PDA

Visualizza Versione Completa : Occhio di capra



Frescobaldi
15-03-08, 14:05
http://www.adelphi.it/catalogo/copertine/0768_r.jpg



Di Leonardo Sciascia


«Forse è a questa storia minima che io debbo l’attenzione che ho sempre avuto per la grande» scriveva Sciascia a proposito di questo libro. Pubblicato nel 1984 e qui riproposto con l’aggiunta di altre voci, che Sciascia aveva accumulato negli ultimi anni, Occhio di capra è forse la più agile e acuta introduzione alla civiltà siciliana che possiamo leggere. Il fondo è il più ricco e misterioso: la lingua. E Sciascia la indaga amorosamente, riconoscendo nei più bizzarri modi di dire la concrezione di interi racconti, di oscure intuizioni metafisiche, di temi favolistici. Così è nato questo libro, che Sciascia intendeva anche come omaggio, derivante quasi da un eccesso di conoscenza («Ho detto che mi pare di conoscere il paese anche nei suoi silenzi»), a Racalmuto, a quell’«isola nell’isola» dove «si ama più tacere che parlare» e perciò «quando si parla si sa essere precisi, affilati, acuti ed arguti».


Da www.adelphi.it (http://www.adelphi.it)

Frescobaldi
15-03-08, 14:06
NOTIZIA


“La mia terra è sui fiumi stretta al mare”, dice Quasimodo. Parla della Sicilia, ma la sua memoria più viva ne è il mare di Siracusa, la foce dell’Imera, i “pianori d’Acquaviva dove il Platani rotola conchiglie”. Ma la mia terra, la mia Sicilia, non ha fiumi; e dal mare è lontana come fosse al centro di un continente. In realtà, come dice un vecchio dizionario geografico, la distanza dal mare africano è di appena sedici miglia: ma lontanissima e stupefatta, di uno stupore che attingeva alla paura, ne era la nozione, negli anni dell’infanzia: dal paese al più vicino luogo di mare – Porto Empedocle – la distanza misurata dal tempo lento dei carretti che partivano, carichi di zolfo, la sera e arrivavano al porto (chiamato semplicemente “la marina”) all’alba dell’indomani.
Isola nell’isola, come ogni paese siciliano di mare o di montagna, di desolata pianura o di amena collina, la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto, in provincia di Agrigento. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola-vallo (i tre valli in cui la divisero gli arabi) dentro l’isola Sicilia, l’isola provincia dentro l’isola-vallo, l’isola-paese dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia; un discorso già tracciato da Pirandello, e specialmente nella commemorazione di Verga. Ma fermiamoci all’isola-paese.
A Racalmuto (Rahal-maut, villaggio morto, per gli arabi: e pare gli abbiano dato questo nome perché lo trovarono desolato da una pestilenza) sono nato sessantaquattro anni addietro; e mai me ne sono distaccato, anche se per periodi più o meno lunghi (lunghi non più di tre mesi) ne sono stato lontano. E così profondamente mi pare di conoscerlo, nelle cose e nelle persone, nel suo passato, nel suo modo di essere, nelle sue violenze e nelle sue rassegnazioni, nei suoi silenzi, da poter dire quello che Borges dice di Buenos Aires: “Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”. Mi pare cioè di sapere del paese molto di più di quel che la mia memoria ha registrato e di quel che dalla memoria altrui mi è stato trasmesso: un che di trasognato, di visionario, di cui non soltanto affiora – in sprazzi, in frammenti – quella che nel luogo fu vita vissuta per quel breve ramo genealogico della mia famiglia che mi è dato conoscere (e tutto finisce, nel risalire il tempo, a un Leonardo Sciascia, nonno di mio nonno, che nei primi dell’Ottocento venne a Racalmuto dal vicino paese di Bompensiere per esercitarvi il mestiere di conciatore di pelli), ma anche tutta la storia del paese dagli arabi in poi. Ed ecco un fatto di per sé borgesiano, del Borges di natura e di quotidiano: non riesco ad immaginare, a vedere, a sentire la vita di questo paese prima che gli arabi vi arrivassero e lo nominassero. Ed è piuttosto facile scoprirne la ragione: la mia residenza qui, quella residenza che di molto precede la nascita, è cominciata con gli arabi, dagli arabi. Del resto, c’è il mio nome: che è tra quelli che Michele Amari registra come arabi, e finiscono con l’esser tanti da contraddire la sua tesi di fondo che la Sicilia sia stata araba ma non, per dirla approssimativamente, arabizzata (e il nome, fino alla metà del secolo scorso, nelle anagrafi parrocchiali, non gratuitamente, ma per esigenza fonetica, veniva così trascritto: Xaxa).
Ho detto che mi pare di conoscere il paese anche nei suoi silenzi. Che non sono quelli della prudenza e dell’omertà. O più esattamente: che non sono soltanto quelli. Chi scelse – tra il Sei e il Settecento, è da presumere – come stemma del Comune (che allora si diceva Università) un uomo nudo che fa il segno del silenzio di fronte a una torre ermetica, e sotto, in latino, la scritta “nel silenzio mi fortificai”, forse alludeva al silenzio che prudenza vuole si faccia di fronte al potere, ma non a un silenzio di desistenza, di quiescenza. A un silenzio di preparazione, piuttosto, a un silenzio memore e, sulla realtà effettuale, intelligente. E questa prescrizione del silenzio (facile allora a cavarsi dai breviari come quello attribuito al cardinal Mazzarino, dai ricordi, dagli avvertimenti: e vanno particolarmente segnalati gli avvertimenti cristiani del palermitano Argisto Giuffredi, che però non gli valsero a scampare il carcere e a perire, da carcerato, nell’esplosione del Castello a mare), questa prescrizione si è come introvertita, per lungo ordine d’anni, nella gente, in ciascuno; è diventata una qualità, una peculiarità, un elemento distintivo del carattere. Si ama più tacere che parlare. E quasi che i lunghi silenzi davvero servano a fortificare il raro parlare, quando si parla si sa essere precisi, affilati, acuti ed arguti. L’ironia, il paradosso, l’immagine balenante e sferzante in cui si assomma un giudizio, vi sono di casa. Si capisce che oggi il rullo compressore della televisione passa anche su questo, ad ottundere se non addirittura a schiacciare: ma non ricordo conversazione più intelligente e divertente di quella che si svolgeva nelle botteghe artigiane, nei saloni dei barbieri (che erano anche accademie di chitarre e mandolini), nei circoli: i quattro circoli in cui la popolazione maschile trascorreva le serate: degli zolfatari, dei braccianti agricoli, del “mutuo soccorso”, dei “galantuomini”.


