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Visualizza Versione Completa : Combattenti di Heian: la banda di guerra



Harlock87
27-03-14, 12:13
Articolo tratto da: Fortezza Nascosta | Guerre, botte e narrativa (http://fortezzanascosta.wordpress.com/)

Maggiori informazioni qui: http://forum.termometropolitico.it/637363-dai-codici-masakado-evoluzione-del-sistema-militare-giapponese-nel-periodo-heian.html#post13375680



Per riprendere quello che dicevo nell’articoletto sull’evoluzione militare (se non lo avete letto fatelo, è ottimo per l’insonnia!), quando si parla di esercito e Giappone preindustriale, la prima idea che viene è quella di un’entità organizzata, con schieramenti di cavalieri, linee di picchieri, fantaccini a natiche ignude che sono lì per fa bodycount. In parole povere, l’esercito del Periodo Sengoku che il buon Kurosawa ha messo tanta cura a rievocare.
Questo tipo di armata comincia a esistere piuttosto tardi. Li vediamo abbozzati in quel felice disastro di epiche proporzioni che fu la Guerra di Ōnin (http://en.wikipedia.org/wiki/%C5%8Cnin_War), nel 1467. Risalendo agli inizi del governo dei guerrieri, troviamo un sistema molto differente. Prendete una battaglia a caso del XII°: troverete più ordine e disciplina in un concerto dei Sabaton.
Quindi perché perdere tempo con quelle noiose linee di moschettieri quando possiamo tuffarci nel sanguinoso bordello delle bande di guerra?
La banda, la bushidan, il meraviglioso embrione che fiorirà qual boccio di ciliegio nella raccapricciante Guerra di Genpei (http://en.wikipedia.org/wiki/Genpei_War)! (Raccapricciante per l’epoca: i giapponesi hanno il dono di superarsi sempre) In particolare, voglio parlare della banda che vediamo operare nel X° secolo nell’Est di Honshu (e più precisamente nel Bandō).



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Il Bandō, dal saggio di Friday, The first samurai



Le bande del X° presentano già gli elementi essenziali della banda feudale. Da un punto di vista puramente pratico, non c’è ragione di non definirle bushidan. Ma per via di fottute convenzioni storiografiche, non si può. Non vorrei farmi tirar le orecchie in terra da qualche purista cagacazzi (non prima di aver finito il mio mémoire sul rapporto di vassallaggio e i legami uomo-uomo), ergo mi limiterò a chiamarle bande.

