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Visualizza Versione Completa : Unità d'Italia? 1861? si, ma avanti Cristo...



Miles
19-04-10, 09:52
L'ITALIA ERA GIÀ UNITA TREMILA ANNI FA

di Claudio Finzi

C'è una mostra a Roma al Museo preistorico ed etnografico Luigi Pigorini, che merita di essere visitata, se non altro per il suo carattere implicitamente polemico. Salite agli ampi scaloni e leggete titolo e sottotitolo: Prima Italia – l'arte italica del I millennio avanti Cristo. Problemi e polemiche incominciano già qui. E non solo fra i visitatori; non vanno d'accordo neppure gli organizzatori.

Prima Italia ricorda curiosamente la denominazione che il puro folle della fantarcheologia francese, Robert Charroux, aveva attribuito a quella che comunemente chiamiamo preistoria: primaistoria. Un caso fortuito, certamente, ma pur sempre divertente. Il sottotitolo poi è un concentrato di provocazioni.

Altro che l'ennesima mostra riguardante le cose bella, ma lontanissime, una disquisizione per immagini sui risultati archeologico-estetici di quanto è stato recuperato delle residue testimonianze artistiche prodotte sulla penisola italiana fra il 1000 avanti Cristo e la fine dello stesso millennio. Altro che eruditi discorsi; qui si è nel pieno del dibattito sollevato a suo tempo da Carlo Alienello, sul significato dell'unità italiana; siamo nel cuore di quanto si è appena discusso proprio in questi stessi giorni durante il nono incontro romano organizzato dalla Fondazione Gioacchino Volpe, intitolato «Cultura e nazione negli anni Ottanta», al quale, non a caso, hanno partecipato in prima fila antichisti come Giuliano Bonfante e Mario Attilio Levi.

Insomma, di fronte a tutti coloro che a destra e a sinistra indifferentemente, negli ultimi decenni hanno sostenuto e sostengono che l'Italia del 1861 è una mera finzione giuridica, che ha sostituito l'espressione geografica del Metternich, si presentano gli archeologi guidati da Massimo Pallottino ad affermare che invece quest'Italia non è una mera finzione giuridica, non solo non è una mera espressione geografica, ma è al contrario una solida realtà vecchia di ben tremila anni. Il che non è poco; è potrebbe spiegare perché questo strambo Paese riesce a sopravvivere arrancando tra le ferite della seconda guerra mondiale, le lacerazioni della guerra civile che ci si ostina a tenere aperte, una ripartizione regionale assurda è irreale che non ha nulla a che vedere né con la geografia né con la storia né con l'economia.

Né è un caso che si sia giunti a organizzare una mostra come questa. Poco importa il motivo occasionale, cioè una richiesta belga di mostra italiana in occasione del centocinquantesimo anniversario del regno del Belgio. Importa invece che alla richiesta di un'ennesima rassegna di arte etrusca Massimo Pallottino, nella sua qualità di presidente dell'Istituto di studi etruschi e italici, abbia risposto con la controfferta di una esposizione dedicata a tutta l'Italia preromana, quella appunto che da Bruxelles oggi è giunta a Roma in attesa di trasferirsi ad Atene per celebrare l'ingresso della Grecia nella comunità economica europea.

Sembra dunque che ci sia resi finalmente conto dell'esistenza di un qualcosa in antico, che non è l'Italia romana, ma che non è neppure l'Italia etrusca con la quale l'Italia non romana finora era stata identificata. Tutte le regioni italiane vengono riportate in primo piano, non tanto in contrapposizione ad un'Italia etrusca prima e romana poi, bensì in quanto elementi costitutivi di un organismo anteriore, che nell'Italia romana sarà poi inserito e trasfuso, senza peraltro perdere la propria individualità e le caratteristiche peculiari di ogni stirpe e di ogni zona. In altre parole la mostra vuole presentare quella unità nel molteplice, che secondo quanto ha detto all'incontro della Fondazione Gioacchino Volpe il filosofo Marino Gentile, è la vera essenza della nazione, intesa in senso non giacobino, cioè livellatore e astrattamente unificatore.

Ma… i ma e i problemi sono numerosi. Il primo è dato dalla massiccia presenza degli etruscologi. Oltre il prof. Pallottino i tre principali artefici sarebbero tutti etruscologi, e fin troppi degli oggetti esposti sono etruschi o di area etrusca. All'obiezione, che circola tanto tra i visitatori quanto tra gli organizzatori, lo stesso Pallottino risponde vivacemente che le cose non stanno così. I quattro, egli stesso compreso, «non sono etruscologi, bensì studiosi delle culture e civiltà dell'Italia preromana. Come d'altronde indicano anche i titoli delle loro cattedre universitarie». Né vi sono troppi etruschi alla mostra; tutta l'Italia è rappresentata, anche quella settentrionale. Restano fuori in parte le isole, le quali peraltro allora erano di fatto fuori in massima parte dal contesto italiano.

D'altra opinione Sebastiano Tusa, archeologo che ha partecipato in prima fila all'organizzazione. Siciliano, non può accettare la scarsa presenza della sua isola nel contesto dell'esposizione; si sente posto in un canto; in senso storico-archeologico, dagli etruschi e dagli etruscologi.

Altra grande assente, ma in modo più curioso, la Sardegna. E questo ci sembra inspiegabile, soprattutto dopo la scoperta di Monti Pramma, dove sono venute in luce numerose statue a grandezza maggiore del naturale risalenti (secondo il catalogo; ma perché curiosamente la schedatura di pezzi protostorici è stata affidata a un classicista?) al VII secolo a.C.

