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Visualizza Versione Completa : Leonid Il'ic Breznev: dottrina e vicenda storica



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18-04-10, 22:32
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Stalinator
19-04-10, 15:04
LA DOTTRINA BREZNEV SULLO SFONDO DELLA GUERRA FREDDA

di Andrea Fais


UNA PREMESSA POLITICA E CULTURALE

Completamente rimossa dalle pagine salienti della storia, l’epoca di Leonid Il’ic Breznev alla guida dell’Unione Sovietica, resta ancora oggi la più importante e significativa esperienza storica del grande continente eurasiatico dopo la morte di Stalin.

Non v’è dubbio che i diciotto anni che videro l’ingegnere di origine ucraina alla guida della Segreteria Generale del Partito Comunista Sovietico, furono i più centrali per comprendere le dinamiche dell’accerchiamento occidentale ai danni della Russia e della geopolitica sovietico-russa degli ultimi quaranta anni.

Proprio quarantadue anni fa, scendeva nelle piazze di Praga, l’evento più emblematico di tutta la storia del difficile e combattuto rapporto tra Unione Sovietica e Occidente, un evento capace di scardinare certezze e punti fermi che fino ad allora avevano caratterizzato la partita in gioco.

La cosiddetta Primavera di Praga, nasceva sulle basi di un crescente tentativo di destabilizzazione socialdemocratica interna al Partito, avviato da Alexander Dubcek. In realtà lo scontro e le basi di quell’evento hanno una chiara origine all’interno della situazione del tutto particolare che Cecoslovacchia, Polonia ed Ungheria vivevano nell’immediato periodo transitorio post-bellico.

Queste nazioni liberate dall’Armata Rossa, hanno sempre storicamente registrato una massiccia presenza di cittadini di religione ebraica ivi presenti da molte generazioni. Il rapporto tra il nuovo ordine sovietico, andatosi costituendo sin dal 1948, attraverso i successi militari ed elettorali dei movimenti e dei Partiti Comunisti, e le comunità ebraiche, non era mai stato chiarito del tutto, e malgrado la presenza di alcuni dirigenti di origine ebraica nei rispettivi apparati di Stato, non mancarono le pesanti repressioni di alcuni di loro nei processi organizzati da Mosca, per debellare quei fenomeni che venivano inquadrati nella logica ritenuta reazionaria del sionismo e del cosmopolitismo.

Fu probabilmente proprio il processo contro Rudolf Slansky, poi estesosi ad altri quattordici dirigenti dell’apparato, tenutosi a Praga nel 1952, a scatenare la maggiore ondata repressiva nei confronti di quelli che venivano messi all’indice come sabotatori e quinte colonne.

Come ben evidenziato da Gabriele Nissim in un suo saggio, “Anche in Cecoslovacchia, che tradizionalmente non era mai stato un paese antisemita come la Polonia, gli ebrei venivano invitati a rinunciare alla propria identità. Lo racconta Eduard Goldstucker, presidente dell’Unione degli scrittori e membro del comitato centrale del partito fino al 1968, quando diventò dissidente”[1].

Questo crescente annientamento di personaggi di spicco accusati e imputati di “sionismo” o “deviazionismo”, contribuì in modo determinante a distanziare maggiormente Mosca ed i suoi alleati dall’Occidente e a scatenare un clima di tensione che, al di là della breve parentesi della distensione krusceviana, non avrebbe mai lasciato spazio a mediazioni di rilievo.

La Primavera di Praga è figlia di quegli avvertimenti all’Occidente e, in particolar modo, agli Stati Uniti, è figlia della cosiddetta rivoluzione ungherese del 1956, ed è figlia di un crescente, seppur nettamente minoritario, dissenso verso il deciso distacco intrapreso da Stalin rispetto a quell’innaturale alleanza che aveva sconfitto la Germania durante la precedente guerra.

Il 1968 segna un anno fondamentale sul calendario della storia contemporanea: non soltanto le nuove ondate estetiche giovanili provenienti dall’America, contribuiranno a modificare per sempre il tessuto sociale dell’Europa, ma lo stesso Socialismo, subirà una profonda diversificazione interna, attraverso le rielaborazioni sul tema marxista, affrontate dallo strutturalismo francese e dai tanti neofiti della Scuola di Francoforte.

È così che nasce l’Euro-Comunismo, ed è così che il supporto empatico verso l’Unione Sovietica, fino ad allora ben presente in Europa, e anche in Italia attraverso il ruolo-ponte fondamentale del P.C.I. di Palmiro Togliatti, inizia ad esaurire la sua spinta. Nel mondo occidentale si registrerà una sempre più crescente critica anti-sovietica, proprio a partire dagli stessi ambienti della sinistra, anche quella più estrema.



