cpv.). Al Parlamento, dunque, e non al popolo o alla nazione. Al di fuori di questi poteri formalmente previsti, l’”irresponsabilità” del Presidente della Repubblica durante il suo mandato dovrebbe far cadere ogni suo altro intervento pubblico sotto la responsabilità politica del Presidente del Consiglio o, a seconda delle competenze, dei singoli ministri. E’ una nozione costituzionale che praticamente si perde dopo lo scadere del mandato del Presidente Einaudi. Da allora i diversi presidenti, in particolare Cossiga, fanno un uso spropositato della cosiddetta “esternazione”. Negli ultimi due anni della sua presidenza, Cossiga si trasforma da garante della Costituzione in picconatore del Governo e delle altre istituzioni. Nell’agosto 1991 Pannella prepara l’impeachment, la richiesta di messa in stato d’accusa per attentato alla Costituzione e nel novembre successivo presenta una denuncia formale all’autorità giudiziaria nei confronti di Cossiga, sulla base delle stesse motivazioni. Solo nel dicembre del 1991 l’allora Pds presenta a sua volta la richiesta di impeachment. Dopo le elezioni politiche dell’aprile 1992 (e con un anticipo di dieci settimane rispetto alla scadenza naturale del suo mandato) Cossiga si dimette.
“Quando la Carta costituzionale ha voluto dar voce al Presidente della Repubblica, ha previsto il diritto di messaggio alle Camere. Il colloquio diretto del Capo dello Stato con il popolo non è previsto. Si può dire che non vi è norma che lo impedisca o lo condanni, ma non è previsto, soprattutto perché è un colloquio che finirebbe per passare sopra il Parlamento, con il quale invece è costituzionale il colloquio del messaggio.” Così Oscar Luigi Scalfaro nell’aprile del 1991. Parole che, conquistato il più alto incarico dell’organigramma istituzionale del nostro paese nel maggio 1992, Scalfaro pare sin quasi da subito dimenticare. Lo stile del presidente non cambia con il passare dei mesi, per cui anche per lui viene richiesto l’impeachment. I Club Pannella-Riformatori organizzano una raccolta di firme (oltre centomila) per spingere il Presidente della Repubblica a dimettersi, ma Scalfaro conclude senza particolari scossoni il suo mandato, difeso a spada tratta in particolare dal centrosinistra.
Le presidenze Ciampi e Napolitano si caratterizzano per la loro continuità nell’abuso del potere di esternazione. Un’esternazione che è, forse, meno eversiva nei contenuti rispetto a quella di Cossiga e meno “emergenziale” di quella di Scalfaro. Uno stile più da “italiani brava gente”, ma che comunque è fuori dal dettato costituzionale. Soprattutto a partire dalla presidenza Cossiga, i Presidenti della Repubblica sono quotidianamente impegnati in esternazioni su argomenti di qualsivoglia tipo, un “interventismo” che impedisce loro di svolgere il compito e la funzione per cui si trovano al Quirinale: quello di garanti della Costituzione.



5.2 1992-1993: L’acquiescenza alle interferenze della magistratura

La rinuncia ad esercitare questo ruolo si rivela in modo particolare durante il periodo di Tangentopoli, quando in seguito ad avvisi di garanzia emanati dai giudici di Milano, si afferma la pratica di sollecitare o accettare con quasi assoluta automaticità le dimissioni di ministri o di sottosegretari. Si crea un clima da caccia alle streghe, a cui il Presidente della Repubblica Scalfaro e lo stesso Presidente del Consiglio Amato non vogliono e non sanno reagire. Indipendentemente dalla gravità dei reati su cui i giudici indagano e dell’indignazione dell’opinione pubblica, non ci si rende conto della gravità del precedente che si contribuisce a creare, che mette nelle mani di un qualsiasi giudice, nella fase solo iniziale di un procedimento penale, il destino di un ministero o, come accaduto anche recentemente, di un intero Governo. Tanto più grave si dimostra questo atteggiamento corrivo nei confronti dei magistrati milanesi, manifestatosi anche in occasione del loro clamoroso pronunciamento contro un provvedimento del Governo, quando Scalfaro ritiene di dover reagire solo di fronte all’ipotesi di essere chiamato personalmente in causa: “Non ci sto”, proclama allora davanti alle telecamere.

5.3 1995: Il Presidente sordo (al “suo Parlamento”)

Il 28 settembre 1995, nel pieno della raccolta firme dei radicali su 20 referendum, 485 deputati e senatori di ogni parte politica - maggioranza assoluta nelle due Camere - si rivolgono al Presidente della Repubblica Scalfaro, nella sua qualità di supremo garante della Costituzione, per denunciare il tentativo di annullamento, da parte dell’informazione pubblica, dei referendum, e per chiedergli un intervento che consenta l’immediato ripristino della legalità e del diritto. La maggioranza assoluta dei parlamentari scrive al Presidente quello che i Radicali, inascoltati, denunciano da decenni: che ancora una volta è in corso un attentato ai diritti civili e politici dei cittadini. “Questa iniziativa – si legge nel documento - sostenuta da un ampio schieramento politico e parlamentare, ha incontrato un gravissimo e illegittimo ostruzionismo da parte della pubblica Amministrazione, del servizio pubblico di informazione radiotelevisivo, così come, del resto, da parte della stampa e del sistema televisivo privato”, e prosegue: “Non un servizio nei telegiornali e nelle trasmissioni di informazione è stato dedicato agli argomenti oggetto di referendum popolari. Si è così realizzato contro le leggi e i diritti politici dei cittadini, un autentico attentato silenzioso che proprio per questo suo carattere è stato ancora più efficace, doloso e violento”. Sempre il 28 settembre, Marco Pannella, intervenendo in diretta dall’ospedale ove è ricoverato al quarto giorno di sciopero della sete, chiede al Presidente della Repubblica “che ogni giorno parla su ogni argomento” di rispondere alla denuncia proveniente dalla maggioranza assoluta del Parlamento. Il Presidente si limiterà a un generico richiamo al rispetto della “par condicio”.
Il 21 novembre i parlamentari radicali Lorenzo Strik Lievers, Sergio Stanzani, Paolo Vigevano, con Rita Bernardini e Lucio Bertè della Segreteria del Movimento e altri militanti, sul palco del Teatro Flaiano di Roma, presentano i loro corpi completamente nudi, nella drammatica magrezza di chi è in sciopero della fame da 37 giorni, per rappresentare così la “nuda verità” di quanto sta accadendo. Sono 59 i parlamentari di tutti i partiti (molti dei quali dichiarano di non essere d’accordo sul merito di alcuni o di tutti i referendum, ma di voler difendere ugualmente il diritto all’informazione denegato) che si uniscono per un giorno al digiuno dei loro colleghi.
Tuttavia, nonostante continui il silenzio e l’inerzia del Presidente della Repubblica sull’attentato ai diritti civili e politici dei cittadini, alla fine, il successo arriva: al termine dei tre mesi che la legge stabilisce per la raccolta, quasi 12 milioni di firme autenticate e certificate vengono consegnate alla Corte di Cassazione.

5.4 2001: Il presidente incatenato sul potere di grazia

Se sull'esternazione i Presidenti del Repubblica degli ultimi anni fanno strame del diritto, sul potere di grazia, da loro concesso dalla Costituzione, sono invece vittime di incredibili interferenze partitocratiche. L'articolo 87 della Costituzione stabilisce che il Presidente della Repubblica “Può concedere grazia e commutare le pene”, e il successivo articolo 89 che “Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità”.
In occasione della richiesta di grazia da parte di Ovidio Bompressi e di quelle avanzate in maniera trasversale da esponenti della politica e della cultura per Adriano Sofri, tra il 2001 e il 2006 si verifica un acceso conflitto di attribuzioni dei poteri tra l'allora Presidente Ciampi e il Guardasigilli Roberto Castelli. Per quest'ultimo la grazia non è una prerogativa autonoma del Capo dello Stato; nel 2001 respinge la prima domanda di grazia di Bompressi e si pone anche in netto contrasto con un'eventuale presa di posizione “spontanea” di Carlo Azeglio Ciampi in favore dell'assegnazione della grazia ad Adriano Sofri. I Radicali, Marco Pannella in particolare, si mobilitano per difendere la prerogativa del Presidente della Repubblica; devono contrastare, non solo una pesante campagna demagogica, ma anche gli Uffici legislativi e i collaboratori del Presidente Ciampi, segretario generale Gaetano Gifuni in testa. Un consigliere giuridico del Presidente arriva a scrivere, nel 2002, che “non esiste nel nostro ordinamento un potere autonomo del Capo dello Stato di concedere la grazia”: in pratica il Presidente si autoamputava di un proprio potere, contro la Costituzione.
Dopo 5 anni e mezzo dal suo inizio, la vicenda si conclude nel 2006, quando la Corte costituzionale stabilisce che il ministro della Giustizia non ha l'autorità di impedire la prosecuzione di un procedimento di grazia avviato dal Presidente della Repubblica. La Corte costituzionale riconosce dunque che i Radicali hanno ragione. La sentenza, tuttavia, viene emessa tre giorni dopo la scadenza del mandato presidenziale di Carlo Azeglio Ciampi, cui è stato di fatto impedito di esercitare il suo potere autonomo di grazia.

Burton Morris
06-05-09, 19:51
Capitolo 6

PARLAMENTO: LA CAMERA DEI PARTITI

La vita del Parlamento come una cartina di tornasole dell’illegalità costituzionale repubblicana: dalla pubblicità dell’attività ai regolamenti “gruppocratici”, dall’immunità/impunità di Regime alla decretazione d’urgenza come stravolgimento dei poteri.

6.1 Nel 1976 la voce dei politici esce dal Palazzo con Radio Radicale

L’articolo 64 della Costituzione afferma che le sedute del Parlamento “sono pubbliche”, ma nella realtà dei fatti il precetto costituzionale rimane lettera morta per decenni. La pubblicità istituzionale è affidata alla sola stampa di poche centinaia di copie di resoconti stenografici o sommari delle sedute d’aula, da ritirare a pagamento presso la stamperia e quindi indirizzata essenzialmente ai notisti politici e ai singoli parlamentari. Solo nel 1976 l’emittente “Radio Radicale” inizia a trasmettere in diretta, senza autorizzazione e rubando il segnale dal circuito interno, i dibattiti delle assemblee di Camera e Senato, inaugurando anche il processo di archiviazione delle “voci” di deputati e senatori, con una sistematica catalogazione.
Un altro articolo della Costituzione che subisce gravi attacchi dalla “prassi” parlamentare e dalle previsioni regolamentari è l’art. 67 laddove si afferma che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Sulla spinta dei partiti e dei gruppi parlamentari, sia di maggioranza che d’opposizione, il ruolo del singolo parlamentare risulta mutilato: il Parlamento anziché luogo del dibattito e del confronto politico, si configura come mera sede di registrazione degli accordi e dei compromessi fra partiti, sindacati e forze sociali, maturati all’esterno delle istituzioni.

6.2 Il regolamento della Camera del ’71 e il potere ai partiti

Decisiva sul punto la vicenda dei regolamenti parlamentari. Nonostante il preciso dettato costituzionale dell’articolo 64: “ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti”, la Camera in via implicita e il Senato in modo esplicito scelgono, come già fatto per l’Assemblea Costituente, la continuità con il regolamento parlamentare del 1900, e le successive modifiche fino al 1922. Solo nel 1971 la Camera si dota di un nuovo regolamento, che nasce con un impianto sul ruolo dei partiti e non dei deputati e fondato sull’unanimità della gestione dei procedimenti.
Nella gestione quotidiana del lavoro, si attribuisce ai Presidenti dei gruppi parlamentari poteri d’attivazione e di programmazione dei lavori che annichiliscono le prerogative del singolo parlamentare, mentre si registra il costante richiamo alle “prassi”, alle consuetudini e alle convenzioni parlamentari che risulta fatto proprio contro la testualità del regolamento scritto. Ad esempio, nella delicatissima primavera del 1978 la Camera, nella rincorsa dei partiti a impedire i referendum, finisce per autorizzare contemporanee sedute dell’Aula e di commissioni in sede legislativa: nello stesso momento i parlamentari sono chiamati a votare la legge sull’aborto, la legge sui manicomi e le modifiche alla legge Reale, con la materiale impossibilità dei singoli di svolgere il proprio mandato. Sempre in quei giorni si registrano ripetuti richiami al Regolamento, in forza del 1° comma dell’art. 68 che riporta: “I disegni e le proposte di legge presentati alla Camera o trasmessi dal Senato, dopo l’annuncio all’Assemblea, sono stampati e distribuiti nel più breve termine possibile”. Dopo giorni, il testo per la riforma del Codice di procedura penale (avanzato dal gruppo radicale) non è neppure annunciato all’Assemblea, mentre è depositato per essere valutato in abbinamento con il disegno di legge di riforma della legge Reale, che si sta discutendo in Commissione Giustizia.



6.3 Le violazioni del regolamento tra il 1979 e il 1983

Dai resoconti sommari della legislatura 1979–1983 si evince la testimonianza quotidiana delle violazioni del regolamento, tra cui spiccano almeno una trentina di casi in cui l’arbitrio è incontestabile e particolarmente grave: ad esempio l'art. 41 che dà l'assoluta priorità, nel dibattito, agli interventi per richiamo al regolamento, risulta sistematicamente disatteso dalla Presidenza, con episodi eclatanti come durante il caso D’Urso nella seduta del 13 gennaio 1981, con il tentativo dei parlamentari radicali di leggere in aula una lettera del giudice sequestrato al direttore de L’Avanti. Particolarmente presi di mira, con interpretazioni di comodo, gli articoli che garantiscono e regolamentano l’ammissibilità e l'illustrazione degli emendamenti durante il dibattito.
Venendo poi a mancare l’unanimità nella conferenza dei capigruppo, si aprono in aula costanti e vivaci dibattiti sull'ordine del giorno e quindi sul programma dei lavori, che un regolamento “gruppocentrico” non è attrezzato a risolvere. Sempre in quella stagione si registra l’aumento di frequenza delle espulsioni dall’aula e dalle commissioni: una decina in due anni, più l'espulsione di un gruppo parlamentare praticamente al completo. Espulsioni basate sull'art. 59 (insulti) interpretando come ingiurie i commenti politici critici fatti al microfono dell’oratore, senza registrare invece gli attacchi fatti dai deputati contro chi interviene, mentre la stessa Presidenza della Camera definisce “sceneggiata” (9 gennaio '81) la battaglia politica di una parte. Con puntigliosi richiami al regolamento e la pratica dell’ostruzionismo parlamentare, in realtà si tenta di indurre il Parlamento a svolgere al meglio la sua funzione, cioè ad approvare riforme vere, in alcuni casi attese da lustri (come quella sui codici fascisti) anziché improvvisare leggi pasticciate al solo scopo di impedire lo svolgimento dei referendum.
Nei primi 15 mesi di presenza dei radicali in Parlamento, si registrano oltre 900 interventi dei deputati radicali, di cui 160 di soli richiami al rispetto del regolamento. Come reazione, nel 1981 viene approvata una prima riforma del regolamento della Camera che limita i tempi d’intervento dei parlamentari e riduce la programmazione concordata all'unanimità all'interno della conferenza dei capigruppo. La controriforma del regolamento passa nonostante i 50.000 emendamenti presentati dai radicali e, fra questi, alcuni fortemente innovativi come quelli che, sul modello del Parlamento britannico, propongono il question-time o quelli volti a stabilire i diritti dell’opposizione e un ruolo nuovo al Governo nei rapporti con l’Assemblea.
L’ultima riforma dei regolamenti parlamentari, approntata nel 1997 ed entrata in vigore all’inizio del 1998, sembra voler concludere un percorso molto lungo di trasformazione delle regole (1983 – 1986 – 1988 – 1990), ma l’attuale regolamento non rispecchia i meccanismi derivanti dall’impostazione maggioritaria della legge elettorale: di nuovo si ha un regolamento scritto che vive di prassi consolidate e interpretazioni. Ad esempio, si affida una posizione centrale nella programmazione dei lavori al Presidente della Camera, oltre che ai presidenti dei gruppi e si riconosce al Governo la facoltà di esprimere le proprie indicazioni e priorità, ma ciò è stravolto dal ricorso alla decretazione d’urgenza, abbinata alla richiesta del voto di fiducia. Ad esempio, nello scorcio di questa XVI legislatura, la Camera approva 58 leggi - 55 d’iniziativa governativa e 33 di conversione di decreti legge - 12 delle quali assicurate e blindate con il voto di fiducia: in un Parlamento in cui la maggioranza è peraltro numericamente molto forte.

6.4 Immunità parlamentare e impunità di regime

Le previsioni costituzionale degli articoli 68 e 96 sono introdotte nella Carta, per costruire un sistema di prerogative e di garanzie per i parlamentari e i membri del Governo, allo scopo di garantire il corretto funzionamento degli organi istituzionali. Per i costituenti si tratta di riconoscere un principio di indipendenza del parlamentare come massima garanzia dell’Assemblea stessa. L’irresponsabilità giuridica diventa un necessario completamento dell’irresponsabilità politica, ossia serve ad evitare che il principio dell’irresponsabilità politica – e quindi la piena e insindacabile libertà di opinione – non venga violato surrettiziamente, utilizzando illegittimamente il canale giudiziario per colpire un parlamentare a motivo delle opinioni espresse e del lavoro svolto in Parlamento.
L’insindacabilità è da riferirsi solo agli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni strettamente parlamentari e l’immunità può essere fatta valere solo per prevenire eventuali interferenze sulla loro regolarità. Nel disegno costituzionale, dunque, i parlamentari non godono di una posizione di privilegio personale, ma soltanto delle conseguenze individuali di garanzie che riguardano l’intera Assemblea parlamentare come istituzione. L'art. 96 disciplina, invece, la procedura per i reati commessi dai membri del governo: lo scopo di tutelare l'esecutivo da persecuzioni politiche immotivate e mascherate e prevedere nello stesso tempo giustizia severissima per i reati ministeriali. Le disposizioni costituzionali vengono applicate con la legge 10 maggio 1978 n. 170 e dal regolamento parlamentare dei procedimenti di accusa. L’abuso dello strumento in garanzia di impunità si materializza in numerosissimi casi eclatanti assurti alle cronache: “traghetti d’oro”, “carceri d’oro”, “lenzuola d’oro”, “autostrade d’oro”… fino ad arrivare ai casi “Giannettini” e “P2”.
La Commissione inquirente funziona regolarmente per “assolvere” parlamentari e ministri: l’unico caso di processo per i reati ministeriali giunto a sentenza è il caso Lockheed, dove la portata dello scandalo è tale per cui la Commissione, assediata dall'opinione pubblica, non può insabbiare. Nelle sole legislature VIII e IX sono 140 i casi di procedure: tutte archiviate, 26 di queste con il voto dei 4/5 dei commissari tale da non esigere neppure la ratifica pubblica dell’ aula; per 6 procedure trascorrono inutilmente i termini della denuncia o muore l'inquisito e per 9 la commissione si dichiara incompetente. Saranno i casi Negri–7 aprile e Tortora a far esplodere la questione delle prerogative abusate: in particolare la campagna, politica e referendaria, per la “Giustizia Giusta” comprende anche l'abolizione della Commissione inquirente.
L'8 e il 9 novembre 1987 si vota su cinque referendum, quello contro la Commissione inquirente registra l’85% di “Sì”. La legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 riforma il complesso delle norme, pone fine alla giurisdizione della Corte costituzionale sui reati ministeriali e sopprime la Commissione inquirente, competente a giudicare i reati commessi dai ministri. A ciò segue l’abolizione dell’istituto della messa in stato di accusa di ministri ed ex ministri da parte del Parlamento, con il conseguente affidamento del perseguimento dei reati ministeriali all’autorità giudiziaria ordinaria, sia pure con un apposito organo (Tribunale dei ministri) e attraverso una speciale procedura.
Durante Tangentopoli si registra una violazione degli assetti istituzionali di segno opposto: Ministri e Sottosegretari sono di fatto costretti alle dimissioni da semplici avvisi di garanzia che, da strumento di tutela del singolo cittadino, si trasformano in strumenti che modificano la composizione del Governo del paese. Il Governo di Giuliano Amato nel 1993 vede vari ministri dimessi a seguito di un avviso di garanzia, fra questi Claudio Martelli (10 febbraio), Francesco De Lorenzo e Giovanni Goria (il 19 febbraio), Gianni Fontana (21 marzo). Il Presidente della Repubblica accetta le dimissioni così motivate, nonostante le proteste dei radicali.
Nel luglio 2007, il Parlamento ha approvato, a tempo di record, un disegno di legge riguardante l'immunità giudiziaria delle quattro principali cariche dello Stato. In soli 25 giorni è passato al vaglio ed all’approvazione delle commissioni di Camera e Senato: in particolare, il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il Presidente della Camera e del Senato non sono perseguibili penalmente e civilmente dalla giustizia finché restano in carica. L'immunità decade se la persona si dimette, e non è cumulabile con l'elezione di cariche diverse da quelle con cui si è stati eletti; in pratica, qualora un ipotetico Presidente del Consiglio fosse indagato, e successivamente venisse eletto Presidente della Repubblica, l'immunità non esisterebbe.

6.5 Decretazione d’urgenza e stravolgimento dei poteri tra esecutivo e legislativo

Grande discussione dedica l’Assemblea Costituente alla previsione o meno della decretazione governativa. Dopo l’esperienza del regime fascista, molte sono le preoccupazioni nel definire gli equilibri fra i poteri. I Costituenti decidono di ribadire più volte, negli articoli 70 e 76 che la funzione legislativa spetta, solo e soltanto, alle Camere e che non può essere delegata al Governo, se con precisi vincoli, su definiti temi, per un tempo limitato. Il Governo può eccezionalmente adottare, sotto la propria responsabilità, provvedimenti provvisori con forza legge, ma solo in casi straordinari di necessità e urgenza, precisi e motivati.
L’abuso dello strumento e lo stravolgimento degli equilibri fra organi costituzionali si manifesta in modo sempre più evidente: dai 31 emanati nella prima legislatura (1948-1953), di cui 30 convertiti in legge ed 1 decaduto, si arriva ai 669 emanati nella dodicesima legislatura, per altro breve (1994-1996) di cui solo 121 convertiti (di questi solo 30 senza modificazioni) ma con ben 538 decaduti, 10 direttamente respinti e 88 lasciati pendenti. Una vera e propria escalation: 60 decreti nella II, 30 nella III, 94 nella IV, 69 nella V; con un’esplosione dagli anni ’70, accanto all’aumento del numero di decreti emanati, aumentano anche il numero dei decaduti 126 nella VI, 166 nella VII, 260 nella VIII, 306 nella IX, 433 nella X (decaduti 231, respinti 15, 17 pendenti a fine legislatura), 477 nella XI (decaduti 351, respinti 8, pendenti 66), 669 nella XII, come si è già detto.
Dopo 30 anni, con la sentenza n. 302 del 1988, la Corte costituzionale interviene rivelando che l’insistita reiterazione dei decreti-legge configura una violazione delle competenze delle Regioni, ma una svolta si registra solo con la sentenza n. 360 del 1996, nella quale la Corte dichiara l’illegittimità della 17° reiterazione di un decreto sui rifiuti, provocando un’inversione di tendenza: sono infatti 370 i decreti emanati, 82 convertiti – 30 con modificazioni - 182 decaduti, 6 respinti, 9 pendenti; 216 nella XIV, 48 nella XV. Nella legislatura in corso siamo a 34 decreti in 11 mesi. La Corte di fronte al perdurare dell’abuso – non solo quantitativo - della decretazione di urgenza con la più recenti sentenze nn. 171/2007 e 128/2008 dichiara incostituzionali le leggi di conversione dei decreti legge prive ab origine dei presupposti di “necessità e urgenza”.
A corollario della limitazione dell’utilizzo della decretazione d’urgenza operata dalla Corte, attraverso un sindacato di legittimità sempre più penetrante, vi è l’aumento dell’utilizzo della delegazione legislativa di cui all’art. 76 della Costituzione. Anche nell’utilizzo di questo strumento normativo si assiste allo svuotamento della funzione legislativa del Parlamento in favore dell’esecutivo, in quanto i “principi e criteri direttivi” - sulla cui esclusiva base è possibile delegare la funzione legislativa - spesso sono di una tale vaghezza da non costituire alcun serio ostacolo alla discrezionalità del governo in merito alla disciplina legislativa da adottarsi.
A completamento della dinamica che vede il governo come vero dominus dell’azione legislativa, si sottolinea come l’utilizzo combinato della decretazione d’urgenza – spesso in forza di presupposti opinabili – e della questione di fiducia sul disegno di legge di conversione del decreto (al solo fine di compattare la maggioranza e rendere impossibile l’emendabilità) ha finito con lo spogliare l’attività parlamentare d’ogni autonomia rispetto ai desiderata del Governo.

Capitolo 7

GLI ANNI ‘70: LA RIVOLUZIONE DEI DIRITTI CIVILI

Obiezione di coscienza al servizio militare, divorzio, aborto, voto ai diciottenni, diritti dei transessuali, depenalizzazione delle droghe: il movimento radicale e referendario dei diritti civili ottiene importanti conquiste sociali già dalla fine degli anni ’60. E potrebbe dilagare. Eutanasia, abolizione del Concordato, abolizione dei manicomi, diritti delle persone omosessuali: le “riforme tabù” di oggi erano già mature 30 anni fa.

7.1 Il riconoscimento dell’obiezione di coscienza e l’abolizione dei Tribunali militari

Il riconoscimento legislativo dell’obiezione di coscienza viene introdotto in Italia dopo che per vent’anni gli obiettori, con i radicali in prima linea, affrontano detenzioni, processi e condanne per affermare il principio morale civile o politico di non collaborare con gli eserciti. Dall’arresto dei fratelli Strik Lievers nel ’66 alla lunga carcerazione di Roberto Cicciomessere, vice-segretario del Pr, e di molti altri obiettori, è solo grazie a questa lotta che si arriva nel 1972 alla legge sull’obiezione di coscienza (la cosiddetta “Legge Marcora”) che, pur mantenendo alcune discriminazioni superate solo successivamente, permette di optare per il servizio civile sostitutivo obbligatorio. La lotta per l’obiezione di coscienza è anche lotta contro l’incostituzionalità dei tribunali militari. Con la legge 180 del 7 maggio 1981 viene approvata una profonda riforma dell'ordinamento giudiziario militare di pace, che assimila i tribunali militari a quelli ordinari, sottoponendoli sostanzialmente alla stessa disciplina.
Durante il processo a Cicciomessere la difesa eccepisce l’incostituzionalità dei Tribunali militari. L'istituzione giudiziaria militare è infatti espressione di un più generale atteggiamento di resistenza nei confronti della Costituzione. Inoltre il diritto civile all'obiezione di coscienza non è ancora riconosciuto nell’ordinamento giuridico, a differenza di quanto accade negli altri paesi democratici. Questa situazione determina la violazione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Il procedimento penale, originato dalla disobbedienza civile di Cicciomessere e degli altri radicali, diviene “processo alla legge”, pubblica denuncia dello “scandalo” di un vulnus al dettato costituzionale.
Le disobbedienze civili di massa condizionano in maniera decisiva l’attività parlamentare. L’azione radicale si pone sempre come “urgenza” e “necessità” rispetto all’immobilismo del legislatore. Avendo come riferimento la scala dei valori e degli interessi tutelati e riconosciuti dal nostro ordinamento, essa esprime la necessità di assicurare i valori fondamentali riconosciuti dalla Costituzione. In questo senso, La disobbedienza civile cessa di essere resistenza al potere, per divenire iniziativa politica democratica.
In seguito, altri due segretari radicali Jean Fabre e Olivier Dupuis – entrambi belgi – saranno processati e condannati nel loro paese, fino all’estensione completa del diritto all’obiezione nell’ambito europeo.