Il contesto
Giusto un paio parole di background. Abbiamo visto come il sistema del gundan sia fallito e come le autorità si siano appoggiate sempre di più su forze private. In teoria la necessità di un Decreto per mobilizzare più di 20 armati era sempre valida nel X°, ma la Corte sapeva guardare dall’altra parte quando faceva comodo. I tributi dovevano affluire. E non era solo una questione di ingordigia aristocratica, anche se tutti sappiamo che i sacrés ci-devantssono sfruttatori del popolo per definizione!
La Corte e i suoi nobili erano responsabili dell’equilibrio del Paese. Sì, magari il protocollo per tale cerimonia costava tanto, ma la salvezza del Paese ne dipendeva! Rimpiangerai i tagli sugli incensi quando i terremoti ti spianeranno la casa!
I nobili passavano il tempo a comporre poesie e partecipare a rituali, ogni compito pratico legato alla loro funzione era scaricato con sussiego sulle spalle di una torma di segretari, addetti, aggiunti, galoppini, stagisti, ecc. Perché tenere la contabilità o mandare rifornimenti al Chinjufu sono cosette frivole: organizzare la Degustazione delle Primizie o la Purificazione del Respiro Imperiale… that’s serious business!
(Hey, non giudicate, ogni civiltà ha le sue idee balzane, e noi non siamo in una buona posizione per criticare)
Di più, in questo periodo tutte le funzioni maggiori e i ranghi dal sesto in su (ovvero i ranghi dell’Alta Aristocrazia) sono diventati ormai monopolio di poche famiglie. In particolare, le cariche più prestigiose (ministri e consiglieri, ma soprattutto Reggente e Gran Cancelliere) sono appannaggio dei Fujiwara. L’unica seria eccezione ndel periodo fu Sugawara Michizane, che infatti fu messo nel mezzo e spedito in esilio nel 901. Là morì di dolore e divenne uno dei più terrificanti spettri della Storia, ma delle sue avventure post-mortem parleremo un’altra volta.
Tornando a noi, non solo le cariche erano monopolizzate: le famiglie in questione, e i Fujiwara più di tutti, si appoggiavano sempre meno sulle funzioni ufficiali e sempre di più sui loro uomini personali. I grandi clan avevano istituzioni amministrative private (sul modello della Cancelleria Privata dell’Imperatore). Quando c’era bisogno di fare qualcosa era più efficace, rapido e facile di ricorrere ai propri clienti e scherani piuttosto che prendere la via ufficiale dei Codici.
In questo quadro, non sorprende che il confine tra pubblico e privato sia andato a meretrici. E ciò non toccava solo la Corte: grandi famiglie e grandi istituzioni religiose possedevano latifondi nelle diverse province. Ovvio, i Codici proibivano il possesso della terra, ma ipocrisia e contraddizione non le abbiamo inventate noi: questi appezzamenti, shōen, divennero prima esenti da tasse e poi esenti dall’autorità dei funzionari provinciali.
Ergo ci troviamo davanti a un sistema bastardo in cui sopravvivono le istituzioni ufficiali, ma la rete di clientele, alleanze e favori tarla e condiziona ogni aspetto della vita. Una situazione molto mafiosa, per certi versi. Per dirlo con le parole di Hurst (citato da Friday), il Paese è dominato da un numero ristretto di grandi famiglie e istituzioni religiose che perseguono i loro interessi privati e che si sono evolute in parallelo alle funzioni dei Codici.
Venendo al Bandō, la situazione è anche più complicata. I notabili locali, i dogō, sono armati e protetti da una rete di alleanze tra congeneri. Spesso sono legati come clienti a funzionari, talvolta gente molto importante. Taira no Masakado (di cui parlerò di certo in futuro), oscuro dogō di Shimōsa, era cliente di nientemeno che il Ministro degli Affari Supremi Fujiwara no Tadahira.
Ma che festa sarebbe se a far casino fosse solo una categoria? Anche i governatori difatti sono armati! Nel X° era ormai regola che costoro si portassero appresso qualche decina dirōtō, ovvero valletti d’arme, uomini di mano simili per reputazione ai famigerati Bravi del Manzoni. Non erano per forza uomini fedeli alla persona del governatore. Come dice Hérail citando lo Shin sarugaki, alcuni erano fedeli all’uomo, altri servivano più padroni con ingaggi temporanei.



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Il Bandō

Il Bandō era una regione rude. I suoi abitanti si dividevano tra locali bellicosi ed emishideportati. Era una zona di pascoli e pantani, dove si allevavano cavalli e guerrieri. La Corte aveva bisogno di entrambi, ma non se ne fidava: le barriere di Usui e Ashigara separavano questa terra di matti pericolosi dalla gente civilizzata della Capitale. Viaggiare in questa zona brulicante di briganti era così complicato che un corriere metteva di media 20 giorni ad andare dalla provincia di Shimōsa alla Capitale, e questo se poteva cambiare cavallo! Roba da far schiantare dalle risate un corriere romano. Tre hurrà per l’efficienza!
I Codici qui erano stati applicati in modo discontinuo e irregolare. Il guaio era che se da una parte il Bandō era il “serbatoio militare” del Paese, dall’altro era anche popolato da gente fumina, indipendente e rintanata in residenze fortificate.
Già, perché se alla Capitale erano troppo spirituali per avere mura, nelle spietate lande orientali la gente cercava di difendersi. Per avere un’idea di dove e come viveva un notabile del Bandō, Kawajiri usa come esempio quello compare nello Utsuho monogatari, ovvero una residenza di dogō nel distretto di Muro nella provincia di Kii.
Si tratta di un complesso di 800 chō[1] (http://fortezzanascosta.wordpress.com/2014/03/15/combattenti-di-heian-la-banda-di-guerra/#_ftn1). Prendete il numero con le molle perché la faccenda pare veramente TROPPO vasta anche per la ricca regione di Kii. Anche concesso che un latifondista possedesse mille ettari e spicci, le proprietà e le residenze del Bandō erano di certo molto più modeste. Il centro della proprietà, dove risiedeva il capoccia, era una base fortificata, circondata da una palizzata e spesso da un basso fossato. All’interno si trova la casa del dogō e della sua sposa principale (ōdono), dei campi e circa 40 costruzioni tra cui magazzini, case di compagni, tre tipi di cucine diverse, distillerie, granai, ateliers per gli attrezzi, filanda, forgia, ecc. La palizzata della residenza poteva essere rinforzata da dei posti di guardia.
Se prendiamo lo Shōmonki, troviamo che un capo relativamente piccolo come Masakado poteva contare su una decina di cavalieri sempre presenti (il che presuppone, come vedremo a breve, tra i 20 e i 30 armati).
Non si tratta di fortezze vere e proprie (non erano fenomeni in architettura difensiva), quanto dei centri agricoli e produttivi protetti alla meno peggio.