L'altro punto dibattuto è il carattere della mostra, impostata per temi e non per culture o cronologie, così da essere, forse, non facilmente comprensibile da un pubblico totalmente profano. «Il problema non è qui, nella mostra», ci dice ancora Sebastiano Tusa, «bensì a monte. Dobbiamo e possiamo discutere se è ancora il caso di fare mostre come questa, a carattere storico-artistico, ma una volta accettato il principio la critica interna diviene inutile e sterile». D'altronde, questo è forse il modo più facile per colpire il pubblico. Ed è anche il terreno dove più facilmente riscontriamo un'effettiva comunanza tra popolazioni diversissime, come furono quelle dell'Italia preromana, fra le quali proprio le sollecitazioni artistiche ed estetiche venute dal di fuori spinsero artigiani, ceramisti e bronzisti, verso una unificazione parziale delle forme. E per quanto si voglia concedere agli altri elementi della vita umana, anche la categoria del bello esiste e non può essere cancellata.

Ma non è l'unico terreno d'incontro. Nell'Italia del primo millennio convivevano lingue indoeuropee e lingue non indoeuropee; eppure «tra tutte esiste, almeno a partire dal VI secolo avanti Cristo» ci dice un glottologo come Giuliano Bonfante, che ha già visitato due volte la mostra e la definisce bellissima «una certa concordanza è assonanza. Si pensi al diffondersi della scrittura, mezzo potentissimo di unificazione. Ma anche i lessici si influenzano con un continuo scambio di elementi e parole, che investe tutto il complesso delle lingue parlate in Italia tanto indoeuropee quanto non indoeuropee».

L'Italia sembra esistere quanto meno da 25 secoli. Aveva dunque ragione Dante quando, accomunando pietosamente vincitori e vinti, scriveva «di questa umile Italia fia salute/per cui morir la vergine Camilla/Eurialo e Turno e Niso di ferute».

Non a caso uno degli elementi di forza di questa unione contrastata e contrastante fra le stirpi preromane è data dal culto di Ercole, diffuso quasi ovunque come testimoniano le centinaia di statuine bronzee raffiguranti l'eroe, ritrovate in tutte le regioni italiane. Una viene persino da Posada, sulla costa orientale della Sardegna. E con gli eroi e le loro tradizioni si mischiano le fedi religiose, i riti, le costumane e le consuetudini. Grazie anche agli stimoli esterni, fortissimi nel campo artistico già in età arcaica ma non assenti negli altri settori della vita umana; stimoli che non viaggiano soltanto con gli oggetti, ma sono portati da uomini che dall'VIII secolo e VII secolo dal Levante e anche dal lontano oriente e che lasciano traccia in qualche residuo onomastico o in qualche corredo tombale. Forse qualcuno giunse direttamente fin dai lontani paesi mesopotamici della scrittura cuneiforme.

Questa Italia, questa civiltà italica così composita non fu cancellata dagli influssi esterni, che la stimolarono, ma non la uccisero né la livellarono. Non avvenne allora quella «razionalizzazione» della cultura e dello stesso paesaggio, denunciata all'incontro della Fondazione Volpe da Rosario Assunto per le epoche più recenti. Più tardi ancora Roma diede un diritto e una lingua comuni, ma non cancellò la natura delle popolazioni della penisola, che conservarono culti e religioni, abitudini e dialetti, benché un certo sincretismo e una certa pagina generale divenissero operanti. Fu un giusto equilibrio, riconoscibile anche attraverso alcune manifestazioni peculiari della cosiddetta arte provinciale.

Ma la prova migliore del fatto che Roma non abbia sradicato le popolazioni italiche è data dal ricomparire nell'alto medioevo e anche più tardi di forme artistiche tipiche dell'astrattismo e del geometrismo preellenistico e preromano. «Ci sono consonanze impressionanti (è l'opinione di Umberto Broccoli, ispettore medievalista alla soprintendenza archeologica di Ostia antica) fra l'arte italica e l'arte medievale di quasi ogni parte d'Italia, con poche e rare eccezioni. Conosco direttamente per studio la Lunigiana, il Lazio, l'Abruzzo; ovunque dopo l'età romana riappare il geometrico e l'astratto delle età più antiche. Direi quasi che esistono consonanze fra il guerriero di Capestrano, il celebre capolavoro della protostoria abruzzese, e i rilievi sempre abruzzesi, di San Pietro ad Oratorio.».

Insomma, Sabini, Peligni, Marsi, Peuceti, Dauni, Nuragici, Veneti, non sono mai morti e riappaiono nel medioevo, quando possiamo quasi dire nel Lazio ritornano anche i Latini, non più Romani in senso imperiale, ma popolazione italica fra popolazioni italiche.

Il problema è che queste nuove angolazioni non divengano motivo di rivendicazioni particolaristiche vera e propria negazione della coesistenza in quello che fu lo stato romano. Il rischio è meno improbabile di quanto non possa apparire. E se quasi 150 anni fa il Canina usava le scoperte in Etruria per motivi campanilistici antinapoletani, oggi il pericolo è di voler ritrovare non già una Prima Italia (e per Giuliano Bonfante l'aggettivo prima rischia che si pensi a una seconda e così via, rompendo l'unità storica), bensì per frantumare l'Italia attuale in una miriade di particelle. Per passare insomma da una Italia dalle regioni ritagliate illuministicamente su una assurda carta pseudostorica e pseudogeografica a una Italia a pezzetti storicamente altrettanto illegittima. In qualche regione l'archeologia è già stata usata come arma per la politica attuale. Con risultati che se risibili non sono per questo meno pericolosi.

Da «il Settimanale», a. VIII, n. 17, 28 aprile 1981.