7.2 Aborto, da reato di massa a legge dello Stato. Come evitare i referendum

Fino al 1978, in Italia l’aborto è considerato un reato, punito dal codice penale fra i “Delitti contro la integrità e la sanità della stirpe”. All’inizio degli anni ’70, gli aborti clandestini sono un fenomeno assai diffuso (alcune stime registrano da uno a due milioni di casi all’anno) e la questione si pone ormai come un problema sociale e di massa. Già dal 1973 l’aborto diventa un tema centrale nell’azione politica dei Radicali, che insieme al Movimento per liberazione della donna (Mld) promuovono azioni di disobbedienza civile.
Nell’autunno del ’74 Adele Faccio annuncia la costituzione del “Centro informazione sterilizzazione e aborto” (Cisa) con sede a Milano e consultori in tutta Italia, dove si pratica l’aborto a titolo praticamente gratuito. Questa disobbedienza civile prosegue per circa un anno, fino al 9 gennaio 1975, quando i carabinieri fanno irruzione in una clinica di Firenze, arrestando il ginecologo Giorgio Conciani e i suoi assistenti e denunciando le oltre 40 donne presenti. Il 13 gennaio viene arrestato il segretario del Pr, Gianfranco Spadaccia, successivamente saranno arrestate Adele Faccio ed Emma Bonino.
Il 18 febbraio la Corte costituzionale dichiara parzialmente illegittima la norma penale che punisce il procurato aborto. Il 25 marzo in tutta Italia i Carabinieri interrogano gli autori delle auto-denunce, violando il codice di procedura e il diritto alla difesa. Il 15 aprile parte in tutta Italia la raccolta delle firme. Si riescono a raccogliere per la prima volta le firme necessarie, che alla fine saranno 750.000. In ottobre il Cisa ha sedi sparse in molte città italiane. Loris Fortuna rassegna le dimissioni da deputato, in polemica con il compromesso Dc-Pci sull’aborto. Il 25 febbraio ‘76 Emma Bonino presenta il bilancio di un anno di attività del Cisa: sono stati eseguiti 10.141 interventi. Nei mesi di settembre e ottobre dilaga la campagna di disobbedienza civile in tutta Italia, con interventi pubblici di aborto.
Con le elezioni anticipate nel ’76, il referendum slitta al ’78, insieme agli altri quattro sopravvissuti – degli 8 presentati – al giudizio della Corte costituzionale: Commissione inquirente, legge manicomiale, finanziamento dei partiti e legge Reale (ordine pubblico). Per evitare a tutti i costi lo scontro sull’aborto, viene varata a maggio la legge 194, frutto di un compromesso fra Dc e Pci. Questo partito è il vero “padrino” della legge, che contiene alcune pesanti limitazioni. In cambio di queste restrizioni, alcuni parlamentari Dc si assentano al momento del voto, per garantire l’approvazione. I deputati radicali votano contro, reclamando una legge più liberale, fondata sul principio di autodeterminazione della donna, che ispirerà il referendum abrogativo parziale del 1981.
I Radicali votano contro anche la nuova legge 180 sui trattamenti psichiatrici, concepita assai più nella fretta di evitare il referendum che per un autentico impegno riformatore. Nel motivare la sua opposizione, Pannella prevede facilmente che i malati si ritroveranno abbandonati a se stessi e alle famiglie. La Commissione inquirente, grande insabbiatrice di scandali per lunghi decenni, è fatta oggetto di una pseudo-riforma puramente nominale, che ne lascia sostanzialmente intatto l’impianto. Per approvare tutte queste leggi in così poco tempo, le Commissioni parlamentari si riuniscono in sede legislativa contemporaneamente all’Aula, rendendo fisicamente impossibile la presenza dei soli quattro deputati radicali.

7.3 Le riforme di liberazione sessuale “GLBT”

All’inizio degli anni ’70, alle persone omosessuali è negata la dignità, la piena cittadinanza, spesso la stessa possibilità di vita, se non a costo di auto-censura, negazione e inganno. La questione omosessuale assume una dimensione pienamente politica durante il congresso radicale di Milano del novembre ‘74, quando il Fuori! (il primo movimento organizzato degli omosessuali) e il Pr sottoscrivono un patto federativo. Con questa decisione, milioni di italiani senza volto possono riconquistare la propria identità in tutte le sedi del Partito radicale, che diventano le sedi anche del movimento.
Inizia così una storia tanto ricca di iniziative quanto misconosciuta o dimenticata, volta al riconoscimento di fondamentali diritti civili e sociali. La presentazione nel 1976 - per la prima volta al mondo in elezioni politiche nazionali - di candidati esplicitamente omosessuali, e la loro elezione. La manifestazione a difesa degli omosessuali nei paesi in cui l’omosessualità è punita con il carcere o con la morte: Pezzana a Mosca nel ‘77, Francone a Teheran nel ‘79 e di nuovo a Mosca nell’80. Le numerose iniziative in sede Onu e Ue che vedono i Radicali impegnati a garantire l’accesso alle istituzioni dei rappresentanti delle organizzazioni GLBT. Infine, la prima legge italiana di riconoscimento delle persone transessuali (164/1982).

7.4 La depenalizzazione del consumo personale di droghe

Fin dalla metà degli anni ‘60 i Radicali si occupano del problema della diffusione delle droghe illegali, proponendo di governare e di regolamentare il fenomeno. Dalle “contro-inaugurazioni” dell’anno giudiziario del ’65, in cui denunciano in tutte le procure della Repubblica il fallimento del proibizionismo, al convegno su “Libertà e droga” del ‘72, alla lettera di Marco Pannella al Messaggero dopo l’arresto di 17 giovani romani accusati di aver fumato hashish, tutta la politica radicale – comprese le disobbedienze civili che ne contrassegnano la storia fino ai nostri giorni – è finalizzata alla richiesta di un grande dibattito pubblico per favorire decisioni democratiche e consapevoli intorno alle leggi in vigore.Di fronte all’immobilismo delle forze politiche e ai veti incrociati che ne impediscono l’azione parlamentare, mentre migliaia di giovani finiscono in galera per aver consumato sostanze stupefacenti, il 2 luglio 1975 Marco Pannella annuncia, con un telegramma alle forze ordine, che di lì a poche ore fumerà pubblicamente uno “spinello” e che denuncerà per omissione d’atti d’ufficio poliziotti e magistrati che non intervengano. Pannella finisce in carcere per due settimane, dichiarando che non firmerà per la libertà provvisoria fino a che il Parlamento non avrà calendarizzato la discussione delle diverse proposte di legge da tempo depositate. I presidenti delle Camere acconsentono all’apertura del dibattito sul tema e, nel giro di pochi mesi, nel dicembre del ‘75, è approvata una legge che distingue lo spacciatore dal consumatore, depenalizzando l’uso di alcune sostanze.

Burton Morris
06-05-09, 19:52
Capitolo 8

UNA LETTURA ALTERNATIVA DEGLI ANNI NERI DELLA REPUBBLICA

“Il sistema dei partiti entra in crisi negli anni ’60, intanto con le lotte per i diritti civili. (...) Negli anni ’70, la solidarietà nazionale è un rigurgito esistenziale del sistema dei partiti che si mette complessivamente contro la società, il pluralismo nella società; e, utilizzando poi anche l’emergenza del terrorismo,...” (Rino Formica, più volte Ministro socialista, a Radio Radicale nell’aprile 2009).

8.1 Elezioni anticipate: i Radicali bruciano i certificati elettorali (1972)

Nel corso degli anni ’70, il processo di erosione della democrazia italiana conosce una fase di forte accelerazione. L’unanimismo consociativo nelle commissioni parlamentari ne è la più evidente riprova. Il 1972 è l’anno delle prime elezioni anticipate, il 1974 è l’anno di introduzione del finanziamento pubblico dei partiti. Il processo di saldatura del “monopartitismo imperfetto” diventa esplicito e formale nella stagione della cosiddetta “unità nazionale” (1976-79) con i monocolori Dc di Giulio Andreotti . Il 1978 è anche l’anno del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro.
All’inizio del ‘72 il nuovo capo dello Stato Giovanni Leone incarica Andreotti di formare il governo. Invece di verificare l’esistenza di una maggioranza parlamentare, egli forma un monocolore Dc che giura subito ed entra in carica. Di fronte al Parlamento, il primo governo Andreotti non ottiene la fiducia. A quel punto – per la prima volta nella storia della Repubblica - vengono sciolte le Camere e si va alle elezioni anticipate.
Il paradosso di un governo che pur non avendo mai ottenuto la fiducia del Parlamento, resta in carica per gestire le elezioni politiche, rappresenta fatto nuovo e grave. Il motivo reale per il quale si giunge alla decisione inedita di anticipare le elezioni, è che per la prima volta i partiti si trovano a fronteggiare una nuova “minaccia”: il referendum sul divorzio. La legge che introduce il referendum è del 1970, nel ’71 una serie di comitati clericali raccoglie le firme per abrogare la legge Fortuna-Baslini. La consultazione popolare è vista come il fumo negli occhi dalle segreterie dei partiti, che la considerano una pericolosa “spaccatura del Paese”, cioè un disturbo rispetto alle loro manovre di palazzo. In particolare il referendum, voluto dal Vaticano e dai clericali, è inviso ai partiti della sinistra tradizionale, che lo temono. I capi socialisti sono ansiosi di tornare al governo con la Dc, i vertici del Pci puntano alla strategia del compromesso storico, che verrà esplicitata l’anno dopo. Piuttosto del “rischio” del referendum, cioè di dare la parola agli italiani, preferiscono forzare la Costituzione, sciogliere il Parlamento, indire elezioni anticipate e rinviare quanto più possibile la consultazione popolare. Così, con un’interpretazione strumentale delle norme, il referendum viene rinviato non di un anno, bensì di due: si terrà infatti nel 1974.
Alle elezioni, i partiti non rappresentati in Parlamento sono esclusi dall’informazione televisiva e condannati all’emarginazione. A fronte di queste e altre illegalità. i Radicali decidono di dare vita a una forma di disobbedienza civile: bruceranno pubblicamente i loro certificati elettorali. In Italia, nel 1972 votare è obbligatorio. Chi si sottrae a questo “dovere” incorre nei rigori della legge. Bruciare i certificati elettorali e istigare all’astensione è un reato, Marco Pannella sarà per questo processato da un Tribunale della Repubblica. Verrà assolto nel 1975, e grazie a questo processo le norme in questione saranno abrogate o modificate.

8.2 L’inganno del cosiddetto “arco costituzionale”

Ai tanti italiani che non si riconoscono nel cosiddetto “arco costituzionale” e che vogliono superarne l’immobilismo, i Radicali offrono nella primavera del ‘74 gli “Otto referendum contro il Regime”. Al progetto aderisce un ampio arco di personalità, che comprende i socialisti Loris Fortuna e Giorgio Fenoaltea, l’ex presidente della Corte costituzionale Giuseppe Branca; Norberto Bobbio, Giorgio Benvenuto, Elena Croce, Bruno de Finetti, Vittorio Foa, Elio Giovannini, decine di altri politici, intellettuali, sindacalisti. Aderiscono anche i maggiori gruppi della sinistra extra-parlamentare e decine di comunità cristiane di base. Parallelamente si svolge la campagna per il referendum sul divorzio. Gli extraparlamentari si ritirano dall’iniziativa di raccolta firme sugli otto referendum, sostenendo che è prioritaria la battaglia per la difesa del divorzio; i Radicali viceversa pensano di difendere il divorzio conquistando nuovi spazi di diritto e di libertà, abrogando le leggi fasciste e autoritarie che trent’anni di “democrazia” non hanno cancellato. Da soli, esclusi dai mezzi di comunicazione, i militanti radicali raccolgono circa 150mila firme autenticate: un risultato ancora insufficiente.
I Radicali si mobilitano sul fronte dell’informazione. Chiedono alla Rai-Tv due trasmissioni di 15 minuti riservate alla Lid e al prete del dissenso don Giovanni Franzoni; un’udienza con il Presidente della Repubblica Leone; alla proprietà de “Il Messaggero” di rispettare la linea laica assunta dal quotidiano nel referendum sul divorzio; al Parlamento di calendarizzare il pdl Fortuna sull’aborto, il diritto di voto ai diciottenni e la riforma del diritto di famiglia.
Marco Pannella e un gruppo di militanti iniziano il 3 maggio un digiuno che si protrae – salvo brevi interruzioni – per circa novanta giorni. Si organizzano a Roma le “Dieci giornate contro la violenza”; si occupa due volte la sede del “Messaggero”, hanno luogo marce e sit-in, comizi, iniziative dirette contro la censura della Rai. Il 20 maggio viene diffuso un appello di solidarietà con i digiunatori, firmato tra gli altri da Norberto Bobbio, Alberto Moravia, Eugenio Montale, Ruggero Orlando, Leonardo Sciascia, Umberto Terracini.
Il 18 luglio la Tv è “costretta” a intervistare Marco Pannella, che ignora ostentatamente le domande del conduttore e parla invece di aborto: per la prima volta gli italiani sentono parlare di questo argomento in televisione. Il giorno dopo Pannella è ricevuto dal Presidente della Repubblica. L’ “estate radicale” si conclude il 20 settembre, con una grande manifestazione contro lo strapotere della Dc nella Rai, che chiede l’allontanamento del presidente Bernabei. Decine di intellettuali e giornalisti dichiarano che non collaboreranno con la Rai fino a quando costui resterà in carica. Pressato dall’iniziativa radicale, qualche giorno prima del 20, Bernabei si dimette.
Sulla stampa scoppia il “caso Pannella”. Il primo a spezzare la cortina del silenzio è Alberto Bevilacqua, con l’articolo “Assurdo ostracismo”, sul mensile “Lo Speciale” diretto da Arturo Tofanelli. Ma la vera rottura è del 16 luglio 1974, quando sulla prima pagina del “Corriere della Sera” appare un lungo articolo di Pier Paolo Pasolini, che invita ad “aprire un dibattito sul caso Pannella”. In rapida successione, intervengono Maurizio Ferrara, Giuseppe Prezzolini, Adolfo Battaglia, Giovanni Spadolini, e ancora Pasolini. Su altri giornali (“Il Mondo”, “Panorama”, “L’Espresso”, “La Stampa”, “Il Resto del Carlino”) intervengono Nicola Matteucci, Guido Calogero, Renato Ghiotto, Giorgio Bocca, Leonardo Sciascia, Alberto Moravia, Stefano Rodotà, Roberto Gervaso, Arrigo Benedetti, Vittorio Gorresio e altri ancora.

8.3 Di nuovo elezioni anticipate, di nuovo contro i referendum (1976)

Così come il primo referendum (sul divorzio, voluto dai clericali) aveva provocato le prime elezioni anticipate del ‘72, altrettanto il secondo referendum (sull’aborto, voluto dai Radicali) provoca le seconde elezioni anticipate nel ‘76.
In occasione della presentazione delle liste elettorali, i Radicali gareggiano con il Pci per arrivare primi nei tribunali, garantendo al simbolo il primo posto in alto a sinistra nelle schede. Nella notte che precede la presentazione, i militanti radicali vengono aggrediti e trascinati via con la forza. In televisione il segretario del Pci Enrico Berlinguer accusa i Radicali di avere inventato tutto per farsi pubblicità. Il ministro dell’interno, Francesco Cossiga, assicura di aver disposto accertamenti e nega anch’egli l’accaduto. I Radicali hanno esaurito i pochi spazi televisivi a disposizione e non sono in grado di replicare. Episodi analoghi si ripeteranno, con intensità diverse, nel ’79 e nell’83, sino a quando non sarà definitivamente accolta la proposta radicale di assegnare il posto ai simboli sulla scheda per sorteggio.
Il 20 giugno 1976 il Partito radicale raggiunge il “quorum” che consente per la prima volta l’elezione alla Camera di quattro deputati (Emma Bonino, Adele Faccio, Mauro Mellini e Marco Pannella) che contrastano la politica di “unità nazionale” dei governi Andreotti, cioè l’ammucchiata consociativa dei partiti del regime.
Nella primavera del ’78 il Parlamento sottrae agli elettori la possibilità di votare i referendum sull’aborto, sui manicomi e sulla Commissione inquirente. Restano così solo due dei nove referendum che centinaia di migliaia di cittadini avevano sottoscritto: quelli sul finanziamento pubblico dei partiti e sulla legge Reale. Vincono i No, ma in entrambi i casi per la partitocrazia è una vittoria di Pirro. Sulla legge Reale i Sì sono oltre il 25 per cento – si vota a meno di un mese dall’assassinio di Aldo Moro, in un clima assai cupo. Il Pci, che pure nel ’75 aveva votato contro la legge, conduce una violenta polemica contro i referendum: se le legge Reale sarà abrogata, dichiarano autorevoli esponenti in televisione, potrebbero uscire di galera Curcio, Concutelli e Vallanzasca, criminali politici e comuni detenuti per gravissimi reati di sangue. La propaganda televisiva a senso unico dà i suoi frutti, anche se un quarto degli italiani decide ugualmente di votare in difesa dello Stato di diritto. La vittoria della partitocrazia è ancora più ridotta sull’altro referendum: i Sì all’abrogazione del finanziamento ai partiti raggiungono il 43%, Un partito che alle elezioni di due anni prima ha raccolto l’1,1% dei voti, è riuscito da solo a fare emergere la spaccatura esistente fra la partitocrazia e la società italiana. La legislatura dell’unità nazionale si concluderà, ancora una volta con le elezioni anticipate l’anno seguente.

Scheda. Giorgiana Masi: dopo tre decenni, nessuna verità

L’ipotesi prospettata per l’ennesima volta nel 2005 dall’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che Giorgiana Masi possa essere stata colpita da “fuoco amico”, cioè da “colpi vaganti sparati da dimostranti” riapre un caso - in realtà mai chiuso - dopo 28 anni.
L’episodio risale al 12 maggio 1977. A Roma, durante una manifestazione musicale organizzata dal Partito radicale in piazza Navona nel terzo anniversario della vittoria nel referendum sul divorzio, una giornata di festa si trasforma in tragedia. Sull’asfalto di ponte Garibaldi resta una ragazza di 19 anni, Giorgiana Masi, uccisa da un colpo di pistola. L’inchiesta viene chiusa il 9 maggio 1981 dal giudice Claudio D’Angelo con la dichiarazione di non luogo a procedere. I responsabili del reato sono rimasti ignoti, malgrado la riapertura del caso sia stata più volte sollecitata.
Le foto dimostrano il fatto, smentito in un primo tempo, che nelle strade hanno operato agenti delle forze dell’ordine in borghese, travestiti da facinorosi. L’allora ministro dell’interno Francesco Cossiga afferma in seguito: “Fu un momento drammatico, in cui tra l’altro chiesi scusa al Parlamento, perché mi era stato detto che non vi erano in piazza agenti di polizia o carabinieri in borghese. Io affermai questo. Avendo appreso il contrario, quando gli amici de “L`Espresso” mi diedero la documentazione fotografica, rimossi dal suo incarico uno che era mio amico e che mi aveva fornito, non per colpa sua, queste informazioni. Poi andai in Parlamento e chiesi scusa”.
Si parla anni dopo anche della possibile responsabilità di personaggi dell’estrema destra o dell’estrema sinistra. Il “pentito” di destra Angelo Izzo dice nel ‘97 che a sparare è stato Andrea Ghira, usando le armi in possesso del gruppo eversivo “Drago”, di cui fa parte. L’anno dopo un quotidiano parla di un rapporto della Digos secondo cui il colpo mortale sarebbe partito da una pistola calibro 22, poi trovata in un covo delle Br. Ma la verità non verrà mai alla luce.
Nel 2001, ancora Cossiga dice: “Non vorrei essere frainteso, ma io dico con estrema onestà che come sia morta Giorgiana Masi non lo so”. Nel 2003, a “Report”, Cossiga fa capire di sapere qualcosa: “Non l`ho mai detto all’autorità giudiziaria e non lo dirò mai, è un dubbio che un magistrato e funzionari di polizia mi insinuarono. Se avessi preso per buono ciò che mi avevano detto, sarebbe stata una cosa tragica. Ecco, io credo che questo non lo dirò mai se mi dovessero chiamare davanti all’autorità giudiziaria, perché sarebbe una cosa molto dolorosa”. In quegli stessi giorni, l’ex presidente della Commissione stragi Giovanni Pellegrino, parlando dell’argomento, ricorda che “Pannella venne a trovarmi e mi diede una traccia, che io purtroppo non ho potuto seguire fino in fondo. La vicenda rimase un po’ fuori dai nostri accertamenti”. Ma “le affermazioni di Cossiga - ha aggiunto Pellegrino - confermano il quadro che ci ha fatto Pannella. Io credo che già allora si volesse creare in Italia una situazione che poi si determinò nel biennio 92-93”.


Scheda. P2, P38, P-Scalfari (e poi Moro, Sindona, Calvi, D’Urso, Cirillo e altri ancora)

C’è un filo rosso che lega episodi apparentemente slegati, che hanno segnato l’intero arco degli anni Settanta-Ottanta. Vicende che prendono il nome dei loro protagonisti: caso Moro, caso D’Urso, caso Sindona, caso Calvi, caso Cirillo…
Il contesto: siamo negli anni della “unità nazionale” e del “compromesso storico”, cioè quella politica della “ammucchiata” che vede all’opposizione i Radicali e pochi altri. In quell’arco di tempo (1975-1980) si cementa e si costruisce anche visivamente un’alleanza fatta di spartizione e di occupazione di potere che vede uniti Dc e Pci e solo episodicamente il Psi e i partiti laici. Sono gli anni in cui vengono varati provvedimenti in materia di giustizia e di ordine pubblico, che imprimono allo Stato e alle istituzioni svolte autoritarie, accompagnandosi a provvedimenti in campo sociale il cui fine è consolidare le strutture di un regime sempre più corporativo e illiberale.
Oggi appare chiaro quello che allora pochi osavano sostenere: che accanto a una esibita politica muscolare di repressione, si accompagnava una sostanziale connivenza con il terrorismo di apparati dei servizi segreti, di settori più o meno deviati dello Stato e di parte della classe politica. Il nucleo duro di questo “partito” è costituito dal Pci, al quale è utile alimentare un clima di emergenza permanente, per meglio consolidare l’intreccio di potere con la Dc. Il terrorismo e gli attentati di quegli anni non hanno tanto un effetto destabilizzante, quanto piuttosto una funzione “stabilizzatrice”: sono il cemento su cui poggia la “unità nazionale”, che altrimenti non avrebbe trovato giustificazione.
I Radicali denunciano per primi le trame della Loggia P2 di Licio Gelli e di altre simili consorterie, che vengono utilizzate non per impadronirsi dello Stato (alla P2 già aderiscono i vertici di tutte le istituzioni, non hanno bisogno di conquistare il potere: lo detengono) bensì per consolidare la gestione di affari illeciti.
In questa chiave si può leggere lo scontro nel ‘78 sul caso Moro, tra le esigue forze che non lasciano nulla di intentato per salvare il presidente della Dc, attraverso pubbliche iniziative di “dialogo” e la richiesta di un dibattito parlamentare, e il più numeroso schieramento che fin dall’inizio accetta la situazione, e invece di operare per la liberazione di Moro lavora soprattutto per contrastare quanti cercano di salvarlo. Moro “deve” morire, perché se si salvasse minaccerebbe gravemente gli equilibri esistenti. In questo senso è ancor oggi illuminante e preziosa la lettura de “L’Affaire Moro”, scritto da Leonardo Sciascia, e la sua relazione di minoranza alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla vicenda.
Della stessa natura il conflitto sul caso del giudice Giovanni D’Urso, rapito dalle Brigate Rosse nel dicembre del 1980 e liberato nel gennaio successivo. In quei giorni i Radicali riescono, senza condurre alcuna trattativa, a sviluppare una straordinaria iniziativa di “dialogo” con le Br, che si realizza grazie a “Radio Radicale”. Se i Radicali, spalleggiati dal Psi, non avessero strappato il “miracolo” della salvezza di D’Urso, probabilmente il cadavere del magistrato sarebbe stato utilizzato come grimaldello per un’effettiva svolta di regime. A questo scopo erano già pronte le componenti più autoritarie della partitocrazia, assieme a forze esterne al Parlamento, mascherate dietro la proposta di un “governo dei tecnici”, sostenuta dal gruppo editoriale “Repubblica-Espresso” di De Benedetti e Scalfari e dalla stessa Loggia P2, in quei mesi ai vertici del potere e del dominio sugli affari, sui servizi segreti e sul mondo politico. Per questo i Radicali coniano lo slogan “P2, P38, P-Scalfari”.
A queste vicende non è probabilmente estranea neanche la morte del generale dei Carabinieri Enrico Mino, che si schianta misteriosamente con il suo elicottero sull’Aspromonte. “Un delitto”, ha più volte denunciato Pannella senza mai essere smentito, con una lettura dei fatti originale ma non per questo fantasiosa, che il leader radicale ha avuto modo di esporre compiutamente solo in un’occasione: quando la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi, presieduta da Giovanni Pellegrino, ormai avviata a conclusione, decide di ascoltarlo.
Un viluppo di potere e malaffare, intrecci e vicende che emergono chiaramente solo a darsi la pena di leggere, per esempio, le relazioni radicali di minoranza sull’affare Sindona. I Radicali sono i primi a esigere una commissione d’inchiesta, attraverso la quale viene alla luce il bubbone della P2; o sui fondi neri dell’Iri; o sul caso del rapimento dell’assessore napoletano Ciro Cirillo, da parte delle Br di Giovanni Senzani: tutte vicende paradigmatiche. Quella dei fondi neri Iri costituisce uno dei maggiori scandali della storia repubblicana, compiuto dai partiti di regime ai danni dello Stato e della collettività; il caso Cirillo svela un vergognoso intreccio tra camorra, servizi segreti, Brigate Rosse e Democrazia Cristiana. Sullo sfondo, il terremoto che ha devastato l’Irpinia e il colossale latrocinio che si è consumato all’ombra del terremoto. Si può così arrivare fino agli anni ’80 e al maxi-blitz contro la camorra, che porta in carcere, tra gli altri, Enzo Tortora.

Burton Morris
06-05-09, 19:53
Capitolo 9

LA BANCAROTTA DELLO STATO ITALIANO

Le lontane origini negli anni ’70 e ’80 del dissesto economico e finanziario, solo in parte frenato dall’adesione dell’Italia all’Eurozona. L’inesorabile crescita del debito pubblico, la mancanza delle riforme, la politica clientelare dei partiti, le scelte conservatrici e corporative del padronato e dei sindacati.

9.1. Il tradimento dei vincoli costituzionali di bilancio

Il “monopartitismo imperfetto” del regime italiano diviene subito evidente e si perfeziona soprattutto nella gestione consociativa e corporativa, contro Costituzione, del debito e della spesa pubblica. Secondo Giovanni Sartori, “almeno 3/4 della legislazione italiana tra il 1948 e il 1968 è stata approvata anche dai comunisti”. Lo stesso Giuliano Amato, nel ‘76, riflettendo sulla “società italiana degli ultimi 15 anni”, afferma che “il modulo spartitorio non è interno al blocco di potere democristiano, ma opera più largamente, coinvolge anche le altre parti sociali e politiche”. Infatti, già a partire dal ’59, quasi tutte le leggi di spesa sono adottate, per decisione unanime, in Commissione in sede legislativa (come nella Camera dei Fasci e delle Corporazioni, dove rappresentava la regola). Solo dal 1976, quando in Parlamento arriva la pattuglia radicale, l’informazione sui lavori di commissione, la conoscenza e il dibattito sull’uso delle risorse pubbliche - negati all’opinione pubblica e allo stesso Parlamento - il rigore e il rispetto delle procedure di bilancio diventano dato centrale del confronto politico e parlamentare.
Il dissennato uso clientelare della spesa pubblica e i bilanci della partitocrazia - non solo il bilancio dello Stato ma anche i bilanci dei partiti, delle organizzazioni sindacali, delle Regioni eccetera - giocano un ruolo determinante nelle dinamiche di crescita del debito pubblico.
L’articolo 81 della Costituzione, che Luigi Einaudi definisce un “baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore costituente, allo scopo di impedire che si facciano maggiori spese alla leggera, senza avere prima provveduto alle relative entrate”, viene subito attaccato e superato dal “monopartitismo” del debito e della spesa pubblica (e del finanziamento pubblico).
Nel 1966, la Corte costituzionale consente “la possibilità di ricorrere, nei confronti della copertura di spese future, oltre che ai mezzi consueti, quali nuovi tributi o l'inasprimento di tributi esistenti, la riduzione di spese già autorizzate, l'accertamento formale di nuove entrate, l'emissione di prestiti e via enumerando, anche alla previsione di maggiori entrate”, autorizzando di soppiatto, e poi apertamente a partire dai primi anni ’70, lo scavalcamento del dettato costituzionale. La legislazione di spesa affida la copertura all’emissione e al collocamento dei titoli di debito pubblico da parte del Tesoro, con la formula, destinata a divenire di rito, di chiusura della legge: “Il ministro del Tesoro è autorizzato ad apportare al bilancio le variazioni occorrenti per il finanziamento della presente legge”. La denuncia di incostituzionalità da parte della Corte dei Conti rimane inascoltata.
Il colpo decisivo ai vincoli costituzionali di bilancio lo assesta l’introduzione nel ‘78 della legge finanziaria e del bilancio pluriennale. Con lo strumento della finanziaria si riesce, per utilizzare le parole profetiche di Einaudi, a “girare l’articolo 81, osservandolo nell’apparenza e violandolo nella realtà”, violando cioè il divieto di stabilire cumulativamente nuove entrate e nuove spese riunendole in un testo di legge che cammina in parallelo alla legge di bilancio. Inoltre, con l’introduzione del bilancio pluriennale, si condizionano le future annualità con impegni certi di spesa, a fronte di entrate non ancora certe. Si contribuisce così alla dinamica nota come “ciclo elettorale di spesa” e si alimenta il circolo vizioso “pressione clientelare - spesa pubblica - deficit - debito - rafforzamento della partitocrazia - aumento dell’imposizione fiscale”.
L’evasione fiscale pone l’Italia al primo posto, non tanto dei paesi Ue o Ocse, ma sul piano mondiale, compresi i paesi in via di sviluppo e i paesi emergenti. Secondo le diverse e più recenti stime, in Italia si evade un importo compreso tra 100 e 200 miliardi di euro all’anno. Si tratta di gettito tributario sottratto, non base imponibile sottratta, quindi sono davvero entrate tributarie che mancano ogni anno alle casse dello Stato, e sono tali da – se recuperate pure solo in parte - rendere non necessarie manovre finanziarie per qualche anno!
Oltre alla dimensione dell’evasione, v’è anche l’implicazione che essa comporta sull’equità del sistema tributario. L’articolo 53 della Costituzione, che stabilisce il pagamento delle imposte in ragione della “capacità contributiva” di ciascuno e secondo “criteri di progressività”, è disatteso. L’imposta sul reddito delle persone fisiche è pagata solo dai lavoratori dipendenti e dai pensionati e, attraverso l’Ire (ex Irpef), la progressività agisce solo sui redditi da lavoro e da pensione, visto che quelli da capitale, da professione, da lavoro autonomo e da patrimonio riescono a sottrarsi in larga parte alla tassazione. I referendum radicali per l’abolizione del sostituto di imposta presentati nel ’94 e nel ’99 sono, in entrambi i casi, dichiarati inammissibili dalla Corte costituzionale.

