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Visualizza Versione Completa : La mappa della crisi alimentare e dei tumulti per il cibo



Fausto Intilla
12-05-08, 21:02
Fonte: http://blogeko.libero.it/index.php/2008/04/30/la_mappa_della_crisi_alimentare_e_dei_tu (http://blogeko.libero.it/index.php/2008/04/30/la_mappa_della_crisi_alimentare_e_dei_tu)
http://blogeko.libero.it/media/blogs/all/mappa.jpg (http://www.reuters.com/news/globalcoverage/agflation)

Un lavoro davvero ben fatto. Reuters ha messo insieme una pagina ricchissima di informazioni. Consente di avere un quadro generale della crisi alimentare (http://blogeko.libero.it/index.php/2008/02/27/prezzi_cibo_fame_nel_mondo).
I prezzi dei generi alimentari stanno aumentando ad una velocità mai vista prima. C'è il rischio - parole dell'Onu e della Banca Mondiale - di un disastro senza precedenti e della diffusione del malcontento sociale.
La carta geografica evidenzia i Paesi dove, negli ultimi tempi, si sono verificati tumulti legati all'aumento di prezzo dei generi alimentari.
Cliccando sull'immagine si accede alla pagina che contiene la mappa originale, sulla quale ogni epicentro di crisi è accompagnato da una finestra esplicativa.
Il motivo per cui il genere umano si è ridotto in questo stato? Molteplici cause, e fra loro intrecciate.

Intanto ci sono sempre più bocche da sfamare. Ad esse fanno concorrenza i biocarburanti (http://blogeko.libero.it/index.php/2007/10/27/biocarburanti_moratoria_usa_europa), l'ultima follia, e il bestiame da carne (http://blogeko.libero.it/index.php/2006/04/11/proteine_vegetali_vegetariani): in Paesi in via di decollo come l'India e la Cina aumentano coloro che non sono miserabili e che possono permettersi una bistecca. Fanno come l'Occidente, niente più e niente meno. Ma non solo. Le terre coltivabili diminuiscono (http://blogeko.libero.it/index.php/2007/08/31/desertificazione_agricoltura_demografia), i mutamenti climatici - la siccità in Australia - riducono i raccolti, sul prezzo delle derrate alimentari si specula (http://blogeko.libero.it/index.php/2008/03/31/rincaro_dei_cereali_lo_strano_caso_del_d) e aumenta il petrolio (http://blogeko.libero.it/index.php/2008/04/21/petrolio_a_115_dollari_si_va_avanti_come) che è "incorporato" nel cibo sotto forma di trasporti e concimi (http://blogeko.libero.it/index.php/2007/12/24/rincaro_concimi_petrolio_cibo).
Infatti l'Onu fa notare che i contadini poveri non cercano di aumentare la produzione per non andare incontro a costi insopportabilmente elevati.
Della crisi risentono innanzitutto i Paesi più poveri, dove un'amplissima fetta del reddito è dedicata all'acquisto dei beni di prima necessità.
Ma gli effetti si fanno sentire anche nei Paesi ricchi: pane e pasta aumentano, in alcuni supermercati degli Stati Uniti il riso è razionato (http://blogeko.libero.it/index.php/2008/04/26/potenza_del_mercato_in_america_il_riso_e).
Reuters offre anche una panoramica sul riso (http://blogeko.libero.it/index.php/2008/04/29/prezzo_del_riso_alle_stelle_la_rivoluzio): Paesi importatori, Paesi esportatori e prezzo, che segna un'impennata da paura.
Ci sono poi i grafici relativi ai mais: il prezzo (anch'esso in forte aumento, sebbene non come il riso), la disponibilità (ferma) e la quantità utilizzata, che è in aumento. Il risultato? Il grafico delle scorte segna una discesa a picco. Su Reuters la mappa della crisi alimentare e dei tumulti per il cibo (http://www.reuters.com/news/globalcoverage/agflation) ed il servizio (http://www.reuters.com/article/GCA-Agflation/idUSL2971907120080429?pageNumber=1&virtualBrandChannel=0) che la accompagna. Sul Velino l'Onu a caccia di fondi per fronteggiare la crisi alimentare (http://www.ilvelino.it/articolo.php?Id=537563)

Fausto Intilla - www.oloscience.com (http://www.oloscience.com/)

(Controcorrente (POL)
12-05-08, 23:19
Un'altro problema causato dalla mancanza del libero mercato.