L’ACCERCHIAMENTO TOTALE

Se la conclusione dell’epoca Kruscev aveva visto una riacutizzazione del conflitto, culminata nella cosiddetta crisi dei missili forniti a Cuba, quale contraltare dei quasi otto anni di distensione almeno relativa, la situazione interna proseguiva spedita verso un miglioramento generale delle condizioni sociali che, malgrado la recente costruzione del Muro di Berlino e le ricorsive tensioni con i Paesi dell’area Nato, fecero registrare un notevole passo avanti in quasi tutte le repubbliche dell’Unione. Come sostiene Giuliano Procacci nel suo Storia del XX secolo “Tra il 1965 e il 1975, le famiglie in possesso di apparecchi televisivi passarono da 32 a 86 su 100 nelle città e da 15 a 67 su 100 nelle campagne e quelle in possesso di frigorifero rispettivamente da 17 a 87 e da 3 a 45 su 100 […]. Il miglioramento fu comunque generale e particolarmente visibile nelle repubbliche asiatiche, anche grazie ai profitti realizzati mediante i canali dell’“economia sommersa”[2].

La zastoja, letteralmente la stagnazione, che investì il Paese in quel periodo, e che tutt’oggi viene ricordata dalla critica storiografica come l’elemento più rilevante dell’intera era brezneviana, fu dunque un incidente di percorso o più presumibilmente una necessità dettata dalla corsa agli armamenti sempre più forte ed accentuata in campo planetario?

Ogni guerra che segua una ferrea e precisa logica geopolitica, comincia essenzialmente con l’accerchiamento della potenza imperialista ai danni della potenza o della nazione da invadere o scardinare. Questa fase, detta di destabilizzazione o di schiacciamento, presenta due modalità di dispiegamento: possono esserci tentativi interni, attraverso lo spionaggio e i servizi segreti, ed in generale l’intervento di basso profilo, oppure eventi di grande portata volti a destabilizzare le aree di confine.

I potenziali fronti caldi dell’Unione Sovietica in questo senso erano (e resteranno per sempre sino alla fine della Guerra Fredda) le tre zone di confine a maggiore esposizione. Parliamo dunque delle tre Repubbliche Baltiche (Estonia, Lituania e Lettonia) e delle tre Repubbliche dell’Est Europa (Ucraina, Bielorussia e Moldavia) sul fronte nord-occidentale, delle tre Repubbliche Caucasiche (Azerbaigian, Georgia e Armenia) sul fronte sud-occidentale e delle cinque Repubbliche centro-asiatiche (Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan) sul fronte meridionale.

Riassumendo gli avvenimenti storici fondamentali che hanno in qualche modo, più o meno esplicito, condizionato l’azione politica dell’Unione Sovietica, susseguitisi nel mondo, durante l’era Breznev, ovverosia tra il 1964 ed il 1982 (tra il 1977 e il 1982 con il doppio incarico di Segretario Generale e Presidente del Presidium del Soviet Supremo), possiamo individuare:

1) Guerra in Vietnam, 1962-1975

2) Primavera di Praga, 1968

3) Ostpolitik di Willy Brandt, 1970

4) Riformismo di Mercato di Deng Xiaoping, 1978-1985

5) Guerra in Afghanistan, 1979-1989

6) Operazione Solidarnosc, 1980-1989

Per quanto riguarda la Guerra nel Vietnam, l’intervento sovietico si limitò al sostegno militare esterno ai Viet-Kong del Nord, nell’ambito di quella che si apprestava a divenire una strategia di sostegno politico e militare alle “liberazioni nazionali” nelle zone in via di sviluppo, ancora non uscite completamente dal Colonialismo o attanagliate dall’Imperialismo.

Tutti gli altri eventi, videro al contrario il diretto coinvolgimento dell’Urss, tanto da contribuire a continue revisioni strategiche e logistiche.

Se, come visto, la Primavera di Praga, avrebbe per sempre costituito il cemento più arcigno per lo sviluppo di un muro politico e culturale ben più invalicabile di quello materiale costruito in Germania, tra l’Europa occidentale e il blocco del Patto di Varsavia, le prime vere e proprie destabilizzazioni interne minarono alle basi l’integrità dei Paesi Socialisti allo scopo di rompere un fronte eurasiatico che, al di là delle possibili differenze amministrative e delle fisiologiche differenze culturali, costituiva un fronte sterminato e invincibile, capace di andare dall’Europa orientale sino alla Corea del Nord.

Malgrado la traballante ratifica a Vienna degli accordi bilaterali con gli Stati Uniti sulla limitazione progressiva delle armi strategiche, nell’alveo del cosiddetto SALT II, Strategic Arms Limitation Talks, avviata nel 1972, e la politica di apertura euro-sovietica inaugurata dal Cancelliere delle Repubblica Federale Tedesca Willy Brandt, in segno di distensione, traducendo in una propositiva cooperazione quella che fino ad allora era sempre stata una competitiva corsa al confronto socio-economico tra l’Ovest e l’Est guidato dalla Repubblica Democratica Tedesca di Eric Honecker, la tensione sarebbe ben presto tornata a farsi sentire.

