Cabraizinho
27-04-10, 15:00
Come promesso, ecco il thread dove discutere di un tema che sta a cuore a noi tutti.
Quando si parla di rivoluzione liberale si fa riferimento ad un complesso sistema di riforme istituzionali, politiche, economiche e sociali continuamente invocate ma mai portate avanti. Quello di Rivoluzione Liberale è ormai degradato al livello di semplice slogan, portato avanti con fini propagandistici da chi ha interesse a mostrarsi come rinnovatore. Almeno a parole.
Prima di addentrarci nei meandri di ciò che riformeremo, tuttavia, la domanda nasce spontanea. Perchè tale complesso di riforme non è mai stato portato avanti? A mio giudizio, si ricade in uno dei problemi storici del nostro paese: l'assenza di un partito liberale in grado di farsi portatore di tali istanze. Proprio qui in questo forum seguiamo le vicende dei LiberalDemocratici inglesi, partito che personalmente vedo un pò come punto di riferimento. Ma più seguo le vicende di politica estera, le stesse che ci hanno presentato una FDP in fortissima crescita ed i LibDem che si avvicinano addirittura al 30%, più sono vittima di una sorta di scoramento.
Dal momento che siamo qui per discutere, non per abbatterci, inizierei con questo interessante articolo
Perchè la cultura liberale è rimasta senza partito liberale (http://www.loccidentale.it/articolo/perch%C3%A8+la+cultura+liberale+%C3%A8+rimasta+sen za+partito+liberale.0067878)
di Dino Cofrancesco
Il grosso volume, I liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica, curata da Fabio Grassi Orsini e da Gerardo Nicolosi-- ed. Rubbettino--con i suoi trentadue contributi, per lo più di alto livello scientifico, rappresenta un’occasione utile per ripensare la storia di un partito e di una ‘cultura politica’che, anche nel secondo dopoguerra, hanno segnato in qualche modo il nostro paese e contribuito,nel bene e nel male, a orientarne le scelte di fondo. L’ottica con cui si guarda alle complesse vicende che hanno unito e diviso i liberali italiani è ormai profondamente mutata in virtù di due fratture epocali, ‘strutturale’, l’una, ‘sovrastrutturale’ l’altra, per servirci delle vecchie categorie marxiane. La prima riguarda il crollo dell’impero sovietico e quindi la fine del ‘socialismo reale’, almeno nel continente europeo, un dramma storico non retoricamente definito un ‘secondo ’89; l’altra si riferisce al mutato paradigma interpretativo del mondo contemporaneo iscritto nel revisionismo storiografico dei Renzo De Felice, dei François Furet, degli Ernst Nolte.
Entrambe le rivoluzioni non ci consentono più di privilegiare l’asse destra/sinistra nella ricostruzione delle politiche liberali e delle varie e conflittuali correnti che, involontariamente, con i loro progetti e programmi spesso inconciliabili, relegarono il PLI tra i partiti ‘minori’. Il crollo dell’Unione Sovietica, preceduto da anni di repressioni militari nei paesi satelliti, ha portato a guardare con minore sospetto ideologico all’anticomunismo ‘viscerale’ di cui il PLI fu, forse, l’espressione più intransigente: il sistema comunista era realmente malato e l’economia collettivista, sulla quale si fondava il potere delle classi dirigenti, era davvero insostenibile e non riformabile dall’interno-- contrariamente a quanto pensavano persino scienziati politici del prestigio intellettuale di Raymond Aron. La diversa valutazione del fascismo e la fine della ‘vulgata’, che sembrava ormai senso comune nella saggistica e nei manuali scolastici dell’Europa continentale, dal canto loro, hanno indotto a una diversa considerazione del contrasto che oppose (e oppone ancora oggi) il liberalismo di sinistra, di ascendenza gobettiana e parente stretto dell’azionismo, al liberalismo di centro e di destra, legato a maestri pur diversi come Benedetto Croce e Luigi Einaudi.