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Notabili un minimo importanti (ovvero della stessa classe dei magistrati di distretto) avevano di solito più di una base. Oltre a gestire pascoli e campi, profittavano del surplus per far prestiti con interesse ai contadini circostanti. In pratica, gestivano la vita dei dintorni. Spesso costoro avevano anche una funzione subalterna nel governo provinciale, perché era su uomini del genere (e sui magistrati) che il governatore doveva appoggiarsi se voleva strizzare le tasse senza troppi intoppi.







La banda
Prima di parlare nello specifico di armi e tattiche, vorrei dire sui cose sugli uomini. In campo si trovanoinfatti due tipi di individui, i jūrui e i banrui. Stabilire che razza di gente siano è un casino, pertanto cerchiamo di far dei distinguo basandoci sul loro comportamento secondo le fonti d’epoca.
I banrui sono i più numerosi, ma anche i meno affidabili: se la danno a gambe non appena gira male. Sono anche i primi bersagli di una rappresaglia. Tenete a mente che non era concepibile in questo contesto conquistare un territorio. Dato che la guerra era illegale, il massimo che potevi sperare era che i funzionari tenessero il naso fuori dai tuoi affari, ma era pura follia aspettarsi che confermassero i tuoi diritti su delle aree occupate. Ergo la vittoria presentava solo due interessi: il bottino e il mettere il tuo nemico (ed eventuali eredi) in condizioni di non nuocere. Ovvero, quando un dogō vinceva, procedeva alla distruzione completa, totale e tombale di tutto: case, fortificazioni, granai, campi, pascoli, schiavi, contadini. Le case dei banrui erano le prime a partire in fumo, con le famiglie dei suddetti dentro, se possibile. Tutto quello che non poteva essere rubato doveva essere annientato, perché era l’unico modo di falciare la base economica del tuo nemico. Non farlo voleva dire dargli la possibilità di riprendersi. Magari tra un paio d’anni sarebbero stati ituoi contadini a bruciare. Un capo non poteva permetterselo: il suo potere dipendeva dal suo prestigio, e il suo prestigio dipendeva dalla sua capacità di proteggere i propri e terrorizzare gli altrui.
Nel X° secolo non ci sono mezze misure: si scommette tutto o non si scommette nulla. La guerra in questo periodo, anche la piccola faida familiare, ha un impatto ambientale e umano apocalittico.
I banrui sono chiaramente quelli che ci guadagnano meno e che rischiano di più. La loro lealtà al capo dipende solo dalla promessa di bottino o dalla paura di ritorsioni. Avidità e terrore sono le due leve dei guerrieri del X° secolo. Non hanno lealtà per nessun altro che illoro capo diretto o la loro famiglia stretta (il padre o i fratelli nella migliore delle ipotesi). Già cugini e nipoti erano pronti a scannarsi a vicenda per profitto (e ciò era accettabile). Il legame con la moglie e la sua famiglia era spesso più vincolante di quello tra cugini.

Moglie, figli, fratelli, clienti. Questi sono gli unici a cui un capo guerriero tiene, gli unici che tengono a lui.
Non era disonorevole per un banrui darsela a gambe. E un dogō s e lo aspettava. Sapeva che se le cose giravano male lo avrebbero piantato in asso (o addirittura cambiato campo).
Ma chi erano di preciso i banrui?
Secondo Kitayama, si tratterebbe di contadini armati alla meno peggio e impiegati come uomini a piedi da tizio o da caio. Secondo Kawajiri, si tratta di piccoli proprietari indipendenti, magari loro stessi a capo di una piccola banda, costretti ad allearsi con pesci più grossi per mettersi al riparo da vicini e colleghi. Io condivido la posizione di Kawajiri: leggendo testi come lo Shōmonki pare che il grosso dei contadini non prendesse parte ai combattimenti (casomai li subisse). Allo stesso tempo la vita agricola era una parte importante per molti dei combattenti. In altre parole, la distinzione tra guerriero e grosso contadino era spesso labile (come d’altro canto lo fu in Europa per un lungo periodo).