Nonostante una relativa tranquillità nella prima parte degli anni Settanta, continuavano dunque la corsa agli armamenti e l’avvio di programmi militari inequivocabili. Nel 1973 era già pronto il nuovissimo falco dei cieli statunitense, meglio noto come F14. Contemporaneamente, l’apparato sovietico sviluppava il programma Legky Perspektivniy Frontovoy Istrebitel (L.P.F.I.), dal quale prenderà corpo il grandioso velivolo MiG29. Forse la più avanzata e spettacolare creatura militare mai uscita dalle scuderie dell’apparato tecnologico-militare dell’Unione Sovietica, fu fotografato dai satelliti-spia americani sin dal suo primo volo di rodaggio nei cieli di Ramenskoye, vicino Mosca, nel 1977.

La tensione dottrinaria crescente con la Cina di Mao, che accusava da almeno dodici anni Kruscev, prima, e Breznev, poi, di revisionismo contro-rivoluzionario, non aveva mai messo in discussione l’unità continentale, tanto che la resistenza nazionale delle truppe di Ho Chi Minh in Vietnam fu sostenuta da entrambe le potenze comuniste.

Paradossalmente questa “tensione non ostile” fra Russia e Cina, avrebbe lasciato posto ad una tensione ben più aspra proprio con la progressiva scomparsa dalla scena politica del Rivoluzionario Cinese, e il fallimento del tentativo estremo della Banda dei Quattro. Alla fine degli anni Settanta, Deng Xiaoping aveva ormai nelle mani le redini del Partito ed un controllo completo sul Governo, potendo avviare sin dal 1978 una serie di riforme che in meno di due anni, modificarono radicalmente la situazione economica e geopolitica della Repubblica Popolare.

L’apertura al mercato ed il riformismo ponderato, malgrado alcuni importanti successi economici interni capaci di risollevare il Paese dalla grave crisi seguita al fallimento del Grande Balzo in Avanti voluto da Mao Zedong appena cinque anni prima, portarono rapidamente il grande gigante d’Asia ad un avvicinamento agli Stati Uniti, che de facto riuscirono ad isolare quasi completamente l’Unione Sovietica.

Proprio nel 1979, annus terribilis, in Afghanistan scoppia la tensione in seguito alle violente proteste dei mujaheddin islamici contro il governo socialista della neonata Repubblica Democratica Popolare dell’Afghanistan, guidata da Nur Muahmmad Taraki.

Il pronto intervento degli Usa, in cooperazione con il vicino Pakistan (fucina di terroristi musulmani), non si fece attendere, e su ordine del Presidente Jimmy Carter e dell’allora Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Zbigniew Brzezinski, i primi finanziamenti ai brutali gruppi terroristici islamici dell’Afghanistan giunsero sin dal Luglio del 1979. Nel frattempo, gli agenti destabilizzatori della Cia, potevano contare su uno dei tanti divide et impera asiatici, proprio grazie alla spaccatura interna al Partito Socialista, seguita alla morte mai chiarita di Taraki, che vedeva contrapposte la fazione di Hazifullah Amin (sospettato principale per la morte del Presidente) e quella di Babrak Karmal.

Il 24 dicembre dello stesso anno, un reparto speciale degli Spetsnaz, l’elite dei migliori uomini dell’esercito di terra sovietico, arriva a Kabul, e in tre giorni scova Hazifullah Amin che, accusato di essere una quinta colonna della Cia nella nazione asiatica e di aver complottato contro il legittimo governo della Repubblica Democratica, viene ucciso immediatamente.

Purtroppo, quello che sembrava l’avvio verso la conclusione di un rapido intervento di polizia militare, fu soltanto l’inizio di una lunghissima guerra di stallo, che durerà ben dieci anni, per effetto dell’importante supporto fornito ai guerriglieri islamici afghani da Stati Uniti e Gran Bretagna, esasperando un conflitto che provocherà ingenti perdite in termini umani e non solo.

Contemporaneamente, nasce in Polonia, Solidarnosc, un sindacato di ispirazione cattolica e socialdemocratica, che scatena un’ondata di entusiasmo nell’ottica dell’evento più importante di quel periodo sul piano istituzionale. L’elezione a nuovo Papa, del polacco Karol Wojtyla, aveva letteralmente condizionato la scena politica dell’intera Europa orientale. La spinta carismatica dell’ex Arcivescovo di Cracovia, fu decisiva per le sorti del movimento politico anti-sovietico fondato da Lech Walesa.