A leggere le relazioni e le testimonianze del volume, chi se la sentirebbe, in tema di interpretazione di ciò che è stata o avrebbe dovuta essere la Resistenza, di stare dalla parte di Alessandro Galante Garrone o di Ferruccio Parri ,che la intendevano come una vera e propria rivoluzione morale e intellettuale intesa a <rifare l’anima dell’Italia>, e non dalla parte di Edgardo Sogno che l’aveva fatta e vissuta come liberazione della patria dallo straniero, come un soprassalto di dignità e di orgoglio nazionali feriti? Erano a destra quanti, interpretando il bisogno di sicurezza e di ordine fortemente sentito dagli Italiani dopo anni di guerra e di privazioni, non accettavano la logica dell’epurazione che, a tener dietro a un ‘moderato’ come Ugo La Malfa, avrebbe privato per un tempo indefinito, i corpi di polizia, l’esercito, gli apparati statali e quelli industriali dei loro quadri dirigenti paralizzando la vita nazionale proprio in un momento in cui ci si doveva imboccare le maniche nella ricostruzione? E quali garanzie di libertà e di rispetto dei diritti civili avrebbe dato il modello di governo del CLNAI, così inviso al PLI ma non ai tre partiti di sinistra—PdA, PCI, PSI—che avrebbero voluto imporlo all’intera penisola, affidando questure, prefetture e altri importanti uffici governativi agli <uomini della Resistenza> ovvero a formazioni egemonizzate da militanti che non credevano nella democrazia liberale e si apprestavano a conquistare il potere ‘a furor di popolo?’.
Ha ragione Eugenio Capozzi quando, nel suo saggio su La destra liberale e la segreteria di Lucifero (1947-1948), fa giustizia della <vulgata politica e storiografica> che vede in scelte <troppo(o troppo poco) di destra> la spiegazione del declino liberale. E tuttavia lo studioso, che si disfa troppo presto dell’accusa rivolta al PLI di essere <partito d’elite e non di massa>, non pare avvedersi che tale accusa è dimostrata proprio dal suo pertinente rilievo che la classe dirigente liberale <si era mossa culturalmente e politicamente su piani scarsamente comunicanti e non era mai stata unita da un progetto forte e condiviso>, cosa che capita, appunto, ai partiti di <notabili>, specie quando sono appesantiti, per riprendere le parole di Luigi Compagna, da ‘grandissime personalità, come Orlando, Croce, De Nicola, Einaudi, Nitti.
In realtà, la sconfitta del liberalismo italiano come partito—la ‘cultura liberale’ fu altra cosa e giustamente in diversi saggi si è fatto rilevare quanto contribuisse a orientare le scelte di Alcide De Gasperi e prima ancora a influire sull’elaborazione del testo costituzionale (Carlo Ghisalberti, però, enfatizza troppo a mio avviso l’apporto liberale alla nostra Magna Carta)—la sconfitta del liberalismo, dicevo, riflettendo sui contributi del volume, è un portato oggettivo degli eventi e pertanto solo in parte è attribuibile a manchevolezze di uomini, a ritardi culturali, a incomprensioni dei nuovi contesti interni e internazionali.
Innanzitutto, c’è un dato duro come l’acciaio e grande come una montagna: il simbolo di identità dei liberali era lo stato nazionale costruito dai ‘padri del Risorgimento’ e questo stato si era gravemente ammalato, col fascismo, ed era poi rovinosamente caduto, con la sconfitta militare. La <continuità> che il partito--come spiega Vera Capperucci nel suo bel saggio I liberali alla Consulta e alla Costituente-- intende affermare <proprio attraverso il richiamo agli ideali e ai valori dell’Italia unita del Risorgimento> non è un valore che le masse di italiani denutriti, sfollati, rimasti orfani e vedovi sentono come costitutiva e irrinunciabile identità, pur scontando quel clima di terrore--su cui ha richiamato opportunamente l’attenzione, dopo mezzo secolo di silenzi complici e di rimozioni interessate ,Fabio Grassi Orsini-- che portò tanti borghesi a porsi <sotto le ali protettrici della DC>. A ereditare l’Italia di Cavour erano due famiglie politiche, la cattolica e la socialcomunista, che non solo non avevano partecipato alla sua costruzione—ove si eccettuino le correnti minoritarie di cattolici liberali e di ‘socialisti risorgimentali’—ma l’avevano seguita con diffidenza e ostilità, come creazione di frammassoni o nuova patria di <lor signori>. A questa estraneità si aggiungeva il rifiuto delle famiglie sconfitte dalla soluzione unitaria e sabauda a considerare il Risorgimento ‘en bloc’, come la Terza Repubblica voleva che si facesse per la rivoluzione francese. Il tricolore italiano non ricongiungeva tutti gli eredi del ’48 e del ’61 e le recriminazioni su ciò che era andato storto erano destinate a perpetuarsi all’infinito, con i rimpianti dei mancati esiti diversi. (<Ah se avesse vinto Mazzini! O Cattaneo! O, prima ancora, Cesare Balbo!>)
<Il liberalismo ha fatto l’Italia, il liberalismo la ricostruirà>, il manifesto elettorale del PLI per la Costituente—ricordato da Gerardo Nicolosi nel suo intelligente e documentato saggio Il nuovo liberalismo—parlava di un ‘mito politico’ riferito alla <comunità politica>-- lo Stato in quanto tale-- che era lo stesso che, con buona pace di quanti vedono nel fascismo una ‘species’ del ‘genus’ totalitarismo--sorreggeva l’autolegittimazione etica e politica delle camice nere: con una differenza fondamentale, però, che nel 1918 lo Stato aveva vinto la guerra, mentre nel 1945 non solo l’aveva persa ma era uscito definitivamente dal concerto delle ‘grandi potenze’.