9.2 L’evoluzione spaventosa del debito pubblico e il dissanguamento da interessi passivi

Nel secondo dopoguerra, grazie alle politiche inaugurate e sostenute da Luigi Einaudi, si consegue un drastico ridimensionamento del debito che scenderà progressivamente fino al 1964 (media 1947 – 1964: 39.6%).
Negli anni ‘70 si assiste a una sua progressiva e inesorabile crescita. Dal 1970 al 1979 il debito passa da 14,3 miliardi (di euro) a 98,6 miliardi: un aumento di quasi il 700 per cento. Il balzo è evidente anche se – più correttamente – si considera il rapporto tra il debito e il prodotto interno lordo, che passa dal 40,5% del 1970 al 60,6% nel 1979.
La crescita spaventosa del debito continua negli anni ’80: dai 118 miliardi (di euro) del 1980 ai quasi 600 miliardi nel 1989. Conseguentemente il rapporto tra il debito e il prodotto lordo passa dal 58% del 1980 al 93,1% del 1989. Successivamente si ha sì una decelerazione del tasso di crescita del debito, ma non tale da impedire l’emblematico “sfondamento” dei mille miliardi nel 1994, con il rapporto debito/Pil che arriva al massimo storico (121,5%).
Le misure adottate per rientrare nelle condizioni di adesione all’eurozona favoriranno certamente una decrescita (113,7% nel 1999, 108,7% nel 2001 e 103,7% nel 2004) ma troppo contenuta per un reale risanamento dei conti pubblici. Sicuramente molto distante dalle politiche virtuose seguite da altri paesi, in particolare dal Belgio.
Negli ultimi anni, assistiamo a un “galleggiamento” intorno al 105%, ma l’enorme volume già accumulato porta comunque ad aumentare il totale del debito, fino a raggiungere la cifra record di 1.596,7 miliardi di fine 2007 (103,5% del Pil) e di circa 1.664 miliardi a fine 2008 (105,8%).
Nei primi due mesi del 2009, il già stratosferico debito pubblico aumenta di ben 44 miliardi di euro sfondando il muro dei 1.700 miliardi, il che già fa prevedere un nuovo balzo nel 2009 del rapporto debito/Pil a oltre il 110%. Ogni nuovo nato che viene al mondo in Italia è già gravato di un debito di quasi 28.500 euro.
Il volume totale degli interessi passivi che l’Italia deve pagare per onorare il proprio debito pubblico assume dimensioni gigantesche. Nel trentennio che va dal 1979 al 2008 il totale degli interessi pagati espressi in euro 2008 ammonta a circa 2.740 miliardi di euro. Nel solo 2008, per interessi passivi sul volume del debito, lo Stato italiano spende 81 miliardi, pari al 5,15% del Pil, ma se si considera l’intero trentennio, l’incidenza degli interessi sul Pil è del 7,7%. Una tassa salatissima, e solo per pagare oneri finanziari maturati, non a fronte di prestiti necessari per sostenere investimenti, bensì per finanziare una spesa corrente spesso di tipo clientelare e di “regime”.

9.3 Cassa integrazione straordinaria, un altro caso di “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite”

Il disegno originario della Cassa integrazione guadagni è chiaro e ben definito: strumento di garanzia del reddito dei lavoratori in costanza di rapporto, da attivare quindi a tempo determinato (massimo tre mesi) per cause transitorie e involontarie, limitatamente a eccedenze temporanee e non definitive. Questo assetto viene ben presto stravolto dal regime consociativo dei partiti di maggioranza e opposizione, dei sindacati confederali e delle grandi famiglie confindustriali. La magistratura funge da perfetta interfaccia di questo regime.
Il requisito della transitorietà viene minato già nel ’64, l’estensione del campo di applicazione della Cassa è continua e culmina nel ’68 nell’istituzione dell’intervento straordinario; ma tutto ciò si rivela inadeguato a fronteggiare le crisi occupazionali, ma soprattutto la fame atavica di aiuti di Stato di Fiat, Alfa Romeo, Olivetti… al punto che nel ‘72 si elimina del tutto il requisito della transitorietà, rendendo possibile la concessione di proroghe senza limiti di tempo. L’introduzione nel ‘75 della crisi di mercato tra le cause integrabili ordinarie è poi il tipico esempio di ratifica legislativa di una “prassi” consolidata. Nel ’77 si introduce una nuova ipotesi di causa integrabile, quella della “crisi aziendale di particolare rilevanza sociale”, una fattispecie omnibus alla quale vengono ricondotti i “fatti” più disparati. Subito dopo anche il fallimento diviene causa integrabile e, anno dopo anno, si assiste alla proliferazione incontrollata di interventi settoriali e fattispecie speciali di erogazione del trattamento straordinario.
Nel ’91, la legge 223 tenta di mettere ordine nella materia, ma fallisce i due obiettivi dichiarati, quello di destinare la cassa integrazione straordinaria solo ai lavoratori temporaneamente eccedenti e quello di arginare l’abuso di uno strumento tanto costoso per le casse dello Stato, quanto inutile al fine di salvare posti di lavoro. Negli anni successivi, si afferma al contrario la prassi amministrativa di concedere un periodo di integrazione salariale straordinaria, per lavoratori che già si sa essere in esubero, in palese violazione di legge e nell’assoluta assenza di sanzioni. In linea di massima, la giurisdizione si limita al controllo sulla regolarità delle procedure, senza entrare nel merito della effettiva sussistenza della causa integrabile, giustificativa dell’intervento straordinario.
In realtà su tutti i fronti – legislazione, amministrazione, giurisdizione – si procede con il metodo dell’emergenza: un’emergenza cercata e mantenuta per assicurare i massimi margini di discrezionalità. Il risultato è una spesa completamente fuori controllo: solo nel periodo 1977-2002 lo Stato destina alla Cassa, al netto dei contributi da aziende e dipendenti, 250mila miliardi di vecchie lire, senza che un solo posto di lavoro sia salvato. Negli anni Duemila l’istituto registra un consistente attivo, ma alla distorsione “storica” se ne aggiunge una non meno grave: la Cassa integrazione delle grandi imprese decotte, sempre regolarmente accontentate dai governi, viene pagata in gran parte dalle altre imprese, quelle più piccole e competitive, che pur contribuendo in modo decisivo a finanziare l’istituto raramente ottengono di accedervi. In questo modo, si ha una distrazione grave di risorse dalla parte sana del sistema produttivo a quella malata, e un sistema di tutela contro la disoccupazione involontaria, basato sul massimo di favore per le grandi imprese e sul completo disinteresse per le imprese più piccole e per i loro dipendenti: un vero e proprio mercato politico delle tutele, secondo l’impietosa definizione di Massimo D’Antona.
Per porre fine al sistema della cassa integrazione straordinaria e creare i presupposti per una riforma degli ammortizzatori sociali equa, di tipo universalistico, i Radicali promuovono nel 1994 un referendum popolare. La raccolta delle firme si conclude con successo, ma la Corte costituzionale l’anno dopo boccia il referendum per “la lunghezza e l'estrema complessità del quesito”. L’ennesima sentenza adottata in base a criteri ulteriori, rispetto a quelli previsti dall’art. 75 della Costituzione. I cittadini italiani, “incapaci” di capire, vanno messi sotto tutela. Tutelato è, invece, il potere dei partiti, dei sindacati e delle grandi imprese.

9.4 La “sindacatocrazia”, l’altra faccia della partitocrazia

L’articolo 39 della Costituzione stabilisce che “l’organizzazione sindacale è libera” e senza “altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali”, ma a condizione che “gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.” Ogni organizzazione democratica si basa sulla periodica e regolare verifica del consenso dei propri associati, che devono essere liberi di aderire o recedere in qualsiasi anno. La mancata attuazione dell’articolo 39 ha comportato anche la negazione di questo elementare principio. Per l’automaticità del rinnovo e macchinosità della disdetta, in molti o non riescono a disdire o nemmeno ricordano di essersi iscritti al sindacato, magari da molti anni.
Negli anni ‘90 il movimento radicale tenta la via del referendum abrogativo. Il voto del ‘95 registra il raggiungimento del quorum (57,1%) e la vittoria dei “Sì” (56,2%) che cancella la norma dello Statuto dei lavoratori che prevede l’obbligatorietà delle trattenute per l’iscrizione al sindacato. La volontà popolare viene però truffata dalle “parti sociali”, che si accordano per riprodurre nella contrattazione collettiva le norme abrogate: il sistema resta sostanzialmente immutato, e il referendum è come se non si fosse tenuto. Nel voto della primavera del 2000, questa volta per cancellare le trattenute per i pensionati, il referendum non raggiunge il quorum (32,2% di votanti, 61,8% di “Sì”), perché centro-sinistra, centro-destra e sindacati si associano in una martellante campagna mediatica a favore dell’astensione, alla quale non viene data un’effettiva possibilità di replica. Il sistema delle trattenute automatiche resta in piedi e continua a fruttare alle confederazioni sindacali – tra lavoratori attivi e pensionati – oltre un miliardo di euro ogni anno.
I Radicali cercano di intervenire anche sui Patronati sindacali con referendum abrogativi, i cui esiti sono gli stessi registrati in occasione delle trattenute automatiche. I Patronati portano alle casse del sindacato circa 350 milioni di euro ogni anno e, sommando i 225 milioni di euro che affluiscono dai Centri di assistenza fiscale, si arriva ad oltre due miliardi di euro ogni anno. A questi dati vanno aggiunte le immense proprietà immobiliari dei sindacati, il cui valore reale è impossibile quantificare, non avendo il sindacato un bilancio consolidato. Si tratta comunque di centinaia di migliaia di metri quadrati di immobili, ricevuti in regalo dallo Stato nel 1977 e per di più, dal 1992, esentati dal pagamento dell’Ici.

9.5 Pensioni, cartina di tornasole della determinazione dell’Italia a non risanare i conti pubblici

Nella storia della Repubblica, nessun Governo si dimostra in grado di affrontare il problema delle pensioni che ha costi enormi per lo Stato e contribuisce fortemente all’aggravamento del debito. Almeno fino al ‘92, quando Giuliano Amato vara, con il sostegno della Lista Pannella, le prime riforme in un quadro di assoluta emergenza finanziaria. Da quel momento si susseguono gli interventi in materia (Dini 1995, Maroni 2004, Prodi 2007) connotati tutti da un denominatore comune: scaricare il peso degli interventi sulle legislature successive e sulle generazioni più giovani, per salvaguardare gli interessi corporativi e i privilegi difesi innanzitutto dai sindacati.
Già nel gennaio 1983, Marco Pannella intraprende uno sciopero della fame e della sete con l’obiettivo di assicurare immediatamente un sostanziale incremento delle pensioni minime, a cominciare dalle pensioni sociali, che la proposta radicale mira a elevare da 165.550 lire mensili ad almeno 300.000. Nell’agosto 1983, all’inizio della nuova legislatura, gli eletti radicali presentano - subito dopo il discorso programmatico del Presidente del Consiglio Bettino Craxi - una vera e propria mozione di fiducia alternativa, che vede la questione delle pensioni tra i punti centrali: il sistema partitocratico muove per le pensioni integrate al minimo (in modo indiscriminato, con interventi a carattere puramente assistenziale) 20.000 miliardi ogni anno per interessi elettorali e clientelari, mentre l’intervento proposto – destinato solo a chi ne ha veramente bisogno – richiederebbe circa 1.500 miliardi. Lo scandalo provocato dai dati forniti dai Radicali porta, nel giro di due anni, al raddoppio delle pensioni minime.
Nel ‘99, allo scopo di superare le gravi carenze della riforma Dini, i Radicali promuovono un referendum sulle pensioni di anzianità, che nel gennaio 2000 la Corte costituzionale dichiara inammissibile.
Nel 2006 i parlamentari radicali presentano una proposta di legge (aggiornata e di nuovo depositata nel 2008) per innalzare gradualmente l’età pensionabile per tutti, uomini e donne, a 65 anni. Secondo i calcoli dell’Inps, la riforma radicale porterebbe a risparmiare, a regime, oltre 7 miliardi di euro all’anno, quanto basta per riformare il sistema degli ammortizzatori sociali e per adottare politiche di “welfare to work”. La proposta viene completamente censurata dai media e ignorata da partiti e sindacati. Intanto la spesa pensionistica continua ad assorbire i due terzi della spesa sociale e il 15% del prodotto interno lordo. Inoltre, con Emma Bonino ministro per le Politiche europee, i Radicali denunciano la discriminazione nei confronti delle donne, la cui età pensionabile (60 anni) è più bassa di quella degli uomini (65). L’appello resta inascoltato e due anni dopo, con la sentenza del novembre 2008, la Corte di giustizia delle Comunità europee condanna l’Italia, per aver mantenuto in vigore una normativa in base alla quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse, a seconda che siano uomini o donne.


Capitolo 10

DALLA RIFORMA “AMERICANA” POSSIBILE ALLE CONTRORIFORME PARTITOCRATICHE

All’inizio degli anni ’90, con l’esplosione di tangentopoli e l’auto-referenzialità del sistema politico italiano, ormai evidentemente scollegato dalla gestione del territorio e dei suoi problemi, nella società matura una profonda crisi di fiducia nelle istituzioni rappresentative repubblicane. Per cercare di intervenire sull’assetto politico, rompendo l’articolazione bipolare di un monopartitismo sempre meno imperfetto, si fa ricorso allo strumento del referendum.

10.1 La scelta della riforma maggioritaria uninominale, come risposta popolare alla degenerazione del sistema dei partiti

La maggioranza dei cittadini, in modo sempre più netto, esprime il proprio favore per meccanismi elettorali che mirano a legare direttamente l’eletto con il corpo elettorale e il territorio. Già nel 1986 era nata, per iniziativa radicale e con parlamentari di vari partiti (democristiani, socialisti, liberali) la “Lega per l’uninominale”. Nel ’90 sono proposti tre referendum: per modificare, in senso uninominale maggioritario, la legge elettorale per il Senato; per abolire la possibilità di esprimere più di una preferenza, nell'elezione della Camera dei deputati; per estendere a tutti i Comuni il sistema elettorale vigente per quelli minori, dove il sindaco era scelto in modo indiretto dagli elettori. La Corte costituzionale dichiara inammissibili i due quesiti su Senato e Comuni, ammettendo solo quello sulla preferenza unica, cioè il referendum politicamente meno fecondo di conseguenze sistematiche, che però è approvato dal 98% dei votanti, con una partecipazione al voto del 62,5% degli elettori, nonostante gli inviti all'astensione lanciati da molti esponenti della classe politica. La clamorosa vittoria è immediatamente utilizzata per rilanciare altri referendum. Per evitare la consultazione popolare sulla legge elettorale dei comuni, il Parlamento approva la legge 81/93 sull'elezione diretta del sindaco, ma con il doppio turno, mentre i tentativi di legiferare anche sul Senato falliscono. Il 18 aprile 1993 il referendum elettorale sul Senato è approvato con oltre l'80% dei voti: tutti i maggiori partiti, intuendo l’esito della consultazione, si pronunciano a favore. Il referendum necessita soltanto di un adeguamento nella ripartizione dei collegi: il Presidente della Repubblica Scalfaro dichiara che il Parlamento deve limitarsi a riscrivere le leggi elettorali “sotto dettatura del corpo elettorale”.

10.2 Il tradimento e il sabotaggio dei referendum

Un vero e proprio tradimento della volontà popolare avviene invece con l’approvazione della nuova legge elettorale per la Camera: il regime partitocratico, proporzionalistico e consociativo, con una prova di illegalità aggressiva del Parlamento, giunge all'approvazione della legge “Mattarellum”, che non potendo evitare il passaggio al sistema uninominale, mantiene una quota del 25% di seggi da attribuire con il sistema proporzionale, corretto da una soglia di sbarramento del 4%. Di conseguenza i partiti, anche i più piccoli, sono spinti dalla legge non ad aggregarsi, bensì a conservare gelosamente la propria identità e a presentare comunque proprie liste, anche senza alcuna speranza di superare la soglia di sbarramento, per far valere la propria percentuale nell’assegnazione dei collegi uninominali all’interno della coalizione. Il sistema adottato risulta inoltre particolarmente complicato dal meccanismo dello scorporo, che rafforza ulteriormente l’impatto del proporzionale. Inoltre i regolamenti parlamentari rimangono rigorosamente proporzionali e partitocratici, per cui i gruppi parlamentari facilitano la sopravvivenza, anche economica e burocratica, dei partiti.
Nel 1994 i Radicali raccolgono le firme per tre referendum abrogativi in materia elettorale: due mirano ad abolire la quota di recupero del 25% dalle leggi elettorali di Camera e Senato, un altro mira ad abolire il secondo turno nell'elezione del sindaco. Nella primavera del 1994 si svolgono le elezioni politiche anticipate, le prime con il nuovo sistema elettorale: vince Berlusconi con alleanze diverse fra il nord (con la Lega) e il centro-sud (con Alleanza nazionale). Nel gennaio ‘95, la Consulta dichiara inammissibili i referendum “incondizionati” promossi nel 1993/94, con la motivazione che non erano immediatamente “autoapplicativi”, poiché, per garantire l’elezione del 25% di deputati e senatori, il Parlamento sarebbe dovuto intervenire con una modifica della legge. In vista delle elezioni regionali, è approvata la legge “Tatarellum”, sistema proporzionale con un premio di maggioranza di coalizione ed elezione diretta del presidente della Regione. Nel giugno 1995 si svolge il referendum sui sindaci, per l'abolizione del doppio turno che consente ai partiti risultati minori al primo turno di collegarsi a una delle due coalizioni ammesse al secondo. Gli elettori lo respingono di misura, con un ruolo decisivo dell’informazione radiotelevisiva.
Nell'autunno si ripropongono diversi quesiti, già dichiarati inammissibili dalla Corte, tra i quali i due elettorali su Camera e Senato. Il 21 aprile 1996 si svolgono nuove elezioni politiche anticipate, vinte dalla coalizione dell'Ulivo, che conquista la maggioranza dei seggi assegnati nei collegi uninominali ma, a causa della quota proporzionale, è maggioranza alla Camera soltanto con i voti determinanti di Rifondazione comunista.

10.3 La restaurazione partitocratica del “bipolarismo” all’italiana

Nel gennaio ‘97 la Corte costituzionale dichiara nuovamente inammissibili i quesiti: una nuova campagna di raccolta firme è lanciata nel febbraio ‘98, sul cosiddetto “uovo di Colombo”, cioè quesiti che, per seguire la logica capziosa emergente dalla giurisprudenza costituzionale, sono costruiti in modo tale da ritagliare un nuovo testo legislativo. La Corte è costretta a giudicarli ammissibili, ma nella consultazione del 18 aprile ‘99 il quorum dei votanti è mancato di un soffio: 49,6%. Uno scarto assai inferiore a quello che sarebbe emerso procedendo alla ripulitura delle liste elettorali dai morti e dai residenti all’estero irreperibili. Una riforma storica per l’Italia è così mancata per la patente illegalità istituzionale e informativa, e per il prevalere, in entrambe le coalizioni, di convergenti pulsioni conservatrici e partitocratiche.
Dopo le elezioni europee dello stesso anno, i Radicali avviano una nuova raccolta di firme per il maggioritario alla Camera, assieme ad altri quesiti liberali e liberisti. Il 21 maggio 2000 sui referendum sopravvissuti alla scientifica falcidia della Corte manca ancora una volta il quorum: il referendum per le riforme elettorali risulta uno strumento accuratamente spuntato dalle manovre del potere. Il leader dell’opposizione Berlusconi giunge a definire “comunisti” i quesiti in discussione (appoggiati da An e, nella fase di raccolta delle firme, da una parte della stessa Fi) candidandosi a governare lui stesso il processo di cambiamento istituzionale; mentre il centro-sinistra, chiuso in dinamiche burocratiche e consociative, non riesce a comprendere le storica occasione di riforma che la stagione referendaria offre al paese.
Alle elezioni del 2001 il centro-destra vince e governa con le difficoltà tipiche delle coalizioni di partiti che la legge determina. Sul finire della legislatura è varata la legge 270 del 21 dicembre 2005. S’introduce nuovamente un sistema interamente proporzionale per l’elezione della Camera; la legge ripartisce 617 seggi in 26 circoscrizioni (un eletto uninominale in Valle d’Aosta e 12 nella circoscrizione estero) con un premio di maggioranza, su base nazionale, alla coalizione vincente che non supera i 340 seggi. I candidati sono scelti direttamente dalle segreterie nazionali dei partiti ed eletti nell’ordine di collocazione in lista, senza preferenze. Nelle elezioni dell’aprile 2006 la campagna elettorale si riveste di mentite forme presidenziali, con indicazione sulle schede, nei simboli elettorali stessi, del nome del “candidato presidente”, che in realtà altro non è che il capo della coalizione dei partiti.
Un ulteriore passo nel processo di concentrazione (e rafforzamento) del potere dei partiti si registra con le elezioni anticipate dell’aprile 2008: i leader dei due principali partiti decidono di non coalizzarsi con i partiti minori, fatta eccezione per Lega e Italia dei Valori. Forti della concentrazione del potere televisivo, dello sbarramento al 4% e delle liste bloccate, i due “capi” nominano direttamente buona parte dei Parlamentari. Il “bipartitismo all’italiana” si fonda sulla negazione del rapporto diretto tra eletto e territorio: l’esatto opposto del sistema anglosassone.

Burton Morris
06-05-09, 19:54
Capitolo 11

PARTITOCRAZIA, DISSESTO IDROGEOLOGICO, DISTRUZIONE DELL’AMBIENTE

Le case polverizzate dal terremoto in Abruzzo, sotto le quali muoiono 300 persone, dopo quelle dei terremoti immediatamente precedenti di Assisi (Umbria) e di San Giuliano di Puglia (Molise) ci consegnano l’immagine emblematica di un paese incapace a governare la fragilità del suo territorio, sismico al 75%, su cui insistono almeno 80mila edifici pubblici da consolidare, 22mila scuole in zone a rischio, di cui ben 9mila prive di basilari criteri di sicurezza.

11.1 Un paese vulnerabile

Un problema, quello della vulnerabilità degli edifici, che non riguarda solo quelli storici o quelli pubblici, ma i milioni di vani dell’edilizia residenziale post-bellica, priva di qualità e non antisismica, costruiti nel corso dell’immensa e irresponsabile espansione urbana che ha invaso l’Italia negli ultimi 60 anni, in gran parte ignorando le norme antisismiche . Eppure, dei 60 milioni di italiani, oltre la metà oggi vive in aree soggette ad alluvioni, frane e smottamenti, terremoti, fenomeni vulcanici. Almeno il 60 per cento dei comuni italiani è a rischio idrogeologico molto elevato, mentre il 67% si trova in zona sismiche. Un recente studio dell’Agenzia europea per l’ambiente ha documentato un progressivo aumento di catastrofi naturali in Italia, con una vertiginosa impennata a partire dall’inizio degli anni ’90. Terremoti, fenomeni vulcanici, frane e alluvioni, dal 1998 si stanno verificando con una frequenza tale, da rendere il nostro Paese tra quelli a più alto rischio di catastrofi ambientali. Oggi il 38% delle vittime di alluvioni in Europa sono italiane, con gravi costi - non solo in termini di vite umane - per la collettività nazionale.

11.2 Una dissennata gestione del territorio

Le cause più evidenti sono la diffusa cementificazione che ha invaso anche aree adibite un tempo alle piene dei fiumi - con evidenti responsabilità degli enti locali, che realizzano gli interventi più contrastanti con un'impostazione di prevenzione, giocandosi le sorti delle giunte comunali sui piani urbanistici e sulla destinazione delle aree edificabili ed una complessiva dissennata gestione del territorio con deviazioni di fiumi, costruzioni di dighe, cementificazioni di argini e deforestazioni.
Questo perché l'attenzione dei partiti è concentrata unicamente sulla realizzazione di opere e sui relativi finanziamenti. Prova ne è la difficoltà di dotarsi di norme sulla materia. Solo dopo infruttuosi tentativi negli anni '50 e '60 e i disastri del Vajont (1963) e dell'alluvione di Firenze (1966) si arriva nel 1970 a una legge nazionale (la 966) che definisce il soccorso e l'assistenza verso le popolazioni colpite da calamità naturali, affidandone la competenza al Ministero dell’Interno, legge che per oltre 10 anni resta inattuata, senza che nessuno adotti i regolamenti necessari ad attrezzare le prefetture. Dopo i terremoti del Friuli e dell’Irpinia i Radicali pongono il tema politico di una normativa capace di affrontare i temi della prevenzione. Da questo impegno nasce nel 1982 il Dipartimento della protezione civile che subirà successive evoluzioni, con un proliferare delle organizzazioni di volontariato e il perdurare di un’incapacità di interventi preventivi nell’organizzazione della vita collettiva.

11.3 Leggi inattuali e azione di surroga della protezione civile

La situazione attuale è di una protezione civile che, di fatto, surroga le carenze strutturali di un progetto che - nonostante l’adozione della legge quadro sulla difesa del suolo (la 183/89, sullo sfondo dell’aspro dibattito sulla ripartizione delle competenze tra centro e periferia), la produzione di diversi provvedimenti integrativi, la pubblicazione di due direttive europee, la tormentata vicenda del riordino delle materie ambientali - ancora non trova modo di soddisfare le necessità del Paese: una serie di leggi e regolamenti che in compenso contribuiscono a creare un sistema complesso di enti, con un’esplosione di competenze che impedisce la realizzazione dei piani necessari alla difesa del suolo pur previsti sulla carta .
Esemplare la vicenda di Napoli, la provincia più densamente popolata d’Italia, con ben 2 aree vulcaniche - la vesuviana e la flegrea - ad alto rischio permanente, che oggi si trova in una condizione letteralmente schizofrenica: da un lato piani di evacuazione, dall’altro piani di ulteriore sovra-urbanizzazione, come l’Ospedale del Mare in costruzione nell’area vesuviana ad alto rischio, collocato nell’area “gialla” cioè da evacuare in caso di evento vulcanico o sismico. Questo ospedale prevede 450 posti (certo non utilizzabili in caso di calamità naturali) e costa ad oggi ben 198 milioni di euro.

11.4 Il caso Napoli: disattesi i progetti di rottamazione edilizia e di area metropolitana

Con l’elezione di Marco Pannella nel consiglio comunale di Napoli, all’inizio degli anni ’80 – quando la popolazione dell’area “gialla” era di 200.000 abitanti, mentre ora sono 700.000 - i Radicali pongono la necessità di un riequilibrio economico-territoriale, da realizzare con la decongestione dei pesi urbanistici, con l’estensione dell’area metropolitana oltre la provincia e la rottamazione dell’edilizia post-bellica, priva di qualità e non antisismica (proposta poi estesa, sul piano nazionale, con il “Manifesto per la rottamazione edilizia post-bellica priva di qualità e non antisismica” di Aldo Loris Rossi; e sul piano internazionale, con il “Manifesto di Torino” dello stesso Rossi approvato nel 2008 dal XXIII congresso mondiale dell’Unione internazionale degli architetti).
Una proposta che sembra farsi strada dopo l’elezione di Bassolino nel 1993 alla presidenza della Regione Campania, che recepisce la strategia nei piani regolatori, ma che rischia di essere definitivamente pregiudicata dallo scandalo dei rifiuti campani. Un fatto quest’ultimo che ha radici antiche ed è emblematico di come la partitocrazia abbia stretto in una morsa la Campania, regione-simbolo di un degrado generalizzato. Infatti si parla per la prima volta di inceneritori ben 46 anni fa, nella legge speciale per Napoli che allo scopo stanzia 3 miliardi. Dal ‘62 al ‘75 si susseguono ben 10 amministrazioni comunali guidate dalla Dc (che occupa per 13 anni l’assessorato alla Nettezza urbana, per controllarne il grande bacino di voti) mentre il costo dell’impianto lievita fino a 10 miliardi nel ‘73, quando scoppia lo “scandalo dell’inceneritore d’oro” che costringe l’assessore alle dimissioni.
Dal ‘75 all´83 governa un’amministrazione guidata dal Pci, che occupa anch’esso per l’intero periodo l’assessorato alla Nettezza urbana, mentre sono emanate due norme fondamentali: la direttiva europea 442/75, che impone la raccolta differenziata alla Comunità, e il DPR 915/82 che la recepisce in Italia e la precisa. Ma Comune e Regione, nelle amministrazioni di vario colore che si succedono, le ignorano. Dall´83 al ‘93 torna il vecchio centrosinistra, che continua a disattendere le leggi vigenti, integrate dalla direttiva europea, la 156/91, ritardando ancora l’avvio della raccolta differenziata attuata già in tutta Europa.