Abbott (POL)
16-05-08, 14:27
Di fronte alla crisi agricola di questi mesi (particolarmente dolorosa nel Terzo Mondo) era prevedibile che le organizzazioni internazionali si mobilitassero. Su iniziativa del segretario dell’Onu, Ban Ki-moon, è stata così costituita una task force con il compito di varare interventi d’urgenza. Non solo: si prevede fin d’ora che il prossimo anno vi sarà un raddoppio dei finanziamenti all’agricoltura africana, che raggiungeranno gli 800 milioni di dollari. Non aspettiamoci però miracoli da queste iniziative, che muovono da una grave incomprensione del problema.
La crisi attuale, infatti, ha molte origini, ma le principali sono politiche. Certo è indubbio che taluni recenti raccolti sono andati male per ragioni climatiche; ed è egualmente vero che questo rarefarsi dell’offerta è stato accompagnato da una crescita della domanda connessa al fatto che ci sono Paesi qualche anno fa poverissimi, e che ora invece iniziano a lasciarsi alle spalle la miseria. Se India o Cina chiedono più beni alimentari, non ci si deve stupire se i prezzi aumentano.
Ma oltre a questo c’è altro. A seguito delle pressioni esercitate dagli ecologisti, l’amministrazione americana ha predisposto incentivi per produrre bioetanolo. E anche questo ha contribuito a far crescere il prezzo di taluni prodotti agricoli, come si è visto in Messico durante le “rivolte delle tortillas”.

Contrariamente a quanto spesso viene detto, questa allora non è una crisi del capitalismo, ma della sua assenza.
Il caso del bioetanolo è esemplare, dato che non ha senso essere pregiudizialmente a favore o contro tale soluzione, ma è chiaro che se le iniziative volte a ricavare carburante dai prodotti della terra sono artificiosamente incentivate per un editto di Bush o di altri, non ci si può stupire se poi si va incontro a situazioni come quella che stiamo vivendo.
Sullo sfondo, inoltre, abbiamo il fallimento della politica agricola europea. Mentre i prezzi del settore agricolo vanno alle stelle, i paesi occidentali continuano a regolamentare e sostenere in forme assistenziali il settore primario: con il risultato davvero folle che Bruxelles, ad esempio, finanzia molti proprietari affinché non coltivino i campi e impone pure quote di produzione per limitare i raccolti.
Insomma, la pianificazione sta conoscendo un suo esito classico: mentre ci sarebbe bisogno di una produzione accresciuta (per far fronte allo squilibrio tra domanda e offerta, e in tal modo abbassare i prezzi), la politica continua a muoversi nella direzione sbagliata. Il risultato è che il Terzo Mondo è impossibilitato a esportare da noi e non può crescere né svilupparsi.

L’occasione è allora propizia per mettere in discussione la Pac: eliminando ogni aiuto (a vantaggio dei contribuenti europei) e cancellando i vincoli alla produzione (così da stimolare lo sviluppo, anche da noi, di un’agricoltura imprenditoriale).
Il caso del bioetanolo è interessante, perché nulla esclude che in futuro esso possa essere economicamente conveniente: il che dipende essenzialmente dal prezzo del petrolio e dalla produttività agricola per ettaro. In questo senso, se si superasse il tabù degli Ogm e si permettesse lo sviluppo di piantagioni ad altissima resa per ettaro, quella del bioetanolo potrebbe rilevarsi una strada molto opportuna.

Bisogna però mettere da parte pregiudizi irrazionali e soprattutto abbandonare quel sistema di gestione pubblica dell’economia che oggi impedisce ai nostri agricoltori di cogliere la straordinaria opportunità legata ai prezzi alti e impedisce ai Paesi poveri di emergere. In definitiva, i politici devono smetterla di sostituire le loro decisioni a quelle degli agricoltori. Hanno già combinato troppo disastri in ogni parte del mondo, impedendo quei graduali aggiustamenti e quelle positive reazioni che ogni imprenditore avveduto adotta nel momento in cui osserva l’andamento dei prezzi. Si ritirino in buon ordine e restituiscano i campi a quanti li possiedono e li lavorano.
Stavolta ne va anche della vita di milioni di persone.

Da L’Opinione, 30 aprile 2008

http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=6605

Abbott (POL)
16-05-08, 14:30
La recente crescita dei prezzi dei generi alimentari ha, prevedibilmente, fatto riecheggiare le voci critiche della globalizzazione e del mercato senza regole, accusato di affamare le persone. Da qui, la richiesta alla politica di intervenire. L’economista Riccardo Moro, intervistato da Avvenire lo scorso 11 aprile, ad esempio, ha sostenuto che è necessario “ripensare la politica del commercio mondiale. Per vent’anni il mondo ha voluto lasciar fare al mercato, ma la liberalizzazione totale implica la perpetuazione delle asimmetrie esistenti”. Se volgiamo lo sguardo al passato, tale valutazione sembra però essere quantomeno ingenerosa. Dal 1950 al 2005 la popolazione mondiale è cresciuta di due volte e mezza ed il reddito procapite di quasi il 200%.
Entrambi questi fattori hanno portato ad un incremento della domanda di cibo. Ciò nonostante (o, forse, sarebbe meglio dire, anche grazie a questa evoluzione) in termini reali il prezzo degli alimenti si è ridotto di oltre il 70% (nel Regno Unito, il prezzo del grano nel 2000 era pari a meno di un decimo di quello prevalente nei cinque secoli precedenti).