Se questo è vero per la dimensione ‘comunità politica’, un ben diverso discorso va fatto per la dimensione ‘regime politico’.Qui i liberali potevano contare su un punto di forza, che, retrospettivamente, li collocava in una posizione ‘civilmente’ più elevata rispetto a tutti gli altri partiti: una concezione, per così dire, compiutamente laica e secolarizzata della democrazia, del ruolo del Parlamento, dell’alternanza dei partiti al governo, delle libertà civili e politiche. A differenza degli azionisti che, ancora con Duccio Galimberti, non ne volevano sapere di partiti e disprezzavano profondamente quel poco di democrazia liberale che si era avuta nell’Italia umbertina e giolittiana (si veda la polemica di Benedetto Croce con Ferruccio Parri e lo stesso intervento illuminante e coraggioso di Gaetano Salvemini sulla ‘democrazia in cammino’..), i liberali non esitavano neppure un istante—anche sul versate destrorso di un Roberto Lucifero—a vedere nelle istituzioni parlamentari anglosassoni il ‘termine fisso d’eterno consiglio’.
E tuttavia anche questa gloria elettoralmente non poteva dirsi un asso nella manica giacché la <civic culture> italiana era e continuerà a lungo ad essere condizionata dalla ‘rivolta contro il formalismo, dalla diffidenza nei confronti delle ‘procedure’ che non risolvono subito i problemi degli individui e delle famiglie, dal disprezzo della logica <un uomo, un voto> suscettibile di dare troppo spazio alla ‘plebe’ovvero a un popolo non inquadrato ed educato nei partiti, nei sindacati, nelle cooperative. <La libertà che scalda i cuori> e illumina le menti non poteva essere apprezzata granché tra le macerie dei bombardamenti, la distribuzione delle coperte dell’Unra Casas, il cambio e la circolazione delle amlire.
A questo fattore di debolezza si univano, infine, due caratteristiche tra loro intrecciate, l’elitismo e l’antiqualunquismo. L’indubbio spirito elitario, quel <senso di superiorità, culturale, politica e morale, rispetto alla rozzezza> degli avversari, di cui scrive Luciano Zani, nel suo profilo di Luigi Albertini oppositore liberale, sarà a lungo un tratto distintivo dei notabili del partito. Come Gaetano Mosca, il politologo del loro Pantheon, i liberali ritenevano che l’elite del potere,distinta dalla classe diretta, fosse un dato ineliminabile della politica, ma non avevano compreso che, nell’età delle masse, i galloni di comandante si acquistano sul campo, convincendo un numero sempre più grande di elettori a dare il loro sostegno alla causa: non dipendono da rendite di posizioni (economiche o intellettuali).