11.5 La Campania sepolta dai rifiuti

Nel ‘93 una legge regionale istituisce i consorzi obbligatori dei Comuni: una legge singolare che costringe anche i più piccoli e dispersi sulle colline - che per secoli hanno risolto il problema riciclando i loro modesti rifiuti nelle campagne - a consegnarli due volte alla settimana a camion che li trasportano in discariche lontane e spesso sature.
Da allora il potere dei consorzi cresce a dismisura, divenendo il fulcro di una politica centralista che si rafforza nel ‘94 con l’istituzione del commissario straordinario all’emergenza rifiuti. Un’emergenza che, di proroga in proroga, dura ben 14 anni e si cronicizza. Intorno al centro decisionale si crea una micidiale rete di lottizzazione clientelare, che aggrega interessi politici, imprenditoriali, tecnici, professionali, gestionali, camorristici in un blocco sociale parassitario, che dilapida 4 miliardi di euro provocando il disastro ambientale in atto. Per valutare la potenza e la pervasività di tale blocco di interessi, basti considerare che esso, piuttosto che ridursi, si è rinvigorito con i 10 commissari straordinari, nonostante la presenza tra loro di prefetti e un ex capo della Polizia di provata esperienza. Se l’emergenza rifiuti ha resistito anche a questi ultimi, significa che è ormai una “emergenza democratica”, irrisolvibile se non si smantella il suddetto blocco di interessi e la politica criminogena, interessata a “non risolvere” il problema.
A nulla serve la consapevolezza della gravità della situazione complessiva, descritta nella relazione finale della Commissione bicamerale sui rifiuti del 27 febbraio 2008, dove si legge, per quanto riguarda ad esempio la Sicilia, che “vi è da parte di Cosa Nostra l’assunzione in proprio dell’attività d’impresa, senza peraltro l’assunzione del connesso rischio, potendo contare sulle tecniche di dissuasione proprie dell’associazione mafiosa”; e che “l’intero affare è stimato intorno ai 6 miliardi di euro nei prossimi venti anni… Aggiungiamo a questi numeri 392 milioni di fondi europei provenienti da Agenda 2000 per il finanziamento delle opere infrastrutturali per la raccolta differenziata. Stiamo parlando del maggiore afflusso di denaro pubblico in Sicilia degli ultimi vent’anni”. A questo denaro vanno sommati, con l’ultimo provvedimento sull’emergenza rifiuti, altri 1,4 miliardi di euro prelevati dal contributo Cip6 - in violazione della normativa europea (che ne consentirebbe l’utilizzo solo per la frazione organica) che dovrebbe servire a finanziare fonti rinnovabili e che in Italia, invece, è destinato a lavorazioni di derivati dal petrolio.

Burton Morris
06-05-09, 19:54
Capitolo 12

LO SFASCIO DELLE ISTITUZIONI: IL “CASO” DEI PLENUM MANCANTI

All’inizio degli anni 2000, due violazioni della Costituzione minano il funzionamento di organi costituzionali di primaria importanza. Il primo grave vulnus riguarda la mancata elezione da parte del Parlamento, per 17 mesi, dei giudici costituzionali di sua spettanza. Il secondo è costituito dal mancato plenum della Camera dei deputati nella XIV legislatura.

12.1 Corte costituzionale

La Costituzione (articolo 135) è tassativa nel fissare in 15 i membri di cui si compone la Corte costituzionale. Accade invece che la Consulta operi e deliberi con soli 13 membri e, quindi, in assenza del plenum costituzionale dal 21 novembre 2000 al 24 aprile 2002, da quando cioè scadono il mandato del presidente Cesare Mirabelli e del vice-presidente Francesco Guizzi.
E’ al Parlamento, in seduta comune, che spetta di reintegrare il plenum. Per l'elezione è richiesta la maggioranza dei due terzi dei componenti dell'Assemblea per i primi due scrutini; la maggioranza dei tre quinti a partire dal quarto scrutinio. Il Parlamento si riunisce ben 19 volte, ma ogni tentativo naufraga sull’impossibilità di trovare un accordo tra i partiti e le coalizioni. Solo il 24 aprile 2002, i due giudici costituzionali sono finalmente eletti. Per ottenere questo risultato sono occorsi 7 giorni di sciopero della fame e della sete di Marco Pannella, nell’ambito di un’iniziativa nonviolenta che prosegue successivamente per il reintegro del plenum della Camera dei deputati.
La storia si ripete nel 2008, quando il giudice costituzionale Romano Vaccarella si dimette il 4 maggio 2007 e il plenum della Corte rimane vacante per oltre diciassette mesi. Sarà sostituito da Giuseppe Frigo, eletto giudice costituzionale il 21 ottobre 2008, alla fine di una lunghissima trattativa tra i partiti e 22 votazioni del Parlamento andate a vuoto.

12.2 Camera dei deputati

La Costituzione (articolo 56) sancisce che la Camera dei deputati sia composta da un numero fisso di 630 membri e prescrive che neppure un solo seggio resti vacante nel corso dell’intera legislatura: lo si desume dalla lettera della norma, ma anche dalla giurisprudenza costituzionale sull’ammissibilità dei referendum elettorali.
La legge elettorale del 1993 prevede che l’elezione dei membri della Camera dei deputati avvenga in collegi uninominali per un numero pari al 75 per cento del totale, ma anche in circoscrizioni proporzionali (con liste plurinominali bloccate) per il restante 25 per cento dei seggi. Le liste presentate dai partiti nelle circoscrizioni possono essere collegate, con un legame espresso e formale, a candidature dei collegi uninominali. All’attribuzione dei seggi per la quota proporzionale hanno diritto solo le liste che in ambito nazionale hanno ottenuto almeno il 4 per cento dei voti (soglia di sbarramento).
Accade che le due più importanti coalizioni, per arginare gli effetti di un meccanismo ulteriore - che sottrae voti nella quota proporzionale alle liste collegate a un candidato risultato vincente nella quota maggioritaria - colleghino diversi candidati, nei collegi uninominali considerati vincenti, a cosiddette “liste civetta” della quota proporzionale, create ad hoc confidando nel fatto che non prenderanno parte alla ripartizione dei seggi nella quota proporzionale, non raggiungendo il quorum del 4 per cento.
Nelle elezioni del 13 maggio 2001, l’utilizzo di queste liste “fantasma” crea un problema a Forza Italia, che nella quota proporzionale raccoglie il 29,5 per cento dei voti su scala nazionale: i seggi assegnati sono maggiori rispetto al numero di candidati presenti nelle sue liste. La legge prevede in questo caso che i seggi per i quali non ci sono candidati, siano attribuiti ai “migliori perdenti” nei collegi uninominali collegati alla lista che ha superato lo sbarramento del 4% nella circoscrizione proporzionale, ma FI non ha candidati collegati, se non a “liste civetta” che non hanno raggiunto il quorum.
A questo punto, sempre secondo la legge, i seggi non attribuiti vanno ridistribuiti alla lista stessa nella quota proporzionale, dove essa ha ottenuto i maggiori resti, naturalmente nel caso vi siano non eletti. In tal modo, 5 dei 7 candidati mancanti per FI sono recuperati nelle circoscrizioni Marche, Emilia-Romagna, Puglia e Lazio 1 (due seggi).
Rimangono però ancora da attribuire due seggi e l’Ufficio centrale elettorale presso la Corte di Cassazione ripartisce fra le altre liste sopra il quorum i seggi non assegnati; cosicché, viene attribuito un seggio ulteriore ai Ds e alla Margherita. Accade quindi che “obbedendo” a questo regolamento i voti di cittadini espressi per Forza Italia servano a eleggere due parlamentari di partiti differenti e, addirittura, appartenenti alla coalizione avversaria.
Ma anche questo non basta a completare il plenum della Camera, perchè 4 candidati di FI sono già proclamati eletti sia nell’uninominale, sia in una o più circoscrizioni proporzionali, mentre altri 3 sono eletti in più di una circoscrizione proporzionale, situazione questa diversa da quella già “risolta” dalla Cassazione. Così in totale sono 11 i seggi “rimasti vacanti”, per i quali si devono individuare i “subentranti”.
La Giunta delle elezioni della Camera è incaricata di sbrogliare la complicata matassa; trascorrono le settimane e i mesi, ma non si riesce a trovare alcuna soluzione, fino a quando Marco Pannella non solleva pubblicamente la questione con uno sciopero della fame e della sete, iniziativa che segue cronologicamente ma che è strettamente legata a quella per denunciare l’altro mancato plenum, quello della Consulta.
La Camera dei deputati esce dalla sua inerzia e, il 15 luglio 2002, stabilisce di mantenere definitivamente l’assenza di plenum, data la difficoltà riscontrata nell’assegnare gli 11 seggi vacanti (diventati nel frattempo 12 per la morte di un deputato di FI eletto al proporzionale). Lo stato di illegalità permane, ma almeno lo si riconosce ufficialmente, e si prende atto formalmente che non si è in grado di risolverlo.

Capitolo 13

IL MANCATO RISPETTO DEGLI OBBLIGHI INTERNAZIONALI DELLA REPUBBLICA ITALIANA

L’inottemperanza di precisi mandati parlamentari e di obblighi derivanti dall'adesione dell’Italia a trattati internazionali, nonché la massiccia violazione delle direttive comunitarie, comportano ritardi e boicottaggi di necessarie e urgenti riforme del diritto internazionale, oltre che ingenti costi a danno della collettività.

Il combinato disposto degli articoli 10 e 11 della Costituzione sancisce la superiorità del diritto internazionale sul diritto interno, laddove dispone che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” e che l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. E’ in base a quest’ultima disposizione che, ad esempio, la normativa comunitaria prevale su quella interna e obbliga le istituzioni ad adeguare laddove necessario la disciplina interna a quella europea.
Allo stesso modo, l’Italia è tenuta a dare esecuzione alle norme di diritto internazionale, sia generale che di origine pattizia. L’inadempienza italiana è clamorosa, ad esempio, nel caso della mancata inclusione, a distanza di vent’anni, del reato di tortura nel suo Codice Penale. E’ il 3 novembre 1988, infatti, che l'Italia autorizza la ratifica della Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. All'inizio del 2009, il Senato della Repubblica, a seguito del parere negativo del Governo (!) e malgrado il voto segreto, vota contro la proposta dei Radicali di porre fine a questo ulteriore vulnus legislativo di attuazione degli obblighi internazionali dell'Italia.

13.1 Lotta alla fame nel mondo, un impegno tradito

Nel 1979 un Rapporto delle Nazioni Unite prevede per l’anno successivo oltre 40 milioni di morti per fame e per denutrizione. Il documento denuncia anche il mancato adempimento, da parte dei paesi industrializzati, dell’impegno assunto al Palazzo di Vetro di destinare lo 0,7% del Prodotto Interno Lordo a programmi di cooperazione allo sviluppo.
Già nel marzo del ’79 il Partito radicale lancia la “Campagna contro lo sterminio per fame nel mondo” che si protrae per anni con azioni nonviolente (marce, scioperi della fame e della sete) e iniziative istituzionali che coinvolgono parlamentari e personalità di tutto il mondo. Nel giugno del 1981, viene lanciato l’Appello “contro la fame e per lo sviluppo” che viene sottoscritto da 113 Premi Nobel.
Nell’agosto del 1981, su iniziativa dei parlamentari Radicali, il Parlamento italiano è convocato - per la prima volta nella sua storia e in via del tutto straordinaria – e approva una mozione che impegna il Governo a destinare a quello scopo 3.000 miliardi di lire, cifra che eleva di almeno dieci volte l’irrisorio stanziamento destinato alla cooperazione. In quelle stesse settimane, su iniziativa degli eurodeputati Radicali, il Parlamento europeo adotta una mozione sulla falsariga di quella italiana. Il documento viene sottoscritto dalla maggioranza assoluta dei parlamentari europei ed entra in vigore senza dover passare al vaglio del dibattito dell’aula. In esso si impegna la Commissione esecutiva e gli stati membri a destinare 5 milioni di Ecu (l’euro di allora) per 5 milioni di vite da salvare. Nel 1984 il Parlamento italiano approva la “legge Piccoli” che istituisce il Fondo Aiuti Italiani contro la fame nel mondo prevedendo l'impiego di 1.900 miliardi di lire per un intervento straordinario contro la fame. Nel giro di 3 anni gli stanziamenti effettivamente decuplicano: il rapporto degli aiuti allo sviluppo rispetto al Pil passa così dallo 0,08% del 1979, anno di inizio della campagna radicale, allo 0,40% del 1986. L’iniziativa italiana provoca un effetto a catena e altri paesi europei aumentano i propri fondi alla cooperazione.
Col passare degli anni, complice il silenzio mediatico, la percentuale di aiuti pubblici allo sviluppo torna alle percentuali degli anni ’70, scendendo nel 2006 all’importo dello 0,11%, il minimo fra i paesi sviluppati, al netto della cancellazione del debito delle nazioni povere. Ad oggi, l’Italia resta il paese meno generoso tra gli stati membri dell’Unione europea.
Nel 1984, per reperire ulteriori fondi per la lotta alla fame nel mondo, all’interno delle norme del Concordato tra Stato e Chiesa cattolica che finanziano alcune denominazioni religiose attraverso il contributo volontario obbligatorio col meccanismo del cosiddetto “8x1000” sul gettito totale Irpef, si prevede l’opzione di finanziare lo Stato per scopi sociali o assistenziali tra i quali, appunto, la fame nel mondo. Nel 2004, ultimo anno con dati attendibili, il gettito complessivo dell’8x1000 è di circa 897 milioni di euro. Solo il 39,6% dei contribuenti esprime la propria scelta, e la somma corrispondente, 355 milioni di euro, è distribuita tra i sette enti previsti dalla legge, tra cui lo Stato. Il 60,4% non si pronuncia, ma la quota corrispondente dell'otto per mille, pari a 541 milioni di euro, è comunque ridistribuita proporzionalmente in base alle opzioni esplicitamente espresse. Lo Stato, che in 25 anni non ha mai fatto pubblicità sulle finalità del suo 8x1000, riceve circa 100 milioni di euro: sottratti gli 80 milioni di euro che a partire dalla finanziaria 2004 vengono trasferiti al bilancio generale, rimangono 20 milioni di euro, di cui solo 880.000 euro (il 4,44%) viene destinato dallo Stato alla “fame nel mondo”.

13.2 L’Italia artefice della Corte Penale a livello internazionale ma non a livello interno

Tra il ‘93 e il ‘94 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu crea i Tribunali Internazionali per i crimini commessi nella Ex-Jugoslavia e in Ruanda. Malgrado le risoluzioni istitutive obblighino gli Stati membri ad adoperarsi anche per la dotazione budgetaria dei tribunali ad hoc, l’Italia, uno dei paesi maggiormente convinti dell’impresa, non ottempera agli impegni assunti al Palazzo di Vetro, di fatto ritardandone l’avvio dei lavori.
Nel luglio ’98, a conclusione di un processo pluriennale, si tiene a Roma la Conferenza diplomatica di plenipotenziari per l’istituzione della Corte Penale Internazionale, che si conclude con l’adozione dello Statuto della Corte che prende il nome della città ospite. Il 26 luglio 1999, l’Italia diviene il quarto paese a ratificare lo Statuto di Roma che ha giurisdizione su genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. Dopo dieci anni dalla decisione, il Governo italiano non provvede ancora ad adeguare le norme dell’ordinamento interno per la collaborare con la Corte. In virtù di ciò, nel caso in cui un ricercato della Cpi - ad esempio il Presidente del Sudan Al-Bashir recentemente incriminato dal Procuratore generale della Corte per i crimini commessi in Darfur - venga a trovarsi sul territorio italiano, il nostro Governo non sarebbe in grado di collaborare all’arresto e al trasferimento dell’imputato al tribunale dell’Aja.
Vi è di più: non solo il Governo non ottempera con decreti legislativi agli obblighi derivanti dalla ratifica dello Statuto di Roma ma, a fronte della presenza di numerosi disegni di legge in materia, né i presidenti delle Commissioni parlamentari competenti, né il Governo concedono mai corsie preferenziali per recuperare la grave lacuna normativa, nonostante le promesse formalmente date in risposta a diverse interrogazioni dei deputati radicali Rita Bernardini e Matteo Mecacci.

13.3 I costi italiani dell’Europa delle nazioni

Oltre a detenere il triste primato del più alto numero di condanne da parte della Corte europea di Strasburgo per violazione dei diritti umani nella (non) amministrazione della giustizia, l'Italia è da sempre agli ultimi posti in Europa per quanto riguarda l'utilizzo di fondi Ue previsti per il risparmio energetico, la tutela dell'ambiente e lo sviluppo economico di settori e aree in crisi, ma anche per quanto riguarda il rispetto delle direttive comunitarie.
Il sentimento europeista degli italiani raramente si traduce in azione strutturata da parte dei Governi per fare dell’Italia un paese in grado di contribuire alla costruzione quotidiana dell'Ue. La disattenzione al rispetto delle norme e degli obblighi europei fa sì che l’Italia si collochi oggi ai primi posti della classifica delle frodi comunitarie. Solo a partire dal 2006, grazie anche all’operato del ministro per le politiche europee Emma Bonino, attraverso il Comitato anti-frode e il lavoro del Nucleo della Guardia di Finanza presso il Dipartimento delle Politiche Comunitarie, si riescono a chiudere i quasi 600 casi aperti tra il 1995 e il 2005 per un recupero complessivo di circa 37 milioni di euro.
Secondo dati aggiornati al marzo 2009, il Collegio dei Commissari europei decide per l'Italia 13 archiviazioni, di cui 7 concernenti procedure già aperte e 6 ancora allo stadio di reclamo, ma allo stesso tempo sono aperte 6 nuove procedure d'infrazione. Il numero totale delle procedure d’infrazione a carico dell'Italia si attesta così a 163, di cui 137 riguardano casi di violazione del diritto comunitario mentre 26 attengono al mancato recepimento di direttive nell’ordinamento italiano. Nel 2006, quando Bonino è nominata ministro, le infrazioni erano 275, il numero più alto in Europa, e in 20 mesi si sono ridotte di un terzo.

13.4 Moratoria universale della pena di morte, dopo quindici anni di inadempienze e rinvii

Il 18 dicembre 2007, l’Assemblea Generale dell’Onu approva a stragrande maggioranza la Risoluzione per una moratoria universale della pena di morte. E’ il momento conclusivo di una mobilitazione radicale iniziata dall’associazione Nessuno tocchi Caino nel 1994, quando per la prima volta viene presentata a New York da parte dell’Italia una risoluzione pro moratoria che viene battuta per otto voti solo perché mancano quelli di 21 governi europei.
Dopo la presentazione, nel ’97 e nel ’98, della risoluzione alla Commissione diritti umani dell’Onu di Ginevra, che puntualmente l’approva, il documento viene riproposto in Assemblea generale dall’Unione europea nel 1999. L’iniziativa “fallisce” non perché sconfitta ai voti, ma perché all’ultimo minuto viene da Bruxelles l’ordine di ritirare la risoluzione già depositata.
Nel luglio, settembre e novembre 2003, il Parlamento italiano discute mozioni sia della maggioranza sia dell’opposizione che impegnano il Governo a “presentare una risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali alla prossima Assemblea generale dell’Onu”. Contro tutto ciò, il Governo si adopera per modificare il merito dei dispositivi delle mozioni tramutandoli nell'opposto di quello che chiedevano. Da parte sua, il Parlamento europeo, nel settembre e ottobre dello stesso anno, impegna la Presidenza italiana dell’Ue a presentare la risoluzione sulla moratoria all’Assemblea generale, ma il ministro Frattini non dà seguito a quei dispositivi chiari e stringenti del Parlamento.
Sin dal gennaio 2003, Nessuno tocchi Caino mette a disposizione del Governo italiano e dei partner europei previsioni puntuali sugli orientamenti di voto dell’Assemblea generale. Malgrado le previsioni di ampie maggioranze la risoluzione non viene mai presentata.
Anche nel 2007, occorrono mozioni e risoluzioni adottate – spesso all’unanimità – dal Parlamento italiano e da quello europeo nonché uno sciopero della fame “a oltranza” di 89 giorni di dirigenti e militanti radicali che “occupano” anche la sede della Rai, per arrivare all’inizio di novembre, finalmente, al deposito del testo al Palazzo di Vetro da parte di una coalizione trans-regionale. Il 18 dicembre, l’Assemblea generale dell’Onu approva la risoluzione che proclama la moratoria universale della pena di morte. Le previsioni di Nessuno tocchi Caino sono confermate per difetto: 104 Paesi dei 192 membri dell’Assemblea generale votano a favore, 54 contro e 29 si astengono.

13.5 Il boicottaggio di “Iraq libero”, l’unica alternativa alla guerra

Contro la prospettiva di una seconda guerra del Golfo per liberare l’Iraq dal dittatore Saddam Hussein, nel gennaio 2003, Marco Pannella lancia l’iniziativa “Iraq Libero”, rivolta al Parlamento italiano e alla comunità internazionale e incentrata sulla proposta di esilio di Saddam e, conseguentemente, di una amministrazione fiduciaria internazionale per la costruzione di uno Stato democratico da affidare a personaggi di altissimo livello nel quadro di quanto sancito dalla Carta delle Nazioni Unite.
In un mese, l'appello “Iraq Libero” è sottoscritto da 27.344 cittadini di 171 nazioni, da 46 membri del Parlamento europeo e in Italia da 501 parlamentari corrispondenti al 53,5% dei componenti le Camere.
Il 19 febbraio, col parere favorevole del Governo e con 345 sì, 38 no e 52 astenuti, il Parlamento italiano vota una risoluzione sulla proposta radicale che impegna il Governo a sostenere, presso tutti gli organismi internazionali e principalmente presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l'ipotesi di un esilio del dittatore iracheno e di un Governo provvisorio controllato dall’Onu che ripristini a breve il pieno esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti gli iracheni.
Nel dibattito parlamentare Berlusconi afferma che il Governo italiano “sta operando per questa soluzione nell'ambito di riservatezza che è d’obbligo e tiene costantemente informato il Governo americano e il Presidente del Consiglio dell'Ue dei progressi che si vanno registrando”. Ma l’Italia, non rispettando la delibera della Camera dei deputati, non si fa promotrice della proposta né presso l’Unione europea né presso l’Onu, assentirà silenziosamente a che la Libia di Gheddafi boicotti l’esilio del dittatore iracheno e sceglierà di far parte della “Coalizione dei Volenterosi” di intervento in Iraq. I costi del sabotaggio del progetto “Iraq libero” sono evidenti. Le stime sulle vittime civili e militari irachene della Seconda guerra del Golfo, che costa centinaia di miliardi di dollari, si aggirano sulle centinaia di migliaia, quelle sulle vittime internazionali intorno ai quattromila.

13.6 Italia-Libia, trattato contro il diritto internazionale

Nel febbraio 2009, il Parlamento italiano ratifica un trattato di “Amicizia, Partenariato e Cooperazione” con la Libia che, nella pratica, prevede che l'Italia doni alla Libia 5 miliardi per i prossimi vent’anni e che, soprattutto, ignora il rispetto di alcune importanti norme internazionali.
In primo luogo, il trattato Italia-Libia, all’articolo 2, stabilisce che i due paesi “rispettano il diritto di ciascuna delle Parti di scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale”. Una clausola che non tiene conto del fatto che, da quarant'anni, il regime libico si caratterizza per la sistematica persecuzione di ogni forma di dissenso politico, per l'assenza assoluta di organi di stampa indipendenti, per l'incarcerazione o la sparizione degli oppositori politici, nonché per la pratica della tortura e della pena di morte.
In secondo luogo, all’articolo 4, il trattato vincola l’Italia a non concedere l’uso delle basi militari presenti sul suo territorio per attacchi militari contro la Libia. Questa norma rappresenta una chiara violazione degli impegni sottoscritti dal nostro paese con l’adesione al Patto Atlantico, in particolare dell’art. 5 che regola l’autodifesa collettiva. Se infatti è consuetudine che un trattato di “amicizia” impegni le parti a non attaccarsi militarmente, in questo caso l’Italia si impegna a non concedere l’uso delle basi militari presenti sul suo territorio (e dunque anche basi Nato) pure nel caso in cui un altro paese membro dell’Alleanza Atlantica (Spagna, Turchia, Francia…) sia attaccato dalla Libia.
In terzo luogo, l’Italia sancisce una collaborazione formale nella lotta all’immigrazione clandestina, anche attraverso “pattugliamenti congiunti” di navi libiche e italiane nel Mediterraneo, con un paese che ancora non ratifica la Convenzione Onu per i Rifugiati e dove la condizione degli immigrati e dei rifugiati in fuga, ad esempio dal Darfur, è denunciata quotidianamente dalle organizzazioni umanitarie. In questo modo l’Italia collabora nella gestione dell’immigrazione con un regime noto per i maltrattamenti e le torture, senza nessuna garanzia che questo non avvenga anche nei confronti degli immigrati “intercettati” dalle nostre forze armate.
Contro la ratifica del trattato i Parlamentari radicali conducono una dura battaglia parlamentare presentando oltre 6.000 emendamenti; una battaglia che, se non impedisce l’approvazione del Trattato voluta oltre che dalla maggioranza anche dal principale partito dell’opposizione, consente quantomeno di aumentare gli indennizzi agli esuli italiani dalla Libia cui il colonnello Gheddafi, nei decenni scorsi, ha espropriato illegalmente beni e proprietà.

Burton Morris
06-05-09, 19:55
Capitolo 14

LA NEGAZIONE DEL DIRITTO ALLA CONOSCENZA

L’avvento della Repubblica per lungo tempo non produce mutamenti nella disciplina della radiodiffusione voluta dal regime fascista, imperniata sulla riserva allo Stato dell’attività radiotelevisiva e sul penetrante controllo politico circa l’assetto societario ed i contenuti dei programmi. Nell’Italia repubblicana, il controllo del consenso e del dissenso continua a essere assicurato principalmente attraverso il controllo del mezzo radiotelevisivo, in continuità con l’uso che il fascismo fece della radio e del cinema.

14.1 Dall’Eiar a Raiset

Una immutabilità segnata persino dalla continuità giuridica, oltre che delle strutture e del personale giornalistico, della concessionaria unica Rai rispetto all’Eiar, l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche cui il fascismo ha riservato l’attività radiofonica.
Occorre aspettare il 1974 per vedere cancellato, sia pure parzialmente, il monopolio statale delle trasmissioni radiotelevisive, in virtù di due sentenze della Corte costituzionale che aprono il settore alle televisioni estere e a quelle via cavo. E’ lo stesso Presidente della Corte costituzionale, Francesco Paolo Bonifacio, in un articolo pubblicato sul Corriere della sera a due mesi dalla cessazione della sua funzione, a dare atto al Partito Radicale di aver contribuito a creare - attraverso la mobilitazione popolare intorno alla petizione contro il decreto Togni, che smantella i ripetitori delle tv estere, e alla raccolta firme per un referendum abrogativo delle norme del Codice postale che vietano le tv via cavo, purché si limitino all'ambito locale - il clima e le condizioni che spingono la Corte ad approvare quelle sentenze rivoluzionarie che porteranno al superamento del “monopolio pubblico” dell'informazione, per realizzare il “servizio pubblico”.
Comincia così il periodo delle radio libere in tutta Italia e, quasi subito, la comparsa anche delle prime televisioni private. L’entrata in scena di alcuni editori (Rusconi, Rizzoli, Mondadori) proiettano le televisioni oltre la dimensione locale (con accorgimenti tecnici che Radio Radicale è una delle prime a mettere in atto nel campo radiofonico).
La sentenza della Corte, dal valore dirompente ma transitorio, mette in moto un processo che occorre però regolare per legge. Gli orfani del monopolio Rai (i sindacati dei giornalisti radiotelevisivi, molti intellettuali di sinistra, i partiti di opposizione, una parte consistente della Dc che ha controllato fino ad allora il servizio pubblico) impediscono che questa legge si faccia, adottando un atteggiamento di boicottaggio e di difesa degli equilibri esistenti.
A beneficiare più di tutti dell’assenza di una nuova regolamentazione del sistema televisivo, mentre contemporaneamente aggira la normativa esistente, è Silvio Berlusconi. La posizione di monopolio della Fininvest nel settore privato, viene dapprima consentita di fatto, quindi ratificata a più riprese dalla partitocrazia: prima con il baratto del 1985, del quale si rende protagonista anche il Pci (che ottiene il controllo di Rai 3 in cambio del salvataggio alle reti di Berlusconi) poi a più riprese, con le leggi “Mammì” (1990), “Maccanico” (1997), “Gasparri” (2003). Di pari passo anche la Rai viene occupata dai partiti e “privatizzata” a loro uso e consumo, attraverso la lottizzazione
Una convergenza di interessi partitocratici che prosegue fino a oggi, nonostante la spinta a favore della concorrenza proveniente dall’Unione europea. Il 15 giugno 2002 il Parlamento europeo ha approvato una mozione nella quale esprime preoccupazione “per la situazione in Italia, dove la gran parte dei media e del mercato della pubblicità è controllato in forme diverse dalla stessa persona”, situazione che “potrebbe costituire una grave violazione dei diritti fondamentali a norma dell’articolo 7 del Trattato dell’Unione europea modificato dal Trattato di Nizza”. A ciò si aggiungono le reiterate sentenze della Corte costituzionale, di cui il caso “Europa 7” - emittente privata titolare di concessione ma priva di frequenze perché occupate illegalmente da una delle tre emittenti Mediaset – è significativa del mantenimento contra legem da parte della Rai di tre reti e della raccolta pubblicitaria. Nel gennaio 2008 la Corte di Giustizia dà ragione ad Europa 7, sentenziando che il regime delle frequenze in Italia è “contrario al diritto comunitario”.
In tal modo, il tanto declamato pluralismo della comunicazione – pubblica e privata – finisce per rispecchiare, salvo poche e poco rilevanti eccezioni, il “pluralismo” interno al sistema dei partiti, affidando alla mediazione dei loro apparati burocratici finanziati dallo Stato la gestione della comunicazione. Nel frattempo, in sessant'anni non è mai avvenuto un ricambio generazionale dei dirigenti e dei giornalisti della concessionaria pubblica.