L’apporto calorico procapite a livello mondiale è in media aumentato del 24% dal 1961 al 2002; nei paesi poveri l’incremento è stato ancor più significativo, pari al 38%. Secondo una stima della FAO, una persona per poter sopravvivere e svolgere una moderata attività necessita di almeno 2mila calorie al giorno. Dal 1970 ad oggi la percentuale di persone che non raggiungono tale standard è diminuita dal 35 al 18%. Miglioramenti drastici si sono registrati soprattutto in Asia mentre una più limitata tendenza positiva si è avuta nell’Africa subsahariana dove la produttività agricola rimane assai più limitata: in Asia si utilizzano in media 130 kg di fertilizzanti contro gli 11 kg nel Continente nero e sono irrigati il 37% dei terreni destinati a coltivazioni contro il 5%. E’ importante aggiungere che, non solo si è ridotta la percentuale di persone malnutrite, ma pur in presenza di un’espansione senza precedenti della popolazione mondiale, è diminuito il loro numero assoluto: da 920 milioni nel 1971 a poco meno di 800 milioni nel 1997.

E veniamo a oggi. Negli ultimi due anni, il trend di lungo periodo del prezzo degli alimenti ha conosciuto una brusca inversione, con i prezzi che sono risaliti ai livelli di trent’anni fa. Quali le cause di tale andamento? Da un lato la crescita economica di Cina ed India che ha determinato un aumento della domanda di carne (in media un cinese ne consumava 20 kg nel 1985 a fronte degli attuali 50 kg) e, di conseguenza, una maggiore richiesta di cereali per l’alimentazione degli animali. Tale fattore che si è dispiegato progressivamente nel corso di molti anni non può però essere ritenuto responsabile, se non in misura marginale, di quanto accaduto a partire dal 2006. Il colpevole è verosimilmente da individuarsi nell’utilizzo dei cereali per la produzione di etanolo. Negli Stati Uniti, principale Paese esportatore di mais nel mondo, quasi un terzo della produzione è stato “accaparrato” dal governo attraverso i generosi incentivi garantiti ai produttori di bioetanolo. Tale politica, oltre a causare la crescita del prezzo del mais, ha determinato un rialzo delle quotazioni di altri prodotti agricoli avendo indotto gli agricoltori a riconvertire parte delle loro coltivazioni.

Dunque, a guardare con attenzione, più che una domanda reale espressa dai consumatori, sembrano essere i governi i responsabili di quanto accaduto di recente. Infondata risulta essere anche l’accusa al riscaldamento globale per una minor produzione: i principali modelli di previsione sono infatti concordi nel ritenere che, almeno inizialmente, un riscaldamento della terra associato ad un incremento della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera (un potente fertilizzante per numerose piante) comporta un miglioramento della produzione agricola.
Con riferimento alla eventualità di eventuali interventi pubblici per porre rimedio all’attuale situazione, che si tratti di fissare un tetto ai prezzi oppure di imporre restrizioni alle esportazioni e sussidi alle importazioni, occorre sottolineare come essi si rivelino quasi sempre controproducenti in quanto disincentivano la produzione di prodotti agricoli invece di incoraggiarla.

Se lasciato fare, il mercato, pur imperfetto, ha dimostraato si saper conseguire i risultati sopra evidenziati. Il caso più spettacolare è quello della Cina dove, dopo le follie pianificatorie che condussero alla morte per fame di milioni di abitanti nei primi anni ’60, il riconoscimento della proprietà privata e della libertà di commercio, ha fatto sì che la fame fosse drasticamente estirpata. Questa, più che l’inconcludente strada degli aiuti governativi, sembra essere la via maestra anche per l’Africa che non ha finora goduto, se non in minima parte, dei progressi conosciuti da tutte le altre aree del pianeta.

Ai governi si potrebbe chiedere, più modestamente, di non nuocere. A quelli europei, in particolare, di abbassare progressivamente le barriere tariffarie ed i sussidi che proteggono i coltivatori all’interno della Comunità, a scapito dei consumatori e dei produttori più poveri e relativamente più efficienti. Ed a quello americano, se proprio non vuole rinunciare al bioetanolo, di acquistarlo a più buon prezzo dai contadini brasiliani.