Senso della democrazia, sì, ma non della ‘democrazia di massa’! E questo a mio avviso, aveva un qualche rapporto significativo con l’ interpretazione ‘parentetica’ del fascismo. In nessuno dei saggi riportati nel volume—penso, soprattutto, a quello citato di Zani su Albertini o di Elio D’Auria su Giovanni Amendola—si trovano un qualche barlume di un giudizio storiografico e sociologico non meramente demonizzante, una comprensione, sia pure nella critica più dura, dell’oggettività e della <necessità> del fascismo come risposta sbagliata(e liberticida) a problemi reali indotti dalla <mass society> e che la classe dirigente liberale non era stata in grado di affrontare. La sottovalutazione dei nuovi ‘stili politici’ si ripresentava nel secondo dopoguerra, traducendosi in progetto di bonifica dell’Italia barbara, della provincia profonda, delle campagne di don Camillo e di Peppone. Così un settimanale, inequivocabilmente attestato su posizioni liberali, come ‘Il Mondo’ di Mario Pannunzio, esaminato nel lungo saggio di Antonio Cardini, poteva, in qualche modo, ricongiungersi alla ‘cultura azionista’—pur ad esso non poco estranea, come ha dimostrato Pierfranco Quaglieni (è non poco significativo che Norberto Bobbio non avesse mai collaborato al ‘Mondo’)—nell’esecrazione di quelle plebi rurali e urbane condizionate dall’<orientamento filofascista e qualunquista assai diffuso nella stampa degli anni Quaranta e Cinquanta>.
<Pannunzio, scrive Antonio Cardini, rimproverava ai nuovi dirigenti di essersi posti su un terreno che rispondeva a certe attese immediate e a certi timori della piccola borghesia>. Era vero ma in una democrazia compiuta—‘laica e secolarizzata’ ,appunto—quelle attese e quei timori non veicolavano interessi e valori dei quali si sarebbe dovuto tener conto, a meno di non aver in mente una gerarchia di bisogni portata a riguardare gli uni come oggettivamente progressisti e gli altri come oggettivamente reazionari?Se il modello doveva essere quello angloamericano, sarebbe stato più realistico per il partito liberale porsi come il polo conservatore della rinata democrazia o mirare ad esserne il polo laburista (togliendo la leadership a socialisti, comunisti, socialdemocratici)? E’ indicativa la sorte toccata ai nuovi liberali. Come scrive Gerardo Nicolosi parlandone: <la rinuncia a un partito della borghesia e la preferenza per un partito aclassista aperto al mondo del lavoro significavano una sorta di corsa a sinistra che risultò poco proficua, essendo lo spazio già occupato, e ciò nonostante i tentativi del gruppo dirigente del partito, in particolare di Cattani, di mantenersi al centro del nuovo sistema dei partiti>.
Quando si parla di rivoluzione liberale si fa riferimento ad un complesso sistema di riforme istituzionali, politiche, economiche e sociali continuamente invocate ma mai portate avanti. Quello di Rivoluzione Liberale è ormai degradato al livello di semplice slogan, portato avanti con fini propagandistici da chi ha interesse a mostrarsi come rinnovatore. Almeno a parole.
Prima di addentrarci nei meandri di ciò che riformeremo, tuttavia, la domanda nasce spontanea. Perchè tale complesso di riforme non è mai stato portato avanti? A mio giudizio, si ricade in uno dei problemi storici del nostro paese: l'assenza di un partito liberale in grado di farsi portatore di tali istanze. Proprio qui in questo forum seguiamo le vicende dei LiberalDemocratici inglesi, partito che personalmente vedo un pò come punto di riferimento. Ma più seguo le vicende di politica estera, le stesse che ci hanno presentato una FDP in fortissima crescita ed i LibDem che si avvicinano addirittura al 30%, più sono vittima di una sorta di scoramento.
Dal momento che siamo qui per discutere, non per abbatterci, inizierei con questo interessante articolo
Perchè la cultura liberale è rimasta senza partito liberale (http://www.loccidentale.it/articolo/perch%C3%A8+la+cultura+liberale+%C3%A8+rimasta+sen za+partito+liberale.0067878)
di Dino Cofrancesco
Il grosso volume, I liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica, curata da Fabio Grassi Orsini e da Gerardo Nicolosi-- ed. Rubbettino--con i suoi trentadue contributi, per lo più di alto livello scientifico, rappresenta un’occasione utile per ripensare la storia di un partito e di una ‘cultura politica’che, anche nel secondo dopoguerra, hanno segnato in qualche modo il nostro paese e contribuito,nel bene e nel male, a orientarne le scelte di fondo. L’ottica con cui si guarda alle complesse vicende che hanno unito e diviso i liberali italiani è ormai profondamente mutata in virtù di due fratture epocali, ‘strutturale’, l’una, ‘sovrastrutturale’ l’altra, per servirci delle vecchie categorie marxiane. La prima riguarda il crollo dell’impero sovietico e quindi la fine del ‘socialismo reale’, almeno nel continente europeo, un dramma storico non retoricamente definito un ‘secondo ’89; l’altra si riferisce al mutato paradigma interpretativo del mondo contemporaneo iscritto nel revisionismo storiografico dei Renzo De Felice, dei François Furet, degli Ernst Nolte.