Robert Gates, ex Direttore dei Servizi Segreti degli Usa, in una recente intervista ammette di credere che “che nessuno prevedesse realmente l´impatto che Karol Wojtyla avrebbe avuto come Papa. Da parte sovietica – dice – c´era nervosismo alla prospettiva di un polacco eletto al pontificato, e per questo forse i sovietici erano più consapevoli di quanto lo fossimo noi delle potenziali conseguenze che avrebbe comportato per loro un Papa attivista proveniente dalla Polonia, in quanto a nostro giudizio molto sarebbe dipeso dal tipo di politica e di attività intraprese dal Pontefice. Ma negli Usa noi avevamo una sorta di arma segreta nella persona del consigliere per la Sicurezza Nazionale Zbigniew Brzezinski, che aveva conosciuto Karol Wojtyla ai tempi in cui era arcivescovo di Cracovia. A mio avviso Brzezinski, cattolico, era conscio più di chiunque altro nel governo americano del potenziale impatto del nuovo Papa”[3].

La spinta di Solidarnosc in Polonia, paese simbolo del Patto di Varsavia, si fondava su una scelta non-violenta, che in realtà mirava, col supporto atlantico, alla destabilizzazione delle fabbriche e dei luoghi di lavoro, attraverso scioperi e attività clandestine lungo tutti gli anni Ottanta.

Il Premio Nobel per la Pace assegnato nel 1983 allo stesso fondatore del movimento, contribuì ad incrementare l’attenzione dell’opinione pubblica del pianeta verso questo fenomeno ormai dilagante, che si estese, col tempo, a tutti i Paesi del blocco socialista.


SOVRANITA’ LIMITATA: INGERENZA NECESSARIA

Come abbiamo visto, l’opera abile e chirurgica di accerchiamento su tutti i fronti caldi dell’Unione Sovietica (tanto nell’Est dell’Europa quanto nel Centro dell’Asia), oltre al decisivo cambiamento di rotta della Cina, costrinsero l’Unione Sovietica ad una condizione di completo isolazionismo, che nemmeno i vari tentativi (pur provvisoriamente riusciti) di cooperazione con l’Europa (attraverso l’apertura dei Paesi Scandinavi e la Ostpolitik della Germania Ovest), poterono limitare o ribaltare.

Tuttavia Breznev non aveva certo atteso l’ultimo momento per organizzare le contromisure difensive più importanti ed efficaci. Come detto, la produzione militare proseguiva spedita, al di là delle pur minime distensioni regalate come immagini fugaci e piuttosto ingannevoli alla stampa mondiale.

Fu la Primavera di Praga, la prima avvisaglia importante per l’apparato strategico sovietico: quell’evento, più di ogni altro, calamitò l’attenzione delle alte sfere del Cremlino, e convinse il Soviet Supremo che fosse arrivato il momento di un forte e radicale cambiamento di rotta.

“Non possiamo ignorare le affermazioni, tenutesi in alcuni luoghi, che le azioni dei cinque paesi socialisti (Urss e altri alleati intervenuti in Cecoslovacchia, nda) siano in contrasto con il principio marxista-leninista della sovranità e dei diritti dei popoli all’autodeterminazione. L’infondatezza di un tale ragionamento consiste principalmente in quanto si basa su un approccio astratto e non di classe, alla questione della sovranità e dei diritti dei popoli all’autodeterminazione. I popoli dei paesi socialisti e i partiti comunisti certamente hanno e dovrebbero avere la libertà di determinare le modalità di avanzamento dei loro rispettivi paesi. Tuttavia, nessuna delle loro decisioni dovrebbe danneggiare o il socialismo nel loro paese o gli interessi fondamentali degli altri paesi socialisti, e di tutto il movimento operaio, che lavora per il socialismo” [4].

In queste prime e fondamentali righe, pubblicate originariamente dalla Pravda, che riportano fedelmente il discorso alla Duma del Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Leonid Il’ic Breznev, è probabilmente riassunto tutto il senso più profondo della sua omonima Dottrina.

La via di Lenin e Stalin, quella del diritto di autodeterminazione e del Socialismo in un Paese, veniva sostanzialmente sviluppata alla luce dei profondi cambiamenti sullo scacchiere intercontinentale, seguiti alla ratifica del Patto di Varsavia del 1955.

Le gestione dei Paesi socialisti, diventava sempre più complessa e le trame politiche si infittivano, costringendo nei fatti Mosca ad un maggiore margine di controllo.

La Dottrina Breznev è fondamentale non solo per comprendere la geopolitica adottata dal Cremlino in quegli anni decisivi per l’evoluzione storica della Guerra Fredda, ma anche per dimostrare quanto effettivamente, sino a quel momento, fosse stato piuttosto libero il raggio di azione delle nazioni dell’Europa orientale, contrariamente a quanto la propaganda occidentale abbia sempre voluto far credere.