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Ecco, non aspettatevi nulla del genere da un banrui




I jūrui sono molto meno problematici e gli storiografi sono concordi nel dire che si trattava degli uomini personali del capo-banda. Dipendevano da lui, spesso vivevano con lui, e gli erano legati da uomo a uomo. Gli erano fedeli e per loro la fuga non era accettabile. Perché se era comprensibile per un alleato voltar gabbana, non lo era per un compagno, e nessuno vuole accogliere tra i suoi un pusillanime o un traditore. Erano il nocciolo duro di un esercito, quelli su cui un capo poteva davvero contare, quelli che sarebbero invecchiati con lui o morti con lui.
Ma veniamo alla parte divertenti: gli attrezzi del mestiere!







Armature
I Codici autorizzavano le armi personali, ma la fabbricazione di armi e l’allevamento di cavalli da guerra avrebbero dovuto essere un’esclusiva del governo provinciale. Dicoavrebbero. Il sistema entrò in crisi (big shock) e nel X° archi, frecce, cavalli ecc. erano autoprodotti da dogō e atri notabili locali. Roba più elaborata, come armature o spade, continuava a essere fabbricata principalmente in quel della Capitale (sì, l’armaiolo del villaggio che ti scodella uno spadone di ottimo acciaio e una cotta rivettata a prova di turco fa molto fantasy ma è una stronzata).
Chi poteva permetterselo, portava un’armatura. Ora, si tratta senza dubbio di lamellari(keikō), tipologia che domina incontrastata la scena militare giapponese fino al XVIII° secolo. Ma che tipo di lamellare, questo è molto più complicato da definire. Purtroppo i testi non sono molto chiari. Possiamo dire che di certo erano lamelle laccate (d’acciaio o di cuoio… o a volte entrambe!), il che le rendeva molto resistenti all’umidità. Ho finito di ripulire in questi giorni la mia lamellare, e posso assicurare che è una menata senza fine.
Piccola nota: nei modelli classici di keikō le lamelle erano laccate una ad una, prima di essere assemblate. Nella proto-ōyoroi sono prima allacciate in file e poi laccate, il che rende la striscia più rigida ma più robusta. E’ un passo verso quella scatola di sardine che sarà l’ōyoroi, l’armatura completa del XII° secolo.
L’allaccio giapponese è fatto in modo che la lamella si sinistra copra sempre per metà quella di destra. Le file sovrascorrono in parte, come nelle armature occidentali.





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Cavaliere e uomo a piedi



Ora, non sappiamo di preciso che modello di lamellare fosse più diffuso nel Bandō del X° secolo. L’armatura “classica”, quella della Guerra di Genpei per intendersi (ōyoroi), lamellare pesante chiusa sotto il braccio destro, “nasce” verso l’inizio dell’XI° secolo. Tuttavia, secondo Kawajiri, non è impossibile che un modello molto simile fosse già usato nel Bandō cinquant’anni prima. Nella mia ricostruzione (discutibile quanto vi pare), il cavaliere porta un modello molto vicino alla ōyoroi, con delle sode (protezioni del bicipite) agganciate sulla spalla e legate dietro, e non più fissate sopra il gomito. Le sode sono più affini a degli scudi mobili che a degli spallacci: l’idea è quella di seguire il movimento dell’arciere. Quando tende, la sode scivola sulla scapola senza intralciare il movimento. Dopo aver scoccato, l’uomo ripiega il braccio destro mentre cerca un’altra freccia, e così facendo la sode riscivola sul bicipite, proteggendolo dalla salva avversaria.
L’elmo è ripreso da un ricostitutore dello stesso Jidai Matsuri usato nel primo articolo: ha già le ali laterali, ma la protezione della nuca non ha ancora la forma larga a ombrello tipica delle armature duecentesche, bensì resta vicina al modello del IX° secolo. Le due “ali” sul davanti servono probabilmente a deviare sull’esterno frecce e fendenti ed evitare che questi trancino l’allaccio delle lamelle sulle tempie.
Le lamelle erano allacciate con fili di seta apparenti e colorati. Il colore dei lacci era un modo per riconoscere la banda o il cavaliere da lontano, esattamente come la nostra sopracotta. Il cavaliere poteva anche avere una pezza di cuoio decorato tirata sul petto (poteva). Oltre all’aspetto visivo, questo evita che la corda dell’arco pizzichi le lamelle: ciò difatti danneggia la mira e la corda. Ora, nonostante avessero con loro dei ricambi (la ciambella che portano alla cintura), non è una festa ritrovarsi a cambiar corda in mezzo al parapiglia.
Infine, il cavaliere portava un kote al braccio sinistro, ovvero una seconda manica a forma di sacco che si allacciava attraverso il petto e si serrava al polso per impedire alla manica delkimono di sventolare e dar noia all’arciere. Secondo Bryant, nel n°35 delle Osprey, le kote di Heian non erano rinforzate in alcun modo. I reenactors del Jidai Matsuri sembrano non essere d’accordo.
Un’altra lamellare simile alla ōyoroi ma più leggera era la dōmaru, priva di sode e usata tra gli uomini a piedi che potevano permettersela.