Entrambe le rivoluzioni non ci consentono più di privilegiare l’asse destra/sinistra nella ricostruzione delle politiche liberali e delle varie e conflittuali correnti che, involontariamente, con i loro progetti e programmi spesso inconciliabili, relegarono il PLI tra i partiti ‘minori’. Il crollo dell’Unione Sovietica, preceduto da anni di repressioni militari nei paesi satelliti, ha portato a guardare con minore sospetto ideologico all’anticomunismo ‘viscerale’ di cui il PLI fu, forse, l’espressione più intransigente: il sistema comunista era realmente malato e l’economia collettivista, sulla quale si fondava il potere delle classi dirigenti, era davvero insostenibile e non riformabile dall’interno-- contrariamente a quanto pensavano persino scienziati politici del prestigio intellettuale di Raymond Aron. La diversa valutazione del fascismo e la fine della ‘vulgata’, che sembrava ormai senso comune nella saggistica e nei manuali scolastici dell’Europa continentale, dal canto loro, hanno indotto a una diversa considerazione del contrasto che oppose (e oppone ancora oggi) il liberalismo di sinistra, di ascendenza gobettiana e parente stretto dell’azionismo, al liberalismo di centro e di destra, legato a maestri pur diversi come Benedetto Croce e Luigi Einaudi.
A leggere le relazioni e le testimonianze del volume, chi se la sentirebbe, in tema di interpretazione di ciò che è stata o avrebbe dovuta essere la Resistenza, di stare dalla parte di Alessandro Galante Garrone o di Ferruccio Parri ,che la intendevano come una vera e propria rivoluzione morale e intellettuale intesa a <rifare l’anima dell’Italia>, e non dalla parte di Edgardo Sogno che l’aveva fatta e vissuta come liberazione della patria dallo straniero, come un soprassalto di dignità e di orgoglio nazionali feriti? Erano a destra quanti, interpretando il bisogno di sicurezza e di ordine fortemente sentito dagli Italiani dopo anni di guerra e di privazioni, non accettavano la logica dell’epurazione che, a tener dietro a un ‘moderato’ come Ugo La Malfa, avrebbe privato per un tempo indefinito, i corpi di polizia, l’esercito, gli apparati statali e quelli industriali dei loro quadri dirigenti paralizzando la vita nazionale proprio in un momento in cui ci si doveva imboccare le maniche nella ricostruzione? E quali garanzie di libertà e di rispetto dei diritti civili avrebbe dato il modello di governo del CLNAI, così inviso al PLI ma non ai tre partiti di sinistra—PdA, PCI, PSI—che avrebbero voluto imporlo all’intera penisola, affidando questure, prefetture e altri importanti uffici governativi agli <uomini della Resistenza> ovvero a formazioni egemonizzate da militanti che non credevano nella democrazia liberale e si apprestavano a conquistare il potere ‘a furor di popolo?’.
Ha ragione Eugenio Capozzi quando, nel suo saggio su La destra liberale e la segreteria di Lucifero (1947-1948), fa giustizia della <vulgata politica e storiografica> che vede in scelte <troppo(o troppo poco) di destra> la spiegazione del declino liberale. E tuttavia lo studioso, che si disfa troppo presto dell’accusa rivolta al PLI di essere <partito d’elite e non di massa>, non pare avvedersi che tale accusa è dimostrata proprio dal suo pertinente rilievo che la classe dirigente liberale <si era mossa culturalmente e politicamente su piani scarsamente comunicanti e non era mai stata unita da un progetto forte e condiviso>, cosa che capita, appunto, ai partiti di <notabili>, specie quando sono appesantiti, per riprendere le parole di Luigi Compagna, da ‘grandissime personalità, come Orlando, Croce, De Nicola, Einaudi, Nitti.