Frescobaldi
15-03-08, 14:07
ALFABETO

ABBRUSCIATU VIVU COMU A CALEDDRU. Bruciato vivo come Caleddru. In senso fisico, per chi muore in un incendio. In senso figurato, per chi è oggetto di maldicenza, di diffamazione. Caleddru era il soprannome della famiglia La Mattina, ragguardevole per beni sino alla fine del secolo scorso. Il racalmutese Diego La Mattina, agostiniano riformato, eretico, uccisore dell’inquisitore spagnolo de Cisneros, bruciato vivo a Palermo dell’ auto da fé del marzo 1658, si può presumere fosse dei Caleddru. Ma si può anche presumere che il soprannome sia venuto da lui alla famiglia. Caleddru può essere infatti un Caliddru, diminutivo di Calogero, a caricatura pronunciato al modo dei milocchesi, e cioè con la e al posto della i; ma può anche essere la contrazione di “caliateddru”: detto con pietà per chi è stato “caliato” (tostato, bruciato). Per questa ipotesi vale anche il fatto che una contrada di campagna, alle porte del paese, è chiamata “Caliatu” perché, durante una pestilenza, vi si bruciavano le cataste dei morti.

Frescobaldi
15-03-08, 14:16
A BON’E’ CA SI MORI. E meno male che si muore. Frase pronunciata da uno zolfataro dedito al vino e al gioco di carte (più o meno, tutti gli zolfatari amavano il vino e il gioco d’azzardo; e il mangiar piccante – il castrato coperto di pepe e arrostito alla brace, il pecorino pepato, il cacio-cavallo stagionato e duro di scorza: cibi, insomma, che chiamavano vino – e l’andare per serenate, l’appassionarsi alle donne più difficilmente raggiungibili, il far duello p risse per loro: tutto il contrario dei contadini) che una sera di sabato, sotto Natale, avendo perso il denaro che aveva e “indettandosi” (indebitandosi) su quello che non aveva, tristemente rincasando si sentì piovere addosso, da una finestra rapidamente aperta e richiusa, il copioso contenuto di una “commoda” (“commoda”, comoda, era un vaso cilindrico di coccio stagnato, alto quanto una sedia, gli orli robustamente slabbrati in modo da potercisi sedere – comodamente – sopra: il vaso, insomma, che la segreta conteneva). Si dice “a bon’è ca si mori” a commento conclusivo delle proprie o altrui sventure.