14.2 La sistematica ed impunita violazione delle regole dell’informazione politica

Nel primo periodo della Repubblica non esiste regola che disciplini l’informazione e la propaganda politica attraverso il mezzo radiotelevisivo.
A parte l’immediato dopoguerra, quando la radio pubblica è caratterizzata da un dibattito politico vivace, contraddistinto da personalità e da temi anche anticonformisti (come quelli trattati nel dibattito pressoché giornaliero che si teneva nella rubrica radiofonica “Il convegno dei cinque”), ben presto la rottura dei governi del Cln - dovuta alla scelta atlantica ed europea della Repubblica italiana - riporta l’informazione politica sotto il rigido controllo del Governo, escludendo dal confronto non solo i partiti di opposizione (il Pci, il Psi di allora, il Msi) ma in gran parte anche gli alleati laici dei governi democristiani.
L’assenza di regole sull’informazione falsa palesemente le competizioni elettorali: nel 1958 il Partito radicale ed il Partito repubblicano, presenti alle elezioni politiche con liste comuni, devono rivolgersi al Presidente della Repubblica per denunciare la loro totale esclusione dall’informazione elettorale.
La situazione, nonostante l’entrata in scena della televisione a metà degli anni ‘50, si protrae fino al 1963 quando, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale del 1960, i partiti di opposizione riescono a ottenere vere e proprie tribune elettorali, con dibattiti e conferenze stampa trasmesse dalla Rai dalle quali però sono escluse le forze politiche non rappresentate in Parlamento. I partiti del regime si assicurano così l'utilizzazione monopolistica della radio e della televisione, escludendone rigorosamente tutte le forze nuove che potrebbero in qualche modo turbare o concorrere a modificare gli equilibri, insieme immobili e logori, della vita politica italiana.
Gli anni successivi, grazie alle lotte del Partito radicale, sono caratterizzati dalla progressiva conquista di regole che restaurano presupposti minimi per la validità della consultazione elettorale. Nel 1968 e nel 1972 il Partito radicale denuncia l’illegalità delle elezioni politiche, decidendo di non presentare propri candidati e di invitare gli elettori a votare scheda bianca, e in pochi anni si ottiene, attraverso forti iniziative nonviolente e giudiziarie, una serie di storiche riforme: l’accesso alle tribune politiche dei partiti non rappresentati in Parlamento; la garanzia dell’equal time per tutti i competitori elettorali; il sorteggio dell’ordine di intervento; l’accesso alle tribune dei rappresentanti dei Comitati promotori dei referendum (ottenuto in occasione del referendum sul divorzio dopo 78 giorni di digiuno di Marco Pannella).
Sempre grazie a uno sciopero della fame e poi della sete di Marco Pannella, alle elezioni politiche del 1976 viene riconosciuto per la prima volta il principio della “riparazione” per soggetti politici cui è stato illegittimamente impedito l’accesso.
Da quel momento, la Rai e la Commissione parlamentare di vigilanza pongono in essere un'opera di smantellamento delle tribune, spostandole in fasce orarie di scarso ascolto, riducendone il tempo complessivo e adottando format che sterilizzano le tribune rendendole prive di interesse.
In breve tempo le tribune televisive passano da un ascolto medio di 19 milioni di telespettatori nel 1976 al milione e mezzo del 1986, ulteriormente dimezzatosi nel corso degli anni.
Contemporaneamente, dinanzi all'importanza assunta dalle consultazioni referendarie, gli spazi di accesso sono contratti, negando la peculiarità del Comitato promotore e diluendone la presenza con l'ammissione paritaria di decine di altri soggetti, tra partiti e comitati, ivi inclusi gli astensionisti.
Ottenuta la sostanziale eliminazione della possibilità per i cittadini di conoscere il dibattito politico secondo regole democratiche , a partire dalla seconda metà degli anni ‘80 si verifica lo spostamento della comunicazione politica nei programmi di intrattenimento, sottratti a qualsiasi vincolo regolamentare e controllati nelle conduzioni, così come i telegiornali, dalla lottizzazione partitocratica della Rai. Quando il legislatore completa il vuoto di regole per i programmi di informazione, l'applicazione della legge viene demandata a organismi di garanzia privi di adeguati poteri cogenti e comunque incapaci di assolvere le loro funzioni.
Alle elezioni del 2000, a seguito di una denuncia della Lista Bonino, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con la storica delibera n. 70/00/CSP riconosce che Porta a Porta - il principale talk show politico, definito la “terza Camera del Parlamento italiano”- durante la campagna elettorale è un programma di comunicazione politica mascherato da informazione e che pertanto favorisce arbitrariamente alcuni partiti . Immediatamente, con i successivi regolamenti, la Commissione parlamentare di vigilanza interviene - in contrasto alla lettera della legge 28/2000 e potendo contare sull'inappellabilità dei propri atti affermata dalla giurisprudenza amministrativa – per “legalizzare” i comportamenti in precedenza considerati una violazione della par condicio.
Gli anni seguenti sono segnati dalla costante violazione della legge 28/2000 , in primo luogo attraverso regolamenti di attuazione volti a limitare l'accesso alla televisione dei soggetti politici alternativi alle due coalizioni Polo e Ulivo. Dal 2000 a oggi non v'è competizione elettorale o referendaria senza che l' Autorità garante accerti ugualmente gravi violazioni della par condicio da parte dei programmi Rai e Mediaset. In questo contesto, nel 2000 vengono vietati gli spot televisivi, cioè l'unico strumento che si è rivelato efficace per il successo di forze politiche alternative, altrimenti non conoscibili dagli elettori. La sistematica violazione delle regole che disciplinano il sistema radiotelevisivo è possibile solo grazie all'impunità assicurata dal rifiuto sistematico dell'esercizio dell'attività giurisdizionale contro chi ha realizzato – dall’interno e dai massimi livelli dell'organizzazione della informazione e della comunicazione – veri e propri attentati ai diritti politici dei cittadini. Le iniziative giudiziarie in tal senso, avviate dal Centro Calamandrei e dai Radicali, registrano infatti la costante elusione dell'intervento della magistratura, così come quelle intraprese sul fronte della tutela dell’onore, della reputazione e dell’identità personale.

14.3 Le questioni popolari cancellate dall’agenda

In questo regime dell’informazione, la principale preoccupazione è di negare ai cittadini la conoscenza e il dibattito politico e culturale su temi che possano mettere in difficoltà i poteri dominanti. Si ottiene questo attraverso il controllo dell'agenda televisiva, con le sue attualità ed i suoi approfondimenti. Da subito, ad esempio, viene sostanzialmente esclusa l'informazione sull'attività di organi costituzionali come la Corte costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura. Sono accuratamente sottratte alla conoscenza vicende quali i poteri del Presidente della Repubblica (dal potere di esternazione a quello di grazia), l'assenza di plenum della Corte costituzionale e dello stesso Parlamento.
Sulle grandi questioni della politica italiana ed internazionale, sui temi popolari che toccano il vissuto dei singoli, mai è consentito un vero confronto. Dal divorzio all'aborto, dal finanziamento pubblico dei partiti alla giustizia, dal debito pubblico ai codici penali, dalla legislazione sindacale a quella sul lavoro, dalla fame nel mondo ai diritti umani, gli italiani non beneficiano mai di un serio confronto tra proposte alternative, oltre che di una informazione completa e imparziale. In questo modo, vicende fondamentali per la vita democratica sono trattate come questioni private.
Si spiega così anche l'accanimento antireferendario, che vede la Rai in prima fila nel tentativo –riuscito - di sabotare alla radice lo strumento costituzionale di democrazia diretta. I referendum, infatti, oltre che “spaccare” la compattezza del sistema partitico, sono per loro natura predisposti al confronto di posizioni su temi concreti, favorendo il contraddittorio e la riflessione sui fatti. Il silenzio informativo e l'assenza di approfondimento garantiscono a volte il fallimento della raccolta firme, altre volte il mancato raggiungimento del quorum, altre ancora l'impunita vanificazione delle vittorie referendarie.
Grazie al Centro d'ascolto dell'informazione radiotelevisiva, creato nel 1981 dal gruppo parlamentare radicale, per supplire alla mancanza di un servizio di monitoraggio pubblico dei programmi televisivi, che possa consentire un reale esercizio dei propri compiti alle istituzioni preposte al controllo e all’indirizzo della Rai, sin dai primi anni '80 sono prodotti studi statistici, incontestati, che dimostrano l' utilizzo della televisione a tal fine.
Nel primo Libro bianco, il Centro d'ascolto analizza i radio e telegiornali Rai sotto il profilo dello spazio dato ai diversi argomenti al centro dell’agenda politica e istituzionale di quegli anni: i temi della fame nel mondo e del finanziamento pubblico dei partiti appaiono marginali rispetto allo spazio dedicato ad avvenimenti strettamente di partito come la Festa dell’amicizia e il Festival dell’Unità. Alla fame nel mondo l’informazione Rai dedica un totale di 33 minuti, mentre al finanziamento pubblico dei partiti è riservato poco più di un minuto, contro i 56 minuti dedicati al Festival dell’Unità e l’ora e 48 minuti alla Festa dell’amicizia. In pratica, l'informazione privilegia non la notizia, ma il partito.
Pochi anni dopo, nel 1984, un secondo Libro bianco analizza il periodo di 9 mesi in cui si svolge il processo nei confronti di Enzo Tortora, il presentatore che sceglie di fare del suo caso un'occasione affinché il paese affronti uno dei suoi problemi più endemici, la mala giustizia, e per questo è eletto al Parlamento europeo, da cui si dimette per poter essere processato senza l'immunità parlamentare. I dati mostrano come in quei nove mesi Tortora sia stato intervistato una sola volta dal Tg1, per 38 secondi, in occasione della sua deposizione in un aula di tribunale, e analogo trattamento viene tenuto dalla Rai nei confronti degli esponenti del Partito che sta combattendo la sua battaglia. Pochi anni dopo, in occasione del referendum radicale per una “giustizia giusta”, il popolo italiano mostra di avere in grande considerazione la questione, votando in massa per il “Sì”.
Il tema giustizia è di fatto sempre cancellato dall'informazione e dall'approfondimento politico della concessionaria di servizio pubblico anche nei decenni successivi, nonostante l'inefficienza dei nostri tribunali e l'incredibile numero di condanne internazionali subite dall'Italia per la lunghezza dei processi.
Stesso trattamento è riservato ai grandi successi italiani di politica internazionale degli ultimi 15 anni: sull'istituzione del Tribunale internazionale contro i crimini di guerra e contro l'umanità così come sull'approvazione all’Onu della moratoria delle esecuzioni capitali (che vedono l'Italia giocare un ruolo determinante), gli italiani hanno potuto a malapena apprenderne la notizia . Anche quando il Parlamento italiano si esprime con decisioni importanti e uniche nel panorama mondiale - ad esempio in occasione del tentativo nel 2002 di scongiurare la guerra in Iraq attraverso una seria trattativa per l'esilio di Saddam Hussein - il blocco Raiset sottrae letteralmente ogni possibilità di conoscenza agli italiani e, di conseguenza, svuota la forza di quelle proposte istituzionali e politiche.
Le tecniche di predeterminazione dell'agenda politica attraverso il controllo dell'agenda televisiva via via si perfezionano: quegli stessi temi che sono stati dapprima esclusi dal pubblico dibattito al fine di soffocare le spinte di riforma provenienti dalla società civile, sono dopo anni proposti solo quando si compie il processo che può aprire la strada alla “controriforma”.
E’ il caso dei temi cosiddetti bioetici, cioè sulle libertà individuali.
Nel 2001, quando Luca Coscioni - un ricercatore universitario colpito dalla sclerosi laterale amiotrofica - diviene dirigente radicale e capolista alle elezioni politiche per dare corpo e parola all'idea di laicità della ricerca scientifica e delle istituzioni, 50 premi Nobel (tra cui il fisico inglese Stephen Hawking e lo scrittore Josè Saramago) e oltre 500 scienziati di tutto il mondo sottoscrivono un appello a sostegno della sua candidatura. Pur in presenza di uno sciopero della sete di Emma Bonino, dell'autoriduzione dei farmaci dello stesso Coscioni e di interventi pubblici del Presidente della Repubblica Ciampi e del Presidente del Consiglio Giuliano Amato, i temi della ricerca scientifica, del rapporto tra Stato ed individuo in materia di vita e di morte, sono completamente esclusi dai palinsesti televisivi di informazione e di approfondimento, salvo essere trattati a senso unico e contrario pochi giorni prima del voto su Rai 1, con 14 milioni di ascolto, nella trasmissione di Adriano Celentano, senza diritto di replica.
Negli anni successivi, a dispetto delle dichiarazioni dei due principali candidati premier di allora, Berlusconi e Rutelli, che giudicano tali argomenti estranei al confronto politico perché afferenti alle coscienze, proprio quei temi saranno oggetto di importanti atti legislativi e di governo.
In assenza di confronti televisivi, viene prima approvata la legge 40/2004 che vieta la ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali e limita fortemente la fecondazione assistita, poi sabotati i referendum abrogativi assicurando il mancato raggiungimento del quorum.
Una situazione analoga si ripete con la vicenda di Piergiorgio Welby, altro dirigente radicale affetto da distrofia muscolare e militante per la legalizzazione del testamento biologico e dell’eutanasia. Dopo che nell'inverno del 2006 la drammatica lotta di Welby per una morte degna “buca” la cortina di silenzio eretta dalle televisioni, gli italiani vengono letteralmente bombardati per due anni da messaggi di contenuto proibizionista e fondamentalista, diffusi principalmente dalla Rai. Nello stesso periodo la concessionaria pubblica riserva agli interventi del Papa e delle gerarchie vaticane, nell'informazione e nei programmi di intrattenimento, enormi spazi di presenza - addirittura superiori a quelli dei partiti sommati insieme - con modalità che non hanno precedenti nella storia italiana e persino negli stati islamici. Quando poi nel 2009 giunge a compimento un'altra storia che coinvolge gli italiani, quella di Eluana Englaro, telegiornali e programmi di approfondimento di Rai e Mediaset si mobilitano nel fornire una informazione scorretta e parziale, al fine di preparare il terreno al decreto legge del Governo che impedisca al papà di Eluana l'esercizio del diritto della figlia a rifiutare le terapie riconosciuto dall'articolo 32 della Costituzione.
Un altro studio del Centro d'ascolto, effettuato dopo le elezioni politiche del 2008, mostra le modalità con cui la questione “sicurezza” - nonostante i dati del Ministero dell'Interno certifichino una generale riduzione dei reati - diventi una delle principali questioni elettorali in conseguenza di una abnorme sovra-rappresentazione televisiva, nei due anni precedenti il voto, delle notizie di cronaca nera, giudiziaria e di criminalità organizzata. Nei telegiornali il tempo di esposizione di tali eventi è raddoppiato dal 10,4% del 2003 al 23,7% del 2007, divenendo spesso la notizia di apertura oltre che l'argomento maggiormente trattato dalle testate giornalistiche. Le innumerevoli puntate dedicate dai programmi di approfondimento contribuiscono poi a far perdere la temporalità dell'evento e a rendere sempre attuali gli episodi criminosi. Rarissimi invece sono i casi in cui la notizia riguarda in termini positivi la riabilitazione di detenuti o una immagine positiva dell'immigrato.

14.4 L’imposizione di protagonisti e antagonisti di Regime

L'operazione di indirizzo tematico del paese, del “di cosa si può parlare”, va perfezionandosi con l'imposizione mediatica dei protagonisti e degli antagonisti della vita politica.
La perimetrazione degli attori politici protagonisti – di volta in volta Dc e Pci, Polo e Ulivo, Pdl e Pd - è assicurata fino al 1976 con la formale esclusione delle forze non rappresentate in Parlamento e successivamente con la lottizzazione dei telegiornali e dei talk show, supportata dalle regolamentazioni fuorilegge della Commissione parlamentare di vigilanza e dalla oggettiva connivenza degli organismi di garanzia.
Nelle elezioni politiche del 2001, ad esempio, a fronte di cinque candidati premier, vanno in onda per oltre un mese comizi di un’ora ciascuno dei soli Berlusconi e Rutelli senza che siano presi provvedimenti efficaci per ripristinare la par condicio violata. Contemporaneamente, come documentato da una ricerca condotta dell’Università di Perugia, sono esclusi tutti i temi non funzionali alla contrapposizione tra questi due leader: l'unico tema che domina la campagna elettorale è “Berlusconi ed il conflitto di interessi”.
Gli anni seguenti sono caratterizzati dalla progressiva e tacita riserva degli spazi principali e delle interviste con le maggiori potenzialità di ascolto ai rappresentanti delle due coalizioni dominanti. Le analisi scientifiche sui telegiornali dimostrano che l'informazione televisiva privilegia non la notizia ma il partito, facendo del servizio pubblico uno strumento partitocratico di selezione dei temi e delle forze politiche ammesse al dibattito. Così determinati i protagonisti della vita politica, negli ultimi quindici anni il perfezionamento nel controllo del mezzo televisivo al fine di soffocare le spinte della società civile avviene tramite la promozione dell'antagonista ufficiale. Gli esempi più recenti sono quelli relativi a Rifondazione Comunista ed Italia dei Valori, o meglio, ai loro leader Fausto Bertinotti e Antonio Di Pietro. Tra il 2000 ed il 2005, infatti, Bertinotti è il politico più presente nella principale trasmissione di approfondimento politico della Rai, Porta a Porta: 68 volte (per una comparazione, Marco Pannella è presente 12 volte). Questa straordinaria presenza mediatica, sproporzionata anche rispetto al peso elettorale del suo partito è dunque necessariamente voluta. Per anni fornisce agli italiani l'indicazione dell'antagonista ufficiale, sottraendo spazio a forze politiche che agiscono come alternativa al sistema dei partiti. Qualcosa di analogo accade oggi con Antonio Di Pietro: basta rilevare che, successivamente alle elezioni politiche del 2008, Di Pietro è il leader politico più presente nelle tre principali trasmissioni della Rai, Ballarò (8 volte), Annozero (6 volte) e Porta a Porta (7 volte).

Burton Morris
06-05-09, 19:57
14.5 Il “genocidio politico e culturale” del movimento radicale

Nei sessantanni di Repubblica, dunque, le condizioni generali della vita politica istituzionale rendono sempre più difficile il “conoscere per deliberare”, principio base della vita democratica. In particolare, il controllo dei mezzi di comunicazione, dei temi come dei soggetti ammessi, fa si che non vi sia spazio per un partito che voglia concorrere, come vuole la Costituzione, alla determinazione della politica nazionale esclusivamente con le proprie proposte ideali e programmatiche. Proprio per la sua capacità di incardinare lotte istituzionali e politiche sui temi più popolari del paese, ancorati al vissuto dei singoli, il Partito radicale è dapprima marginalizzato dalla radiotelevisione, poi leso nella sua immagine e identità e infine cancellato.
Lo attestano quarant'anni di provvedimenti e di riconoscimenti provenienti dai massimi organismi istituzionali, giurisdizionali, politici e culturali.
La prima competizione elettorale cui il Partito radicale partecipa nel 1976, è preceduta da una trasmissione ad esso riservata quale simbolica riparazione riconosciuta dallo stesso Direttore generale della Rai per gli anni di ingiusta e totale assenza dalla televisione.
Due anni prima, dopo essere stati protagonisti insieme con la Lid della battaglia popolare per ottenere la legge sul divorzio, venivano del tutto esclusi dalle tribune referendarie precedenti il voto. E’ Pier Paolo Pasolini a rompere il muro di silenzio che circonda l’iniziativa nonviolenta di sciopero della fame di Marco Pannella , con un articolo sul Corriere della sera nel quale sostiene che il motivo per cui “il mondo del potere – Governo e opposizione – ignora, reprime, esclude Pannella, fino al punto di fare, eventualmente, del suo amore per la vita un assassinio” è legato alla “sua prassi politica realistica. Infatti è il Partito radicale, la Lid (e il loro leader Marco Pannella) che sono i reali vincitori del referendum del 12 maggio. Ed è per l’appunto questo che non viene loro perdonato da nessuno”.
Nello stesso anno l'appello con cui i radicali convocano la prima marcia contro la Rai è sottoscritto da artisti ed intellettuali del calibro di Arrigo Benedetti, Alessandro Galante Garrone, Tinto Brass, Adriano Buzzati, Ignazio Silone, oltre a Pasolini.
Il 28 settembre del 1995, durante uno sciopero della sete di Marco Pannella di fronte al silenzio del sistema dell’informazione nei confronti della campagna referendaria in corso, ben 485 deputati e senatori sottoscrivono un appello al Presidente della Repubblica per denunciare che “è in corso un attentato ai diritti politici del cittadino” e per chiedergli di intervenire.
Il 19 novembre del 1997, la Commissione parlamentare di vigilanza, visionati i dati e “rilevata la pressoché totale assenza dai dibattiti e dai confronti televisivi di temi sollevati con molteplici iniziative dal Movimento dei Club Pannella e dai suoi leader”, chiede alla Rai “di inserire tempestivamente nella programmazione televisiva trasmissioni di dibattito e di confronto su quei temi”.
Di fronte ai dati di presenza addirittura peggiori di quelli precedenti, la Commissione il 10 marzo 1998 dichiara che la Rai non ha “ottemperato agli indirizzi della Commissione. Infatti, dall’approvazione della risoluzione dello scorso 19 novembre, la Rai non ha programmato neppure un dibattito televisivo sul finanziamento pubblico dei partiti e sulla riforma elettorale, ed ha fatto partecipare in modo saltuario gli esponenti della ‘Lista Pannella’ alla gran parte dei dibattiti dedicati al tema delle droga.”
Il 15 maggio del 1998, in una lettera indirizzata all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - da poco istituita con il compito di garantire il rispetto delle norme sull'informazione politica -, il Presidente della Commissione di vigilanza, Francesco Storace, denuncia il comportamento della Rai come “un’operazione che non esito a definire di autentico genocidio politico-culturale.”
Dal 1998 al 2009, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni accerta, praticamente in maniera ininterrotta sebbene sempre su denuncia di parte, squilibri editoriali e violazioni di legge perpetrate dalle tre emittenti Rai a danno dei Radicali, per un totale di 40 provvedimenti aventi ad oggetto 47 diversi programmi. Altre decine di provvedimenti riguardano le emittenti Mediaset.
Questi comportamenti contra legem si verificano sia nei telegiornali che nei cosiddetti programmi di approfondimento e persino nelle tribune politiche, nei momenti decisivi dei periodi elettorali e con lunghe assenze nei periodi non elettorali.
Se si considera il triennio 2006-2008, il Tg1 è condannato cinque volte per comportamenti a danno dei Radicali, il Tg2 e il Tg3 quattro volte. Le principali trasmissioni di approfondimento vedono invece Porta a Porta subire sette volte provvedimenti per il danno arrecato ai Radicali; Ballarò cinque volte; Primo Piano e Telecamere tre volte; i programmi di Santoro due volte. Matrix, principale trasmissione di Mediaset, cinque volte.
Infine, l’intera programmazione informativa della Rai è oggetto di richiamo per squilibri nei confronti dei Radicali da parte dell’Autorità nel 1999, nel 2001 e nel 2006, da parte della Commissione parlamentare di vigilanza nel 1997, nel 1998, nel 2001, nel 2002 e nel 2007. Si tratta di un unicum nel panorama italiano e forse mondiale: non esiste infatti altro soggetto politico che possa in modo anche parziale avvicinarsi per numero, gravità, varietà e durata degli accertamenti di squilibri editoriali e violazioni degli obblighi di informazione. Parimenti, non esiste caso di leader politico che sia così marginalizzato come Marco Pannella, agli ultimi posti delle classifiche di presenza sia nei telegiornali che nelle trasmissioni di approfondimento, nonostante l'oggettiva straordinaria rilevanza della sua attività politica.
Nel marzo 2009, di fronte all'evidenza di questa strutturale e sistemica mancanza di apertura nei confronti della forza politica e culturale radicale, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, per la prima volta, contesta alla Rai, ai sensi dell'articolo 48 del Testo unico della radiotelevisione, l'inadempimento degli obblighi di servizio pubblico.

14.6 Il compiuto attentato ai diritti civili e politici

La radio prima e la televisione poi sono state asservite all’esigenza di circoscrivere gli argomenti ammessi alla pubblica conoscenza e di predeterminare i soggetti cui consentire l’accesso, con l’obiettivo di abolire l’agenda reale del paese ed imporre protagonisti ed antagonisti di regime.
Un obiettivo perseguito e raggiunto innanzitutto impedendo concorrenza e libertà di impresa, difendendo il monopolio pubblico della Rai ed il successivo monopolio privato di Mediaset anche contro le sentenze dei massimi organi giurisdizionali nazionali ed europei. Facendo del servizio pubblico il luogo di spartizione partitocratica, dapprima a uso esclusivo delle forze di governo e successivamente oggetto di scientifica lottizzazione da parte dei maggiori partiti.
Ogni qualvolta poi sono conquistate regole democratiche che assicurino ai cittadini informazione e conoscenza, esse sono sistematicamente violate nella certezza della totale impunità, garantita dal costante rifiuto all’esercizio dell’attività giurisdizionale da quella stessa magistratura che rappresenta da anni la ragione sostanziale della mancata tutela dell’onore e della reputazione in Italia.
Lo strutturale asservimento dei più popolari mezzi di comunicazione si è da subito legato con la forte limitazione del diritto alla libertà di espressione, sancito dall’articolo 21 della Costituzione, realizzata con l’istituzione nel 1963 dell’Ordine dei giornalisti e subordinando la liceità di ogni pubblicazione all’iscrizione all’albo dei giornalisti del suo direttore responsabile (a questo proposito è tuttora in corso il processo a Pippo Maniaci, direttore della tv Telejato, combattuto dalla mafia e contestato dall’Ordine dei giornalisti perchè “non iscritto”). Una norma illiberale, che ha origine nel periodo fascista e non trova eguali negli altri stati democratici, sottoposta a referendum nel 1997 per iniziativa dei Radicali dopo che gli stessi hanno tentato di vanificarne gli effetti offrendosi come direttori responsabili delle principali testate dei movimenti extraparlamentari. La maggioranza dei votanti si esprime per l’abrogazione dell'Ordine dei giornalisti, ma dopo una campagna elettorale silenziata dal sistema dei media non è raggiunto il quorum.
Su tutto questo, sul sistema radiotelevisivo e sulle modalità con cui garantire la circolazione delle idee e rendere possibile la conoscenza, in 60 anni il paese non può mai avere un pubblico dibattito.
L’unica eccezione si ha nel 1995, in occasione del voto su quattro referendum, quando vengono a confrontarsi due alternative opposte di intervento sulla legislazione radiotelevisiva. Da una parte i Radicali, che individuano nella Rai il nodo centrale da sciogliere per arrivare a una riforma complessiva, chiedendone la privatizzazione e l’abolizione della pubblicità (quest’ultimo quesito non ammesso dalla Corte costituzionale), dall’altra i “progressisti”, che vogliono colpire il monopolio del settore privato in mano alla Fininvest per meglio proseguire l’occupazione partitocratica del servizio pubblico. Gli italiani votano a favore solo del referendum radicale, ma negli anni seguenti il Parlamento ignora l’indicazione espressa dal corpo elettorale.
La funzionalità di tale assetto di potere a un sistema politico che per sopravvivere è costretto a violare la propria legalità, trova conferma nel fatto che su questo tema nessuna grande manifestazione è mai convocata da chi ne ha la possibilità effettiva. Solo il Partito radicale tenta di investire l’opinione pubblica del problema informazione, a partire dalla prima marcia contro la Rai che si tiene il 20 settembre 1974 e che porta alle dimissioni di Ettore Bernabei, il Direttore generale che ha governato per vent'anni la Rai a monocolore democristiano.
I pochi strumenti scientifici di monitoraggio della democrazia, del “quarto potere”, vengono ridotti all’impotenza dopo che per anni se ne era impedita l’esistenza. È il caso del Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva, il primo e più autorevole centro di monitoraggio televisivo che, proprio in ragione della sua indipendenza ed autorevolezza scientifica, nel 2008 è stato privato dei contratti con l’amministrazione pubblica e costretto a interrompere le sue attività. Si elimina così persino la possibilità effettiva di conoscere la realtà del sistema radiotelevisivo.
L’interesse è impedire che ai cittadini italiani giunga una informazione completa e imparziale del reale dibattito politico, come quella ad esempio assicurata dal servizio pubblico di Radio Radicale, che dal 1976 porta nelle case degli italiani dibattiti che avvengono in Parlamento e nei congressi di partito.
Da decenni i Radicali agiscono come attivatori di legalità, dei diritti di libertà costituzionali, attraverso la conquista di regole e la lotta per il rispetto delle leggi vigenti.
Proprio per questo, sono l’unica forza politica che da cinquant’anni viene costantemente ostracizzata, diffamata, cancellata, nel timore che dando accesso ai Radicali si aprano spazi di conoscenza su argomenti scomodi al regime e potenzialmente generatori di aggregazioni politiche e sociali alternative.

Burton Morris
06-05-09, 19:57
Capitolo 15
GLI ULTIMI ANNI DEL REGIME

Dalla marcia per l’amnistia alla cancellazione della Commissione di vigilanza, il perfezionarsi della non-democrazia verso le prossime elezioni europee.