In realtà, la sconfitta del liberalismo italiano come partito—la ‘cultura liberale’ fu altra cosa e giustamente in diversi saggi si è fatto rilevare quanto contribuisse a orientare le scelte di Alcide De Gasperi e prima ancora a influire sull’elaborazione del testo costituzionale (Carlo Ghisalberti, però, enfatizza troppo a mio avviso l’apporto liberale alla nostra Magna Carta)—la sconfitta del liberalismo, dicevo, riflettendo sui contributi del volume, è un portato oggettivo degli eventi e pertanto solo in parte è attribuibile a manchevolezze di uomini, a ritardi culturali, a incomprensioni dei nuovi contesti interni e internazionali.
Innanzitutto, c’è un dato duro come l’acciaio e grande come una montagna: il simbolo di identità dei liberali era lo stato nazionale costruito dai ‘padri del Risorgimento’ e questo stato si era gravemente ammalato, col fascismo, ed era poi rovinosamente caduto, con la sconfitta militare. La <continuità> che il partito--come spiega Vera Capperucci nel suo bel saggio I liberali alla Consulta e alla Costituente-- intende affermare <proprio attraverso il richiamo agli ideali e ai valori dell’Italia unita del Risorgimento> non è un valore che le masse di italiani denutriti, sfollati, rimasti orfani e vedovi sentono come costitutiva e irrinunciabile identità, pur scontando quel clima di terrore--su cui ha richiamato opportunamente l’attenzione, dopo mezzo secolo di silenzi complici e di rimozioni interessate ,Fabio Grassi Orsini-- che portò tanti borghesi a porsi <sotto le ali protettrici della DC>. A ereditare l’Italia di Cavour erano due famiglie politiche, la cattolica e la socialcomunista, che non solo non avevano partecipato alla sua costruzione—ove si eccettuino le correnti minoritarie di cattolici liberali e di ‘socialisti risorgimentali’—ma l’avevano seguita con diffidenza e ostilità, come creazione di frammassoni o nuova patria di <lor signori>. A questa estraneità si aggiungeva il rifiuto delle famiglie sconfitte dalla soluzione unitaria e sabauda a considerare il Risorgimento ‘en bloc’, come la Terza Repubblica voleva che si facesse per la rivoluzione francese. Il tricolore italiano non ricongiungeva tutti gli eredi del ’48 e del ’61 e le recriminazioni su ciò che era andato storto erano destinate a perpetuarsi all’infinito, con i rimpianti dei mancati esiti diversi. (<Ah se avesse vinto Mazzini! O Cattaneo! O, prima ancora, Cesare Balbo!>)
<Il liberalismo ha fatto l’Italia, il liberalismo la ricostruirà>, il manifesto elettorale del PLI per la Costituente—ricordato da Gerardo Nicolosi nel suo intelligente e documentato saggio Il nuovo liberalismo—parlava di un ‘mito politico’ riferito alla <comunità politica>-- lo Stato in quanto tale-- che era lo stesso che, con buona pace di quanti vedono nel fascismo una ‘species’ del ‘genus’ totalitarismo--sorreggeva l’autolegittimazione etica e politica delle camice nere: con una differenza fondamentale, però, che nel 1918 lo Stato aveva vinto la guerra, mentre nel 1945 non solo l’aveva persa ma era uscito definitivamente dal concerto delle ‘grandi potenze’.
Se questo è vero per la dimensione ‘comunità politica’, un ben diverso discorso va fatto per la dimensione ‘regime politico’.Qui i liberali potevano contare su un punto di forza, che, retrospettivamente, li collocava in una posizione ‘civilmente’ più elevata rispetto a tutti gli altri partiti: una concezione, per così dire, compiutamente laica e secolarizzata della democrazia, del ruolo del Parlamento, dell’alternanza dei partiti al governo, delle libertà civili e politiche. A differenza degli azionisti che, ancora con Duccio Galimberti, non ne volevano sapere di partiti e disprezzavano profondamente quel poco di democrazia liberale che si era avuta nell’Italia umbertina e giolittiana (si veda la polemica di Benedetto Croce con Ferruccio Parri e lo stesso intervento illuminante e coraggioso di Gaetano Salvemini sulla ‘democrazia in cammino’..), i liberali non esitavano neppure un istante—anche sul versate destrorso di un Roberto Lucifero—a vedere nelle istituzioni parlamentari anglosassoni il ‘termine fisso d’eterno consiglio’.