Frescobaldi
15-03-08, 15:57
A CUDA DI SURCI. A coda di sorcio. Si dice che finiscono a cosa di sorcio affari, promesse e sentimenti che apparvero grandi e certi e invece lentamente si riducono fino a svanire. Specialmente lo si dice di quegli amori che ardentemente superarono ogni difficoltà, ogni divieto: ed eccoli finire, a coda di sorcio, nella noia.

Frescobaldi
15-03-08, 16:03
ARTI DI PINNA. L’arte della penna, lo scrivere. Tra tutte le arti, quella considerata supremamente difficile. “Ci voli arti di pinna”, per dire della difficoltà a raccontare un fatto, ad esporre una situazione particolarmente disagiata e dolorosa, complicata, contraddittoria: il che, in effetti, è quel che gli scrittori siciliani si sono adoperati a fare. Per converso, si dice “e chi ci voli, arti di pinna?”, e che ci vuole, arte di penna?, per un qualche lavoro che sembra difficoltoso e si può invece, a giudizio di chi non è tenuto a farlo, facilmente fare.

Frescobaldi
16-03-08, 14:27
ASTURA. Come “asture” nell’antico francese (Montaigne): a quest’ora. Ma la parola richiede una nota per quando viene pronunciata sola, sospensivamente ed esclamativamente. E’ allora che maliziosamente si carica, come in certe pagine di Brancati, di immagini goderecce ed erotiche. Per esempio: se un amico si è appena sposato o si sa che sta correndo un’avventura amorosa, basta che tra gli amici rimasti alle solite abitudini, ai soliti incontri al circolo, qualcuno aggiunga al suo nome l’esclamazione “astura!” perché le fantasie erotiche si scatenino fino al parossismo: quasi che l’assente altro non possa fare, ad ogni ora, ad ogni minuto, inesauribilmente, che quello che loro immaginano.

Frescobaldi
16-03-08, 21:26
BEDDAMATRI. Bella madre. E’, come in ogni altro paese della Sicilia, la Madonna: ma con la particolarità che la sola parola, pronunciata esclamativamente, vale in determinate circostanze come giuramento (e interrogativamente – “Beddamatri?” – come richiesta di suggellare con giuramento la veridicità di una rivelazione o la volontà di mantenere una promessa). Ma giuramento veniale, leggero: come tutti quelli che attengono al sacro; come il “privo di Dio”, che esprime anche stupore, che qui – come nei personaggi di Pirandello – è piuttosto frequente. Giuramenti più grevi e solenni sono quelli fatti sulla salute propria e dei familiari più stretti o sulla vita dei figli, da chi ne ha (e li fanno spesso, nei commerci, coloro che non ne hanno). Particolarmente pregiato è il giuramento fatto sulla “vista degli occhi”: “privu di la vista di l’uocchi”, che sia privato della vista degli occhi.

Frescobaldi
16-03-08, 21:32
BUONU FACISTI CA TI NNI ISTI. Bene hai fatto ad andartene. Frase di approvazione e congratulazione verso chi ha lasciato un impegno, un incarico, un posto di lavoro. Si è sempre e da tutti approvati (tranne, a volte, dai familiari più stretti) quando si esce dal fare (dal peccato del fare, diceva il principe di Lampedusa). Ma la si pronuncia, oggi, accentuando ironicamente la rima tra “facisti” e “isti”: segno forse di un mutato sentimento riguardo al fare.

Frescobaldi
17-03-08, 23:11
C’E’ CORI E CURUZZU. C’è cuore e cuoricino. Espressione che accusa d’ingiusta distribuzione d’affetto – e conseguentemente di beni – nonni, zii e prozii verso i nipoti. Quasi avessero due cuori: uno grande per i preferiti, altro piccolo per i reietti. Accusa a volte gratuita, e rivolta in funzione ricattatoria; spesso vera. E dà luogo a fierissime avversioni familiari, quando di mezzo c’è la “roba” da ereditare.