15.1 Sugli “obblighi costituzionali inderogabili” e sulla partecipazione dei Radicali alle elezioni europee

Per ottenere condizioni simili a quelle che si sono determinate in vista delle cosiddette “elezioni europee” del giugno ’09, in altri tempi sarebbe stato necessario far ricorso ai “colonnelli”: tribune elettorali cancellate per un anno; cancellata la Commissione parlamentare di vigilanza assieme a quelle funzioni costituzionali di controllo ad essa attribuite. Lo stesso Presidente della Repubblica, nell’estate 2008, era intervenuto per richiamare gli “obblighi costituzionali inderogabili” che invece erano disattesi, ma anche il suo intervento rimase completamente inascoltato.
Si preparano così elezioni europee prive di connotazioni democratiche nel senso tecnico, riservate e garantite unicamente alle diverse “gambe” del regime monopartitico e agli “oppositori” scelti come ufficiali. Per aiutare i massimi responsabili istituzionali a trovare soluzioni a questa situazione, i Radicali hanno fatto di tutto: scioperi della fame e della sete, occupazione di luoghi istituzionali, iniziative giudiziarie. La partecipazione della Lista Bonino-Pannella alle prossime elezioni è finalizzata ad approfittare anche di questa occasione per cercare di svelarne i suoi connotati sostanzialmente violenti e autoritari.
Di seguito, sono ripercorse alcune delle vicende degli ultimi anni attraverso le quali è possibili leggere l’aggravarsi delle condizioni di negazione dello Stato di diritto.

15.2 La marcia di Natale 2005 per l’amnistia, la giustizia, la libertà. Perché nove milioni di processi pendenti sono la più grande questione sociale del paese

(…) “Quello che di impressionante vi è da sottolineare immediatamente all'attenzione di tutti voi è la mole dei procedimenti pendenti, cioè, detto in termini più diretti, dell'arretrato o meglio ancora del debito giudiziario dello stato nei confronti dei cittadini: 5 milioni e 425 mila i procedimenti civili pendenti, 3 milioni e 262 mila quelli penali. Ma il vero dramma è che il sistema non solo non riesce a smaltire questo spaventoso arretrato, ma arranca faticosamente, senza riuscire neppure ad eliminare un numero almeno pari ai sopravvenuti, così alimentando ulteriormente il deficit di efficienza del sistema.” [Ministro della Giustizia Angelino Alfano, 27 gennaio 2009, aula della Camera dei deputati, relazione sull’amministrazione della giustizia]
La situazione delle carceri italiane è “fuori della Costituzione”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Angelino Alfano intervenendo al convegno Rete Italia in corso a Riva del Garda. [ANSA 15 marzo 2009].
Basterebbero queste due dichiarazioni del Ministro in carica per comprendere che quella della “giustizia” è la più grande questione sociale del paese. Ma c’è dell’altro.
In un suo rapporto il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa è sferzante: “Solo per il periodo che va dal gennaio 2001 a dicembre 2004, delle 998 decisioni e sentenze rese dalla Corte Europea relative all’Italia, 799 riguardano l’articolo 6 della Convenzione Europea sui Diritti Umani, nella maggior parte dei casi in relazione a ritardi del procedimento giudiziario… Al 30 giugno 2004 oltre nove milioni di casi erano in attesa di giudizio. Ad essi bisogna aggiungere i centomila casi pendenti soltanto alla Corte di Cassazione. In base a tali cifre, circa il 30 per cento della popolazione italiana è in attesa di una decisione giudiziaria”.
Quando si dice “in attesa”, significa che c’è chi quell’attesa la trascorre in carcere; e gli istituti di pena italiani sono tali nel senso letterale:
“La realtà penitenziaria continua ad essere caratterizzata dal preoccupante dato del crescente sovraffollamento delle strutture detentive. Gli effetti dell'indulto approvato dal Parlamento con legge 31 luglio del 2006, n. 241, si sono ben presto rivelati del tutto insufficienti e provvisori, se è vero che da un totale di 38 mila e 847 presenze registrato il 31 agosto del 2006 si è passati alle 43 mila e 957 del 30 giugno 2007, per giungere alle 52 mila e 613 del maggio 2008. La scorsa notte hanno dormito nelle nostre carceri 58 mila e 692 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 42 mila e 957 posti e di una cosiddetta di necessità di 63 mila e 443 posti: dati che indicano chiaramente come la crescita dell'andamento delle carcerazioni si stia rapidamente attestando sui livelli drammatici del periodo preindulto.” [Ministro della Giustizia Angelino Alfano, 27 gennaio 2009, aula della Camera dei deputati, relazione sull’amministrazione della giustizia]
All’inizio di marzo i detenuti nelle carceri italiane avevano raggiunto la cifra di 60.570 e, secondo l’associazione Antigone “a Napoli siamo addirittura a 2.700 detenuti per 1.300 posti: quello di Poggioreale è il carcere più affollato d’Europa. Lì come nel resto d’Italia l’effetto indulto è stato annullato da tempo e siamo tornati alla situazione di sempre.” [Corriere della Sera, 15 marzo 2009]
I rapporti ufficiali del Dipartimento per l’Amministrazione della Giustizia dicono che almeno la metà degli istituti penitenziari dovrebbero essere chiusi, luoghi di tortura più che di riabilitazione come la Costituzione prevede e prescrive: celle dove si ammassano il doppio dei detenuti previsti, condizioni igieniche e sanitarie da terzo mondo, assistenza insufficiente, personale ridotto che si trova a lavorare anch’esso in condizioni di estremo disagio. Un numero impressionante di suicidi e tentati suicidi, spesso di ragazzi che decidono di farla finita dopo pochi giorni di detenzione… Intanto nei tribunali i processi si trascinano, si accumulano; ogni anno cadono in prescrizione 140.000 processi penali: un’amnistia strisciante, continua, di classe: perché chi ha disponibilità economica e si può permettere un principe del foro che conosce tutte le scappatoie che la legge e i codici consentono, è in grado di trascinare il procedimento per mesi ed anni, fino a quando “per legge” si estingue. Il povero diavolo invece, paga subito. Per non dire dei “detenuti in attesa di giudizio”: persone che finiscono in carcere per un tempo imprecisato, e col tempo – ma con comodo – si scopre magari che sono vittime di un errore, di un’omonimia, di una suggestione; e dopo settimane e mesi di ingiusta detenzione sono scarcerati.
Questo quadro, per sommi capi, è quello che porta nel novembre del 2005 Pannella – che già aveva condotto uno sciopero totale della fame e della sete per sette giorni coincidenti con l’agonia e la morte di Papa Giovanni Paolo II che fin dal 2000, in Parlamento, aveva chiesto un atto di clemenza per i detenuti - e i radicali si rivolgono a tutti i partiti, a cominciare da quelli dell'Unione di Romano Prodi, per rimettere il tema dell'amnistia nell'agenda politica.
L’appello che costituisce la piattaforma dell’iniziativa politica chiede un indulto di almeno due anni, “che possa sgravare di un terzo il carico umano che soffre - in tutte le sue componenti, i detenuti, il personale amministrativo e di custodia - la condizione disastrosa delle prigioni”. Contestualmente si chiede un’amnistia, “la più ampia possibile; l’obiettivo è quello di ridurre di almeno un terzo il carico processuale della Amministrazione della Giustizia perché essa possa, liberata da processi meno gravi, proficuamente impegnarsi a concludere quelli più gravi”.
Tra le varie iniziative messe in campo, una “Marcia di Natale 2005 per l’amnistia, la giustizia, la libertà. Perché 9 milioni di processi pendenti sono la più grande questione sociale del paese”. E’ la prima volta che in Italia si manifesta, in queste forme “di massa”, per la Giustizia Giusta. Mai prima un grande partito o sindacato si era mai impegnato su questo tema. E anche dopo…
Giungono le prime adesioni, un arco di forze amplissimo, capeggiato dai senatori a vita Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Giorgio Napolitano.
Il 7 dicembre Pannella inizia uno sciopero della fame: “tre giorni di dialogo, di incoraggiamento e di amicizia”. Si rivolge in primo luogo al Presidente del Consiglio Romano Prodi, a Piero Fassino, leader dei Ds; e ai tre segretari di Cgil, Cisl e Uil, Guglielmo Epifani, Savino Pezzotta, Luigi Angeletti: “i responsabili della organizzazioni che in questi anni si sono specializzate nella convocazione delle grandi manifestazioni di massa”.
Qui conviene ripercorrere le tappe salienti dell’iniziativa pro-amnistia e pro-indulto.
Il 14 dicembre un comunicato firmato da Prodi, Fassino e Rutelli rompe il silenzio sulla questione amnistia: «L'Unione chiede alla maggioranza di governo di dare una risposta chiara ed inequivocabile».
Crescono le adesioni al comitato promotore della marcia. Ne fanno parte tra gli altri: don Antonio Mazzi, presidente della Fondazione Exodus; i senatori a vita Giulio Andreotti, Emilio Colombo, Francesco Cossiga, Rita Levi Montalcini, Giorgio Napolitano, Sergio Pininfarina; i presidenti emeriti della Corte costituzionale Giuliano Vassalli e Antonio Baldassarre; don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, don Andrea Gallo, fondatore della Comunità San Benedetto al Porto di Genova, Mario Marazziti, portavoce della Comunità di Sant’Egidio…
Il 17 dicembre il parlamentare della Margherita Roberto Giachetti chiede la convocazione straordinaria della Camera. Il 22 dicembre Giachetti annuncia di aver raccolto il numero di firme necessario per la convocazione della seduta straordinaria.
La mattina del 25 dicembre la “Marcia per l’amnistia e la giustizia, la libertà”, aperta da don Mazzi e don Gallo, da Napolitano, Cossiga e Pannella, parte da Castel Sant’Angelo e transita poi davanti al carcere di Regina Coeli, al Senato, alla Camera dei Deputati, a Palazzo Chigi per poi concludersi di fronte al Quirinale.
Il 27 dicembre sono 136 i deputati che partecipano alla seduta straordinaria della Camera per dibattere di amnistia. La stragrande maggioranza di loro (93) aveva aderito alla richiesta di convocazione promossa dall’onorevole Giachetti e sottoscritta da 205 colleghi. La Camera non vota il provvedimento: il presidente dell'assemblea Casini incarica la Commissione giustizia di Montecitorio di riunirsi e discutere un testo su un provvedimento di clemenza per l'inizio di gennaio.
Il 13 gennaio 2006 la Camera dei deputati dice no al testo licenziato dalla Commissione giustizia per l'amnistia e l'indulto. Viene infine votato (con l’opposizione di Lega e An) un provvedimento di indulto che decongestiona temporaneamente le carceri sovraffollate; la proposta di amnistia, che avrebbe eliminato una quantità di procedimenti destinati comunque a finire prescritti consentendo ai magistrati di potersi dedicare ai reati più gravi e urgenti, in seguito a una furibonda campagna di stampa condotta dal centro-destra (ma anche, bisogna ricordarlo, con la complice ignavia del centro-sinistra) non viene mai votata.
Il provvedimento, monco, consente benefici limitati e temporanei. Al provvedimento di indulto non fa seguito alcuna politica tesa al reinserimento nella società del detenuto liberato; cosicché si creano tutti i presupposti perché torni a delinquere e ritorni in carcere. Ora la situazione della giustizia è tornata ad essere quella in cui versava prima dell’indulto: carceri sovraffollate, oltre sessantamila detenuti, ventimila in più di quelli che gli istituti di pena sono in grado di “ospitare”, la metà circa in attesa di giudizio. L’ex ministro della giustizia Clemente Mastella, recentemente intervistato, ha ricordato che l’indulto era stato voluto da tutti, e che sarebbe stato necessario anche un provvedimento di amnistia. Ma oggi come ieri si preferisce l’amnistia strisciante, quotidiana e di classe per prescrizione, fenomeno che lascia completamente indifferenti chi allora, in nome di un malinteso senso di giustizia, si oppose all’iniziativa radicale. Un’amnistia all’italiana insomma, che si verifica nei fatti e di cui nessuno si assume la responsabilità politica.

15.3 Il “Porcellum” del 21 dicembre 2005

La legge del 21 dicembre 2005 n.270 introduce un sistema per l’elezione della Camera dei deputati di tipo interamente proporzionale, con l’eventuale attribuzione di un premio di maggioranza in ambito nazionale che sostituisce quello misto, precedentemente in vigore.
I deputati sono eletti in proporzione ai voti ottenuti dalle liste concorrenti presentate nelle 26 circoscrizioni (un deputato viene eletto con metodo maggioritario nel collegio uninominale della Valle d’Aosta). La legge prevede che i partiti che intendono presentare liste di candidati possono collegarsi tra loro in coalizioni; i partiti che si candidano a governare, inoltre, depositano il loro programma e indicano il nome del loro leader. Quanto alle modalità di votazione, l’elettore può esprimere un solo voto per la lista prescelta; non è inoltre previsto alcun voto di preferenza.
Tecnicamente è una legge proporzionale con il premio di maggioranza, garantisce cioè una governabilità certa almeno alla Camera, sommando però tre sistemi di elezione molto diversi tra loro: uno per la Camera dei deputati, un altro per il Senato della Repubblica, un altro ancora per gli italiani all'estero.
La legge, che è la pietra tombale al sistema elettorale maggioritario, voluto dagli elettori con un referendum nel 1993, contiene una clausola grazie alla quale, di fatto, tutti i partiti sono liberati dall’onere di raccogliere le firme, al contrario di quanto avveniva con la legge precedente; tutti tranne uno: la Rosa nel Pugno, la forza politica nata dall'unione tra Radicali e Socialisti. Questo nonostante lo Sdi, uno dei due soggetti costituenti, disponga di ben diciassette parlamentari nazionali e di quattro al Parlamento europeo e i radicali dispongano di due parlamentari europei;.
I Radicali e i Socialisti della Rosa nel Pugno sono così costretti a raccogliere 180mila firme in tutta Italia, e la raccolta di firme deve essere fatta sulle liste dei candidati; il che significa dover presentare i propri candidati quasi un mese prima rispetto agli altri partiti, per poter poi raccogliere le firme sulle liste chiuse. Una disparità, che pregiudica la stessa effettiva “legittimità del voto”. Gli avversari politici esentati dalla raccolta firme possono infatti definire le loro liste anche all’ultimo momento, e conoscere in anticipo chi sarà il candidato di quelle liste obbligate alla raccolta di sottoscrizioni; hanno così la possibilità di scegliere i candidati più appropriati da opporre nei diversi collegi.
Il Senato respinge tutti gli emendamenti migliorativi al decreto: quelli sulla raccolta delle firme per la presentazione del simbolo; e quelli che propongono di raccogliere le firme solo sul simbolo e non anche sui candidati. Camera e Senato inoltre respingono la mozione che chiede al Governo un nuovo decreto o, almeno, un’interpretazione autentica della norma sulle modalità di presentazione delle liste, per eliminare la discriminazione ai danni della Rosa nel Pugno. Il Governo si dichiara contrario a entrambe le richieste. La mozione è respinta con soli 11 voti di scarto.

15.4 Elezioni politiche 2006 – dall’applicazione all’interpretazione della legge: 8 senatori nominati al posto di quelli legittimamente eletti

Nel corso delle elezioni del 2006 per il rinnovo del Senato quattro uffici elettorali regionali - Piemonte, Lazio, Campania e Puglia - decidono di interpretare la legge elettorale applicando una inesistente soglia del 3%; alterando il risultato elettorale e nominando 8 senatori al posto di quelli legittimamente eletti.
Il ministro degli interni pro tempore Giuliano Amato, in Parlamento riferisce: “Il Ministero degli Interni...non ha emanato alcuna direttiva o istruzione o documento interpretativo della legge elettorale; ha semplicemente assolto ad un compito - che ha di fatto perché nessuna legge glielo attribuisce - che è quello della predisposizione del modello di verbale per gli uffici elettorali regionali che per tradizione viene fatto dal Ministero degli Interni così come, per tradizione, il Ministero degli Interni comunica oralmente i risultati delle elezioni accertati in via provvisoria e che provvisori rimangono perché poi i risultati veri delle elezioni sono quelli che vengono forniti dagli uffici regionali e, nel caso della Camera, dall’Ufficio Circoscrizionale Centrale. Ora, è vero peraltro che il modulo predisposto dal Ministero degli Interni era costruito in modo da presupporre l’interpretazione della legge elettorale alla quale Lei ha fatto riferimento e che Lei non condivide. Questa interpretazione del resto il Ministero l’ha enunciata in vario modo ma non attraverso una direttiva ed è un’interpretazione in base alla “ratio” complessiva della legge che l’ha portato a ritenere in via analogica applicabile anche al Senato il riferimento alle sole liste che avessero superato lo sbarramento anche nel caso di conseguimento del premio di maggioranza. Questi sono i fatti. Se vuole sapere la mia opinione, è anche possibile che se io fossi stato allora Ministro degli Interni avrei discusso con l’Amministrazione questa interpretazione perché personalmente tendo a ritenere che l’applicazione analogica in questa materia sia molto opinabile quando si risolva in limiti a diritti politici fondamentali e qui un limite all’elettorato passivo ha finito per essere imposto per interpretazione analogica in una situazione nella quale un emendamento noto del Senatore Mancino al Senato per specificarlo era stato respinto. Sappiamo che era stato respinto per evitare che la legge tornasse alla Camera, ma era stato respinto e questo sull’interpretazione pesa.”
La Giunta delle elezioni del Senato per tutta la durata della procedura si muove all’unanimità, ad eccezione del senatore Manzione, che il 5 luglio è nominato relatore per la Regione Piemonte.
L’11 ottobre, relazionando alla Giunta, Manzione propone di costituire un Comitato inquirente, incaricato di svolgere alcuni adempimenti istruttori. In sette sedute svoltesi tra novembre e dicembre 2006, tali adempimenti si sono articolati nelle audizioni dei professori Giuliano Vassalli, Fulco Lanchester, Mario Patrono, Massimo Luciani, Antonio Agosta e Stefano Ceccanti, nonché nell’audizione del presidente dell’Ufficio elettorale regionale del Piemonte, dottor Quaini, e del segretario responsabile, signora Ruscazio.
Il 6 dicembre la Giunta decide di procedere alla revisione totale delle schede nulle, bianche e contenenti voti nulli o contestati, di alcune circoscrizioni regionali riservandosi, nel caso si rivelino scostamenti significativi rispetto ai dati di proclamazione, di estendere la procedura di revisione delle schede anche alle altre regioni. Decisione presa in violazione del capo III del Regolamento per la verifica dei poteri secondo cui tutta l'attività istruttoria della Giunta è imperniata sulle proposte formulate per ciascuna regione dal relatore all'esito dell'esame da parte dello stesso di tutta la documentazione elettorale concernente la regione medesima.
Il 6 marzo 2007 la Giunta delle elezioni estende la revisione alle schede valide. Un ulteriore provvedimento per rinviare sine die la trattazione dei ricorsi, anche quando attengono ad una regione - il Piemonte - non inclusa nelle attività di revisione delle schede, già pronta per l’esame, il cui relatore ha già depositato le sue conclusioni.
Il 21 gennaio 2008, a oltre 18 mesi dalle elezioni, la Giunta del Senato convalida l’elezione del senatore nominato nella circoscrizione Piemonte, e il 26 febbraio dei nominati a senatori pronunciata dagli Uffici elettorali regionali di Lazio, Campania e Puglia.
Convalida contro la quale non è stato possibile ricorrere alla Cassazione - come accade per la Camera dei deputati - in quanto nella precedente legislatura questo diritto previsto dal regolamento della Giunta del Senato è stato cancellato dalla maggioranza parlamentare. La truffa si è consumata: otto senatori regolarmente eletti non vengono nominati. Al loro posto, altrettanti abusivi.

15.5 La Commissione di vigilanza Rai nella XV legislatura e il Centro d’Ascolto dell’informazione radiotelevisiva

Il 14 novembre 2006 la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi approva all’unanimità una risoluzione che impone alla Rai di trasmettere alla Commissione periodicamente tutti i dati di monitoraggio politico, sociale e tematico relativo alle trasmissioni Rai nazionali, regionali, televisive e radiofoniche.
Il provvedimento intende colmare una lacuna storica: la Commissione parlamentare non è materialmente in grado di svolgere i suoi compiti istituzionali non avendo a disposizione i dati del monitoraggio televisivo Rai. La risoluzione tuttavia non ottiene alcuna concreta applicazione: perché vengono forniti solo dati parziali, con grave ritardo e discontinuità. Nonostante ciò l’Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) non adotta alcun provvedimento per assicurare l’ottemperanza alla delibera.
Nel frattempo non viene rinnovato il contratto tra Rai-tv e Centro di Ascolto dell’informazione radiotelevisiva radicale, che si vede costretto prima a ridurre la sua attività, e, nel luglio del 2008 a sospenderla.
Il Centro di Ascolto è la prima società italiana di monitoraggio televisivo; era già stato escluso dal servizio di fornitura in esclusiva all’Agcom dei dati del monitoraggio che aveva assicurato sin dall’inizio dei lavori dell’Autorità. Non sono così più disponibili i dati periodici del monitoraggio che solo il Centro di Ascolto forniva, mentre l’Agcom, assegnato il monitoraggio ad altra società tramite procedura di evidenza pubblica, li rende disponibili sul proprio sito con ritardi di mesi e mesi, rendendo così quasi impossibile l’esercizio dell’attività di denuncia dei soggetti interessati per violazione della par condicio.
Un rapido sguardo alla situazione chiarisce la funzione essenziale di controllo del Centro d’Ascolto, i dati raccolti “descrivono” la situazione di sostanziale e formale illegalità e la violazione della funzione di servizio pubblico (e, se si vuole, anche le ragioni che hanno portato alla sua morte).
Nel 2006, le tre testate dei telegiornali Rai, nelle loro edizioni principali, relegano gli esponenti della Rosa nel Pugno all’11° posto in termini di contatti raggiunti, dopo Forza Italia, Alleanza Nazionale, L’Unione, L’Ulivo, i Democratici di Sinistra, l’Udc, la Margherita, Rifondazione Comunista, Lega e Verdi, con 374 interventi in totale per 1h 49’ 39’’ in 157 giorni sui 365 dell’anno avendo potuto contare su 1.465 milioni di contatti, 160 milioni di contatti meno dei Verdi e la metà di quelli riservati a Rifondazione Comunista. Equità a parte, è stata violata anche una elementare regola giornalistica: la Rosa nel Pugno era l’unico, originale fenomeno politico di quella stagione. E’ stato completamente ignorato, sia nei servizi di cronaca che negli approfondimenti politici.
L’esponente della Rosa nel Pugno maggiormente intervistato dalle tre testate Rai nel loro complesso è Enrico Boselli, al 20° posto nella classifica per contatti raggiunti del tempo di parola degli esponenti politici. Gli interventi sono 149 per un totale di 42’08’’ distribuiti in 76 giorni su 364 e 570 milioni di contatti.
Ad Emma Bonino, al 45° posto, sono concessi 17’25’’ in 57 interventi (quasi tre volte in meno il tempo dedicato a Boselli) in 35 giorni su 364 dell’anno, potendo contattare meno della metà di spettatori di Enrico Boselli (260 milioni contro i 570). Marco Pannella, con 54 interventi, è al 47° posto avendo 233 milioni di contatti nei 20’24’’ di interventi in voce in 25 giorni dell’anno.

Burton Morris
06-05-09, 19:57
15.6 Il caso della Commissione di vigilanza sulla Rai nella XVI legislatura

Il Parlamento della XVI legislatura si insedia il 29 aprile 2008.
Il 4 giugno i Presidenti di Camera e Senato su indicazione dei gruppi parlamentari nominano i componenti della “Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi”.
Dalla settimana successiva, la Commissione è impedita a svolgere il suo lavoro per l’impossibilità di eleggere il suo presidente; le votazioni sono annullate per la sistematica assenza del numero legale: la maggioranza non concorda sull’indicazione del candidato indicato delle opposizioni, Leoluca Orlando; l’opposizione non è disposta a mutare candidato. Una situazione che si protrae per molti mesi.
L’insediamento della Commissione è un atto costituzionalmente obbligato. I Radicali, a partire dal 23 luglio, danno vita ad azioni nonviolente per chiedere che sia finalmente insediato l’Ufficio di presidenza della Commissione; contestualmente si chiede che finalmente sia eletto il giudice della Corte costituzionale mancante da oltre 15 mesi. L’aula della Commissione di vigilanza è occupata dai parlamentari radicali per nove giorni. L’azione viene sospesa quando i Presidenti di Senato e Camera si impegnano formalmente per convocazioni “finalizzate all’adempimento di obblighi costituzionali...ad oltranza” sino a voto utile.
A settembre si registra un nuovo impasse sempre sul nome del Presidente della Commissione, e senza che i Presidenti delle Camere mantengano l’impegno di convocazioni ad oltranza; per far cessare tutto ciò, Pannella inizia uno sciopero della fame e della sete, accompagnato dallo sciopero della fame di circa 250 fra dirigenti, militanti, parlamentari radicali e non. Inoltre per otto giorni i parlamentari radicali occupano un corridoio di Palazzo S. Macuto, sede della Vigilanza. Il 3 ottobre, il Presidente della Repubblica Napolitano, definisce l’elezione del giudice della Corte costituzionale da parte del Parlamento e l’insediamento della Commissione di vigilanza, “inderogabili doveri costituzionali da adempiere”. Ben 530 parlamentari sottoscrivono la richiesta di convocazioni ad oltranza sino all’espletamento degli obblighi costituzionali, e il 20 ottobre i parlamentari radicali occupano l’aula della Camera dei deputati.
Il 21 ottobre, con un ritardo di circa 18 mesi, viene eletto il giudice della Corte costituzionale; e il 13 novembre la sola maggioranza elegge presidente della Vigilanza il senatore del Pd Riccardo Villari. Qualche giorno dopo si completa l’Ufficio di presidenza, la Commissione è dunque finalmente insediata. Inizia così un’altra sconcertante vicenda che bloccherà ancora i lavori della Commissione: dopo appena due giorni dall’elezione di Villari, maggioranza e opposizione comunicano di aver raggiunto un accordo: affidare la presidenza della Commissione al senatore Sergio Zavoli, e chiedono a Villari di dimettersi; Villari rifiuta, non sussiste alcuno strumento giuridico per farlo dimettere. Solo i Radicali e il commissario del Movimento per l’Autonomia si oppongono a questa ulteriore illegalità. La Commissione, con la sola presenza dei membri di maggioranza e di quello radicale di opposizione, adotta con ritardo il regolamento della par condicio Rai per le elezioni amministrative in Abruzzo (soltanto 15 gg. prima del voto, oltre un mese e mezzo sulla data obbligatoria fissata dalla legge 28/2000), mentre non viene adottato alcun regolamento per le elezioni nelle Province autonome di Trento e Bolzano, perché la Commissione non viene insediata in tempo.
Il 4 dicembre Villari è espulso dal Pd. Il Presidente del Senato Schifani annuncia l’inizio di una inedita procedura di revoca di Villari da componente della Commissione, presso la Giunta del Regolamento del Senato, procedura la cui fondatezza è contestata dai più importanti costituzionalisti italiani.
Entro il 31 dicembre la Commissione deve approvare anche il regolamento per la par condicio per le elezioni regionali in Sardegna, adempimento disatteso quando a gennaio la presidenza dei gruppi parlamentari di maggioranza comunica l’intenzione di non partecipare più ai lavori della commissione sino alle dimissioni di Villari; manca così il numero legale.
Il 15 gennaio 2009 Pannella inizia uno sciopero della fame e della sete per chiedere che la Commissione di vigilanza possa infine funzionare ed adempiere agli atti obbligati ormai in ritardo da 10 mesi; contemporaneamente Marco Beltrandi torna ad occupare la sede della Commissione, e inizia uno sciopero della fame. La mattina del 16 gennaio Marco Pannella deposita una denuncia che ha ad oggetto la situazione in cui versa la Commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radiotelevisivi, i cui lavori vengono preordinatamene disertati dai parlamentari (Beltrandi e Sardelli esclusi) al fine di costringere il presidente regolarmente eletto a dimettersi. Nella denuncia si ipotizzano alternativamente i reati di cui agli artt. 289 c.p. (attentato contro gli organi costituzionali dello Stato e contro le assemblee legislative) e 340 c.p. (interruzione di un pubblico ufficio o servizio). Il 19 gennaio maggioranza e opposizione, tranne il componente radicale e il Presidente Villari, si dimettono dalla Commissione, e il 21 gennaio, con una inaudita decisione dei presidenti di Senato e Camera, l’intera Commissione di vigilanza viene sciolta. L’obiettivo è estromettere il solo Villari dalla presidenza e dalla Commissione; tutti gli altri componenti, infatti, sono confermati. Si verifica così un fatto paradossale: il presidente che vuole far funzionare la Commissione è cacciato; chi, al contrario, ha la responsabilità di aver paralizzato i lavori della Commissione, è riconfermato.
Eletto Sergio Zavoli Presidente della Commissione, e nuovamente insediato l’Ufficio di presidenza, neppure a questo punto vengono messi all’ordine del giorno gli atti obbligati che non si compiono da molti mesi, con l’eccezione dell’approvazione del regolamento sulla par condicio per le elezioni sarde (che viene adottato solo 10 giorni prima del voto, a campagna televisiva già compromessa a vantaggio evidente di un solo candidato, con un ritardo di oltre un mese). Zavoli convoca la Commissione per la sola elezione dei membri del Cda Rai, peraltro impedendo ogni attività istruttoria o dibattito preventivo della Commissione. L’11 marzo l'Ufficio di presidenza della Commissione impegna la Commissione ad adempiere gli atti obbligati, anche a seguito dell'ennesima iniziativa nonviolenta dei radicali: tuttavia con vari pretesti le forze politiche, con la complicità attiva del presidente Zavoli, rinviano l'esame dei provvedimenti. Si arriva alla seduta dell'8 aprile, quando si constata che le tribune in periodo non elettorale non si possono più fare perché ai sensi della legge 28/2000 i termini sono scaduti. E’ così provato che le elites che controllano i due maggiori partiti italiani hanno fattivamente e continuativamente operato proprio per impedire il funzionamento della Commissione, con la complicità dei Presidenti delle Camere, e il silenzio del Presidente della Repubblica.