Le armi
L’arma per antonomasia del guerriero non era la spada, ma l’arco, fabbricato in lame di catalpa, zelkova o legno di gelso e bambù, incollate tra loro e laccate, cerchiate di filo di seta, scorza di betulla o rattan. E’ un’arma di lunghezza notevole (certi sono più alti del loro arciere, anche 2,5 m), da impugnare a un terzo di lunghezza dal basso, il che dovrebbe alleggerire il contraccolpo dello scocco sulla mano sinistra del cavaliere. Pare sia molto rapido, ma ha un libraggio non proprio impressionante. Diciamo che, con tutta quella roba, nemmeno si avvicina alla cattiveria dei suoi cugini compositi della steppa.
Per di più, con un arco così lungo, uno a cavallo non può tirare a 180°! L’arco urta il collo del destriero e bisogna sollevarlo per cambiare lato. Un cavaliere del X° tirava di solito sulla sinistra. C’erano delle tecniche per approfittare della faccenda, tipo far voltare il cavallo in modo da trovarsi sul fianco “cieco” dell’avversario (il destro). Inoltre, vista la forma ingombrante dell’elmo, è probabile che i cavalieri giapponesi non armassero alla guancia ma al petto. Insomma, l’interesse non era tanto la precisione quanto una salva ben fitta di frecce scagliate da tizi rapidi e ben protetti.
Le fecce, lunghe 86-96 cm, erano in bambù tagliato a inizio inverno e lisciato. Erano tenute in una faretra (ebira) costituita da uno scatolotto e un “dorso” a cui le aste erano assicurate da un laccio lasciato allentato. La faretra era sospesa contro l’anca destra. Il guerriero afferrava l’asta poco sopra la punta e la sfilava da sotto il laccio tirandola in avanti.
Il cavallo giapponese non era grandissimo. Mediamente, misuravano sui 133 cm al garrese, ma ne avevano anche di “grandi”, alti 15o-155 cm circa (5 shaku). I giapponesi non ferravano i cavalli. (Se non vi eravate posti la questione, shame on you!)
Friday cita un esperimento della NHK, che avrebbe fatto cavalcare un tizio carico per simulare il peso di un’armatura, al fine di sfatare il mito del cavallo infaticabile. Per quanto divertente, questo esperimento lascia un po’ il tempo che trova: dovremmo provare con la precisa razza usata come cavallo da guerra, e dovremmo provare con un cavallo addestrato apposta, altrimenti è fuffa.



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Immagine dimostrativa, da notare che sella e staffa non sono storicamente corrette