La nuova politica di ingerenza attuata da Mosca, lasciava aperti molti dubbi e molti margini di riflessione, e la condanna verso l’Unione Sovietica di molta parte delle sinistre occidentali fu netta. Si parlò allora di social-imperialismo, richiamando a gran voce l’accusa che a suo tempo Lenin mosse a Kautsky, ma non si comprese evidentemente la doppia faccia mostrata dagli Stati Uniti in politica estera.

Se da un lato venivano proposti dalle presidenze Johnson, Nixon, Ford e Carter, in rapida successione, i vari protocolli del programma SALT e del programma SALT II, sulla progressiva limitazione dei missili balistici e della armi strategiche in genere, dall’altro lato, la Cia e l’intelligence atlantica si insinuavano continuamente in conflitti interminabili lungo tutta la dorsale asiatica, dal Vietnam all’Afghanistan, spingendo poi dall’Europa attraverso l’appoggio politico ai movimenti non violenti e alle rivoluzioni “vellutate”, nell’ambito di una trama che sembra tristemente ripetersi ancora oggi.


Note:

[1] G. NISSIM, Il grande equivoco del Comunismo nel mondo ebraico dopo Auschwitz, pubblicazioni Gariwo, 2000, p. 14

[2] G. PROCACCI, Storia del XX secolo, Mondadori, Milano, 2000, p. 414

[3] B. QUILICI, Karol Wojtyla: l’uomo che ha cambiato la storia, DVD Panorama (2006)

[4] Dalla Pravda, 25 Settembre 1968; tradotto da Novosti, Agenzia Stampa Sovietica. Ristampato in L. S. Stavrianos, The Epic of Man (Englewood Cliffs, N.J.: Prentice*Hall, 1971), p. 465-*466




LA DOTTRINA BREZNEV SULLO SFONDO DELLA GUERRA FREDDA « (http://rivistastrategos.wordpress.com/2010/04/13/la-dottrina-breznev-sullo-sfondo-della-guerra-fredda/)

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19-04-10, 15:16
La politica dell’URSS tra il 1975 e il 1985



di Marcello Graziosi


““Carneade! Chi era costui?” ruminava tra se don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l’imbasciata. “Carneade! Questo nome mi pare d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui? ””.

Non stupisca i presenti questo inusuale incipit manzoniano, che ha il pregio di descrivere nel migliore dei modi il clima di attesa che si respirava nella grande sala di San Giorgio, al Cremlino, nella serata del 15 novembre 1982, quando i massimi dirigenti delle maggiori potenze mondiali erano sul punto di incontrare il Segretario Generale del PCUS, Yuri Andropov, tre soli giorni dopo la nomina e cinque dopo la morte di Breznev. Se si parte dal presupposto che la CIA non aveva alcuna informazione certa relativa, ad esempio, alla moglie, non è difficile comprendere il grado di smarrimento dell’amministrazione Reagan, che aveva scommesso su una lunga fase di assestamento in URSS per il dopo Breznev.

Vale la pena anche per noi gettare un occhio su alcuni passaggi fondamentali della biografia politica di Andropov, originario del Caucaso del Nord e salito ai massimi vertici del partito e dello stato sovietico non più giovanissimo, all’età di 68 anni:

a) Dopo un ventennio di esperienza in diverse organizzazioni del Komsomol, nel luglio 1951 egli è stato trasferito a Mosca presso il Comitato Centrale, per poi essere inviato in Ungheria presso l’ambasciata dell’URSS. Nel corso del difficile anno 1956, Andropov ha tentato fino all’ultimo di evitare la precipitazione degli eventi, riuscendo a costruire un consenso sulla linea sovietica all’interno del gruppo dirigente ungherese, tanto da convincere Nagy a temporeggiare, ma anche lavorando per la prospettiva futura e proiettando ai vertici del partito ungherese Kadar, imprigionato all’epoca di Stalin, con una lungimiranza che sarebbe emersa a partire dagli anni immediatamente successivi;

b) ritornato a Mosca con l’incarico di guidare il Dipartimento del CC incaricato dei rapporti con i partiti comunisti al potere, ha vissuto in prima persona l’emergere delle divisioni e poi l’aperta ostilità tra Cina ed URSS, che tanto peso ha avuto e continua ad avere nelle relazioni interne al movimento comunista internazionale. Anche in questa fase Andropov, pur senza entrare in rotta di collisione con la maggioranza del Politburo, a partire da Suslov, pare aver tenuto una linea di maggiore prudenza, nel tentativo di salvare almeno l’unità d’azione strategica contro l’imperialismo. Nel frattempo, a partire dal novembre 1962, Andropov entrava a far parte del Segretariato del CC;

c) dal maggio 1967 al 1982 è stato designato alla guida del Kgb. La sua azione si è caratterizzata per la grande visione d’insieme, a partire dalla costruzione di profonde sinergie con la politica estera sovietica, per il grande equilibrio nel mantenere una struttura, divenuta influente, forte e moderna, sotto lo stretto controllo del partito, per la lotta alla corruzione. In questi anni Andropov, muovendosi con abilità e discrezione, ha tentato, pur se inutilmente, di modificare gli orientamenti del Politburo su due crisi esplosive come la Cecoslovacchia e, soprattutto, l’Afghanistan, onde evitare in entrambi i casi la precipitazione degli eventi ed il successivo (ed a quel punto difficilmente evitabile) intervento diretto sovietico.