Capitolo 16

PERCHÉ LA RESISTENZA PUÒ ANCORA VINCERE

A vedere la televisione, i talk show di Bruno Vespa, l’inflazione di trasmissioni religiose, i discorsi del Papa puntualmente rilanciati da tutti i telegiornali, ma anche i salotti televisivi di Floris, di Santoro, di Matrix, di Primo Piano, si direbbe che in Italia viga su questioni particolarmente delicate che riguardano la vita di tutti o che investono l’ordinamento e il funzionamento del sistema politico, un pensiero se non proprio unico come negli stati teocratici e negli stati formalmente totalitari, almeno nettamente prevalente contrastato da una isolata minoranza che tenta inutilmente di opporvisi. E’ questa l’immagine del paese che i media trasmettono ogni giorno e che riflette su tali questioni le scelte del Parlamento e gli orientamenti delle forze politiche, di centro destra come di centro sinistra. Ma è davvero così? I referendum e i sondaggi ci raccontano un’altra storia.

16.1 Dal 1974 la storia raccontata attraverso i referendum: l’altra faccia del paese

Quando nel 1974 il referendum abrogativo del divorzio, promosso dalla Chiesa, riesce a giungere al voto, il 60% degli elettori dice No alla abrogazione della legge Fortuna e, secondo le ricerche demoscopiche, tra di essi una cospicua parte di elettori democristiani e missini che si dissociano dalle scelte e dalle indicazioni dei loro partiti. Grande è la sorpresa dei partiti laici e del partito comunista, convinti che di andare incontro a una sconfitta o a una vittoria di stretta misura. Sette anni più tardi un’analoga richiesta di abrogazione della legge 194 sulla legalizzazione dell’aborto viene bocciata da una maggioranza del 70% di elettori.
Si dice: “ma si trattava di diritti civili ed era in atto in quegli anni un grande cambiamento dei costumi, la politica però è un’altra cosa”. Eppure anche sulla politica, sul fondamento stesso della politica – l’organizzazione dei partiti, i metodi di selezione della classe dirigente, la legge elettorale – i risultati sono ugualmente dissonanti rispetto alle volontà prevalenti dei partiti. Nel 1978 il referendum abrogativo del finanziamento pubblico, promosso dai radicali che rappresentano un misero 1% dell’elettorato, ottiene il consenso del 43,6% dei votanti, nonostante la legge venga difesa da uno schieramento, dal Msi al Pci, che rappresenta in Parlamento il 99% degli elettori. Ma anche sulla legge Reale, la prima delle leggi speciali sull’ordine pubblico, i favorevoli alla abrogazione sono quasi un quarto dei votanti.
Non si tratta solo del frutto di una temporanea e breve stagione politica. Quando quasi un quindicennio dopo, nel 1993, si torna a votare in condizioni di maggiore informazione sul finanziamento pubblico, a favore dell’abrogazione si esprime oltre il 90% degli elettori sul 77% dei votanti. Risultati non meno clamorosi ottiene il referendum che abroga il meccanismo proporzionale nella legge elettorale del Senato e dovrebbe aprire la strada all’ uninominale (82,7% di favorevoli). Una schiacciante maggioranza sceglie un diverso tipo di organizzazione e di finanziamento dei partiti politici e si dichiara a favore di un sistema elettorale di tipo anglosassone. Risultati ugualmente netti e consistenti hanno nello stesso anno i referendum per l’abolizione dei ministeri delle Partecipazioni statali (crocevia dei rapporti fra partiti e imprese pubbliche e strumento di intervento dello Stato nell’economia), dell’Agricoltura e del Turismo (competenze che la Costituzione assegna alle Regioni), il referendum abrogativo delle nomine governative nei consigli di amministrazione delle banche, l’abrogazione delle parti peggiori della legge sulle tossicodipendenze. Ancora due anni dopo, tre referendum riformatori sono vinti: sul soggiorno cautelare (63,7% di sì) sulla privatizzazione della Rai (54,9) per l’abolizione della ritenuta automatica delle trattenute sindacali su salari e stipendi (56,2); uno sull’abrogazione del secondo turno nella legge elettorale per l’elezione dei Sindaci è perso per poche centinaia di migliaia di voti (49,4 contro 50,6%), altri due ottengono il consenso di minoranze superiori al 30% (licenze commerciali e orari dei negozi).

16.2 L’annullamento dei referendum attraverso gli appelli all’astensione

Da allora praticamente tutti i referendum sono stati vanificati dagli appelli all’astensione. Da metà degli anni ’90 gli oppositori delle richieste di abrogazione preferiscono bloccarli con l’astensionismo (sommando le astensioni indotte dai loro appelli all’astensionismo fisiologico) anziché battersi a viso aperto per farli respingere con il voto. Solo nel ‘99 sul referendum che abroga la quota proporzionale della legge elettorale si è perso il quorum per un soffio, perché il governo non ha provveduto a ripulire le liste elettorali, soprattutto tra gli italiani all’estero, ma anche dei morti e dei non più residenti che ancora le affollavano: in quella occasione si recano alle urne il 49,6% degli elettori, oltre 24 milioni 477 mila su un totale di 49 milioni 309 mila e di questi vota a favore il 94,6%. In quel caso l’appello astensionistico viene lanciato dalla Lega Nord per interessi comprensibili, oltre che da Rifondazione comunista e dagli altri partiti minori (verdi, socialisti, Mastella, Udc) tutti interessati al mantenimento del proporzionale (con quanta miopia lo dimostrerà poi l’introduzione della soglia di sbarramento del 4%).
Un appello analogo viene promosso invece l’anno dopo da Berlusconi, che li definisce “referendum comunisti”: riguardano di nuovo l’abolizione della quota proporzionale della legge elettorale della Camera, l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti sotto la nuova truffaldina forma di rimborso elettorale, ma anche temi come la disciplina dei licenziamenti, la separazione delle carriere e il divieto di incarichi extragiudiziari dei magistrati, tutte proposte che, a parole, facevano parte del suo programma di governo: Su tutti questi temi, se si esclude la disciplina dei licenziamenti, i referendum ottengono vaste maggioranze di votanti fra coloro (oltre il 35% dell’elettorato) che si recano alle urne.

16.3 La scandalosa campagna della Chiesa sulla legge 40

La campagna astensionistica più grave e scandalosa è anche la più recente: quella promossa dalla Chiesa, in aperto contrasto con le norme elettorali che espressamente vietano gli appelli all’astensione da parte dei ministri del culto, contro i referendum abrogativi riguardanti la legge 40 del 2004 sulla fecondazione assistita. La Chiesa italiana ne ha fatto il cavallo di battaglia per conseguire un ulteriore e più stretto condizionamento della politica e del Parlamento. Inoltre, contrabbandando l’astensione come una esplicita bocciatura dei referendum, ne ha fatto lo strumento di una rivincita culturale del clericalismo nei confronti della laicità dello Stato. In realtà il forte astensionismo è il prodotto di diversi fattori: la complicazione e la difficile comprensione dei quesiti rimasti in vita, dopo che era stato dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale il referendum abrogativo dell’intera legge; la cattiva informazione, scarsa e manipolata; una campagna intimidatoria e menzognera di carattere pseudoscientifico, contro la quale i migliori scienziati devono continuamente cimentarsi; la sistematica depoliticizzazione del dibattito purtroppo subita e non sufficientemente contrastata da una parte dello schieramento referendario. Se la Chiesa fosse stata così convinta di poter sconfiggere l’opinione pubblica laica, avrebbe scelto la strada della chiara opposizione alla richiesta di abrogazione referendaria. Se così avesse fatto, si sarebbero confrontate lealmente due forze ugualmente motivate e ugualmente intense: con ogni probabilità le posizioni laiche sarebbero uscite nettamente vincitrici.

16.4 Dai sondaggi un’Italia laica e non in sintonia con i partiti

Se davvero le cose stessero come pretende di presentarle il pensiero – come chiamarlo? unico? dominante? – che la Chiesa, gran parte della classe politica, l’intera informazione televisiva, molte testate giornalistiche tendono ad accreditare, non solo non si spiegherebbero questi risultati referendari (anche quelli nei quali non è stato raggiunto il quorum), ma non si spiegherebbe neppure il responso univoco che da quasi quaranta anni danno tutti i sondaggi, condotti dalle più diverse e accreditate società demoscopiche. L’andamento di queste risposte, costante nel tempo, dimostra che la società italiana è, nei suoi valori e nei suoi orientamenti di fondo, niente affatto in sintonia con la Chiesa per quanto riguarda i diritti civili e le questioni cosiddette etiche e con i partiti sulle grandi scelte istituzionali e politiche. Al contrario, se una sintonia c’è e si mantiene intatta con il trascorrere del tempo, è proprio con coloro come i radicali che si oppongono a questa immagine artefatta della società italiana e sono per questo oscurati e messi a tacere.
Il caso più significativo è quello dei sondaggi sull’eutanasia, un’ipotesi condannata dalla Chiesa alla stregua di un omicidio e che l’intera classe politica senza eccezioni considera inattuale ed esclude tassativamente di prendere in considerazione nell’agenda politica. I sondaggi registrano puntualmente, in un ragguardevole lasso di tempo, maggioranze favorevoli a un legge sull’eutanasia. Percentuali assai più alte si sono registrate sul caso Welby e anche sul caso Englaro nonostante la campagna criminalizzante negli ultimi giorni di Eluana e l’intervento del governo nella questione. Ugualmente nette le maggioranze persistenti degli intervistati che si dichiarano favorevoli all’aborto. Ma anche sulla procreazioni assistita, sulla quale si è svolto da poco un referendum che non ha raggiunto il quorum, si registrano percentuali favorevoli a riprendere in considerazione la legge .
Peraltro questi orientamenti coinvolgono almeno in parte la comunità dei cattolici praticanti. Lo stesso Pontefice ha dovuto recentemente lamentare la dissociazione esistente la comunità dei fedeli e i dettami della Chiesa di Roma, nei comportamenti riguardanti la moralità sessuale (in particolare per quanto riguarda divorzio e uso dei contraccettivi) .
Quando sono interpellati sulla riforma dello Stato e dell’economia, sulla liberalizzazione del mercato del lavoro, sui partiti o sui sindacati, il che accade per la verità meno spesso di quanto non avvenga sui temi cosiddetti etici, gli italiani mostrano di avere idee abbastanza chiare sul tipo di Stato che vorrebbero e appaiono molto meno conservatori nei confronti del sistema esistente, di quanto sia la “classe” che pretende di rappresentarli, e anche in questo caso consonanti con chi propone riforme radicali .
Hanno dunque torto quei politici, quei costituzionalisti, quei politologi che attribuiscono alla scarsa o nulla cultura democratica degli italiani la crisi del nostro sistema politico. Le poche volte che il popolo italiano è stato investito di un reale confronto democratico, ha dimostrato di esserne all’altezza e di saper compiere scelte democratiche, liberali, riformatrici. Da tempo questo non è più possibile. Non è il popolo a essere poco democratico, è la partitocrazia che soffoca e impedisce l’esercizio della democrazia, sostituito con compromessi di potere cui corrispondono contrapposizioni fittizie che allontanano e precludono all’agenda politica i temi che riguardano la vita del diritto e il diritto alla vita.

Burton Morris
06-05-09, 19:58
Scheda n°1

CAMPAGNE ELETTORALI RADICALI: “CERTIFICATI BRUCIATI”, “SCIOPERO DEL VOTO”, “VOTA EMMA”, “SATYAGRAHA 2009”

Campagne elettorali radicali diversissime, che molti “osservatori” definirebbero opposte nelle forme e nei contenuti, rappresentano in realtà il tentativo di rispondere a un unico problema: l’affermazione del diritto a conoscere per deliberare.

1972 e 1983: dal bruciare i certificati elettorali allo sciopero del voto

Dopo aver già bruciato le schede nel 1972, affrontando per questo denunce e processi, alle elezioni politiche del 1983 il Partito radicale decide di praticare l’”astensionismo votante”. Questa strategia deriva dalla consapevolezza che “ogni residuo diritto politico e costituzionale è stato ulteriormente sequestrato riservandone l'esercizio solamente alle forze politiche che abbiano depositato liste elettorali” e dunque, la presentazione delle liste elettorali si rende indispensabile “quale strumento tecnico-politico pregiudizialmente necessario” per garantire il proseguimento dell'azione antipartitocratica, e informare il maggior numero di cittadini.
Viene adottata così una forma di “sciopero del voto”, che si concretizza come un “boicottaggio nonviolento” delle elezioni, la cui pratica è chiaramente espressa nel volantino che il Pr distribuisce in campagna elettorale, ove si legge: “Il nostro primo impegno è di ottenere che il massimo numero di cittadini neghi a queste elezioni dignità e legittimità democratiche, con comportamenti capaci di costringere i partiti a cambiare politica: “scheda nulla, scheda bianca, astensione”. Anche noi faremo così: annulleremo le nostre schede, scriveremo su di esse i nostri programmi, le firmeremo perché siano riconoscibili”. Lo stesso volantino cita una “doppia diga” contro la partitocrazia e infatti agli elettori si propone anche una seconda opzione di voto: il voto alle liste radicali. “Per tutti coloro, invece, che non se la sentiranno di seguirci nel rifiuto, per coloro che non sono del tutto convinti o intendono comunque votare un partito, abbiamo predisposto una seconda diga per impedire che anche stavolta prevalga un voto partitocratico: le liste radicali”.
Tutti i partiti si mobilitano contro l’astensionismo. “Astensionismo è diserzione” recita ad esempio uno slogan del Msi, “Se non ti occupi di politica, la politica si occupa di te” è lo slogan del Pci, che in un altro slogan utilizza l’analogia dei colori: “il voto bianco è voto Dc”. “Non serve una scheda bianca, serve una scheda pulita” è lo slogan del Pli, pronunciato da una voce fuori campo durante uno spot televisivo. La campagna elettorale del 1983 è la prima campagna in cui il mezzo televisivo viene utilizzato in maniera sistematica. Anche per questo, pressoché quotidianamente si moltiplicano le iniziative radicali per garantire una corretta informazione, giungendo a investire la stessa magistratura denunciando l’allora Presidente della Rai Sergio Zavoli e i componenti del Consiglio di amministrazione della Rai-Tv per il reato di attentato ai diritti civili e politici del cittadino.
Il Pr chiede in concreto di ripristinare quelle condizioni atte a “garantire parità di condizioni, completezza ed obiettività di informazione”, e si rivolge alla magistratura, quale “ultima linea di difesa contro una occupazione dei pubblici poteri e servizi da parte di soggetti privati, quali i partiti, che li esercitano a fini di parte”.
Le urne danno al Pr il 2,2% dei voti con l'elezione di 11 deputati ed un senatore: nonostante la scelta astensionista, dunque, i Radicali tornano in Parlamento. In quella IX legislatura gli eletti radicali assumono un comportamento senza precedenti, rifiutandosi di partecipare alle votazioni in aula.

1999: “Vota Emma”, vendita degli averi per ricomprarsi l’informazione rubata

In occasione della campagna elettorale per le europee del ‘99 i Radicali riescono a dare non solo la dimostrazione concreta dell’importanza di informazione e comunicazione nella democraticità delle elezioni, ma anche della portata dirompente delle loro proposte. Riescono infatti a prendere alla sprovvista il regime, disponendo per la prima volta di ciò che in precedenza era mancato loro: le risorse finanziarie.
A sorpresa, infatti, decidono di investire parte del loro patrimonio (vendendo l’emittente Radio Radicale 2, una quota di minoranza di Radio Radicale, e il 100% di Agorà Telematica, uno dei primi internet provider italiani) al fine di conquistare per sé e per i cittadini italiani quel diritto a “conoscere per deliberare” che sino ad allora era stato negato. Viene così realizzata una massiccia campagna di propaganda elettorale sui mezzi di comunicazione: 406 spot televisivi sulle reti Mediaset, 100 su Telemontecarlo e 5.056 sulle emittenti locali, più 45 milioni di lettere autografe di Emma Bonino inviate in quattro diverse spedizioni postali. Per un investimento totale pari 24.450.000.000 di lire.
La strategia comunicativa si caratterizza per la capacità di trasmettere agli elettori la durata e l’efficacia delle lotte e iniziative radicali degli ultimi 30 anni, espressa attraverso l’immagine e l’identità di Emma Bonino e canalizzata nella fiducia di garantire ancora quelle azioni politiche che ne avevano contraddistinto la storia.
In pratica, la lista Emma Bonino riesce a ribaltare il deficit comunicativo determinato dalla sostanziale assenza nei programmi di informazione, attraverso un investimento finanziario in messaggio politico “diretto”, che consente di raggiungere un numero elevato di cittadini italiani, anche attraverso l’innovativo incrocio dei diversi canali disponibili: pubblicità sui media, invii postali e internet, telefonate.
Una circostanza irripetibile. L’impresa politica compiuta alle elezioni europee del ‘99 dai Radicali non è, oggi, in alcun modo riproponibile perché è stata messa fuorilegge. Infatti, nel febbraio del 2000 è approvata la legge n.28 (della cosiddetta par condicio), la quale, nel disciplinare l’accesso ai mezzi di informazione politica radiotelevisiva, comprime enormemente la possibilità per un soggetto politico di svolgere propaganda elettorale attraverso spot televisivi. In pratica, si passa da un regime in cui lo spot può essere acquistato dal singolo partito e collocato liberamente nei palinsesti (dovendo rispondere esclusivamente a leggi di mercato) a un regime in cui se ne limita la frequenza giornaliera, la collocazione nel palinsesto e persino in parte il contenuto.
Al sostanziale divieto di spot elettorali introdotto dalla legge sulla par condicio (basti pensare che da allora ciascun soggetto gode in media di meno di 2 messaggi autogestiti al mese sulle reti Rai, in orari e con modalità di basso ascolto) non segue tuttavia un incremento rilevante degli spazi di comunicazione politica offerti a parità di condizioni. Infatti, sebbene la legge 28/2000 preveda l’obbligo per le emittenti nazionali di trasmettere programmi di comunicazione politica, l’applicazione effettiva data dalle emittenti, in violazione di legge - con la colpevole inerzia delle istituzioni di controllo, in primis l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - fa sì che la comunicazione politica sia a lungo marginalizzata e addirittura negata, nonostante essa sia la giustificazione adottata per vietare gli spot televisivi a pagamento.
A fronte della sistematica riduzione degli unici spazi ad accesso diretto e garantito, cioè quelli di comunicazione politica (messaggi politici sterilizzati e tribune sospese, marginalizzate o, addirittura abrogate, come è accaduto da un anno a questa parte) è costantemente cresciuta la centralità delle trasmissioni “gestite” da un singolo conduttore televisivo, artificiosamente ridotte a trasmissioni di informazione al solo scopo di eludere il rispetto di una più stringente normativa.
Tutto ciò, unitamente a una giurisprudenza lassista degli organi di controllo, ha determinato una compressione della capacità di raggiungere l’elettorato - sia nei periodi normali che in quelli di campagna elettorale – da parte delle forze politiche estranee all’assetto politico di potere che, nella realtà dei fatti, si è trasformato in un monopartitismo perfetto.
La giustificazione politico-ideologica del divieto di spot televisivi, introdotto con la legge 28/2000, si è dimostrata dunque puramente strumentale al monoblocco partitocratico, rispetto a qualsiasi proposta politica “alternativa” a quella prevalente.



Satyagraha 2009

Oggi come allora - in vista delle elezioni europee del giugno 2009 per le quali sono già negati i diritti democratici di chi non appartiene a una delle due gambe del regime di monopartitismo e agli “oppositori” scelti come ufficiali - i Radicali si impegnano in “un’azione diretta nonviolenta di Satyagraha 2009 per la verità storica sulla scomparsa dello Stato di diritto e della Democrazia compiuta dal regime partitocratrico”, a partire dalla redazione di questa documentazione sul Sessantennio di storia repubblicana seguito al Ventennio fascista. In tal modo essi preannunciano la partecipazione alle elezioni con la “Lista Bonino-Pannella”, volta innanzitutto a utilizzare i residui strumenti di campagna elettorale per informare i cittadini sull’avvenuta cancellazione della democrazia e sulla necessaria lotta di liberazione.

Scheda N° 2

RADICALI IN GALERA (DAL '66 A OGGI)

Buona parte della classe dirigente radicale (43 persone), a partire dal suo leader Marco Pannella, tra il 1995 e il 2003 è arrestata e processata nel corso di iniziative pubbliche di cessione a titolo gratuito di hashish e marijuana. Le sentenze dei tribunali di mezza Italia sono controverse: condanne in alcuni casi (14 persone), ma anche molte assoluzioni (17 persone), fino al riconoscimento a Marco Pannella che il reato “di lieve entità” commesso nel 1995 a Piazza Navona “è stato commesso per motivi di particolare valore sociale”. A seguito di queste disobbedienze civili, 13 esponenti radicali fra i quali Marco Pannella, Sergio Stanzani e Rita Bernardini non possono più candidarsi alle elezioni regionali provinciali e comunali per una legge promulgata nel 2000 (D.lgs 268, art. 58). L’incandidabilità – peraltro non prevista per le elezioni al Parlamento Italiano ed Europeo – è “a vita”, anche se la condanna comminata è di lieve entità. Il successo delle candidature di Marco Pannella nelle elezioni amministrative (Trentino, Trieste, Napoli, Catania, L'Aquila, Teramo, ecc.) ha in questo modo trovato il suo “arresto”.


1966 marzo Milano Andrea e Lorenzo
Strik Lievers Arrestati per la distribuzione di un volantino antimilitarista
1967 2 giugno Milano Andrea Valcarenghi, Aligi Taschera, Giorgio Cavalli Arrestati mentre distribuiscono volantini antimilitaristi satirici.
1967 24 agosto Roma Angiolo Bandinelli, Rendi, Gianfranco Spadaccia Il 1° settembre vengono denunciati a piede libero per “vilipendio di Capo di Stato estero e manifestazione non autorizzata” dopo aver bruciato una fotografia del re greco Costantino davanti all’ambasciata greca in una manifestazione contro il regime militare dei colonnelli.
1968 agosto Sofia Marco Pannella, Marcello Baraghini, Antonio Azzolini,
Silvia
Leonardi Nell'agosto del 1968, l'esercito sovietico invadeva la Cecoslovacchia. I carri armati rovesciavano il governo di Dubcek colpevole di aver condotto una politica di caute riforme e di aver rivendicato un minimo di autonomia dalla madrepatria comunista. Mentre a Praga infuriava la repressione i radicali organizzarono una serie di manifestazioni (sit-in e digiuni) di protesta. Nel quadro di un'azione internazionale organizzata dal W.R.I., i radicali, tra cui lo stesso Pannella, furono arrestati a Sofia, in Bulgaria, per aver distribuito volantini antimilitaristi. “Basta con la guerra nel Vietnam, basta con la Nato, basta con l'occupazione della Cecoslovacchia” è scritto sullo striscione esposto nella piazza principale di Sofia.
1972 11 marzo Torino Roberto Cicciomessere L’ex segretario del PR, si consegnava insieme ad una decina di altri obiettori alle autorità militari, continuando quindi la lotta all'interno del carcere militare di Peschiera. La nuova legge sull'obiezione di coscienza, che fu approvata nel successivo mese di dicembre, era il risultato di un drammatico sciopero della fame collettivo di radicali proseguito ad oltranza da Marco Pannella e dal radicale credente Alberto Gardin interrotto nel momento in cui l'allora presidente della Camera Sandro Pertini assicurò che la questione sarebbe stata posta rapidamente all'ordine del giorno. La legge sull’obiezione di coscienza verrà approvata il 15 dicembre del 1972.
1974 2 giugno Roma Sei militanti In occasione della parata militare che celebra la festa della Repubblica, i Radicali, come di consueto, organizzano un lancio di volantini in cui si contesta che una Repubblica fondata sul lavoro sia festeggiata con una parata militare. Sei militanti sono arrestati e immediatamente rilasciati il libertà condizionata, per vilipendio delle forze armate.
1975 9 gennaio Firenze Giorgio Conciani I carabinieri fanno irruzione nella clinica del CISA a Firenze, arrestando il dr. Giorgio Conciani e i suoi assistenti ed identificando e denunciando le oltre 40 donne che vi si trovavano.
1975 13 gennaio Firenze Gianfranco Spadaccia Arrestato e incarcerato per aver dichiarato, in quanto Segretario del Pr, di aver promosso la costituzione del CISA (Centro Italiano Sterilizzazione e Aborto) e le sue iniziative di disobbedienza fra cui la clinica di Firenze dove venivano praticati aborti con il metodo Karmann. La legge verrà approvata nel 1978 per evitare il referendum radicale sul quale Radicali e Socialisti raccolsero le firme nella primavera/estate del 1975.
1975 26 gennaio Roma Adele
Faccio Sul palco del teatro Adriano a Roma, davanti a migliaia di persone viene arrestata la Presidente del CISA Adele Faccio che, raggiunta da mandato di cattura decide di consegnarsi alle forze dell’ordine.
1975 5 giugno Bra (Cn) Emma
Bonino Emma Bonino, che era subentrata come responsabile dell'attività del Cisa a Milano dopo l'arresto della Faccio, e contro cui era stato successivamente spiccato un mandato di cattura, si consegnava al momento di votare, il 5 giugno, a Bra, sua città natale, e veniva poi subito scarcerata.
1975 giugno Roma Marco Pannella Antiproibizionismo: Marco Pannella fuma marijuana in pubblico e si fa arrestare per ottenere la rapida approvazione della legge che non punisce il consumo personale di droghe: grazie a questa iniziativa la legge sarà approvata poco tempo dopo. Il poliziotto che lo arresta gli manifesta solidarietà per il suo gesto di disobbedienza civile e per questo viene trasferito.
1975 9 settembre Firenze Giorgio Conciani e sette militanti Ennesimo arresto del dottor Conciani e di sette militanti del Cisa per procurato aborto.
1976 dicembre Roma Angiolo Bandinelli Il consigliere comunale radicale in Campidoglio, Angiolo Bandinelli, offre spinelli nel corso di una seduta del consiglio comunale. Viene immediatamente arrestato.
1977 maggio Roma Valter
Vecellio Durante le cariche della polizia sui manifestanti giunti per seguire la manifestazione del Partito Radicale a Piazza Navona indetta per l'anniversario della vittoria sul divorzio e la campagna di raccolta firme per nuovi referendum, viene uccisa Giorgiana Masi. Numerosi gli arresti anche tra i radicali tra i quali quella di Valter Vecellio, redattore di Notizia Radicali, che sarà condannato a 6 mesi per oltraggio, per aver difeso il parlamentare Mimmo Pinto picchiato dalla polizia davanti al Senato. 49 i fermi di polizia.
1977 novembre Mosca Angelo Pezzana Angelo Pezzana, fondatore del Fuori, viene arrestato a Mosca nel novembre 1977 per un solitario sit-in contro la prigionia del regista gay Sergej Paradjanov.
1977 dicembre Roma Bruno De Finetti,
Giancarlo Cancellieri,
Valter Vecellio,
Andrea Tosa,
Roberto Cicciomessere Il fermo del matematico Accademico dei Lincei Bruno De Finetti e dei radicali Valter Vecellio, Giancarlo Cancellieri, Andrea Tosa, avvenne “per associazione sovversiva e istigazione dei militari a disobbedire”, nell'ambito delle indagini sui cosiddetti “Proletari in divisa”. Il mandato di cattura venne revocato in tempo per limitare l'esperienza di De Finetti all' ufficio matricola del carcere di Regina Coeli, ma l'episodio provocò ugualmente le proteste di moltissimi uomini di cultura. Nell’ambito delle stesse indagini venne detenuto in carcere per sette giorni Roberto Cicciomessere.
1978 2 giugno Roma Gianfranco Spadaccia ed altri 13 In occasione della parata militare, un gruppo di giovani radicali organizza una manifestazione contro le forze armate. Agenti di Polizia fermano 14 persone, tra le quali il Segretrario del Pr, che vengono in seguito denunciati per vilipendio delle forze armate.
1979 marzo Teheran Enzo Francone Enzo Francone, Segretario del FUORI!, viene arrestato a Teheran per la prima protesta contro Khomeini sulla persecuzione dell’omosessualità in Iran.
1979 4 e 5 ottobre Roma Angiolo Bandinelli, Jean Fabre Angiolo Bandinelli, consigliere comunale radicale di Roma viene arrestato per avere fumato uno spinello durante una seduta del Consiglio Comunale; il giorno successivo viene arrestato il segretario del Partito Radicale Jean Fabre, che compie il medesimo gesto nell'ambito di una conferenza stampa.
1979 dicembre Roma Jean Fabre Fumando marijuana nel corso di una conferenza stampa a Roma, l’allora segretario del Partito radicale mette in atto una azione di disobbedienza civile per sollecitare la depenalizzazione delle non-droghe. Arrestato.
1983 giugno Sergio Rovasio,
Paolo Pietrosanti,
Ivan Novelli e altri 20 fermati e denunciati, tra gli altri Sergio Rovasio, Paolo Pietrosanti e Ivan Novelli per la contro-parata in mutande in Via dei Fori Imperiali.
1983 agosto Comiso (Rg) Alfonso Navarra,
Paolo Pietrosanti, Gaetano
Dentamaro, Maddalena Traversi, Andrew Hodson, Bruno Petriccione Antimilitaristi radicali entrano nella base missilistica di Comiso, violando la recinzione. Arrestati con l'imputazione di “Introduzione clandestina in luoghi militari e possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio”, art. 260 c.p., sono rimessi in libertà provvisoria dopo sette giorni di detenzione nel carcere di Ragusa. Al processo il capo d'imputazione viene derubricato in “Ingresso arbitrario in luoghi ove l’accesso è vietato nell’interesse militare dello Stato”, reato contravvenzionale successivamente amnistiato nel 1990.
1983 ottobre Praga Vari militanti Viene fermato alla frontiera cecoslovacca un pullman di militanti radicali diretti a Praga per celebrare la Giornata mondiale per il disarmo e la pace, indetta dall’ONU, e per manifestare contro le installazioni di missili in Europa. I militanti decidono di presidiare simbolicamente il posto di frontiera fino al giorno successivo, quando tre attivisti riusciranno comunque a raggiungere la città e ad aprire uno striscione nella piazza San Venceslao. Verranno arrestati e poi espulsi.
1984 settembre Pescara Luigi
Del Gatto Gino Del Gatto, medico ed esponente radicale, viene arrestato a Pescara per aver prescritto ricette di sostanze stupefacenti a tossicodipendenti. Viene successivamente assolto dal tribunale.
1984 novembre Roma Sandro
Ottoni Nell'ambito della campagna per l'affermazione di coscienza, al 30° Congresso del Partito radicale si autoconsegna Sandro Ottoni, obiettore di coscienza e disertore poiché la sua domanda di servizio civile è stata respinta dal Ministero della Difesa. E' incarcerato a Peschiera del Garda e detenuto per cinque mesi e mezzo; in seguito a nuova domanda di riconoscimento, ottiene lo status di obiettore.
1984 novembre Roma Sergio
Rovasio,
Paolo Pietrosanti Sono fermati e denunciati (rinchiusi nella cella di sicurezza del primo distretto di Ps) per una manifestazione davanti a Palazzo Chigi con Francesco Rutelli contro l'invio di soldati in Libano che, anziché garantire la pace, sostengono un governo autoritario. Sono entrati a Palazzo Chigi con i cartelli su un taxi.
1985 ottobre Bruxelles Olivier
Dupuis Dupuis compie la sua affermazione di coscienza di fronte all'esercito ed all’autorità giudiziaria militare ed affronta quasi un anno di carcere per testimoniare con una proposta positiva di valore europeo l'alternativa al militarismo, alle strutture militari ed ai problemi della difesa europei secondo una rinnovata tradizione socialista, antiautoritaria e nonviolenta.
1985
maggio Roma Gaetano Dentamaro Gaetano Dentamaro, “affermatore” di coscienza radicale, renitente alla leva, si consegna al seggio elettorale “per fondare in Europa una politica di difesa, di pace e di disarmo a partire dalla sopravvivenza degli sterminandi per fame, dalla difesa dei diritti umani (...)”. Rimesso in libertà dopo 17 giorni di detenzione nel carcere di Forte Boccea, con l'obbligo di presentarsi in caserma a La Spezia, rifiuta ed è nuovamente arrestato il 2 giugno. Condotto a La Spezia, viene ancora rimesso in libertà, poiché il Procuratore militare considera la sua lettera al Ministro della Difesa come “domanda di obiezione di coscienza”. Ammesso al servizio civile, nuovamente rifiuta di presentarsi ma il reato viene poi amnistiato nel 1990.
1985 agosto Washington, Mosca, Varsavia, Budapest, Praga, Berlino Est, BerlinoOvestBelgrado, Atene, Ankara, Bruxelles, Parigi,
Roma,
Madrid. Gianfranco Spadaccia, Gaetano Dentamaro, Maurizio Turco A Washington, Mosca, Varsavia, Budapest, Praga, Berlino Est ed Ovest, Belgrado, Atene, Ankara, Bruxelles, Parigi, Roma, Madrid, militanti radicali espongono striscioni e distribuiscono volantini per ricordare Hiroshima. Chiedono interventi straordinari contro la fame e leggi per l'obiezione/affermazione di coscienza. Ad Ankara fermati dalla polizia il deputato Gianfranco Spadaccia e due obiettori di coscienza: Gaetano Dentamaro e Maurizio Turco. L'arresto dura lo spazio di un pomeriggio e di una notte, poi vengono espulsi dalla Turchia.
1985 settembre Belgrado, Dubrovnik, Zagabria Olivier Dupuis, Andrea Tamburi e altri 500.000 volantini e autoadesivi per l'ingresso della Jugoslavia nella CEE e per la libertà di espressione vengono distribuiti da radicali italiani, francesi e belgi, a Belgrado, Dubrovnik e Zagabria. Solo dopo qualche giorno i radicali verranno arrestati, processati ed espulsi.
1986 giugno Varsavia Franco Corleone,
Ivan Novelli,
Paolo Pietrosanti Un gruppo di radicali, fra i quali Pietrosanti, Novelli, il deputato italiano Franco Corleone, aprono uno striscione davanti alla sede del congresso dei comunisti polacchi, congresso di trionfo per la normalizzazione di Jaruzelski, mentre interviene Gorbaciov. Distribuiscono inoltre volantini per la libertà dei 250 detenuti politici e di circa mille obiettori di coscienza incarcerati. Arrestati per due giorni, nutriti con pane secco, strutto rancido ed acqua, verranno processati ed espulsi.
1987 gennaio Varsavia Emma Bonino, Angiolo Bandinelli, Olivia Ratti, Roberto Cicciomessere, Antonio Stango Vengono arrestati e poi espulsi per avere distribuito volantini, esposto cartelloni e diffuso con altoparlante messaggi in lingua polacca in sostegno a Solidarnosc e contro il regime di Jaruzelski, in quei giorni in visita in Italia.
1987 settembre Mosca Sergio Rovasio, Valentina Pietrosanti, Sabrina Coletta, Vittorio Conti Nel settembre 1987 Sergio Rovasio, Valentina Pietrosanti, Sabrina Coletta e Vittorio Conti sono arrestati a Mosca e quindi espulsi per avere distribuito volantini in lingua russa contro la guerra in Afghanistan, il cui testo era stato preparato dal Partito Radicale insieme con Vladimir Bukovskij.
1988 marzo Spalato Maria Teresa Di Lascia,
Massimo Lensi, Gaetano Dentamaro, Mario Cocozza
e altri Tra coloro che colmano lo stadio per assistere alla partita di calcio tra Jugoslavia e Italia anche numerosi militanti radicali che aprono, davanti alle televisioni, striscioni per l'adesione della Jugoslavia alla CEE. Vengono arrestati, processati, condannati al pagamento di una ammenda ed espulsi.