Da Libero Mercato, 15 aprile 2008

http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=6560

Abbott (POL)
31-07-08, 10:20
Abbiamo globalizzato anche il protezionismo? L’impressione era un po’ quella, leggendo ieri le dichiarazioni del ministro indiano che, col collega cinese, ha rovesciato il tavolo a Ginevra. «Quando sento gli Usa accusarci di bloccare ogni accordo», dice Kamal Nath, «so che stanno pensando ai vantaggi commerciali che possono ricavarne aumentando le loro esportazioni sui nostri mercati. Io invece non faccio altro che proteggere centinaia di milioni di contadini poveri».

Dazi sul grano. Le trattative si sono impantanate sulle clausole di salvaguardia per le importazioni agricole. Gli americani hanno accusato i cinesi e, in particolare, gli indiani, di voler ricalibrare tale meccanismo per mantenere artificiosamente alte le proprie tariffe. Insomma, siamo sempre ai dazi sul grano - la cui abolizione nel 1848 in Inghilterra fu uno dei pochi punti mai segnati a favore del libero scambio. Difficile, però, credere che il Doha Round si sia arenato solo su questo scoglio. Dopotutto, è abbastanza curioso che Paesi che esportano a basso prezzo in Occidente, abbiano poi paura dell’afflusso di merci americane. Sarebbe il rovesciamento della prospettiva colbertista: con le nazioni che beneficiano di manodopera low cost, che temono Paesi tecnologicamente più avanzati.

Uomo delle caverne. Non solo. A cavallo fra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, il protezionismo era sostanzialmente difeso come costruzione di una serie di barriere utili a garantire un più ordinato sviluppo dell’“industria nascente”. Si pensava che fosse necessario tutelare settori industriali agli albori, per evitare che la concorrenza internazionale facesse giustizia delle ambizioni di una nazione, di costruirsi competenze in un certo ambito. Un conto sono le intenzioni, altro le conseguenze. L’isolamento artificiale dalla concorrenza rende impossibile per un’impresa o un comparto industriale crescere nel modo più corretto, confrontandosi puntualmente con chi ha già sviluppato modelli virtuosi. Il protezionismo è la teoria economica dell’uomo delle caverne: costringe a reinventare sempre la ruota. Ma, se non altro, i colbertisti d’altri tempi avevano un po’ di onestà intellettuale. Difendevano una certa politica, perché andava a beneficio di un certo gruppo, per loro elettoralmente interessante.

I Paesi in via di sviluppo possono ripercorrere quella strada, ma per cortesia non ci dicano che vogliono aiutare i loro poveri: perché sono proprio i più poveri, quelli che beneficerebbero per primi di un abbassamento del costo delle derrate.

Al di là di questo episodio, possiamo dire che la fine di Doha è cominciata tanto tempo fa: al meeting ministeriale di Cancun, nel 2003. A Hong Kong, nel 2005, non c’è stato risveglio dal coma. Gli Usa e l’Europa ora incolpano India e Cina. Eppure, se le pretese dell’Occidente a vantaggio delle proprie clientele di agricoltori fossero state più leggere, nel 2003 e nel 2005, non saremmo a questo punto. E non avremmo legittimato, col nostro, il protezionismo degli altri.

Per alcuni osservatori, la macchina negoziale costruita nel 1948 per il Gatt semplicemente non è adatta a un’organizzazione che ha 153 Stati membri. Siamo di fronte, allora, a un fallimento della politica.

Ha scritto bene Paul Krugman: le negoziazioni sul commercio non sono guidate dalle valutazioni degli economisti, quanto piuttosto da una casta di “mercantilisti illuminati”. Gli accordi multilaterali rappresentano un tentativo di “gestire la globalizzazione”: di “governarla”, come si auspica dal campo aprioristicamente avverso ai negoziati. È in quella sede che si incontrano interessi divergenti. Si bilanciano, si scontrano, riescono o falliscono nel trovare un accordo. Questa è politica, non mercato.

Per quanto la globalizzazione del Doha Round non sia quella dei sogni dei liberisti (che consisterebbe, grosso modo, nello sradicamento delle barriere d’ingresso ai mercati: strategia che uno Stato potrebbe, per ipotesi, anche adottare unilateralmente), è un processo che ha dato risultati. Poteva produrne altri, aiutando il libero scambio a fabbricare occasioni di crescita. Con questi chiari di luna, ce n’era quanto mai bisogno. Invece a una crisi mondiale si pensa di rispondere con nuovi egoismi nazionali. Nel lungo periodo saremo tutti morti, e nel breve non ce la passeremo granché bene.

Da Il Riformista, 31 luglio 2008

http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=6943