E tuttavia anche questa gloria elettoralmente non poteva dirsi un asso nella manica giacché la <civic culture> italiana era e continuerà a lungo ad essere condizionata dalla ‘rivolta contro il formalismo, dalla diffidenza nei confronti delle ‘procedure’ che non risolvono subito i problemi degli individui e delle famiglie, dal disprezzo della logica <un uomo, un voto> suscettibile di dare troppo spazio alla ‘plebe’ovvero a un popolo non inquadrato ed educato nei partiti, nei sindacati, nelle cooperative. <La libertà che scalda i cuori> e illumina le menti non poteva essere apprezzata granché tra le macerie dei bombardamenti, la distribuzione delle coperte dell’Unra Casas, il cambio e la circolazione delle amlire.
A questo fattore di debolezza si univano, infine, due caratteristiche tra loro intrecciate, l’elitismo e l’antiqualunquismo. L’indubbio spirito elitario, quel <senso di superiorità, culturale, politica e morale, rispetto alla rozzezza> degli avversari, di cui scrive Luciano Zani, nel suo profilo di Luigi Albertini oppositore liberale, sarà a lungo un tratto distintivo dei notabili del partito. Come Gaetano Mosca, il politologo del loro Pantheon, i liberali ritenevano che l’elite del potere,distinta dalla classe diretta, fosse un dato ineliminabile della politica, ma non avevano compreso che, nell’età delle masse, i galloni di comandante si acquistano sul campo, convincendo un numero sempre più grande di elettori a dare il loro sostegno alla causa: non dipendono da rendite di posizioni (economiche o intellettuali).
Senso della democrazia, sì, ma non della ‘democrazia di massa’! E questo a mio avviso, aveva un qualche rapporto significativo con l’ interpretazione ‘parentetica’ del fascismo. In nessuno dei saggi riportati nel volume—penso, soprattutto, a quello citato di Zani su Albertini o di Elio D’Auria su Giovanni Amendola—si trovano un qualche barlume di un giudizio storiografico e sociologico non meramente demonizzante, una comprensione, sia pure nella critica più dura, dell’oggettività e della <necessità> del fascismo come risposta sbagliata(e liberticida) a problemi reali indotti dalla <mass society> e che la classe dirigente liberale non era stata in grado di affrontare. La sottovalutazione dei nuovi ‘stili politici’ si ripresentava nel secondo dopoguerra, traducendosi in progetto di bonifica dell’Italia barbara, della provincia profonda, delle campagne di don Camillo e di Peppone. Così un settimanale, inequivocabilmente attestato su posizioni liberali, come ‘Il Mondo’ di Mario Pannunzio, esaminato nel lungo saggio di Antonio Cardini, poteva, in qualche modo, ricongiungersi alla ‘cultura azionista’—pur ad esso non poco estranea, come ha dimostrato Pierfranco Quaglieni (è non poco significativo che Norberto Bobbio non avesse mai collaborato al ‘Mondo’)—nell’esecrazione di quelle plebi rurali e urbane condizionate dall’<orientamento filofascista e qualunquista assai diffuso nella stampa degli anni Quaranta e Cinquanta>.
<Pannunzio, scrive Antonio Cardini, rimproverava ai nuovi dirigenti di essersi posti su un terreno che rispondeva a certe attese immediate e a certi timori della piccola borghesia>. Era vero ma in una democrazia compiuta—‘laica e secolarizzata’ ,appunto—quelle attese e quei timori non veicolavano interessi e valori dei quali si sarebbe dovuto tener conto, a meno di non aver in mente una gerarchia di bisogni portata a riguardare gli uni come oggettivamente progressisti e gli altri come oggettivamente reazionari?Se il modello doveva essere quello angloamericano, sarebbe stato più realistico per il partito liberale porsi come il polo conservatore della rinata democrazia o mirare ad esserne il polo laburista (togliendo la leadership a socialisti, comunisti, socialdemocratici)? E’ indicativa la sorte toccata ai nuovi liberali. Come scrive Gerardo Nicolosi parlandone: <la rinuncia a un partito della borghesia e la preferenza per un partito aclassista aperto al mondo del lavoro significavano una sorta di corsa a sinistra che risultò poco proficua, essendo lo spazio già occupato, e ciò nonostante i tentativi del gruppo dirigente del partito, in particolare di Cattani, di mantenersi al centro del nuovo sistema dei partiti>.