La sella e i finimenti somigliano molto a quelli europei e non mi perderò in dettagli. Unica nota interessante: la staffa a quest’epoca è a coppa, ingloba il piede dell’arciere, offrendo una discreta stabilità. Il cavallo era guidato con le briglie e con un frustino di salice che poteva essere legato e lasciato penzolare al polso destro del guerriero.
Infine, come noterete nella figura, il cavaliere del Bandō porta una tachi, o sciabola lunga. Questo tipo di lama è apparsa probabilmente agli inizi del X° secolo, anche se la sua evoluzione è ancora un soggetto controverso. A differenza della katana successiva, non viene tenuta contro il corpo ma appesa alla cintura, come le spade europee, e col filo rivolto verso il basso (spaccare la faccia di un tizio a piedi sguainando non ha prezzo!).
Ma veniamo agli uomini a piedi, i sacrificabili! Anche costoro erano armati di arco. L’altra arma tipica era la hoko, la picca, arma inastata di 4 m circa, con lama piatta a doppio taglio sui 36 cm. Talvolta alla base della lama ci sono due uncini che si piegano verso l’esterno (per bacchiare i cavalieri).
Questi ardimentosi erano protetti da dei tate, scudi fissi simili ai nostri mantelletti, costituiti da 2 o 3 tavole di legno di 2-3 cm di spessore. In altezza arrivavano a livello d’occhio del tizio a piedi ed erano larghi più o meno quanto le spalle di un uomo.
Sia chiaro, questo equipaggiamento non era alla portata di tutti e non tutte le bande avevano un arsenale completo. D’altro canto il numero di unità cambiava. La banda più piccola poteva contare appena un cavaliere con uno o due compagni a piedi, mentre le più grandi mettevano insieme fino a un’ottantina di cavalieri (ovvero circa 200 persone tra tutti).

La battaglia
In teoria, una battaglia avrebbe dovuto essere uno svolgimento molto ritualizzato. I due contendenti si trovano in un luogo prestabilito, si schierano, si scambiano dichiarazioni di guerra, magari si scaldano con qualche duello individuale tra cavalieri.
Ora, questa era la teoria, e pare che in alcune occasioni sia anche stata seguita! Come vedremo in futuro, la pratica corrente era tutt’altra. La tattica regina del massacro giapponese è l’imboscata o l’attacco a sorpresa. Niente appuntamenti, niente dichiarazioni, si tendono trappole e si incendiano le case nottetempo, un po’ come gli islandesi che più o meno nello stesso periodo organizzavano assassinii a sorpresa ai cessi (un giorno parleremo anche di loro). D’altro canto, l’arte della guerra è l’arte dell’inganno, lo era allora e lo sarà finché non ci estingueremo.
Ergo, anche in caso di casino grosso, dove si muovevano decine, magari centinaia di bande alla volta, non c’era nessuno schieramento campale, nessun quadrato di picchieri: ogni gruppetto, coordinandosi più o meno bene (di solito molto bene) con gli altri, cercava di beccare un gruppetto nemico con le brache in mano.
Voglio sottolineare che i guerrieri di quest’epoca sono molto diversi dall’immagine Edo che certi film ci hanno lasciato. Un guerriero preso con le brache in mano diventava campione di cento metri piani in mezzo secondo: l’idea di morire per sport è molto moderna, nel X° non si combatte una battaglia persa, si taglia la corda (a meno che il tuo capo personale non sia incastrato, allora la storia cambia).
Un guerriero combatte per onore e fama. Ma a differenza di altri periodi, nel X°, non è ilcomportamento di un uomo a dargli onore e fama, bensì il numero di vittorie.
Fuggire dopo una sconfitta macchia il tuo onore e diminuisce la tua fama. Ma morire èpeggio. Chi resta vivo può riprendersi, chi muore per orgoglio è cibo per vermi, e i morti hanno sempre torto.



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Uomini e cavalli, la joint venture più epica della Storia della zoologia!



I guerrieri di questo periodo sono uomini affascinanti. Il ritratto che ne esce dai documenti, tolta l’aura di oVVoVe e disprezzo degli aristocratici (gli autori di detti documenti) è quello di energumeni egocentrici, bellicosi, sentimentali, filiali, superstiziosi, ma capaci di un cinismo e di un pragmatismo eccezionali. E’ bello studiarli ed è bello sapere che tra te e loro ci sono dieci secoli di distanza di sicurezza. E’ bello capirli ed è bello non averli come vicini di casa.
Un giorno vi parlerò di uno di loro in particolare: Taira no Masakado. Un buon guerriero e un pessimo politico, destinato a far pipare il culo di ministri e mercanti ancora oggigiorno.




Well that’s all folks! And as always,
Stand up and fight! (http://www.youtube.com/watch?v=7woW7DmnR0E)

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[1] 1 chō di quest’epoca misura circa 400 shaku per lato, e uno shaku misura circa 30 cm. Se non ho fatto troppo casino coi calcoli (leggasi: è probabile che abbia fatto casino coi calcoli), il tutto dovrebbe fare qualcosa come un po’ meno di 3400 m per lato.
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