Personalità complessa quella di Andropov, certamente non dogmatica, scrupolosa nell’analisi delle carenze del sistema, ma attenta a promuovere le modifiche individuate come utili non solamente con la gradualità necessaria, attraverso sperimentazioni e puntuali verifiche, ma senza mai debordare al di fuori del controllo del partito e della prospettiva di edificazione di un sistema economico e sociale socialista. Un compagno che ha sempre preferito il lavoro minuzioso ma di prospettiva alle azioni eclatanti ed alle dichiarazioni altisonanti (1). Questi tratti caratteristici li ritroviamo puntualmente in un lungo ed interessante articolo teorico redatto dal Segretario Generale del PCUS per la rivista Kommunist, fonte preziosa per comprendere l’impostazione analitica andropoviana (2)

“Io non possiedo ricette precostituite e non si possono affrontare le singole situazioni solamente attraverso frasi fatte”, ha esordito Andropov alla prima riunione del CC successivo alla sua nomina. Per poi sottolineare nell’articolo sul Kommunist: “Il marxismo non è un dogma, bensì una viva guida per l’azione, per il lavoro autonomo atto a risolvere i complessi problemi che ogni nuova svolta storica ci impone… Solo un siffatto atteggiamento verso il nostro inestimabile retaggio ideale, atteggiamento di cui Lenin diede un esempio, solo questo continuo autorinnovarsi della teoria rivoluzionaria sotto l’azione della prassi rivoluzionaria rendono il marxismo una scelta autentica e l’arte della creatività rivoluzionaria”.

Trasformazione economica e prospettiva socialista

L’attenzione al rilancio dell’economia sovietica costituisce il cuore dell’azione politica di Andropov, come elemento ineludibile nel momento in cui era fondamentale quella parità strategica con gli Usa tanto difficilmente raggiunta, a maggior ragione in una fase di logoramento delle relazioni internazionali. Non che l’economia sovietica fosse in crisi, e questo è bene precisarlo subito. E’ vero però che dopo una fase di crescita accelerata, favorita senza dubbio dai bassi livelli di partenza, nell’ultima fase della gestione brezneviana i tassi di sviluppo avevano subito un brusco rallentamento, dovuto tanto a fattori oggettivi (crisi economica complessiva), quanto ad elementi soggettivi o, per meglio dire, a quelli che erano emersi come limiti strutturali dell’economia sovietica. Il nodo irrisolto, al di là della fraseologia ufficiale relativa al “socialismo maturo” o “realizzato”, continuava ad essere quello del passaggio da un sistema di sviluppo incentrato di fatto sul modello staliniano, caratterizzato da una rigida pianificazione centralizzata e teleologica, da rapporti agrari collettivi e da uno sviluppo ipertrofico dell’industria pesante, e finalizzato ad una crescita estensiva e quantitativa della produzione, ad un modello più equilibrato, a partire tanto dal rapporto tra industria pesante e dei beni di consumo quanto dal rapporto quantità-qualità.

Nonostante diversi tentativi di riforma, alcuni traumatici e velleitari (Kruscëv), altri più graduali (Kossygin 1964-65, con l’introduzione di sistemi matematici di direzione e controllo dell’economia, uso degli incentivi economici legati ad efficienza e qualità dei prodotti e calcolo più razionale dei profitti aziendali), non si sono registrati significativi mutamenti, se non la predisposizione di Breznev a favorire la crescita dei consumi interni insieme al raggiungimento della parità strategica con gli Stati Uniti, con una conseguente rivoluzione delle aspettative del cittadino e, più complessivamente, di una società sovietica fattasi enormemente più complessa. Tutto questo richiedeva un salto di qualità dell’intero sistema economico sovietico, a partire dal superamento delle evidenti strozzature interne al sistema produttivo e dal miglioramento della qualità dei prodotti, da perseguire attraverso l’applicazione delle tecnologie più avanzate (rivoluzione informatica e microelettronica, automazione, robotizzazione), superando un ormai cronico calo della produttività del lavoro ed un evidente deterioramento nell’efficienza degli investimenti.