Frescobaldi
17-03-08, 23:23
CICCANNINU. Misteriosa parola a indicare il tocco del mezzogiorno e della mezzanotte. Forse, per l’alternato tono dei tocchi, si voleva scherzosamente dire di un Ciccu e di un Ninu (Francesco e Antonino) che si rispondono. O era il nome e cognome (Ciccu Annino) di un antico campanaro. O è corruzione di una parola composta, nella prima parte divenuta oscurissima e nella seconda significando – secondo il vocabolario dello Scobar (1519-20) – bello, soave, dolce: “hanino”. E questo significato è da attribuire alla parola “acanino” nella novella decima dell’ottava giornata del Decameron: “tu mi hai miso lo foco all’arma, toscano acanino”. Toscano dolce, non – come qualche chiosatore ha inteso – crudele.
Detto del mezzogiorno e della mezzanotte, “anninu” conferisce dolcezza: per il ristoro del cibo al mezzogiorno, del riposo alla mezzanotte. Peraltro – parole cadute in disuso – “anninnari” era il prolungato girare della trottola (“s’addrummiscì, si è addormentata, dicevano i bambini di una trottola che girasse a lungo e silenziosamente) e “anninnuliari” il cullare neniando i bambini.

Frescobaldi
17-03-08, 23:24
CICIRI MUODDRI. Ceci molli, scotti. Si dice delle cerimoniosità, dei complimenti.

Frescobaldi
19-03-08, 00:15
CIVITA. Città. Civitas. Ma si dice di un luogo in cui gli alberi di ulivo sono numerosi e fitti. La voce, ignorata da tutti i dizionari del dialetto siciliano e, per quel che sappiamo, con questo significato viva soltanto tra i contadini di Racalmuto, viene certamente dal fatto che così, Civita, è chiamata dagli agrigentini la contrada dove sorgeva l’antica città. Pirandello, Il turno: “Dopo San Nicola lo stradone, più ripido, li agevolò nella corsa allegra, sotto la minaccia della pioggia. E in breve furono al cospetto del magnifico tempio della Concordia, integro ancora, aereo sul ciglione del bosco e aperto col maestoso peristilio di qua alla vista del bosco di mandorli e d’ulivi, detto in memoria dell’antica città che sorgeva pur lì, bosco della Civita; di là alla vista del gran piano di San Leone…” Di mandorli e d’ulivi: ma il contadino racalmutese, l’occhio abituato a una campagna ricca di mandorli e povera d’ulivi, restava impressionato dall’insieme degli ulivi, alberi amati ma raramente piantati per la lentezza della crescita e il tardo dar frutto; alberi non a misura di vita umana, e che avevano, e che avevano perciò a che fare con la fede, con la religione. Da ciò il proverbio “ci voli fidi puru a chiantari un pedi d’auliva” (ci vuole fede anche a piantare un ulivo).

Frescobaldi
19-03-08, 00:16
COMU DISSI CHIDDRU. Come disse quello. Precede sempre la citazione di una battuta ironica e sferzante, o scettica, o di rassegnazione. Una battuta d’autore, anche se l’autore resta innominato. Ed ha di solito dietro un aneddoto, un mimo. E’ stata pronunciata, insomma, a suggello di un caso preciso: e chi la ripete è di solito in grado di raccontarlo. Ancora individualizzata e particolare, è come sul punto di passare al patrimonio di saggezza della collettività, di diventare modo proverbiale o proverbio, di perdere l’attribuzione a “quello” e di diventare dell’ “antico” e di tutti. Poiché l’antico, l’uomo antico, ci ha lasciato detti di ben più fondata e sperimentata saggezza. E sono i proverbi. “Lu dittu di l’anticu nun fallisci”, il detto dell’antico non fallisce. Di infallibile verità. Anche se quel che un proverbio afferma si può immediatamente negare con un altro proverbio.

Frescobaldi
04-04-08, 23:02
CU E’ SUTTA AGGRUPPA LI FILA. Chi è sotto annoda i fili. Ricordo della tessitura di tappeti che una volta si faceva e in cui il lavoro di annodare i fili, stando sotto il telaio, lo facevano dei bambini. Terribile lavoro: ed è diventato metafora del subire angherie, soprusi. Sta sotto il povero, il debole: ad annodare i fili di un disegno che non vede.