1988 agosto Praga Vari militanti Nel ventennale dell'invasione sovietica della Cecoslovacchia, radicali belgi, italiani, spagnoli e statunitensi distribuiscono in varie zone del paese decine di migliaia di volantini: »Non è sufficiente ricordare – è scritto nel volantino - noi siamo oggi in Cecoslovacchia per reclamare con la nonviolenza più rigorosa la libertà per i nostri fratelli perseguitati; noi chiediamo il rispetto dei diritti umani e civili fondamentali in Cecoslovacchia come in ogni altro paese. I radicali agiscono indisturbati per due giorni, finché alcuni vengono fermati, sottoposti a lunghi interrogatori e infine costretti a leggere il testo del volantino davanti ad una telecamera. Il 18 agosto l'azione nonviolenta si sposta in Piazza San Venceslao, la piazza di Jan Palach, dove viene aperto uno striscione di venti metri che reca la scritta: “Spolecneza demokracii; Sovetska vojska Prycze zeme; Svoboda; Lidska prava'' (Insieme per la democrazia; fuori le truppe sovietiche, libertà; diritti civili). Contemporaneamente un altro gruppo apre davanti alla statua di San Venceslao un altro striscione con la scritta “Svoboda''. Dopo pochi minuti gli striscioni vengono strappati dalla polizia ceca e i radicali vengono arrestati. Nella sede della polizia i radicali sono costretti ad aprire gli striscioni davanti alle telecamere. Il filmato sui “pericolosi terroristi'' occidentali viene trasmesso dalla Televisione di Stato. Dopo pochi giorni, il 21 agosto, migliaia di cittadini cecoslovacchi scendono in piazza nel ventennale dell'invasione sovietica. Il portavoce del governo di Praga accusa, nel corso di una conferenza stampa, i radicali di aver promosso e provocato la prima grande manifestazione dei cecoslovacchi dopo l'invasione sovietica.
1989 agosto Mosca Antonio Stango Antonio Stango della segreteria del Partito Radicale, viene arrestato a Mosca e quindi espulso per avere preso parte, con un gruppo di iscritti russi al Partito Radicale, ad una manifestazione nel cinquantennale del Patto Molotov-Ribbentrop per la verità sull'accordo fra nazismo e Unione Sovietica e la libertà degli Stati baltici.
1990 novembre New York Emma
Bonino,
Marco Taradash La Presidente del Partito Radicale transnazionale Emma Bonino e il segretario del CORA Marco Taradash si fanno arrestare per aver distribuito siringhe sterili ai tossicodipendenti. Ripeteranno l'iniziativa nell'aprile seguente e saranno nuovamente arrestati.
1995
- 2004 Roma Marco Pannella
(2 giorni di arresti domiciliari nel 1997) + 8 mesi di libertà vigilata
Rita Bernardini
(2 giorni di arresti domiciliari nel 1997)
Alessandro Caforio
(2 giorni di arresti domiciliari nel 1997)
Antonio Borrelli
(2 giorni di arresti domiciliari nel 1997)
Cristiana Pugliese
(2 giorni di arresti domiciliari nel 1997)
Mauro Zanella
(2 giorni di arresti domiciliari nel 1997)
Pigi Camici
(2 giorni di arresti domiciliari nel 1997) Alle 27 disobbedienze civili su hashish e marijuana organizzate dai radicali tra il 1995 e il 2004, 43 sono i dirigenti e i militanti radicali che vi hanno preso parte autodenunciandosi; 14 di loro hanno avuto condanne definitive; 17 sono stati assolti in via definitiva; alcuni procedimenti sono ancora in corso. La nuova stagione di disobbedienze civili fu aperta il 27 agosto 1995 a Porta Portese, a seguito dell’arresto di un gruppo di giovani di Rimini “colpevoli” di detenere alcuni grammi di hashish.
2000 5 novembre Città del Vaticano Michele De Lucia, Sabrina Gasparrini,
Simone Sapienza, Maura Bonifazi,
Flavio Di Dio, Alessandra Spalletta In occasione della celebrazione del Giubileo dei politici, in Piazza San Pietro, i radicali italiani manifestano contro la posizione e le iniziative del Pontefice e della Chiesa Cattolica in tema di contraccezione, di sessualità e di aborto. Dopo aver innalzato sul sagrato di Piazza San Pietro uno striscione con la scritta: “Sì al condom - Sì alla RU 486”, vengono fermati per 4 ore dalle forze di sicurezza dello Stato Vaticano.
2001 26 ottobre Vientiane (Laos) Olivier Dupuis,
Nikolai Kramov,
Silvja Manzi,
Bruno Mellano, Massimo Lensi Per avere manifestato a Vientiane per i diritti civili, politici e democratici del popolo laotiano, i 5 esponenti radicali sono condannati a due anni di carcere (considerati estinti con i quindici giorni passati nel carcere laotiano) e a una multa. Sono stati espulsi dal Laos dopo un processo farsa che li ha visti imputati di vari reati tra cui “per interferenza negli affari interni del Paese”. L’iniziativa radicale era stata organizzata in occasione del secondo anniversario della manifestazione per la libertà, la democrazia e la riconciliazione nazionale organizzata dagli studenti laotiani il 26 ottobre 1999 i cui 5 organizzatori arrestati dal regime risultano tuttora “desaparecidos”.
2001 20 dicembre Manchester (GB) Marco Cappato Presso la Stazione di Polizia di Stockport, Marco Cappato effettua una cessione di cannabis in solidarietà con il deputato Chris Davies. Il 28 ottobre l’eurodeputato radicale viene condannato ad una multa di 100 sterline (circa 150 Euro) o sette giorni di carcere, oltre alla copertura integrale delle spese processuali e di polizia. Cappato paga tutte le spese processuali e di polizia, ma si rifiuta di pagare la multa: per questo va in galera per 4 giorni.
2007 maggio Mosca Marco Cappato, Ottavio Marzocchi, Nickolay Khramov, Sergey Kostantinov, Nikolai Alexeiev. Marco Cappato, parlamentare europeo radicale, e il militante radicale Ottavio Marzocchi, in delegazione per il Partito radicale a Mosca, sono stati arrestati nel corso di una manifestazione per consegnare una lettera al Sindaco di Mosca, dopo il divieto per la tenuta del Gay Pride russo. Saranno liberati nel pomeriggio. Rimangono fino all' 8 giugno in carcere Nickolay Khramov, Sergey Kostantinov e Nikolai Alexeiev, militanti radicali in Russia. Saranno condannati per ‘disobbedienza alle pretese legittime degli agenti di polizia’ al pagamento di una multa di mille rubli.

Burton Morris
06-05-09, 19:58
Scheda N° 3

RADICALI FAMOSI E PERCIO’ CLANDESTINI

“Allora c’è un problema di mezzi. Se i nostri ascoltatori sapessero che questo è stato il Partito in cui si è iscritto Ionesco, a cui Sartre voleva iscriversi, con tutto il resto. La doppia tessera è un modo per distruggere il valore sacrale della tessera. E l’hanno fatta compagni del Partito Comunista degli anni ’60, con quel partito!”.
“Forse dovremmo riguadagnare quella naturalezza per parlare di queste nostre cose, dopo 40-50 anni. Abbiamo urgenza. Quando uno in più si iscrive, è un evento, viste anche le nostre dimensioni”. Marco Pannella

A chi vuole fare carriera, un posto in un ente di Stato, in Rai-Tv, la tessera radicale non serve, è anzi un danno. Ad altro, per raggiungere altri obiettivi serve quel cartoncino plastificato con la testa che raffigura Gandhi. E allora, se non è un partito di potere, di insediamento che fa leva sull’occupazione delle poltrone locali e nazionali, se non è neppure un partito ideologico, per quale ragione iscriversi al Partito radicale?
La risposta la si può condensare in una specie di slogan: per proseguire ed intensificare la battaglia per riconquistare all’Italia la legalità e la certezza del diritto. Per la difesa e il “ritorno” alla Costituzione scritta, in contrapposizione esplicita con quella “materiale”, che altro non è se non la regola perversa che con la forza e l’arroganza il regime partitocratico e potentati di ogni genere hanno imposto al paese.
La scommessa giocata da sempre dai radicali, insomma, è quella di essere il Partito della Democrazia: per esempio ridimensionare i partiti, riconducendoli al loro posto, porre un freno alle loro prevaricazioni, ristabilire le regole del gioco per cui le leggi devono essere applicate, rendere i cittadini eguali fra loro e non sudditi rispetto allo Stato ed ai potentati, restituire al Parlamento la sua funzione di luogo nel quale effettivamente si prendono le decisioni, riconquistare un’informazione degna di questo nome da parte del servizio pubblico. In una parola: lo Stato di diritto contro lo Stato dei partiti.
Ecco dunque che di volta in volta, al Partito radicale hanno aderito e vi hanno militato persone con alle spalle le più diverse esperienze e culture, ma con un comune denominatore: riconquistare lo Stato di diritto e la Costituzione.
“Un Partito Radicale”, ebbe a dire Jean Paul Sartre, “internazionale, che non avesse nulla in comune con i partiti radicali attuali in Francia? E che avesse, ad esempio, una sezione italiana, una sezione francese, ecc.? Conosco Marco Pannella, ho visto i radicali italiani e le loro idee, le loro azioni; mi sono piaciuti. Penso che ancora oggi occorrano dei partiti, solo più tardi la politica sarà senza partiti. Certamente dunque sarei amico di un simile organismo internazionale”.
Di questa presa di posizione di Sartre nessuno mai ha avuto modo di sapere, perché nessuna trasmissione televisiva e nessun giornale si è interrogato sul perché di questa sua adesione.
E’ sterminata la lista degli iscritti e degli aderenti al Partito radicale in questi anni: alcuni tra gli scrittori più significativi del Novecento italiano: Elio Vittorini (del Pr diviene presidente e consigliere comunale), Leonardo Sciascia, Pier Paolo Pasolini. E ancora, alla rinfusa: la figlia di Benedetto Croce, Elena; Loris Fortuna; Piero Dorazio; Adriano Sofri; Dario Argento; Franco Brusati; Liliana Cavani; Damiano Damiani; Salvatore Samperi; Giorgio Albertazzi; Pino Caruso; Ilaria Occhini; Raffaele La Capria; Sergio Citti; Carlo Giuffré; Nantas Salvalaggio; Ugo Tognazzi, Mario Scaccia, Carlo Croccolo; Lindsey Kemp; Pierangelo Bertoli; Miguel Bosé; Angelo Branduardi; Lelio Luttazzi, Domenico Modugno; Claudio Villa; Vasco Rossi; Franco Battiato; Oliviero Toscani; Erminia Manfredi; Barbara Alberti; Goliarda Sapienza.
Non solo: dall’estero, si iscrivono Eugene Ionesco (“Lo giuro: tutte le mie deboli forze saranno dedicate a far vivere il Partito Radicale, questo partito di cui non so nulla e di cui ignoravo l’esistenza…”); Marek Halter; il premio Nobel George Wardl; Arturo Goetz, Aristodemo Pinotti, Saikou Sabally, Vladimir Bukovskij, Leonid Pliusc.
Dalla solitudine e dal dolore del carcere giungono al Partito radicale centinaia di iscrizioni, detenuti comuni e politici. A Rebibbia si iscrivono 22 detenuti della cosiddetta “area omogenea”: Alberto Franceschini, Cavallina, D’Elia, Cesaroni, Calmieri, Busato, Frassineti, Cozzani, Di Stefano, Lai, Potenza, Gidoni, Cristofoli, Litta, Piroch, Vitelli, Martino, Bignami, Melchionda, Maraschi, Scotoni, Andriani: “Da non radicali”, scrivono, “da detenuti politici e – speriamo presto – da cittadini liberi, ci iscriviamo al Partito radicale. E’ il contributo minimo che possiamo dare alla forza politica che espresse tensioni di crescita civile e democratica negli anni ’70 e che oggi continua a lottare su questo terreno, affinché tutti i non garantiti, la stessa non coscienza civile non perdano questo spazio per i diritti vecchi e nuovi. Come detenuti politici è un modesto segno di solidarietà e di affetto a chi seppe essere vicino ai problemi del carcere e della giustizia, con tanta intelligenza, abnegazione e amore”.
Si iscrivono, tra gli altri i pluriergastolani Vincenzo Andraous, Giuseppe Piromalli, Cesare Chiti e Angelo Andraous.
Centinaia, migliaia di iscrizioni e di adesioni che restano “ignote” anche quando l’iscritto per la sua storia e la sua attività è un “personaggio”. Il radicale non fa, non è “notizia”. Eppure dal “pretesto” di questo o quell’iscritto si poteva avviare un dibattito-confronto sulla forma partito, la libertà di iscriversi a più partiti, l’impossibilità di espellere chiunque dal Partito radicale che accoglie l’iscrizione, non la “concede”. Invece nulla, silenzio: non un solo dibattito pubblico sulle ragioni che hanno indotto migliaia di cittadini a iscriversi al Partito radicale, nessuna trasmissione che abbia ascoltato e registrato le loro ragioni.
Eppure è il partito che con pochi militanti e un numero irrisorio di iscritti (se paragonato a quello di altre organizzazioni politiche), grazie a criteri di organizzazione nonviolenta, rigorossima e libertaria, ha saputo realizzare quanto non hanno fatto in milioni, tutti gli altri partiti messi insieme. E’ forse questa una delle ragioni per cui dei radicali non si deve e non si può parlare?

INDICE
Introduzione pag. 2

Capitolo 1
FATTA LA COSTITUZIONE NE INIZIA LA DISAPPLICAZIONE pag. 4
1.1 La mancata abrogazione della legislazione fascista pag. 4
1.2. La tardiva e parziale attuazione dell’ordinamento costituzionale pag. 4
1.3 Il processo di ulteriore degenerazione partitocratica pag. 6
DAL FASCISMO ALLA PARTITOCRAZIA pag. 7
Due citazioni:
Giuseppe Maranini pag. 7
Giuliano Amato pag. 7
Capitolo 2
IL FURTO DELLA SECONDA SCHEDA pag. 8
2.1 La rivoluzione del referendum e la sua tardiva attuazione pag. 8
2.2 Il Golpe del ’78 e la giurisprudenza anticostituzionale pag. 8
2.3 Il Popolo vota, il Regime fa il contrario, il Quorum è fatto mancare pag. 9
SCHEDA 1: LE CONSULTAZIONI REFERENDARIE pag. 11
SCHEDA 2: I REFERENDUM RESPINTI DALLA CORTE COSTITUZIONALE pag. 15
Capitolo 3
UNA REPUBBLICA FONDATA SUL REGIME DEI PARTITI (PARASTATALI E NON DEMOCRATICI) pag. 16
3.1 Giuseppe Maranini e la partitocrazia pag. 16
3.2 Oligarchie di partito e negata libertà di associazione pag. 16
3.3 Referendum del 1978 pag. 17
3.4 Dall’abolizione del finanziamento al rimborso elettorale pag. 17
Capitolo 4
GIUSTIZIA ALL’ITALIANA: UNO STATO “DELINQUENTE ABITUALE” pag. 19
4.1 Codici fascisti, rinvio delle riforme e lentocrazia giudiziaria pag. 19
4.2 Dal 7 aprile al caso Tortora la politica dell’emergenza e delle leggi speciali pag. 19
4.3 Le responsabilità dei politici e della corporazione dei magistrati pag. 20
4.4 La Giustizia una grande e irrisolta questione sociale pag. 21
Capitolo 5
UN PRESIDENZIALISMO ABUSIVO, MEDIATICO ED EXTRA-ISTITUZIONALE pag. 23
5.1 L’esternazione extra-costituzionale pag. 23
5.2 1992-1993: L’acquiescenza alle interferenze della magistratura pag. 24
5.3 1995: Il presidente sordo (al “suo Parlamento”) pag. 24
5.4 2001: Il presidente incatenato sul potere di grazia pag. 24
Capitolo 6
PARLAMENTO: LA CAMERA DEI PARTITI pag. 26
6.1 Nel 1976 la voce dei politici esce dal Palazzo con Radio Radicale pag. 26
6.2 Il regolamento della Camera del ’71 e il potere ai partiti pag. 26
6.3 Le violazioni del regolamento tra il 1979 e il 1983 pag. 27
6.4 Immunità parlamentare e impunità di regime pag. 27
6.5 Decretazione d’urgenza e stravolgimento dei poteri tra esecutivo e legislativo pag. 28
Capitolo 7
GLI ANNI ‘70: LA RIVOLUZIONE DEI DIRITTI CIVILI pag. 30
7.1 Il riconoscimento dell’obiezione di coscienza e l’abolizione dei Tribunali militari pag. 30
7.2 Aborto, da reato di massa a legge dello Stato. Come evitare i referendum pag. 30
7.3 Le riforme di liberazione sessuale “GLBT” pag. 31
7.4 La depenalizzazione del consumo personale di droghe pag. 31


Capitolo 8
UNA LETTURA ALTERNATIVA DEGLI ANNI NERI DELLA REPUBBLICA pag. 33
8.1 Elezioni anticipate: i Radicali bruciano i certificati elettorali (1972) pag. 33
8.2 L’inganno del cosiddetto “arco costituzionale” pag. 33
8.3 Di nuovo elezioni anticipate, di nuovo contro i referendum (1976) pag. 34
Scheda. Giorgiana Masi: dopo tre decenni, nessuna verità pag. 36
Scheda. P2, P38, P-Scalfari (e poi Moro, Sindona, Calvi, D’Urso, Cirillo e altri ancora) pag. 37
Capitolo 9
LA BANCAROTTA DELLO STATO ITALIANO pag. 39
9.1. Il tradimento dei vincoli costituzionali di bilancio pag. 39
9.2 L’evoluzione spaventosa del debito pubblico e il dissanguamento da interessi passivi pag. 40
9.3 Cassa integrazione straordinaria, un altro caso di “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite” pag. 40
9.4 La “sindacatocrazia”, l’altra faccia della partitocrazia pag. 41
9.5 Pensioni, cartina di tornasole della determinazione dell’Italia a non risanare i conti pubblici
pag. 42
Capitolo 10
DALLA RIFORMA “AMERICANA” POSSIBILE ALLE CONTRORIFORME PARTITOCRATICHE pag. 43
10.1 La scelta della riforma maggioritaria uninominale, come risposta popolare alla degenerazione del sistema dei partiti pag. 43
10.2 Il tradimento e il sabotaggio dei referendum pag. 43
10.3 La restaurazione partitocratica del “bipolarismo” all’italiana pag. 44
Capitolo 11
PARTITOCRAZIA, DISSESTO IDROGEOLOGICO, DISTRUZIONE DELL’AMBIENTE pag. 45
11.1 Un paese vulnerabile pag. 45
11.2 Una dissennata gestione del territorio pag. 45
11.3 Leggi inattuali e azione di surroga della protezione civile pag. 46
11.4 Il caso Napoli: disattesi i progetti di rottamazione edilizia e di area metropolitana pag. 46
11.5 La Campania sepolta dai rifiuti pag. 47
Capitolo 12
LO SFASCIO DELLE ISTITUZIONI: IL “CASO” DEI PLENUM MANCANTI pag. 48
12.1 Corte costituzionale pag. 48
12.2 Camera dei deputati pag. 48
Capitolo 13
IL MANCATO RISPETTO DEGLI OBBLIGHI INTERNAZIONALI DELLA REPUBBLICA ITALIANA pag. 50
13.1 Lotta alla fame nel mondo, un impegno tradito pag. 50
13.2 L’Italia artefice della Corte Penale a livello internazionale ma non a livello interno pag. 51
13.3 I costi italiani dell’Europa delle nazioni pag. 51
13.4 Moratoria universale della pena di morte, dopo quindici anni di inadempienze e rinvii
pag. 52
13.5 Il boicottaggio di “Iraq libero”, l’unica alternativa alla guerra pag. 52
13.6 Italia-Libia, trattato contro il diritto internazionale pag. 53
Capitolo 14
LA NEGAZIONE DEL DIRITTO ALLA CONOSCENZA pag. 54
14.1 Dall’Eiar a Raiset pag. 54
14.2 La sistematica ed impunita violazione delle regole dell’informazione politica pag. 55
14.3 Le questioni popolari cancellate dall’agenda pag. 56
14.4 L’imposizione di protagonisti e antagonisti di Regime pag. 58
14.5 Il “genocidio politico e culturale” (F. Storace) del movimento radicale pag. 59
14.6 Il compiuto attentato ai diritti civili e politici pag. 61



Capitolo 15
GLI ULTIMI ANNI DEL REGIME pag. 63
15.1 Sugli “obblighi costituzionali inderogabili” e sulla partecipazione dei Radicali alle elezioni europee pag. 63
15.2 La marcia di Natale 2005 per l’amnistia, la giustizia, la libertà. Perché nove milioni di processi pendenti sono la più grande questione sociale del paese pag. 63
15.3 Il “Porcellum” del 21 dicembre 2005 pag. 65
15.4 Elezioni politiche 2006 – dall’applicazione all’interpretazione della legge: 8 senatori nominati al posto di quelli legittimamente eletti pag. 66
15.5 La Commissione di vigilanza Rai nella XV legislatura e il Centro d’Ascolto dell’informazione radiotelevisiva pag. 67
15.6 Il caso della Commissione di vigilanza sulla Rai nella XVI legislatura pag. 68
Capitolo 16
PERCHÉ LA RESISTENZA PUÒ ANCORA VINCERE pag. 70
16.1 Dal 1974 la storia raccontata attraverso i referendum: l’altra faccia del paese pag. 70
16.2 L’annullamento dei referendum attraverso gli appelli all’astensione pag. 70
16.3 La scandalosa campagna della Chiesa sulla legge 40 pag. 71
16.4 Dai sondaggi un’Italia laica e non in sintonia con i partiti pag. 71

Scheda n°1
CAMPAGNE ELETTORALI RADICALI: “CERTIFICATI BRUCIATI”, “SCIOPERO DEL VOTO”, “VOTA EMMA”, “SATYAGRAHA 2009” pag. 74
1972 e 1983: dal bruciare i certificati elettorali allo sciopero del voto pag. 74
1999: “Vota Emma”, vendita degli averi per ricomprarsi l’informazione rubata pag. 74
Satyagraha 2009 pag. 76

Scheda N° 2
RADICALI IN GALERA (DAL '66 A OGGI) pag. 77

Scheda N° 3
RADICALI FAMOSI E PERCIO’ CLANDESTINI pag. 83