Il nodo teorico continuava ad essere quello del ruolo dell’economia di mercato e delle sue strutture nel contesto della transizione verso il socialismo con un dibattito che, pur senza raggiungere i livelli alti degli anni ’20, ha mantenuto i caratteri di apertura, pluralità e prospettiva (3)

Per dirla con Andropov, “Non si può non vedere che il nostro lavoro diretto al perfezionamento ed alla riorganizzazione del meccanismo economico, delle forme e dei metodi di gestione, è rimasto indietro rispetto allo sviluppo tecnico-materiale, sociale e spirituale raggiunto dalla società sovietica”(4). Di conseguenza, occorre “attuare l’automazione della produzione, assicurare l’ampio ricorso a computer e robot, l’introduzione di una tecnologia flessibile che permetta di riconvertire rapidamente ed efficacemente la produzione per la fabbricazione di nuovi prodotti”(5)

Come fare? A partire dal marzo 1983 è stato introdotto il “contratto collettivo” prima in agricoltura e poi, attraverso un’attenta e verificata sperimentazione, in cinque settori dell’industria, sulla base dei principi contenuti nella Costituzione del 1977. Questo elemento, unito a sistemi di valutazione basati sulla capacità per ciascuna azienda di tener fede a contratti liberamente stipulati con altre imprese, era volto a stimolare l’autonomia e la responsabilità delle singole aziende, all’intero delle quali i gruppi dei lavoratori organizzati potevano proporre, consigliare o suggerire cambiamenti, con il dovere da parte dei dirigenti di fornire risposte adeguate alle istanze provenienti dal basso. In questo modo, una pianificazione locale si sarebbe affiancata a quella centrale, con un obiettivo futuro: una sorta di autogestione.

Non è un caso che nel corso dei lavori del CC del giugno 1983 si siano poste le basi per un aggiornamento complessivo del Programma del PCUS, il quarto dopo la Rivoluzione, dal momento che alcune tesi “non hanno retto del tutto alla prova dl tempo, poiché contenevano elementi di distacco dalla realtà, di fuga in avanti, e si addentravano ingiustificatamente nei particolari”. Con un obiettivo: “Un’analisi realistica – sono parole di Andropov – della situazione esistente e chiari punti di riferimento per il futuro, che saldino l’esperienza della vita con gli obiettivi finali del nostro Partito Comunista”(6)

Contemporaneamente, non si è fermata la campagna contro la corruzione, costata il posto a diversi ministri ed esponenti di primo piano del governo sovietico, elemento questo tutto sommato inusuale negli anni precedenti.
I risultati per l’anno 1983 sono noti, con un miglioramento complessivo e non scontato dell’intera economia sovietica, a partire da uno settori di maggiore sofferenza, nonostante i grandi investimenti degli anni precedenti, quello agricolo e zootecnico.

Dalla distensione alla ripresa della guerra fredda

Sul piano delle relazioni internazionali, il periodo brezneviano ha segnato il superamento dell’unipolarismo statunitense, determinatosi dopo Hiroshima e Nagasaki, attraverso la “distensione” e la possibile “convivenza pacifica”, vero e proprio faro della politica estera di Breznev e Gromyko, in grado di sostituirsi gradualmente alla guerra fredda. In questo contesto, l’Unione Sovietica, dopo l’esperienza negativa della crisi dei missili a Cuba del 1962, ha raggiunto la parità con gli Usa, non solamente sul piano della forza nucleare, ma anche nella “capacità di proiezione militare complessiva nelle varie aree del mondo”(7)

Il quadro della distensione ha retto fino a quando, negli Stati Uniti, ha riprenso vigore il dibattito sul “cui prodest?”, partendo dal declino della supremazia statunitense nel mondo (dall’affermazione dei movimenti di liberazione nazionale in Africa e paesi arabi, alla formazione di governi progressisti in America Latina, dalle crescenti difficoltà incontrate in Vietnam, alla crisi petrolifera). Da questo punto di vista, all’irrigidimento dell’ultima parte dell’amministrazione Kennedy seguiva l’aperta ostilità di Reagan nei confronti dell’URSS, con la crisi sugli euromissili, gli interventi diretti in America Centrale, l’Iran, il sostegno a Solidarnosc in Polonia, il sostegno agli integralisti islamici in Afghanistan.

Un ritorno alla Guerra Fredda razionalmente perseguito dall’amministrazione Usa, da una nuova corsa agli armamenti alla dottrina delle “aree di interesse vitale” per la riconquista dell’egemonia, dall’elaborazione di una politica economica volta a sfruttare la spirale del debito contro i paesi socialisti (Ungheria e Polonia in primis) ma anche per assoggettare e ricattare il terzo mondo (con i movimenti di liberazione equiparati a santuari del terrorismo), alla crociata ideologica contro l’ ”Impero del Male”. Una strategia che ci conduce inesorabilmente all’oggi, dopo la vittoria delle forze controrivoluzionarie in URSS ed un decennio di guerre e conflitti imperialisti imposti dagli Stati Uniti per il mantenimento della propria egemonia economica e militare contro l’umanità intera ed il diritto internazionale, nonostante la crisi attuale del sistema capitalistico nella sua dimensione globalizzata. Con un obiettivo finale: colpire la Cina (a proposito di transizioni dal capitalismo al socialismo…).