Frescobaldi
04-04-08, 23:06
CULURI DI CANI CA CURRI. Colore di cane che corre. Per dire di un colore indefinibile, strano e comunque non in tono, non elegante. Lo si dice quasi sempre per colori inconsueti o confusamente frammischiati di vestiti e, oggi, per certe tinte di chiome femminili: quando l’intenzione di farle nere o bionde è tradita dai risultati.

Frescobaldi
07-05-08, 11:07
CU TUTTU CA SUGNU UORBU, LA VIU NIURA. Sebbene sono orbo, la vedo nera. Cioè: vedo che andrà a finire male. Frase pronunciata il 10 giugno 1940 da un cieco, da tutti chiamato “mastru Pietru” (maestro pietro), alla fontana pubblica di via Regina Margherita, dove le donne, che stavano in turno ad attingere acqua, a “mastru Pietru” domandarono cosa pensasse della guerra che quel giorno Mussolini aveva dichiarato alla Francia e all’Inghilterra. Con quel giudizio, “mastru Pietru” rischiava di finire in carcere: ma anche se subito si diffuse per tutto il paese, non arrivò mai all’orecchio delle autorità fasciste. Rimasta proverbiale, la frase viene oggi detta ad esprimere il più radicale pessimismo. Sicché della situazione italiana di oggi si dice:cu tuttu ca sugnu uorbu, la viu niura.

Frescobaldi
07-05-08, 11:09
DICICA. Dice che. Non “si dice che”, ma uno solo, innominato, “dice che”. E’ l’incipit di ogni aneddotica malignità, di ogni racconto sulle disgrazie altrui. Il “dicica” alleggerisce la responsabilità del narratore, come nel “si dice” italiano, ma al tempo stesso rende più segreta, più esclusiva, più preziosa e godibile la notizia. Non la sanno tutti. Era uno solo a saperla. E ora siamo in tre.

Frescobaldi
28-05-08, 21:47
E UNNI AGGHIORNA AGGHIORNA. E dove sarà giorno sarà giorno. Ma è un “dove” che vale anche “quando” e con una sfumatura di “se”. Se, quando e dove sarà giorno, sarà giorno. Si dice nel prendere una decisione che comporta rischi: come di un cammino intrapreso nel buio della notte, con l’insicurezza di raggiungere una meta; e si vedrà al sorgere del giorno dove saremo arrivati, quale luogo e sorte ci sono stati assegnati. Frase che da almeno un secolo suggella – fingendo noncuranza, scherzosamente: ma con intimo strazio – le decisioni, a migliaia numerose, di emigrare. E si consideri che nella sola Hamilton, in Canada, si trovano circa cinquemila racalmutesi, emigrati dopo la seconda guerra mondiale.

Frescobaldi
28-05-08, 21:48
FAVARISI. Favaresi. Di Favara, grosso paese a circa venti chilometri da Racalmuto. Si dice: “Favarisi, tutti ‘mpisi” (bavaresi, tutti da impiccare). E meno si allude alla mafia, che vi è endemica e prospera, e più alle faide tra famiglie, continue ed atroci fino a pochi anni addietro.

Frescobaldi
28-05-08, 21:49
GALANTOMU CU LI PIEDI LIEGGI. Galantuomo dai piedi leggeri: e si dice di chi galantuomo non è, i piedi leggeri essendo quelli dei ladri (come alati, ricordando Mercurio). Ma di solito questa è battuta di chi sa, di chi conosce, a correzione e ad avvertimento di chi non sa: “Il tale è un galantuomo”; “Sì, un galantuomo dai piedi leggeri”.

Frescobaldi
28-05-08, 21:50
JTTARI ‘NNIMMI. Letteralmente: gettare, lanciare enigmi. Ma indica una situazione in cui una persona parla per essere intesa, in mezzo a tante, solo da un’altra. E’ insomma un parlar minaccioso e ricattatorio che, ad eccezione della persona cui è diretto, può sembrare strano, strambo. E spesso una riunione anche conviviale di più persone si risolve in un lancio di enigmi, un incrociarsi e rimbalzare di enigmi.