Questa la situazione ereditata da Andropov, con la necessità urgente di reagire di fronte all’offensiva totale scatenata dall’imperialismo Usa, senza tuttavia intaccare i pilastri della politica estera brezneviana e, soprattutto, partendo dal presupposto che “è più facile costruire una nuova società attraverso un rilassamento delle tensioni ed una riduzione della corsa agli armamenti”(8). Quali, in questo difficile contesto, gli orientamenti di fondo della politica estera sovietica?

a) lavorare sì ad un compromesso con gli Stati Uniti a partire proprio dalla crisi sugli euromissili, ma tentando di influenzare il dibattito e le opinioni pubbliche dei paesi dell’Europa Occidentale nel tentativo, purtroppo fallito, di smascherare l’intransigenza dell’amministrazione Reagan, ritenuta irrimediabilmente reazionaria, e favorire l’elezione di governi meno ostili all’URSS di quanto non fossero quelli guidati da Thatcher, Mitterand e Kohl. Una volta fallito il tentativo, Andropov ha rifiutato qualsiasi vertice ai massimi livelli con gli Usa che non garantisse il ritorno alla distensione, ribattendo colpo su colpo alle campagne di Washington;

b) riconciliazione con la Cina pur senza alcuna concessione unilaterale, ma nella consapevolezza della necessità di evitare l’isolamento e partendo dal presupposto che non esiste un unico percorso per costruire il socialismo e che, di conseguenza, se si intende consolidare la coesione dei comunisti, occorre partire dall’analisi scientifica oggettiva delle eventuali divergenze;

c) tentativo da una parte di rilanciare una soluzione politica in Afghanistan, resa impossibile dall’atteggiamento pregiudizialmente ostile degli Usa, e, dall’altra, di recuperare parte dell’influenza perduta in Medio Oriente, giungendo ad un accordo di pace che vedesse l’URSS come co-garante insieme agli Usa;

d) stringere i ranghi in Europa Orientale ma senza interventi diretti da parte sovietica, tentando di introdurre quelle riforme in grado di riavvicinare i partiti al potere con le rispettive società civili, mantenendo il più possibile inalterato il ruolo guida dei comunisti.

Nel suo intervento scritto inviato al CC del dicembre 1983, Andropov ha sottolineato che “Con le decisioni elaborate collettivamente dal Plenum di novembre abbiamo scosso i lavoratori, li abbiamo orientati verso un buon lavoro ed abbiamo generato così grandi aspettative. Molto è stato fatto, ma molto è ancora da fare”. Una sorta di epigrafe, che avrebbe potuto e dovuto consegnare ai successori la testimonianza viva della possibilità di riformare anche in profondità il sistema sovietico, avendo come punto di riferimento la costruzione di una società socialista prima e comunista poi, senza fughe in avanti ma con la necessaria elasticità, con fiducia nella prospettiva strategica dei comunisti e dell’URSS e senza cedere all’offensiva del capitalismo e delle forze controrivoluzionarie. Si sarebbe potuto osare, ma non si è osato, e la storia ha preso una piega differente, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutto il mondo. Dobbiamo avere la forza di chiederci il perché, con umiltà certo ma anche con la necessaria fiducia nella nostra prospettiva.


NOTE:
1) Per una biografia di Andropov, J.Steele ed E. Abraham, Andropov in power. From Komsomol to Kremlin, Martin Robertson, Oxford 1983. Inoltre, S. Bertolissi, “L’ascesa di Jurij Andropov”, in “Rinascita”, n. 44, 19 novembre 1982.
2) J. Andropov, “L’insegnamento di Karl Marx e alcuni problemi dell’edificazione socialista nell’Unione Sovietica”, in “Nuova unità”, 12 maggio 1983.
3) Un dibattito troppo spesso trascurato o sottovalutato, che ha attraversato l’intera esperienza sovietica, sebbene non con la stessa intensità, sul quale occorre investigare a fondo, senza schematismi e preconcetti.
4) Andropov, “L’insegnamento di Karl Marx…”, cit., p.8.
5) J. Andropov, “Relazione al plenum del Comitato Centrale (15 giugno 1983)”, in “URSS Oggi”, Anno XII, n.11 (giugno 1983), p.9.
6) J. Andropov, “Relazione…”, cit., p. 7.
7) R. Ledda, “Distensione sì, ma anche parità con gli USA”, in “Rinascita”, n. 44, 19 novembre 1982.
8) Andropov sulla Pravda del 23 aprile 1976. In Steele/Abraham, cit., p. 146.




La politica dell’URSS tra il 1975 e il 1985 (http://www.resistenze.org/sito/te/po/ru/poru3n03.htm)